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L’articolo che avevo annunciato è online da alcuni giorni su Quaderni d’Altri Tempi. È un pezzo a cui tengo molto e che allo stesso tempo avrei preferito non dover scrivere.
L’idea che gli Stati Uniti d’America potessero sfaldarsi in una costellazione di entità indipendenti sembrava fino a solo pochi anni fa un pretesto per uno scenario distopico di fantascienza a buon mercato. Non solo la più potente, ma per la forza del suo impatto sull’immaginario comune e per la sua influenza sulla percezione delle persone, sui cittadini dei posti più remoti della Terra, anche la più grande nazione al mondo, un paese in cui tutti vorrebbero (o avrebbero voluto) vivere. Il cuore dell’Impero, a cui noi che abbiamo avuto la fortuna/sfortuna di nascere in una delle sue province d’oltremare potevamo guardare solo con invidia e ammirazione. Un posto da cui dipendono mode e stili di vita, in cui tutto viene deciso, dove si forgia l’idea stessa di futuro. Ecco, almeno quest’ultima parte era per la verità venuta già un po’ meno durante la doppia Amministrazione Bush, ma nemmeno in quei difficili anni di dura guerra al terrorismo era mai venuta meno la convinzione che un paese così, benché diviso e ferito, sarebbe stato per sempre.
Solo nelle storie di fantascienza degli anni ’70 (il discusso Dr. Adder di K. W. Jeter e in parte anche il successivo Noir, il racconto d’esordio di William Gibson Frammenti di una rosa olografica) o in piccole produzioni molto decentrate rispetto alla produzione mainstream (il film per la televisione La seconda guerra civile americana di Joe Dante) poteva capitare di imbattersi in scenari fantapolitici in cui gli USA si erano disuniti in un arcipelago di stati ostili all’autorità centrale, e più o meno impegnati in uno schema di rivalità reciproche sulla falsariga dell’Italia pre-risorgimentale. Se si trascurano le ucronie in cui gli Stati Confederati sono usciti vincitori o in qualche modo sono sopravvissuti alla guerra di secessione, casi concreti se ne contavano anche prima, ma tutti in qualche modo riconducibili a un qualche tipo di catastrofe (spesso connessa al tragico epilogo di una guerra nucleare) da cui emergeva un nuovo ordine in grado di mettere insieme una parvenza di governo sulle rovine del passato (penso ai classici degli anni ’60 Un cantico per Leibowitz di Walter M. Miller o a Davy, l’eretico di Edgar Pangborn).
Molti esempi sono ripresi dal sempre enciclopedico Paul Di Filippo in questo suo excursus sui futuri frammentati della fantascienza, e qualcosa avevo messo insieme anch’io in questo vecchio pezzo sulla fine del mondo. Ma credo proprio – anche se potrei sbagliare – che sia solo con i primi vagiti del cyberpunk che, sul modello della più grandiosa e inquietante delle storie alternative, quella immaginata da Philip K. Dick per La svastica sul sole, cominciano a prendere forma scenari meno granitici, che si confrontano con la prospettiva di un’America frammentata, balcanizzata dalle spinte centrifughe delle stesse entità a livello statale che la compongono. Non più una federazione, ma un continente in perenne stato di guerra intestina, bruciato da un fuoco in grado di incendiare il mondo.
Dallo scorso 6 gennaio 2021 e dal tragico assalto a Capitol Hill, è uno scenario più attuale che mai. Da osservatore remoto delle vicende americane, non mi sembra che un anno di presidenza Biden abbia potuto curare le ferite di quattro anni di trumpismo rampante, né a spazzare via le bugie sparse a piene mani dalla propaganda repubblicana negli ultimi quattordici mesi, e un editoriale del New York Times addita ora la minaccia di una spada di Damocle sospesa sulla testa della democrazia americana, che da un anno vive di fatto in un 6 gennaio permanente. È notte fonda e probabilmente questo senso di precarietà ha già scavato a fondo dentro di noi, come un fiume carsico nelle viscere del nostro immaginario di cui lo sguardo compassionevole verso il passato è solo l’ennesimo sintomo, in un lento processo durato anni che ha gradualmente, progressivamente e inesorabilmente eroso la nostra capacità di guardare al domani, saldandosi con le dinamiche di cui scrivevo a proposito della nostalgia del futuro.
Siccome è un argomento che mi sta a cuore, riprendo il discorso cominciato ieri. Dicevamo dello stato di sospensione in cui siamo in qualche modo intrappolati, autocondannati a rivivere gli stessi decenni a ciclo continuo: gli anni in cui eravamo più giovani, in cui avevamo sicuramente meno preoccupazioni, in cui ci sembrava scontato che il futuro fosse per sua natura imprevedibile e chissà quali meraviglie e/o incubi ci avrebbe portato. Col senno di poi, sembra passata una vita da quell’epoca, al punto che risulta perfino difficile stabilire se l’abbiamo vissuta davvero o se non l’abbiamo invece soltanto sognata.
In realtà, solo tre anni fa scrivevo questo pezzo, in cui nello scenario comunque fosco che lo partoriva (il fardello della sterile egemonia trumpiana sull’agenda planetaria, la Brexit all’orizzonte, etc.) riusciva comunque a mostrare un sussulto di speranza, crogiolandosi nella convinzione molto autoreferenziale che le distopie immaginate nel presente servissero in qualche modo a disinnescare le distopie a cui avrebbe potuto condannarci il futuro.
Quanta ingenuità in quelle parole, quanto inopinato ottimismo…
Eppure, non è tutto da buttare ciò che scrivevo in quell’intervento. Il discorso sulle conseguenze è proprio il succo di tutta la storia. In fondo, se siamo sempre più disposti a nutrirci e a vivere di nostalgia, è perché abbiamo smarrito il senso del futuro, perdendolo per strada o facendocelo rubare da chi ha tutto l’interesse a protrarre lo status quo, e che mai come nell’epoca in cui viviamo si ritrova a disposizione una varietà di strumenti ideologici e tecnologici di impareggiabile efficacia per perseguire i propri fini. Armi di distrazione di massa, le chiamavamo tempo fa.
