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Un sole di gomma fu squassato, e tramontò; e un nulla nero-sangue si mise a far girare un sistema di cellule intrecciate con cellule intrecciate con cellule intrecciate dentro un unico stelo. E spaventosamente nitida, sullo sfondo di tenebra, una candida fonte zampillò.
Vladimir Nabokov, Fuoco pallido, traduzione di Franca Pece e Anna Raffetto per l’edizione italiana Adelphi (2002)

Finalmente la mia copia del balenottero è venuta a spiaggiarsi qui di fianco e quindi quale occasione migliore per parlarvi un po’ del mio racconto? Il senso del post, come avrete capito, è quanto di più autoreferenziale si possa immaginare. Se decidete di andare avanti, sapete cosa aspettarvi.

1. Riferimenti letterari

Come fa giustamente notare il curatore del volume Franco Forte (che ringrazio oltre che per aver messo in luce il modello, anche per avermi dato la possibilità di comparire ancora una volta in un libro con diverse autrici e autori per cui non ho mai fatto mistero di nutrire da lettore – e a volte anche, nel mio piccolo, da curatore – un apprezzamento incondizionato), sul mio racconto aleggia l’ombra di Sergio “Alan D.” Altieri. Alla fine i conti tornano, no?

Anche lui forse avrebbe usato per questo racconto l’etichetta sci-fi action, che non so se merito, però mi avrebbe fatto senz’altro piacere.

Accanto a lui, altri riferimenti al mio personale pantheon letterario che fanno capolino tra le pagine sono meno scontati per un racconto di fantascienza quale Al servizio di un oscuro potere è, e in particolare penso a H. P. Lovecraft, Thomas Ligotti e Breece D’J Pancake.

2. Suggestioni e ispirazioni

Lo spunto di partenza, la scintilla che ha innescato la suggestione da cui è scaturito il racconto, è una sequenza di fotogrammi di Bologna, una mattina presto d’inverno di due o tre anni fa. In superficie la città deserta, spazzata da un vento gelido che strappava pioggia ghiacciata a un cielo di marmo. Nel sottosuolo, il labirinto multi-livello della stazione dell’alta velocità, con le sue lunghe passerelle di vetro sospese sui binari e immerse in un’atmosfera ovattata, altrettanto rarefatta, e le voci dei passeggeri in attesa che si perdono in lontananza, soffocate dai volumi delle navate sotterranee.

La cordiale voce registrata del sistema di annunci sonori diffusi dagli altoparlanti è stata da ispirazione per Mezereth. Con la complicità di un umore appena più torvo del solito, non è stato difficile delineare invece il personaggio di Maksim Bogdanov. Il nome è un omaggio ad Aleksandr Bogdanov, sulla cui figura è incentrato Proletkult dei Wu Ming, ma anche ad Arkady Bogdanov, uno dei personaggi più intriganti della Trilogia Marziana di Kim Stanley Robinson.

Osservatorio ALMA, Cile.

3. Storie dentro storie dentro altre storie

Keira è antecedente a entrambi, essendo ormai anni che medito di raccontarne la storia. Una storia che inizia in una città devastata dalla guerra, subito dopo il crollo della civiltà, e si conclude a bordo di un’astronave interstellare che si lascia alle spalle un sistema solare irreversibilmente sconvolto. In mezzo ci sono un annuncio del SETI a lungo atteso, ma che forse mai avremmo voluto sentirci dare sul serio, e il Programma Majestic. Di tutto questo si fa menzione in Al servizio di un oscuro potere, che va così a coprire con una prima tessera il mosaico di una storia più ampia e più antica. Il resto, prima o poi, lo scriverò.

Dimenticavo. Il personaggio che fa da contraltare a Maksim nella ricerca di Keira per conto di Mezereth si chiama… Irene Adler. Ovviamente, non quella Irene Adler.

