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Uno spettro si aggira tra le visioni del futuro dell’umanità. A dire la verità, di spettri potremmo contarne diversi, ma se escludiamo le estrapolazioni in cui la civiltà umana si annienta in una catastrofe globale, il più ingombrante rimane senz’altro quello della futura scalata umana alla Nuova Frontiera.

Per noi vecchi arnesi cresciuti a pane e fantascienza, lo spazio è il convitato di pietra di ogni tentativo di proiezione dell’umanità nel futuro. Lo è anche a dispetto dell’evidenza di tutti gli ostacoli disseminati lungo il cammino verso le stelle, perché con ogni probabilità il mistero del cosmo è iscritto talmente a fondo nel nostro inconscio come specie da essere diventato un marchio a fuoco nel codice memetico del nostro immaginario. E lo è al punto da saltare fuori anche nelle visioni del futuro nominalmente concepite in antitesi con le spensierate avventure tecnologiche della prima fantascienza, quella ormai associata con la Golden Age: se da un lato la space opera non ha mai perso davvero vigore, attraversando le decadi sulla spinta di un motore inerziale che da Edmond Hamilton e Isaac Asimov è passato per la penna di Frank Herbert, Larry Niven, John Varley e C.J. Cherryh per arrivare fino a noi con Lois McMaster Bujold, Iain M. Banks, Vernor Vinge, e poi con Peter F. Hamilton, Alastair Reynolds e numerosi altri anche tra i frequentatori occasionali, è un dato di fatto che lo spazio è un ingrediente fondamentale nel world-building dello stesso cyberpunk (pensiamo alla Disneyland orbitale di Freeside o all’epilogo stesso di Neuromante, agli habitat spaziali della Matrice Spezzata o alle colonie extra-mondo di Blade Runner, tanto per citare i tre pilastri su cui l’immaginario del movimento degli Anni Ottanta ha preso forma), come lo erano stati la Luna, Marte e i satelliti dei giganti gassosi per Philip K. Dick e lo specchio delle contraddizioni terrestri allestito da Ursula K. Le Guin sui pianeti del suo Ecumene, o come lo sarebbero poi stati diversi sfondi del sistema solare per Kim Stanley Robinson, gli autori della cosiddetta fantascienza umanistica, Ian McDonald o gli aderenti alla Mundane SF.

Alla luce di questa scorribanda più veloce della luce, potremmo distillare l’essenza della fantascienza in una formula approssimativa, ma che ne riesce comunque a cogliere una delle caratteristiche più distintive emerse in un secolo di invenzioni, declinate sia nella dimensione della creatività più esplosiva che sul piano della critica più speculativa: vale a dire, che per l’umanità non c’è futuro senza spazio.

Da veterani di questo feeling di lunga data, noi appassionati di fantascienza siamo quindi particolarmente sensibili alle imprese spaziali vagheggiate, programmate o millantate dalla genia dei multimiliardari che da alcuni anni a questa parte inseguono il sogno dello sviluppo commerciale dello spazio. Ancor più di Jeff Bezos (di cui proprio durante la pandemia ha finito per insidiare il primato di uomo più ricco del mondo, secondo molti arrivando nel 2022 addirittura a surclassarlo) o di Richard Branson, che può vantare la costruzione del primo aeroporto spaziale, grazie alla sua sovra-esposizione mediatica è ormai Elon Musk a personificare l’imprenditore del futuro, provvisto di una visione e a capo di un impero economico capace di tentare la conquista della frontiera spaziale. Il più grande capolavoro di Musk è stato probabilmente quello di intestarsi un’immagine di outsider, come se un uomo fuori dalle logiche del mercato potesse arrivare ad accumulare la fortuna richiesta per diventare l’uomo più ricco del mondo – oppure, se è per quello, come se un uomo in grado di twittare 5mila volte in un anno potesse anche essere direttamente coinvolto in un’attività vagamente assimilabile al lavoro.

Questo gli ha permesso di far passare sempre sottotraccia le molteplici contraddizioni della visione imprenditoriale di cui si fa portatore: da una parte la proiezione verso un futuro migliore sbandierata a suon di tweet e interviste, dall’altra le conseguenze pratiche sulla vita degli abitanti di Boca Chica comportate dall’attività della sua Starbase in Texas e i dissidi professionali con i suoi collaboratori e dipendenti. Come emerge, nonostante i toni apologetici, dalla sua biografia scritta da Ashley Vance (Elon Musk: Tesla, SpaceX e la sfida per un futuro fantastico) e come riassumeva Nicolò Porceluzzi nel suo profilo redatto per Prismo, i dipendenti di Musk finiscono per essere utilizzati come munizioni, investiti strumentalmente di un ruolo solo nella logica di finalizzare uno scopo, dopodiché consumati e buttati via. Nello stesso articolo gli esempi si sprecano: dalla collaboratrice di lunga data licenziata per aver chiesto un aumento, alle conseguenze altrettanto estreme per i dipendenti che mancano una deadline o commettono un refuso in una e-mail importante.