A cambiare la prospettiva rispetto a tre anni fa, c’è stata ovviamente la prima vera crisi globale che le ultime tre generazioni si siano trovata a vivere sulla loro pelle: il convitato di pietra di questo discorso, lo avrete capito, è il grande innominabile attuale, l’evento che per la prima volta ci ha messi di fronte alla nostra fragilità come specie, la pandemia da COVID-19. E qui ci tengo a specificare bene a cosa mi riferisco, per non essere facilmente frainteso: più che alla malattia in sé, che è comunque una bestia contro cui adottare tutte le contromisure possibili, a smascherare la natura illusoria delle mie – delle nostre – proiezioni è stata la nostra gestione della crisi. Una gestione lacunosa, largamente deficitaria, astrusa e a tratti inspiegabile, se non insensata tout court, da parte delle autorità preposte: la fantomatica Organizzazione Mondiale della Sanità e i governi nazionali, tanto quelli negazionisti di USA, Brasile e fino a un certo punto UK, quanto quelli più prudenti come buona parte dell’Europa. Ma anche una applicazione schizofrenica, caotica, confusionaria, autolesionista, contraddittoria, egoistica, da parte dei cittadini, che mai come in uno stato di emergenza come questo avrebbero dovuto essere guidati verso la soluzione migliore per tutti, e invece sono stati lasciati in balia delle loro paure, idiosincrasie, superstizioni… e chi più ne ha più ne metta.
Il risultato è che lo stato interliminale in cui sembravamo aver messo piede alla fine della primavera 2020 si è dilatato a dismisura. A misurare l’entità di questo abisso in cui stiamo sprofondando, possono venirci in soccorso ancora una volta i numeri: un anno e mezzo fa, quando cominciavamo a intravedere una fioca luce in fondo al tunnel, non eravamo ancora arrivati a dieci milioni di casi nel mondo e le vittime accertate erano meno di mezzo milione; oggi, la spietata contabilità di Worldometers ci informa che il virus ha infettato 282 milioni di persone, portandosene via più di cinque milioni.
E se questa è stata la gestione di una crisi di cui da subito si era compresa la rilevanza, non serve questo grande sforzo di immaginazione per ipotizzare come andrà a finire con il vero evento che ci sovrasta tutti dall’alto della sua ampiezza come rischio esistenziale: la Sesta Estinzione, di cui il fattore più in vista è sotto gli occhi di tutti nella forma non più trascurabile della crisi climatica in atto. Cercare qualcos’altro da guardare, mentre il mondo va a picco nello scarico cosmico, è un modo di affrontare il problema tutto sommato coerente e in linea con l’atteggiamento tenuto da tutti, istituzioni, autorità e persone comuni, durante la pandemia. C’è una certa poesia perfino nel modo in cui rende giustizia a un evento che di fatto ha tracciato una linea tra ciò che potevamo solo immaginare prima, e ciò che invece saremo costretti a vivere dopo.
Sull’ultimo numero di Narrativa, uscito nei giorni scorsi, è presente un dettagliato, puntuale, come al solito documentatissimo e attento intervento di Arielle Saiber sul connettivismo, che comprende anche una lunga intervista al sottoscritto.
Narrativa è una rivista dedicata alla letteratura italiana contemporanea, fondata nel 1992 e pubblicata dalle Presses universitaires de Paris Nanterre. La nuova serie, lanciata nel 2006 e diretta da Silvia Contarini, come si legge dal sito “propone a scadenza annuale saggi e recensioni sulla produzione letteraria più recente, privilegiando una costante riflessione sul rapporto che intercorre tra creazione, immaginario, pensiero, e il tempo presente, l’evento, l’attuale”, “con la convinzione che la letteratura è anche uno stumento di conoscenza e di comprensione delle trasformazioni in corso, sia nel mondo che nell’essere umano”.
Ho avuto modo di dare una sbirciatina al volume in anteprima e sono rimasto impressionato dal saggio di Marco Malvestio, autore anche del recente Raccontare la fine del mondo. Fantascienza e Antropocene per Nottetempo, e che nel suo intervento (Sognando la catastrofe. L’eco-distopia italiana del ventunesimo secolo) conferma un’attenzione per la produzione di genere, anche la meno appariscente e sbandierata dagli editori con etichette improbabili (il classico “non è semplice fantascienza” piuttosto che “trascende la fantascienza”, u.s.w.), che per una volta conforta il senso comune dell’appassionato di fantascienza, e in particolare della fantascienza viva e in continua mutazione degli ultimi vent’anni, non solo quella ormai in gran parte fossile del Novecento. In linea con l’approccio di questo numero, che “nasce dalla definizione della fantascienza italiana come un genere «aperto», all’interno del quale coabitano sottogeneri quali le narrazioni distopiche e eco-distopiche, l’ucronia, i testi post-catastrofisti, e capace di rappresentare le problematiche più attuali della società”.
Purtroppo sia il pezzo di Malvestio che l’intervista che mi ha fatto Arielle risulteranno disponibili on line solo più avanti nel 2022. Ma questo intanto è l’abstract che mi riguarda:
Nel contesto della fantascienza italiana, il connettivismo, in parte seguendo le suggestioni del cyberpunk, ha cercato di mettere in relazioni suggestioni scientifiche e sperimentazioni letterarie. Nell’articolo-intervista, l’autrice ne rintraccia il percorso cronologico e le principali influenze culturali con uno dei più importanti protagonisti.
Mentre questa che segue è la presentazione che ne fanno i curatori Daniele Comberiati e Luca Somigli nella loro introduzione:
Una vocazione transmediale caratterizza anche il progetto del movimento connettivista, di cui dà conto Arielle Saiber in un’ampia intervista a uno dei suoi fondatori, Giovanni De Matteo, preceduta da una nota critica e di poetica. Se il termine “connettivismo” è di derivazione letteraria e rimanda a un autore della fantascienza classica, A. E. van Vogt, la sua ripresa in questo contesto vuole evocare invece quell’incrocio di forme di sapere e di produzione culturale il cui potenziale è stato moltiplicato dalle nuove piattaforme mediatiche, internet prima su tutte. L’intersezionalità è dunque insita nel nome del movimento stesso, teso alla ricerca, come scrive Saiber, di “un tentativo di sintesi e ibridazione: tra linguaggi e forme espressive diverse, tra mondi in opposizione e saperi sbrigativamente considerati inconciliabili, tra generi reputati statici e cristallizzati”. Nel ripercorrere la storia del movimento dal lancio del manifesto fondativo nel 2004, Saiber ne sottolinea la capacità aggregativa intorno a case editrici e progetti online, in un continuo processo di sperimentazione che, pur tenendo la letteratura al suo centro, spazia dalle arti figurative alla musica.