4. World-building

Nel mondo post-apocalittico in cui vivono Maksim e Irene Adler, la società e le sue strutture di potere sono state commissariate dalle intelligenze artificiali. Amorevoli, altruistiche IA come Mezereth hanno preso in custodia il genere umano per il bene della civiltà. E gli umani, per lo meno quelli sopravvissuti all’ultima guerra totale, sono stati incasellati, per il loro bene, in ruoli predefiniti in virtù della loro classificazione in sedici tipi psicologici, che riprende lo schema messo a punto dalle psicologhe Myers e Briggs, per altro madre (la seconda) e figlia (la prima), nel secondo dopoguerra (per scoprire il vostro tipo MBTI, potete sottoporvi a test più o meno accurati, anche on line se ne trovano di diversi, tra cui questo in italiano).

Nel racconto mi diverto a giocare, come si sarà capito poco sopra, con i rischi esistenziali di Nick Bostrom, provando ad azzardare una risoluzione “artificiale” del dilemma del prigioniero, che porta a pagare un prezzo alto ma accettabile per evitare la distruzione assicurata. Questo dilemma, nel racconto, è legato al paradosso di Fermi, e a una possibile spiegazione che è stata già affrontata con eccellenti risultati da autori come Stephen Baxter, Alastair Reynolds e Liu Cixin.

Credit: Babylon 5.

5. Altri mondi, altre storie

Il nome della città in cui si apre e finisce il racconto, al-Hastur, è una citazione abbastanza trasparente di Robert W. Chambers, i cui racconti del ciclo del Re in Giallo sono andati a costituire il nucleo di un universo letterario di rimandi e citazioni che si è avvalso nel corso del tempo dei contributi, tra gli altri, di H. P. Lovecraft, sublimando nell’immaginario popolare anche grazie al lavoro di Nic Pizzolatto sulla prima stagione di True Detective.

In effetti, con tutti questi link, sembra che non abbia dovuto fare altro che mettere un po’ di ordine nella cronologia del blog. Ma è stato un po’ più complessa di così.

Nella descrizione di al-Hastur come di una città mausoleo, uno spettrale sepolcro imbiancato, riverberano le sensazioni di Cuore di tenebra di Joseph Conrad, in cui si ritrova una descrizione di Bruxelles che gli permette di materializzare una critica all’imperialismo colonialista europeo (“Mi ritrovai nella città sepolcrale risentito alla vista di individui che si affrettavano nelle strade per sgraffignare un po’ di denaro l’uno all’altro, […] per sognare i loro sogni sciocchi e insignificanti. Calpestavano i miei pensieri. Erano intrusi e la conoscenza che avevano della vita mi appariva un’irritante finzione, perché mi sentivo così sicuro che non potessero certo sapere le cose che sapevo io“).

Ho aggiunto il prefisso al un po’ per un tocco di esotismo, un po’ per caricarlo di un vezzo demoniaco, e poi perché mi sono detto: con tutti questi riferimenti, perché non citare anche Jack Vance?

Credit: Carcosa, by Irrealist.

6. E il titolo?

Ok, adesso l’ultima e poi evito di importunarvi oltre. Il titolo, vi starete chiedendo, o forse no, ma ormai avrete capito che ho comunque intenzione di dirvelo.

Al servizio di uno strano potere è il titolo, preso in prestito da uno dei suoi racconti, di un’antologia di Samuel R. Delany pubblicata in Italia in un numero monografico di Robot (il 35, per l’esattezza, nel febbraio del 1979). Robot è la mia rivista preferita, Delany è uno degli autori di cui non potrei fare a meno (e tra i primi che citerei se mi venisse chiesto il nome di uno scrittore che tutti dovrebbero conoscere) e questa antologia è uno scrigno di pietre preziose (così parafrasiamo pure il suo titolo più bello).

Al servizio di un oscuro potere esiste anche grazie a Robot e a Delany. Ed è un’influenza che va al di là del titolo, ma che il titolo mette da subito in chiaro.

Buona lettura!

Che anno hanno avuto Holonomikon e il suo blogger? Da quando esiste (anno di grazia 2013), il 2019 è stato l’anno di maggiore attività del blog: una cosa che non avevo preventivato, ma che ho provato a pianificare in corso d’opera al meglio delle mie possibilità. Il che mi ha permesso, tra alti e bassi, di tornare a ritmi (quasi) confrontabili con quelli del glorioso, vecchio Strano Attrattore.