Dopotutto ogni cosa per Musk sembra ridursi a un mezzo al servizio dei suoi obiettivi: che siano i dipendenti delle sue aziende o gli abitanti di un villaggio di pescatori che per caso si è venuto a trovare troppo vicino alla sua base operativa per i lanci spaziali. Perché dovremmo quindi sorprenderci se Musk ammette candidamente che il sacrificio da pagare per andare su Marte si misurerà in missioni fallite e vite umane perse? Perché dovremmo stupirci se Musk pianifica la conquista di Marte con un meccanismo di servitù debitoria che somiglia a una forma di schiavitù a esclusivo beneficio dei suoi sogni di colonizzazione spaziale?

Marte visto da Franco Brambilla, storico copertinista di Urania, per la nuova edizione de Le sabbie di Marte di Arthur C. Clarke.

Ma se la sorpresa non è giustificata, la generale mancanza di reazione da parte dell’opinione pubblica, di coloro che si fanno passare per intellettuali o – entriamo in modalità utopia estrema? – della politica, desta più di qualche perplessità. Le rare volte in cui Musk ha finito per sfiorare il discorso, come quando il governatore repubblicano Greg Abbot ha dichiarato la vicinanza (se non proprio l’appoggio) del suo nuovo partner in affari alle politiche sociali del Texas, nella scia delle polemiche seguite alle nuove restrizioni sull’aborto introdotte dallo stato nel settembre del 2021, per smarcarsi Musk non ha saputo fare di meglio che prodursi in una dichiarazione pilatesca (quella volta fu questa: “In general, I believe government should rarely impose its will upon the people, and, when doing so, should aspire to maximize their cumulative happiness. That said, I would prefer to stay out of politics“).

Allo stesso modo in cui siamo disposti a ignorare che la lotta al cambiamento climatico per le aziende di Musk è fondamentalmente un business, sembriamo capaci di passare su tutte le altre contraddizioni del personaggio. La vaghezza degli annunci, la cronica mancanza di dettagli a fronte di progetti talmente ambiziosi da richiedere una cura diabolica, per la prima volta sta però cominciando a far breccia in questa sorta di muro di omertà in cui si è trasformato il credito di fiducia incondizionata che siamo stati disposti a riconoscergli per tutto questo tempo: è notizia proprio degli ultimi giorni che il ritardo nei piani di lancio di Starship ha iniziato a produrre qualche perplessità tra i commentatori che s’interessano delle iniziative eloniane.

Sempre in veste di appassionati di fantascienza, avremmo dovuto forse accorgerci prima degli altri che Elon Musk era piuttosto distante dall’ingenuo prototipo del visionario capitalista spaziale celebrato, con il suo tipico slancio ottimistico, da Robert A. Heinlein, a partire dal D. D. Harriman protagonista di Requiem e L’uomo che vendette la Luna, pietre miliari degli Anni Quaranta. Nonostante Musk si sia dichiarato un fan di Iain M. Banks, nonostante tutto il citazionismo di facciata utile a costruirsi un alone da geek funzionale alla sua causa (peraltro, quale scelta migliore di David Bowie o della Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams per triggerare gli entusiasmi dei fan?), i bug che possiamo individuare nel suo programma per rendere la specie umana una civiltà multiplanetaria, come lui stesso ama chiamarla, dovrebbero già adesso insospettirci sui possibili esiti finali. Dal realismo capitalista di Mark Fisher, con Musk facciamo già due o tre passi avanti nel futuro e ci troviamo sbalzati nell’orizzonte di un transrealismo iperliberista: se non c’è alternativa ora al neoliberismo, come potremo rinunciare ai suoi protocolli operativi per piegare il futuro alla volontà della ragione? Tra le crepe che percorrono la superficie di questo sogno si affaccia un futuro che non può essere per tutti. Insomma, suo lo spazio, suo il futuro.

A meno che, e questo diventerà evidente sicuramente prima della fine del decennio, Elon Musk non si dimostri semplicemente un innocuo ciarlatano.

In ogni caso, parafrasando la sua ex-moglie, questo non è il mondo di Elon e noi non siamo lo Starman che lui ha piazzato alla guida di una Tesla Roadster prima di lanciarla nello spazio. Non dobbiamo viverci dentro per forza, se non lo vogliamo. Smettere subito con l’adorazione acritica della sua immagine sarebbe già un inizio, verso un diverso futuro ancora da esplorare.