L’antologia è lì fuori da poco più di tre mesi e mi rendo conto di non averne ancora parlato. Quindi direi che è arrivato il momento di rimediare.
La sindrome di Kessler e altri racconti è un campionario della mia scrittura dal 2004 al 2020. Mancano una manciata di titoli che mi sarebbe piaciuto includere, ma o per questione di diritti (è il caso di Al servizio di un oscuro potere, uscito lo scorso anno sul Millemondi dedicato alla distopia), o per la prospettiva di progetti antologici a tema (La vita nel tempo delle ombre, Orizzonte degli eventi e Vanishing Point), o per entrambe le ragioni (Maja, Il lungo ritorno di Grigorij Volkolak, Sulle ali della notte), sono rimaste fuori da questa raccolta. Per il resto, il volume, che include 28 racconti e conta la bellezza di 490 pagine, offre tutto il meglio di quello che mi è riuscito di scrivere in questo intervallo di tempo, dopo i primi timidi tentativi del 2003, e prima dell’ultimo anno che vedrà comunque uscire almeno una novità da qui a fine mese.
Il lettore più attento ci troverà molte storie che probabilmente già conosce, in particolare i racconti vincitori di premi (Viaggio ai confini della notte e Red Dust), i racconti ospitati da Robot (Cloudbuster) o Next/Next-Station (SIN: Stati Indotti di Narcolessia) o i microracconti usciti in precedenza sul blog (Novilunio, Orfani del cielo, Civiltà di prova), ma tutti sono passati sotto le amorevoli cure dell’accetta dell’editor, ed essendo trascorsi in alcuni casi più di quindici anni dalla loro precedente apparizione l’intervento è stato tutt’altro che indolore. Per tutti, ci saranno comunque delle sorprese, a cominciare da un inedito assoluto (Ruggine), sviluppato come tassello di un più ampio progetto steampunk su un’Italia fin de siècle alternativa che purtroppo, per varie vicissitudini editoriali, non ha mai visto la luce.
Organizzate tematicamente in sezioni, queste storie esplorano la frontiera tra connettivismo e cyberpunk (Connessioni) o tra postumanesimo ed esplorazione spaziale (Transizioni), oppure si addentrano in diversi filoni della letteratura di fantascienza, dall’ucronia al viaggio nel tempo al New Weird (Deviazioni), dalla discronia alla letteratura ricorsiva (Mutazioni). Completano il volume cinque racconti-bonsai che si spingono ai limiti del conte philosophique (Iterazioni). Insomma, rappresentano uno spaccato davvero eterogeneo rappresentativo credo non solo della mia scrittura, ma più in generale delle molteplici anime che convivono in questo calderone così difficile da definire che tutti sappiamo essere la fantascienza.
Anche per questo motivo, ogni racconto è preceduto da un’introduzione scritta ad hoc per inquadrarne il background: ho voluto in questo modo omaggiare i miei maestri e le mie fonti di ispirazione, e inoltre fornire ai lettori nuove coordinate per tracciare eventuali nuovi percorsi di lettura, che spesso finiscono per sconfinare fuori dal genere.
Il libro è uscito per Kipple Officina Libraria con una prefazione di Linda De Santi. La copertina è di Franco Brambilla. Se avete altre domande, lo spazio dei commenti è a vostra disposizione.
Seconda segnalazione robotica in meno di una settimana, per annunciarvi che è uscito il numero 90 della leggendaria rivista di fantascienza fondata da Vittorio Curtoni e attualmente diretta da Silvio Sosio, e che tra le sue pagine ha trovato in extremis confortevole asilo anche il mio articolo-moloch sullo sviluppo semiotico dell’utopia. Perché se è vero che il blog è impermanente per definizione, come tutto quello che è codificato in pacchetti di bit in un server oceanico da qualche parte, le pagine di Robot sono per sempre.
Un sole di gomma fu squassato, e tramontò; e un nulla nero-sangue si mise a far girare un sistema di cellule intrecciate con cellule intrecciate con cellule intrecciate dentro un unico stelo. E spaventosamente nitida, sullo sfondo di tenebra, una candida fonte zampillò.
Vladimir Nabokov, Fuoco pallido, traduzione di Franca Pece e Anna Raffetto per l’edizione italiana Adelphi (2002)
Finalmente la mia copia del balenottero è venuta a spiaggiarsi qui di fianco e quindi quale occasione migliore per parlarvi un po’ del mio racconto? Il senso del post, come avrete capito, è quanto di più autoreferenziale si possa immaginare. Se decidete di andare avanti, sapete cosa aspettarvi.
1. Riferimenti letterari
Come fa giustamente notare il curatore del volume Franco Forte (che ringrazio oltre che per aver messo in luce il modello, anche per avermi dato la possibilità di comparire ancora una volta in un libro con diverse autrici e autori per cui non ho mai fatto mistero di nutrire da lettore – e a volte anche, nel mio piccolo, da curatore – un apprezzamento incondizionato), sul mio racconto aleggia l’ombra di Sergio “Alan D.” Altieri. Alla fine i conti tornano, no?
Anche lui forse avrebbe usato per questo racconto l’etichetta sci-fi action, che non so se merito, però mi avrebbe fatto senz’altro piacere.
Accanto a lui, altri riferimenti al mio personale pantheon letterario che fanno capolino tra le pagine sono meno scontati per un racconto di fantascienza quale Al servizio di un oscuro potere è, e in particolare penso a H. P. Lovecraft, Thomas Ligotti e Breece D’J Pancake.
2. Suggestioni e ispirazioni
Lo spunto di partenza, la scintilla che ha innescato la suggestione da cui è scaturito il racconto, è una sequenza di fotogrammi di Bologna, una mattina presto d’inverno di due o tre anni fa. In superficie la città deserta, spazzata da un vento gelido che strappava pioggia ghiacciata a un cielo di marmo. Nel sottosuolo, il labirinto multi-livello della stazione dell’alta velocità, con le sue lunghe passerelle di vetro sospese sui binari e immerse in un’atmosfera ovattata, altrettanto rarefatta, e le voci dei passeggeri in attesa che si perdono in lontananza, soffocate dai volumi delle navate sotterranee.
La cordiale voce registrata del sistema di annunci sonori diffusi dagli altoparlanti è stata da ispirazione per Mezereth. Con la complicità di un umore appena più torvo del solito, non è stato difficile delineare invece il personaggio di Maksim Bogdanov. Il nome è un omaggio ad Aleksandr Bogdanov, sulla cui figura è incentrato Proletkult dei Wu Ming, ma anche ad Arkady Bogdanov, uno dei personaggi più intriganti della Trilogia Marziana di Kim Stanley Robinson.