Questo è infatti il post numero 107 dell’anno solare, per un totale finora di 73.462 parole, con una media di 693 parole ad articolo. Sono particolarmente affezionato ad alcune delle cose che ho pubblicato quassù nell’ultimo anno. In particolare penso ai seguenti post:

A cui si aggiungono i post più apprezzati dai lettori, premiati dal numero di visite ricevute:

A mio insindacabile giudizio, è quanto di meglio ha offerto Holonomikon nel 2019. Sarà difficile ripetersi nel 2020 e per questo è inutile e dannoso fare dei propositi che finirei inevitabilmente per tradire.

Dimenticavo, il blog ha ospitato a puntate la riedizione di Orizzonte degli eventi, uno dei miei racconti più apprezzati dai lettori, ma ormai quasi introvabile, che è tornato finalmente disponibile a partire da questo link. Storia analoga per Red Dust, che è tornato disponibile grazie all’interessamento del Club GHoST in una nuova versione, ripulita e ripotenziata. Ma questo già non riguarda più il blog ed è quindi il caso di rimandarvi, per tutto il resto, al post di fine anno.

Ho scoperto Breece D’J Pancake che era già morto da quasi trent’anni, ma ho letto così tante volte i suoi dodici racconti, tutto ciò che ci ha lasciato, da maturare presto l’illusione di conoscerlo bene come un vecchio amico, se non proprio come me stesso. La qual cosa è appunto un’illusione, priva di qualsiasi fondamento, ma fa sì che non mi stranisca tanto il fatto che oggi ricorrano i quarant’anni dalla notte in cui si tolse la vita, o forse la perse accidentalmente con la complicità di una di quelle armi da fuoco che dovrebbero rendere le nostre vite più sicure (come no…), ma che siano trascorsi più di dieci anni da quando mi sono imbattuto per la prima volta nelle sue tracce.

Quando avrò finito qua tornerò nel West Virginia. C’è qualcosa di antico e profondamente radicato nella mia anima. Mi piace pensare di aver lasciato la mia anima su una di quelle colline, e non sarò mai davvero capace di partire finché non l’avrò trovata. E io non voglio cercarla, perché potrebbe capitare che la trovi e così sarei costretto a partire davvero.

[da una lettera scritta alla madre mentre era studente all’Università della Virginia]

In un certo senso è trascorsa una vita da quando attaccavo a leggere le prime righe di Trilobiti e non trovavo la forza di staccarmene, provando un raro bisogno una volta arrivato alla fine: quello di rileggere tutto daccapo. Sul vecchio blog come pure su Next Station trovate una vasta rassegna di riflessioni dedicate alla sua scrittura, ai suoi temi, al suo stile. Allo stesso tempo, ricordo bene l’impatto di quelle immagini, il senso di malinconia, la disperazione a tratti e quell’attaccamento viscerale a una terra che a migliaia di chilometri di distanza la sua penna riusciva a farmi sentire come se fosse la mia. Quella di Pancake è una memoria che si fa geologica, che assorbe dai luoghi la loro intrinseca essenza e la fa propria: nei suoi racconti non c’è mai una separazione netta tra i personaggi e l’ambiente, i primi sono dei pezzi del West Virginia e degli Appalachi non meno di quanto non lo siano le montagne devastate dalle miniere e i boschi impenetrabili, le gole scavate dai fiumi e le stazioni abbandonate, i binari della ferrovia e i villaggi disseminati lungo le valli.