Nel post della scorsa settimana, proponevo en passant un quadrato semiotico costruito a partire dal concetto di utopia, su cui probabilmente vale la pena soffermarsi, anche perché faceva la sua comparsa un quarto vertice che forse avrà suscitato qualche curiosità (se non qualche perplessità) nei lettori.

La Città Ideale del Rinascimento, dipinto anonimo, probabile omaggio a Leon Battista Alberti, databile tra il 1470 e il 1490, conservato presso la Galleria Nazionale delle Marche di Urbino.

Innanzitutto, un passo alla volta.

1. Utopie: il punto zero da cui tutto ha inizio

L’utopia, come bene o male sappiamo tutti, sta a indicare una situazione, un assetto politico o sociale o economico, un modello, che rappresenta un ideale con cui confrontare il nostro mondo. Dalla Repubblica di Platone (390-360 a.C), che tocca vari temi del pensiero cari al filosofo greco, all’Utopia di Thomas More (1516), a cui si deve l’ideazione di questo neologismo di enorme successo, e alle sue numerose varianti rinascimentali, fino a La città del Sole di Tommaso Campanella (1623), ben prima che la fantascienza acquisisse la sua forma codificata come genere (o meta-genere) l’utopia è stato un terreno fertile per le costruzioni ideali di filosofi e pensatori.

Fin dalla sua formulazione originaria da parte di More, l’utopia è intrinsecamente ambigua: è allo stesso tempo un posto migliore, in cui si riflettono i valori di progresso e pacifismo del suo autore, una società ideale dominata dalla cultura, e un luogo che non esiste. Il gioco di parole è abbastanza trasparente in inglese grazie alla loro omofonia: Utopia può essere intesa come la latinizzazione sia di Εὐτοπεία, composta anteponendo il prefisso greco ευ– (bene) alla parola τóπος (tópos), che significa luogo, e completando la creazione con il suffisso -εία, così alludendo a un ottimo luogo; sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ (non), in linea con la topologia scelta da More per la sua isola immaginaria (dalla capitale Amauroto, che significa letteralmente «città nascosta», al fiume Anidro, che significa «senza acqua»), suggerendo che il significato di utopia equivalga a non-luogo, un luogo inesistente, semplicemente immaginato, frutto della fantasia dell’autore.

Di ideazioni utopiche se ne possono annoverare svariate. La più popolare e grandiosa resta probabilmente l’universo della Federazione dei Pianeti Uniti che fa da sfondo a Star Trek, creato nel 1966 e da allora rivisitato in otto serie televisive e tredici pellicole cinematografiche che hanno acceso la fantasia di intere generazioni di spettatori. Nel mondo immaginato da Gene Roddenberry la civiltà umana si è diffusa tra le stelle, venendo in contatto con altre specie senzienti e dando vita a una società utopica che ha superato la scarsità delle risorse, e ha sviluppato una consapevolezza e un sistema di valori che antepongono la diplomazia e la convivenza pacifica tra le diverse civiltà al conflitto armato per risolvere le dispute tra i vari attori della scena galattica.

Le utopie fantascientifiche spaziano dal ciclo hainita (1966-2000) di Ursula K. Le Guin (di cui occorre citare anche almeno il romanzo Sempre la valle, del 1985), in cui a fare da sfondo alle storie (molte delle quali pietre miliari del genere: menzioniamo qui solo La mano sinistra delle tenebre, I reietti dell’altro pianeta e Il mondo della foresta, ma il ciclo conta sette romanzi e una ventina di racconti) è dapprima una Lega di Tutti i Mondi, che successivamente incorre in una progressiva disgregazione, per essere poi ricostituita negli ultimi romanzi (secondo la cronologia interna) in forma di Ecumene, ciò che rimane di un’ondata di civilizzazione galattica antica di migliaia di secoli, partita dal pianeta Hain; alla saga Canopus in Argos (1979-1983) della scrittrice britannica premio Nobel Doris Lessing, con le sue società aliene che intrecciano mire e rapporti su pianeti meno evoluti, determinandone il progresso e la stabilità anche a costo di duri sacrifici; fino ad arrivare all’universo della Cultura (1987-2012) di Iain M. Banks, che riprende molte caratteristiche degli universi letterari delle due autrici prima menzionate, e intesse un mirabolante affresco di una civiltà post-umana, retta da avanzatissime intelligenze artificiali, in grado di costruire e gestire habitat artificiali di dimensioni planetarie, spesso visto attraverso lo sguardo di protagonisti appartenenti al corpo diplomatico di questa società multietnica, alle prese con civiltà meno avanzate o altrettanto progredite ma ostili all’integrazione con i suoi valori.