3. Storie dentro storie dentro altre storie
Keira è antecedente a entrambi, essendo ormai anni che medito di raccontarne la storia. Una storia che inizia in una città devastata dalla guerra, subito dopo il crollo della civiltà, e si conclude a bordo di un’astronave interstellare che si lascia alle spalle un sistema solare irreversibilmente sconvolto. In mezzo ci sono un annuncio del SETI a lungo atteso, ma che forse mai avremmo voluto sentirci dare sul serio, e il Programma Majestic. Di tutto questo si fa menzione in Al servizio di un oscuro potere, che va così a coprire con una prima tessera il mosaico di una storia più ampia e più antica. Il resto, prima o poi, lo scriverò.
Dimenticavo. Il personaggio che fa da contraltare a Maksim nella ricerca di Keira per conto di Mezereth si chiama… Irene Adler. Ovviamente, non quella Irene Adler.
4. World-building
Nel mondo post-apocalittico in cui vivono Maksim e Irene Adler, la società e le sue strutture di potere sono state commissariate dalle intelligenze artificiali. Amorevoli, altruistiche IA come Mezereth hanno preso in custodia il genere umano per il bene della civiltà. E gli umani, per lo meno quelli sopravvissuti all’ultima guerra totale, sono stati incasellati, per il loro bene, in ruoli predefiniti in virtù della loro classificazione in sedici tipi psicologici, che riprende lo schema messo a punto dalle psicologhe Myers e Briggs, per altro madre (la seconda) e figlia (la prima), nel secondo dopoguerra (per scoprire il vostro tipo MBTI, potete sottoporvi a test più o meno accurati, anche on line se ne trovano di diversi, tra cui questo in italiano).
Nel racconto mi diverto a giocare, come si sarà capito poco sopra, con i rischi esistenziali di Nick Bostrom, provando ad azzardare una risoluzione “artificiale” del dilemma del prigioniero, che porta a pagare un prezzo alto ma accettabile per evitare la distruzione assicurata. Questo dilemma, nel racconto, è legato al paradosso di Fermi, e a una possibile spiegazione che è stata già affrontata con eccellenti risultati da autori come Stephen Baxter, Alastair Reynolds e Liu Cixin.
5. Altri mondi, altre storie
Il nome della città in cui si apre e finisce il racconto, al-Hastur, è una citazione abbastanza trasparente di Robert W. Chambers, i cui racconti del ciclo del Re in Giallo sono andati a costituire il nucleo di un universo letterario di rimandi e citazioni che si è avvalso nel corso del tempo dei contributi, tra gli altri, di H. P. Lovecraft, sublimando nell’immaginario popolare anche grazie al lavoro di Nic Pizzolatto sulla prima stagione di True Detective.
In effetti, con tutti questi link, sembra che non abbia dovuto fare altro che mettere un po’ di ordine nella cronologia del blog. Ma è stato un po’ più complessa di così.
Nella descrizione di al-Hastur come di una città mausoleo, uno spettrale sepolcro imbiancato, riverberano le sensazioni di Cuore di tenebra di Joseph Conrad, in cui si ritrova una descrizione di Bruxelles che gli permette di materializzare una critica all’imperialismo colonialista europeo (“Mi ritrovai nella città sepolcrale risentito alla vista di individui che si affrettavano nelle strade per sgraffignare un po’ di denaro l’uno all’altro, […] per sognare i loro sogni sciocchi e insignificanti. Calpestavano i miei pensieri. Erano intrusi e la conoscenza che avevano della vita mi appariva un’irritante finzione, perché mi sentivo così sicuro che non potessero certo sapere le cose che sapevo io“).
Ho aggiunto il prefisso al un po’ per un tocco di esotismo, un po’ per caricarlo di un vezzo demoniaco, e poi perché mi sono detto: con tutti questi riferimenti, perché non citare anche Jack Vance?
6. E il titolo?
Ok, adesso l’ultima e poi evito di importunarvi oltre. Il titolo, vi starete chiedendo, o forse no, ma ormai avrete capito che ho comunque intenzione di dirvelo.
Al servizio di uno strano potere è il titolo, preso in prestito da uno dei suoi racconti, di un’antologia di Samuel R. Delany pubblicata in Italia in un numero monografico di Robot (il 35, per l’esattezza, nel febbraio del 1979). Robot è la mia rivista preferita, Delany è uno degli autori di cui non potrei fare a meno (e tra i primi che citerei se mi venisse chiesto il nome di uno scrittore che tutti dovrebbero conoscere) e questa antologia è uno scrigno di pietre preziose (così parafrasiamo pure il suo titolo più bello).
Al servizio di un oscuro potere esiste anche grazie a Robot e a Delany. Ed è un’influenza che va al di là del titolo, ma che il titolo mette da subito in chiaro.
Buona lettura!
E così ci siamo. L’attesa è finita. Preceduto dal libro evento del 2019 (asso pigliatutto all’ultima edizione del Premio Italia), annunciato in pompa magna, accompagnato da una campagna promozionale come raramente se ne vedono in Italia quando si parla di fantascienza (e chissà perché ancor più quando si tratta di fantascienza italiana… se non quando la fantascienza è il pretesto per allenare la consolidata virtù italica del velleitarismo coloniale), è il momento del Millemondi dell’estate 2020: Distòpia.
Curata ancora una volta da Franco Forte, impreziosita come sempre da una cover memorabile di Franco Brambilla e completata da una postfazione di Carmine Treanni sulla strana attrazione che esercita “il peggiore dei mondi possibili”, l’antologia dedicata alla fantascienza scritta da autori italiani si è concentrata questa volta su un tema che, all’origine, nessuno si sarebbe di certo aspettato sarebbe stato così d’attualità al momento dell’uscita in edicola: fin dal titolo, che rifugge qualsiasi tentazione di camuffamento, a fare la parte del leone saranno i futuri avversi, i mondi allo sfascio, le società totalitarie, le piccole e grandi distorsioni – o, se preferite, perversioni – di cui l’umanità sa rendersi capace.
Dalla presentazione del volume:
Tenetevi pronti a sognare agli scenari immaginati da alcuni dei migliori scrittori della fantascienza italiana, riuniti da Franco Forte, curatore dell’antologia.