La memoria di Pancake si confronta con il tempo profondo dei fenomeni naturali, dei processi che richiedono milioni di anni per produrre effetti misurabili. Un tempo di fronte al quale l’umano svanisce, si dissolve, come le nostre ambizioni davanti a una manifestazione kantiana del sublime; e un tempo che diventa naturalmente la pietra di paragone per gli accidenti della vita: tradimenti, fallimenti, cadute, ostacoli di qualsiasi natura, perdite, affanni. Nessuno dei suoi personaggi, che in alcuni casi sembrano dei veri e propri alter ego dello scrittore, ha una vita facile, ma tutti vivono in qualche misura una forma di rassegnazione che scaturisce da una consapevolezza istintiva, naturale, di una dimensione superiore: queste montagne, questi fiumi, questi boschi, saranno ancora qui tra un milione di anni, quando di noi non sopravvivrà nemmeno il ricordo, proprio come erano qui centinaia di milioni di anni fa, solo in forma diversa, magari sul fondo di un oceano primordiale, quando l’umanità non era nemmeno un sogno vago e confuso generato per caso dai semplici circuiti neurali di un trilobite.

South Branch Mountaing [source: Dixon Marshall].

E quindi, Breece, questo è il mio modo per rendere omaggio a quello che mi hai insegnato. Grazie per quello che ci hai lasciato.

Apro la porta del camioncino, scendo sulla stradina di mattoni. Guardo ancora una volta Company Hill, tutta consumata e logora. Molto tempo fa era davvero scoscesa e stava come un’isola nel fiume Teays. C’è voluto più di un milione di anni per fare questa piccola collina liscia e ho cercato dappertutto trilobiti. Penso a com’è sempre stata lì e a come ci starà sempre, almeno per tutto il tempo che importerà qualcosa. Quando arriva l’estate, l’aria si fa afosa. Un branco di storni fluttua sopra di me. Sono nato qui e non ho mai voluto andarmene davvero. Ricordo gli occhi di papà morto che mi guardavano. Erano molto secchi e mi portarono via qualcosa. Chiudo la porta, vado verso il caffè.
Vedo una toppa di cemento sulla strada. Ha la forma della Florida e mi ricordo che cosa avevo scritto nell’annuario di Ginny: «Vivremo di manghi e d’amore». E lei prese e partì senza di me, due anni è stata laggiù senza di me. Mi manda cartoline con tizi che lottano con gli alligatori e fenicotteri in primo piano. Non mi fa mai domande. Mi sento un idiota per aver scritto quella roba ed entrò nel caffè.
Il posto è vuoto e mi riposo nell’aria condizionata. La sorellina di Tinker Reilly mi versa il caffè. Ha dei bei fianchi. Sono tipo quelli di Ginny e si inclinano sulle gambe con delle piacevoli curve. Fianchi e gambe come quelli salgono le scalette degli aerei. Lei va alla fine del bancone e si fa fuori il resto del suo gelato. Le sorrido, ma è minorenne. Minorenni e serpenti neri sono due cose che non si toccano neanche con un fiore. Una volta ho usato come frusta un vecchio serpente nero, dopo avergli spezzato quella sua testa del cavolo, e papà lo ha usato per suonarmele. Penso a come papà riusciva a farmi proprio arrabbiare qualche volta. Sogghigno.
Penso a ieri sera che Ginny mi ha chiamato. Il suo vecchio l’ha accompagnata dall’aeroporto a Chesterton. Era già annoiata. Possiamo vederci? Certo. Magari andare a prendere una birra? Certo. Il solito vecchio Colly. La solita vecchia Ginny. Non chiudeva mai il becco. Volevo dirle che papà era morto e mamma era sul piede di guerra per vendere la fattoria, ma Ginny non chiudeva mai il becco. Mi ha messo i brividi.

[Traduzione di Ivan Tassi. Potete continuare a leggere la versione originale del racconto on-line su The Atlantic.]

Thurmond ghost railway station [source: Tendency to Wonder].

Guardo lungo la collina. La mia prima volta con Ginny è stata nei boschi di quella collina. Penso a quanto potevamo essere vicini allora e forse anche adesso, non so.