Ma la lista sarebbe lunga e non potrebbe prescindere dai lavori, tra gli altri, di Joanna Russ (The Female Man, che unisce spunti utopici e distopici, e il racconto Quando cambiò), Bruce Sterling (il ciclo della Matrice Spezzata e diversi dei racconti riuniti nella raccolta Un futuro all’antica), Kim Stanley Robinson (da Pacific Edge a 2312, entrambi ancora non pervenuti sul mercato editoriale italiano, fino alla Trilogia Marziana e New York 2140), James Patrick Kelly (L’utopia di Walden), Neal Stephenson (Anathem). Ma ritroviamo elementi utopici anche nell’opera di autori che saremmo forse più propensi ad associare a narrazioni anti-utopiche, come William S. Burroughs, che nella singolare novella La febbre del ragno rosso riprende la leggenda del capitano Mission, che a cavallo tra Sei e Settecento si sarebbe messo a capo di Libertatia, una colonia anarchica fondata da un gruppo di pirati in una baia del Madagascar.

Cimitero dei pirati a Île Ste-Marie, Madagascar. Credit: JialiangGao, via Atlas Obscura.

2. Utopia e fantascienza

Come abbiamo visto per le distopie e più in generale per la fantascienza, nel caso dell’utopia è forse altrettanto appropriato parlare di meta-genere.

I lavori citati nel capitolo precedente sono, in maniera abbastanza trasparente, opere di fantascienza che evolvono da una premessa utopica: diffondere una civiltà pacifica tra le stelle, realizzare una società ideale su un altro pianeta, risolvere i problemi legati alla scarsità delle risorse che affliggono una civiltà planetaria, guidare il progresso di società meno avanzate con ricadute benefiche per la loro popolazione.

Ma in fondo, come ci ricorda Alastair Reynolds, non dobbiamo dimenticare che le speculazioni fantascientifiche hanno sempre in qualche modo a che fare con l’utopia. Al di là di tutte le sue contraddizioni, delle sue criticità, dei conflitti che i suoi abitanti si trovano a dover affrontare, già solo «pensare a una civiltà umana interstellare è quanto di più vicino ci sia a una celebrazione dell’utopia: se già solo l’impresa di inviare una missione umana tra le stelle presuppone l’allineamento di una serie così difficile di condizioni da sconfinare nell’idealismo, figuriamoci la costruzione e il sostentamento di una società diffusa tra le stelle».

E d’altro canto l’utopia è un campo che la fantascienza condivide con il mainstream. Riprendendo ancora una volta le parole di Antonino Fazio dal suo articolo La letteratura di genere nell’epoca della sua riproducibilità parziale (Anarres n. 2):

[…] fantascienza e mainstream non condividono solo le correnti “storiche” della letteratura, bensì (prescindendo dalle contaminazioni) anche generi come l’epica, la commedia, la parodia, l’utopia, la satira. Questa circostanza ci indica con chiarezza che la fantascienza non è un semplice genere della narrativa popolare, bensì una forma di letteratura diversa dal mainstream, ma certo non meno “rispettabile” (cfr. Proietti, cit.), la quale va indagata anche con strumenti concettuali non tradizionali […]

Mappa dell’isola di Utopia immaginata da Thomas More.

Quindi, in questo senso, assume ancora più valore l’affermazione che la distopia può essere intesa come «parte integrante dell’utopia»: sul piano logico la distopia è qualcosa che scaturisce dall’utopia e allo stesso tempo la supera, va oltre, e questo suo andare oltre le permette di estendere i propri bordi oltre i già labili confini del genere. Cercherò di rendere più chiaro questo punto nel seguito.

3. Superare l’Utopia: distopie e ucronie

Le distopie e le ucronie, che probabilmente nella percezione comune rappresentano la maggior parte della produzione fantascientifica contemporanea, sono le due direttrici verso cui si è mosso l’immaginario SF per superare lo schema delle opere utopiche: in misura diversa, quasi inevitabilmente la distopia (pena l’attenuazione della sua efficacia), non necessariamente l’ucronia, inglobano entrambe un punto di vista politico, sul presente, sull’umanità, sul mondo, ma mentre le distopie non possono quasi farne a meno (per questo si legge spesso che ogni distopia è anche un cautionary tale, ovvero una storia di ammonimento che mette in guardia il lettore da certe tendenze implicite nel presente), le ucronie si concedono molto più di frequente il lusso di un intrattenimento senza troppe complicazioni.