Le loro visioni vi porteranno a incontrare un androide nelle gelide miniere di Plutone, a indagare insieme a una Nativa Mentale i segreti di un’Italia virtuale (o meglio “n’Italia”) post pandemia, ad aggirarvi sotto i tramonti oscuri della città di Morjegrad, preda di strani blackout.
Preparatevi a danzare con un’umanità mutilata dall’editing genetico, a inseguire ali di farfalla in un mondo prosciugato dalla vita, a far crepitare di raggi laser la neve grigia dell’inverno nucleare.
Tra le pagine di “Distòpia” scalerete i durissimi canoni estetici del riallineamento, sarete assordati dal frastuono del crollo dei grandi monumenti della Terra, andrete a caccia di emozioni forti in un mondo che ha sacrificato la privacy e il contatto umano a favore di un’inquieta sicurezza, andrete a caccia all’ispirazione insieme a uno scrittore disperato.
Potrete farvi inebriare dal fascino digitare di un/a Perfect Companion, colonizzare un pianeta meticcio e multispecie e persino perdervi in un futuro psichedelico governato da hashtag e captcha.
Per quanto mi riguarda, Distòpia giunge dopo Cronache dell’Armageddon e Lo Zar non è morto e completa un trittico che per puro caso, dopo una lavorazione di diversi mesi, è arrivato a convergere su questo scorcio di estate post-pandemica, suggellando un mese di giugno di rara produttività.
Magari del mio racconto parleremo nei prossimi giorni. Intanto, ci vediamo in edicola!
L’interliminale, quello spazio situato tra due soglie, che non appartiene né allo spazio prima né a quello dopo, è un concetto che somiglia molto alla condizione che stiamo vivendo da alcune settimane. Decretata a inizio maggio la fine del lockdown, siamo entrati in questo «spazio di mezzo», in cui non siamo più ibernati né pienamente tornati alla libertà di prima. Viviamo quindi in una condizione sospesa, in cui non solo quello che continua a succedere intorno a noi, ma anche quello che ci si profila davanti allunga ombre ancora piuttosto fosche sul nostro presente.
Nel mondo si sono superati oggi i 7,5 milioni di casi, le vittime sono oltre 420.000, e il contagio ha non solo raggiunto dimensioni preoccupanti in Brasile e Russia, ma cresce rapidamente in paesi come Perù, Cile, Messico, Pakistan, Bangladesh e Sud Africa, tutti caratterizzati da aree urbane densamente abitate, in cui il distanziamento sociale si sta dimostrando di difficile attuazione in assenza di rigide disposizioni di contenimento. Ormai ci stiamo gradualmente abituando all’idea di dover convivere a lungo con il virus.
In questo scenario, sono venuti meno molti dei miei propositi degli ultimi mesi, inclusa la voglia di aggiornare regolarmente il blog, che invece per alcune settimane ero riuscito a trovare. Ma nell’Interliminale tutto si fa tranne crogiolarsi nell’inattività. E in effetti, dietro le quinte, sono state settimane frenetiche, in cui sono culminati alcuni progetti che da mesi (e in alcuni casi anche anni) erano in gestazione.
Di alcuni di questi vi parlerò nei prossimi giorni (in effetti se ne sta già parlando, nei corridoi della rete). Per altri, l’auspicio è che la gestazione porti prima o poi a dei risultati pubblicamente spendibili.
Il mondo del futuro è un incubo barocco di burocrazia neofeudale. La Terra è un mondo morente, in cui ciò che resta delle Americhe prospera sulle macerie degli altri continenti, spazzati per decenni da pandemie e pestilenze che ne hanno decimato la popolazione. Alcuni pionieri hanno stabilito avamposti sulla superficie di Marte, nella fascia asteroidale e i più audaci e refrattari al controllo delle Grandi Famiglie terrestri addirittura nei corpi ghiacciati della cintura di Kuiper, dove il sole è poco più di una stella come le altre in una notte senza fine.
Il potere delle Grandi Famiglie e dei loro «vassalli» e servitori si esprime attraverso i Trust, megaconglomerati industriali che hanno trovato nella corsa allo spazio lo sbocco ideale per il loro perdurante scontro di potere. Hanno instaurato così una precaria alleanza con i tecnici e gli scienziati ribelli delle Repubbliche di Kuiper e, sfruttando la tecnologia quantistica alla base dei lanci di Higgs, sono riusciti a raggiungere una decina di mondi nel raggio di qualche centinaio di anni luce dalla Terra, instaurandovi dei presidi di ricerca. Isis è uno di questi mondi, il Progetto Isis è l’insieme di programmi condotti dai Trust per sfruttare le conoscenze che ne potrebbero derivare e Kenyon Degrandpre, un manager di un certo rilievo ma non appartenente a nessuna Famiglia, il direttore della Stazione Orbitale Isis che si sforza di compiacere i suoi superiori, amministrando il progetto con sterile ma servizievole incompetenza, portando a tutta una serie di spiacevoli conseguenze per il migliaio di membri che dipendono da lui.
Perché Isis non è un mondo come gli altri:
Il pianeta era pieno di vita, ma era una vita più vecchia di un miliardo di anni rispetto a quella della Terra, più evoluta ma anche più primitiva, preservata dai cambiamenti per l’assenza di grandi ondate di estinzione; c’era spazio per tutti, per tutti i generi e per ogni strategia di sopravvivenza eccetto quella umana, senziente, terrestre. Siamo creature così semplici, pensò; non riusciamo a tollerare queste fitotossine ben affilate, gli innumerevoli predatori microscopici cui ha dato forma un miliardo di anni di involuzione. Nulla, nell’arsenale del sistema immunitario umano, riesce ad accorgersi delle invisibili armate isiane, e a respingerle.
La vita terrestre sbarcata sul pianeta è sottoposta a una costante minaccia dalle forme di vita indigene. I tecnici e i ricercatori occupati nelle quattro stazioni sulla sua superficie (un avamposto oceanico, una installazione polare e due basi, Gamma e Delta, soprannominate Marburg e Yambuku dal nome delle «prime varietà identificate della febbre emorragica che aveva devastato la Terra del ventunesimo secolo») sono impegnati in una lotta senza tregua per la sopravvivenza, dovendo garantire l’isolamento ermetico degli habitat in cui vivono per prevenire l’intrusione di agenti esterni che porterebbero a un contagio per cui non esiste alcuna cura: «Siamo seduti sul fondo di un oceano biologico ostile, e Yambuku è una batisfera» spiega Elam Mather, una delle veterane di Yambuku, alla nuova arrivata Zoe Fisher. «Una sola falla, e per tutti noi è finita. In un ambiente simile, non possiamo permetterci nulla che non sia una reciproca fiducia».