Si appresta a sbarcare sugli scaffali per i tipi di Minimum Fax una nuova edizione di Trilobiti. La notizia è rimbalzata oggi sul blog dell’editore minima & moralia, che presenta anche un intervento della traduttrice Cristiana Mennella (che ha già tradotto in passato Doris Lessing, William T. Vollmann, George Saunders, Philipp Meyer e Jeff VanderMeer) e un assaggio del racconto omonimo che apre l’antologia. Avendo ormai fatto l’orecchio con la precedente traduzione di Ivan Tassi, non saprei dire quanto bisogno ci fosse di reinterpretare la voce di Breece D’J Pancake, che per la verità già recava chiari segni di riscrittura. D’altro canto, se tradurre è sempre un po’ tradire, per i racconti di Pancake vale anche una duplice verità.

pancake-trilobitesLa prima: per quanto diretta e immediata, la sua prosa non è delle più facili da “adattare”, proprio perché frutto di un lavoro certosino di cesellatura e sottrazione, volto ad asportare tutto il superfluo e mappare con una fedeltà impareggiabile la desolazione primordiale dei luoghi e la depressione spietata dell’epoca al centro delle sue storie (Pancake scriveva del mondo in cui viveva, il West Virginia di metà anni ’70, devastato dalla crisi economica e dallo sfruttamento minerario). Per farvene un’idea, potete leggere il racconto Trilobites sulle pagine di The Atlantic.

La seconda: l’efficacia della scrittura di Pancake è legata proprio alla sua capacità di rendere ogni racconto un affresco completo della vita di provincia, come se la storia la stessimo ascoltando, tra un tiro alla sigaretta e l’altro, a notte tarda dalla voce di un amico di vecchia data, mentre andiamo sorseggiando l’ennesimo bicchiere di whisky. Per cui, se ogni lettura fa storia a sé, allora a maggior ragione potrebbero esserci in giro tante traduzioni diverse quante sono le copie in circolazione del libro, e nessuno ci perderebbe davvero. A meno che non abbiate voglia di leggerlo direttamente in originale, allora potrebbe essere come ascoltare la voce struggente di un cantautore morto troppo presto, incisa su un nastro scampato per miracolo alla stretta del tempo.

Butto la testa all’indietro, provo a dimenticare questi campi e le colline attorno. Molto prima di me e di questi arnesi, il Teays scorreva qui. Posso quasi sentire le acque fredde e il solletico che fanno i trilobiti quando strisciano. Tutta l’acqua che veniva dalle vecchie montagne scorreva verso ovest. Ma la terra si è sollevata. Mi restano solo il letto del torrente e gli animali di pietra che colleziono. Sbatto le palpebre e respiro. Mio padre è una nuvola color kaki tra i cespugli di canne e Ginny nient’altro che un odore amaro tra i rovi di more su per il crinale.

Per farla breve, se non lo conoscete non fatevi scappare l’occasione. Come scriveva Percival Everett inpancake_3d una sua postfazione: “nessun lettore può terminare questi racconti senza commuoversi, e nessuno scrittore può uscirne senza restare influenzato“. In giro pare si trovino ancora copie della precedente edizione di ISBN, che per la verità dovrebbe essere la terza (emendata da refusi, con apparati critici diversi di volta in volta), oltre che in digitale anche in cartaceo, e la presenza simultanea di due versioni del libro sembra prolungare gli strascichi del caos che ha accompagnato l’uscita di scena dell’editore milanese, un progetto in cui avevamo creduto in molti, purtroppo miseramente naufragato. La nuova edizione, data in uscita ieri, è già ordinabile.

Passerò la notte a casa. Devo chiudere gli occhi nel Michigan, forse anche in Germania o in Cina, non lo so ancora. Cammino, ma non ho paura. Sento che la mia paura si allontana in cerchi concentrici attraverso il tempo, per un milione di anni.

Per approfondire, vi rimando a questo profilo/recensione pubblicato su Next-Station.org o ai numerosi interventi apparsi sullo Strano Attrattore.

Credits: Tutti gli estratti citati sono dalla traduzione di Ivan Tassi per ISBN Edizioni, 2005.

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Mi chiamo Giovanni De Matteo, per gli amici X. Nel 2004 sono stato tra gli iniziatori del connettivismo. Leggo e guardo quel che posso, e se riesco poi ne scrivo. Mi occupo soprattutto di fantascienza e generi contigui. Mi piace sondare il futuro attraverso le lenti della scienza e della tecnologia.
Il mio ultimo romanzo è Karma City Blues.

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