La vita, su Isis, era un fiume più lungo e profondo. Il suo corso era lento e totalmente sfaldato, punteggiato non da glaciazioni o da impatti di comete ma da ondate di predatori e parassiti. L’ecologia di Isis era una distesa in via di sviluppo, armata. Le sue armi erano formidabili, le sue difese ingegnose.
E questo rendeva il pianeta, tra le altre cose, un’enorme e nuova farmacopea. Gran parte dei costi di mantenimento di Yambuku venivano pagati da consorzi di ditte farmaceutiche appartenenti al Trust del Lavoro. E anche quello era un problema. Ogni cosa che usciva da Yambuku andava giustificata con i contabili del Trust. Lì non c’era spazio per la scienza pura, come veniva fatto chiaramente capire ai dipendenti nativi di Kuiper.
Zoe Fisher è una sopravvissuta terrestre, arruolata dal settore Dispositivi e Personale dei Trust e mandata su Isis con lo scopo di condurre il primo esperimento di «immersione totale»: deve prendere contatto con le forme di vita superiori evolutesi su Isis e studiarle da vicino. Tra queste, i cosiddetti scavatori, dei vertebrati dall’aspetto ripugnante, provvisti di un carapace flessibile, di una tecnologia rudimentale e di possenti arti da scavo con cui realizzano le più ingegnose costruzioni della loro primitiva civiltà: tumuli e montagnole che, nei loro ventri, celano tunnel che sprofondano nelle viscere del pianeta. Ma il Progetto Isis è affidato al Trust del Lavoro, una fazione rivale della D&P a cui riferisce Zoe, e la sua presenza diventa presto un problema: perché a sua insaputa Zoe non è solo una pedina in uno scontro più grande, con il suo mentore Avrion Theophilus che forse tiene più a ciò che lei «trasporta» che alla sua incolumità, ma un’arma con cui compiere una vendetta ai danni del sistema.
Come tutti i terrestri, Zoe è provvista di un timostato, un avanzatissimo sistema di bio-regolazione impiantato in un braccio, finalizzato al controllo dell’umore e all’inibizione della fatica: detto anche «termostato dell’anima», è un ritrovato biotecnologico in grado di trasformare i sudditi delle Grandi Famiglie in mansueti ed efficienti operatori al servizio dei Trust. Prima di essere lanciata dal planetoide di Fenice, però, in un atto di sfida e ribellione al sistema, una dottoressa prossima al ritiro ha operato una manomissione al bio-regolatore di Zoe, che si viene così a trovare in un ambiente alieno, spogliata di ogni certezza precedentemente acquisita, a fare i conti non solo con ciò che accade fuori di lei ma anche con le trasformazioni in atto dentro il suo corpo, con effetti non trascurabili sulla sua stabilità psico-emotiva.
Queste sono le premesse di Bios, eccezionale romanzo di Robert C. Wilson del 1999, pubblicato in Italia da Fanucci nell’effimera ma gloriosa collana Solaria nel marzo 2001 (nella traduzione di Domenico Gallo e Andrea Marti). Apparso originariamente con il sottotitolo A Novel of Planetary Exploration, Bios non è il romanzo più noto dell’autore americano-canadese, conosciuto soprattutto per Mysterium (altro romanzo apparso su Solaria, vincitore del Philip K. Dick Aaward nel 1994) e per Spin (Hugo Award nel 2005 e principio di una trilogia molto popolare), ma è ingiustamente sottovalutato e merita di essere riscoperto, come giustamente caldeggiava Enrico Di Stefano in tempi non sospetti dalle pagine di Delos SF, magari anche nella scia dell’attualità (e chissà che Fanucci non possa farci un pensierino).
Diversi sono i passaggi che chiudono interruttori psichici con le cronache di queste settimane, ispirando riflessioni sul mistero della vita, sul ruolo della coscienza nel bilancio della natura, sulla posizione dell’umanità nelle non sempre facilmente decodificabili dinamiche del cosmo. Prendiamo per esempio questo brano, descritto dal punto di vista di Tam Hayes, il direttore di Yambuku che finisce per innamorarsi, ricambiato, della nuova arrivata:
… anthrax, HIV, Nelson-Cahill 1 e 2, Dengue di Leung e tutta l’immensa schiera di virus emorragici… Lì c’erano tutti gli antichi orrori della Terra, predatori più scaltri e tenaci degli animali delle giungle, e altrettanto attivi, che continuavano a diffondersi tra le malnutrite popolazioni dell’Africa, dell’Asia, dell’Europa. Geometrie a spirale e catene proteiche color arcobaleno, tutte ricolme di morte.
Ecologia planetaria, aveva pensato. Antica, incredibilmente ostile. Quella era la bios di Tam diventata tangibile, l’intricato residuo di eoni di evoluzione.
Ma almeno la Terra aveva accolto il genere umano all’interno di quella equazione, per quanto le sue pestilenze fossero micidiali. Isis non aveva contrattato un accordo analogo.
O quest’altro, dal punto di vista di Zoe:
Se l’avessero sistemata non avrebbe più potuto provare quel fremito nell’attesa del suono della voce di Tam, l’improvvisa sensazione di leggerezza quando lui le faceva un complimento, l’intimità sconvolgente della mano di lui sul suo corpo.
Era follia, naturalmente, ma aveva in sé qualcosa di divino. Si domandò se si era imbattuta in una sorta di saggezza andata perduta per il mondo moderno, in un arcaico veicolo di emozioni nascosto sotto i rigidi rituali delle Famiglie o gli accoppiamenti da scimpanzé dei Clan di Kuiper.
Forse era quello il modo in cui i prolet non bio-regolati si innamoravano. L’amore faceva sentire così, si chiese, nelle zone a rischio virale dell’Africa e dell’Asia?
Aveva paura di quel sentimento. E aveva paura della sola idea che un giorno potesse cessare.
Tutto il romanzo è un sofisticato gioco di echi e risonanze, con pagine e sottotrame che si specchiano le une nelle altre, con linee narrative che divergono e confluiscono le une sulle altre come catene proteiche o, meglio ancora, molecole di DNA.
La scoperta del pianeta da parte di Zoe, delle sue insidie, dei suoi inesplicabili segreti, si svolge parallelamente alla sua indagine interiore, alla sua trasformazione in donna, una metamorfosi rapida ed effimera come quella di un bruco in farfalla. Per le ragioni sopra descritte, gli umani non possono avventurarsi fuori dai loro habitat severamente controllati, all’esterno sulla superficie di Isis, se non protetti da ingombranti e goffi scafandri, bio-armature corazzate concepite per proteggere i loro inquilini, ma drammaticamente esposte esse stesse all’aggressione degli agenti patogeni della biosfera isiana. Come intuisce Dieter Franklin, il planetologo di stanza a Yambuku, in uno dei suoi rapporti:
Si potrebbero fare congetture, e forse non in modo intempestivo, sulle possibilità inerenti a un network pseudo-neurale che connetta tutte le cellule isiane, una biomassa che (se si include la materia degli oceani e i batteri che fissano minerali distribuiti lungo la superficie del pianeta) sarebbe di proporzioni davvero sbalorditive. I crescenti, fruttuosi attacchi alle sottostazioni potrebbero venire visti, per analogia, come una reazione autonoma alla presenza di un corpo estraneo, nella quale le strategie per fare breccia sviluppate nell’ambiente salino e utilizzate per la prima volta contro la stazione per la ricerca nell’oceano siano state adattate, lentamente ma con efficacia, per l’impiego contro avamposti con base sulla terraferma…
La scoperta, destinata alla Terra, non arriverà mai a destinazione, intercettata da Degrandpre, preoccupato solo di preservare la propria posizione di potere, nutrendo l’illusione dei Trust e delle Grandi Famiglie che su Isis sia tutto sotto controllo. Ma la verità è ben diversa, e lui stesso non potrà evitare di farci i conti, riconsiderando sotto una nuova, spietata luce una vita, una carriera e un’impostazione mentale basate sui confini, sugli steccati, sulle separazioni nette, sui muri:
Ecco qui il vero orrore, pensò Degrandpre, questa rottura delle barriere. La civiltà, dopotutto, consisteva nel creare divisioni, mura e steccati che analizzassero ciò che era sgretolato e caotico ricomponendolo in ordinati elementi di immaginazione umana. Ciò che è selvaggio invade il giardino e la ragione viene abbattuta.
Comprese per la prima volta, o credette di comprendere, l’impulso religioso di suo padre. Le Famiglie e i loro Trust avevano diviso con grande finezza e ordinato in maniera ossessiva ciò che sulla Terra era politicamente e tecnologicamente selvaggio, ogni persona e ogni cosa e ogni procedimento erano stati inseriti nella loro orbita appropriata, all’interno del planetario sociale; ma, all’esterno delle mura delle Famiglie, ciò che era selvaggio continuava a premere, sempre più vicino: i prolet, i marziani, i clan di Kuiper; vettori di malattia che crescevano nelle tane delle classi inferiori; nessun vincitore, alla fine, se non la morte, e la crudele immensità dell’universo.
Regole e istituzioni fallaci con cui in molti si stanno misurando, anche in questi tempi.
Zoe, provvista di una bio-tuta di ultima generazione, sarà la prima umana a esplorare da vicino Isis, ma anche lei dovrà fare i conti con le oscure verità e i segreti sepolti nel suo passato, nella sua storia, nel suo DNA. Come spiega il Maestro Avrion Theophilus al dottor Tam Hayes:
«Non tutta la tecnologia nuova risiede nella sua tuta da uscite esterne, dottor Hayes.»
«Scusi?»
«Zoe è un insieme di programmi. Non è soltanto l’interfaccia. È stata accresciuta internamente, mi comprende? Possiede un sistema immunitario totalmente artificiale aggiunto al suo, quello naturale. Nanofabbriche agganciate all’aorta addominale. Se la tuta viene squarciata, noi dobbiamo saperlo. Ci sono tantissime cose che possiamo venire a sapere da lei, anche se dovesse morire durante l’uscita.»
La sua presenza rientra quindi nei cosiddetti «affari delle Famiglie», ed è un esperimento scientifico in prima persona, un banco di prova per un nuovo ritrovato tecnologico. Ma l’uomo continua a sopravvalutarsi e di conseguenza a sottovalutare la trama del cosmo e degli eventi in cui è inserito. E questo può rivelarsi fatale, specie su un mondo come Isis, lontano anni luce dalla Terra.
Denso di informazioni, scritto con un gusto per la parola che oserei quasi definire d’altri tempi, e intriso di una visione del mondo che non ho esitazioni ad accostare a quella di Thomas Ligotti, che su questo blog e altrove abbiamo affrontato a più riprese, Bios è un libro che produce un’onda lunga di pensieri e di riflessioni, esprimendo un pessimismo cosmico che a contatto con l’orrore sepolto al di là dei confini della nostra conoscenza sconfina in un nichilismo assoluto.
Cosa può esserci in fondo di peggio della scoperta di essere soli nell’universo? Di essere l’unica forma di vita a cui l’evoluzione biochimica abbia saputo condurre?
«È questa la risposta […] la risposta a tutte quelle vecchie domande. Noi non siamo soli nell’universo, Zoe. Ma siamo condannati a essere pressoché unici. La vita è antica quasi quanto l’universo stesso. Ma è vita nanocellulare, come quella degli antichi fossili marziani. Si è diffusa per la galassia prima della nascita della Terra. Viaggia nella polvere di stelle esplose».
Non era proprio Dieter a parlare, ma una qualche altra entità che le parlava attraverso il suo ricordo di Dieter. Lei lo sapeva. Avrebbe potuto essere una cosa spaventosa. Ma Zoe non aveva paura. Ascoltava attentamente, invece.
«Te lo spiegherei più per esteso, piccolina, ma voi non possedete le parole per esprimere queste cose. Guardala in questi termini. Tu sei un’entità vivente, cosciente. E pure noi tutti lo siamo. Ma non allo stesso modo. La vita attecchisce ovunque, nella galassia, persino nel suo centro rovente e affollato, dove le radiazioni ambientali ucciderebbero un animale come te. La vita è duttile e sa adattarsi. La coscienza nasce… be’, praticamente dappertutto. Non il tuo tipo di coscienza, però. Non quello degli animali, nati nell’ignoranza, destinati a vivere per un tempo breve e a morire, per sempre. Questa è l’eccezione, non la regola».
«Riesco a sentire le stelle che parlano» disse Zoe.
«Sì. Noi tutti possiamo, sempre. Più che altro si tratta di pianeti, non di stelle. Pianeti come Isis. Spesso alquanto diversi sotto l’aspetto fisico, ma tutti pieni di vita. Tutti loro parlano».
«Ma la Terra no» indovinò Zoe.
«No, la Terra no. Non sappiamo perché. Il granello di vita che ha trovato il vostro sole doveva essersi in qualche modo danneggiato. Siete cresciuti in maniera selvaggia, Zoe. In maniera selvaggia e da soli».
«Come un’orfana».
Dieter… la cosa-Dieter… le rivolse un sorriso triste. «Sì. Esattamente come un’orfana».
Ma non era veramente Dieter a parlare.
Era Isis.
Una chiosa che richiama sicuramente Stanisław Lem e Solaris, ma non privo di un retrogusto dickiano. Come ammette Robert C. Wilson nella sua postfazione, Bios è un romanzo cupo, che riflette lo stato d’animo di un momento particolarmente difficile della sua vita, «tra la fine di un matrimonio e la morte di mia madre». Dopo averlo letto la prima volta nella primavera del 2017, ho continuato a rimuginarci sopra per tutto questo tempo, accarezzando più di una volta l’idea di parlarne su queste pagine, fino a cedere alla tentazione di rileggerlo negli ultimi giorni.
Non è un libro facile, sicuramente non è una storia che piacerà a tutti.
Ma è fantascienza al suo meglio. Ed è un libro che non si dimentica. E forse non c’è occasione migliore per riscoprirlo di questo periodo, con lo sforzo di resistenza e resilienza a cui siamo tutti chiamati.
Italia, 17 marzo 2020. 27simo giorno dal primo contagio registrato di coronavirus all’interno del territorio nazionale. Ottavo giorno dalla trasformazione del paese in un’unica, grande Zona Rossa.
Totale dei casi registrati: 31.506 (+3.526). Deceduti: 2.503 (+345), tasso grezzo di letalità: 7,9%. Guariti: 2.941 (+192).
Totale casi attivi: 26.062 (+2.989). Ricoverati in terapia intensiva: 2.060 (+209), corrispondenti al 7,9% sul totale dei casi attuali.
Ieri un uomo fuori forma è stato sorpreso a passeggio in una strada del centro di Roma. Malgrado le restrizioni, lo stato di emergenza, le disposizioni di distanziamento sociale e le sanzioni previste per chiunque le violi. Un uomo con la sua fidanzata. Scortati.
L’uomo fuori forma è lo stesso che sette mesi fa si aggirava in tournée per le spiagge italiane, invocando i pieni poteri. I cittadini italiani glieli avrebbero concessi, a suo dire. Il popolo italiano era con lui, contro l’invasione dei migranti, contro l’Europa matrigna, contro i burocrati. Con lui, l’uomo comune, l’uomo comune che ama la bella vita, come ogni italiano che si rispetti, la Nutella, il buon cibo quando se lo può permettere altrimenti va bene anche il cibo di merda, il vino, il calcio (e il tifo ultrà e gli spacciatori delle curve). Un uomo come tanti, che come ogni italiano che si rispetti ama le soluzioni semplici, perché questo vogliono le menti semplici. E pazienza che il mondo sia invece complesso, richieda letture complesse e troppo spesso fallibili… i professoroni si mettano l’anima in pace, hanno studiato tanto ma per niente, questo mondo non appartiene a loro ma alla gente comune, che lo sottomette e piega alla propria volontà e al proprio gusto, perché è questo che evidentemente gli hanno insegnato decenni di dieta a base di ottima melassa televisiva.
L’uomo passeggiava per le strade di una Roma in stato di quarantena, con la sua scorta e la sua fidanzata, mano nella mano (con la fidanzata, non con la scorta, per quanto… ma non divaghiamo). E un pensiero mi ha attraversato la testa. per l’ennesima volta negli ultimi otto giorni, da quando questo stato di emergenza è cominciato, da quando sessanta milioni di italiani sono in stato di isolamento forzato, costretti nei loro domicili, al più con il permesso di spostarsi per comprovate esigenze lavorative o per situazioni di necessità o per motivi di salute. Tutte valide ragioni, come andare a prendere una boccata d’aria con la scorta e la fidanzata, benché i moduli delle autocertificazioni del governo non prevedano quest’ultimo caso. Era un pensiero un po’ perverso, come capita alle menti costrette all’inazione. Un pensiero accompagnato da un lungo brivido.
Il pensiero che quell’uomo che se ne andava a spasso per la capitale, mano nella mano con la sua fidanzata e la sua scorta (non necessariamente in quest’ordine… ma lasciamo stare), se sette mesi fa non avesse deciso di giocare un all in su una puntata perdente, oggi sarebbe stato pienamente titolato a disporre nello stato di emergenza misure restrittive che si addicono a uno stato di polizia, nelle cui maglie sarebbe stato facile trarre i presunti nemici della nazione, del popolo italiano, del cuore immacolato di maria. E con qualche minima estensione interpretativa, senza nemmeno il bisogno di approvare modifiche al decreto, instaurare un regime del terrore in cui un qualunque buzzurro legittimato dal consenso popolare o dalla sua divisa avrebbe potuto citofonare alla casa di un privato cittadino e autoinvitarsi nel suo domicilio per inquisirlo: lei spaccia? nasconde pacchi di carta igienica? colleziona boccette di amuchina?
Un sogno bagnato per ogni caudillo. L’estasi per il piccolo sceriffo che alberga dentro ogni fascista.
Per fortuna, la storia è andata diversamente. E per questo, quando mi viene da incupirmi per il clima distopico di questi giorni, mi basta ripensare a quell’uomo piccolo piccolo, ma non mentre passeggia per Roma, ma quando in piena sbornia da consensi, nel bel mezzo dell’estate, forse per un mancino colpo di sole o solo per uno scherzo del destino, si piantò la zappa sui piedi dall’alto del suo 30% di supposta – nel senso di presunta, non fraintendete – egemonia elettorale. Un uomo piccolo piccolo, che si è fatto fuori con le sue mani, risparmiandoci dolori e sofferenze ancora più grandi dei sacrifici a cui siamo chiamati.
Ed è così che mi convinco che ce la faremo. Perché questa non è una tragedia, il tempo delle tragedie è trascorso. La storia italiana è ormai ben avviata sulla strada della farsa e del grottesco. Un’eterna tragicommedia dalle fiacche risate, ma pur sempre inconciliabile con la fine di tutte le cose.
State allegri. Il peggio forse non è ancora passato. Ma se non altro non siamo nemmeno ancora fottuti.
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