Credit: Orwell 1984.

Sulle distopie ci siamo già soffermati. Elemento imprescindibile per una distopia è l’evoluzione di un elemento del presente o del passato verso uno scenario poco o per niente auspicabile tra i diversi possibili al momento t0: un’invenzione, una scoperta, un certo atteggiamento, una determinata situazione. Se l’istante t0 combacia con il presente dello scrittore, siamo nel campo della distopia “propriamente” detta. Di esempi ne abbiamo visti in abbondanza.

L’ucronia è invece il racconto di una storia alternativa, di un mondo parallelo scaturito da una divergenza della storia per effetto di un diverso esito di un evento a noi noto: il t0 è in questo caso il cosiddetto punto di divergenza (o POD, dall’inglese point of divergence) e si situa nel passato, venendo a combaciare con uno snodo più o meno cruciale che si conclude diversamente da quanto abbiamo appreso sui libri di storia; il racconto può poi avere luogo anch’esso, a sua volta, in un’epoca storica passata sovrapponendosi a un certo periodo e giocando con i rimandi tra storia reale e flusso alternativo, nel presente innescando così lo stesso effetto straniante con le possibili affinità e divergenze rispetto alla cronaca, o nel futuro.

La seconda guerra mondiale vinta dalle forze dell’Asse fa da sfondo a una fetta consistente della produzione ucronica: citavamo La svastica sul sole di Philip K. Dick (1961) e Fatherland di Robert Harris (1992), ma possiamo aggiungere Il richiamo del corno di Sarban (1952) e SS-GB. I nazisti occupano Londra di Len Deighton (1978), e con le dovute differenze il premonitore La notte della svastica di Katharine Burdekin (pubblicato nel 1937), Il signore della svastica di Norman Spinrad (1972) e Il complotto contro l’America di Philip Roth (2004). Ma non mancano eventi meno esplorati ma comunque altrettanto – se non addirittura più – ricchi di implicazioni: in Anniversario fatale di Ward Moore (1953), gli stati confederati vincono la guerra di secessione americana; in Pavana di Keith Roberts (1968) la riforma protestante viene stroncata sul nascere; nel fumetto capolavoro di Alan Moore Watchmen (1986-87), gli Stati Uniti vincono in Vietnam; nel Sindacato dei poliziotti yiddish di Michael Chabon (2007) il presidente Roosevelt costituisce un secondo distretto federale tra le isole dell’Alaska e lo offre agli ebrei scampati alla prematura distruzione di Israele nel 1948.

Credit: The Man in the High Castle, Amazon Prime.

L’ucronia politica non è rara, come vediamo, ma finisce quasi sempre per essere distopica (l’eccezione alla regola? Gli anni del riso e del sale, ancora una volta di Kim Stanley Robinson).

4. Il triangolo quadrilatero

L’ucronia applica al tempo le caratteristiche spaziali dell’utopia: se quest’ultima descrive un luogo che non esiste, l’ucronia racconta un tempo che non è stato.

La distopia ribalta invece le premesse idealiste dell’utopia e mette in atto un sovvertimento dei suoi principi fondativi: abbiamo così non più un luogo in cui vorremmo vivere, ma un mondo da cui vorremmo fuggire a gambe levate.

Entrambe realizzano quindi, ciascuna a modo suo, una negazione o un annullamento delle premesse dell’utopia, completando un’ideale triangolazione.

Questa tripartizione, tuttavia, mi è sempre sembrata incompleta, perché non va a esaurire tutto lo spettro delle possibili scelte narrative. E inoltre, per esigenze di simmetria, ho avuto sempre la sensazione che mancasse un quarto vertice. Come se il triangolo fosse solo la parte visibile di una figura più completa, ma non accessibile nella sua interezza.

5. Discronia: il vertice fantasma

Poi, nel 2010-11, Luigi Acerbi e Daniele Bonfanti hanno messo in cantiere con Sandro Battisti un progetto che purtroppo non è mai arrivato a vedere la luce, avendo nel frattempo chiuso i battenti la casa editrice che avrebbe dovuto ospitarlo (Edizioni XII). Nel manifesto di questo progetto, si leggeva:

Si è forgiato il termine “Discronia” derivandolo come quarto vertice di un ideale quadrato, dove si collochino utopia e distopia da un lato, e ucronia dall’altro. Ma il genere che si vuole andare a caratterizzare ha peculiarità proprie che esulano da questa semplice schematizzazione.
“Discronia” vuole definire una forma di ucronia distorta e nera, con un nucleo di hard science fiction dove il focus sia sull’aspetto scientifico nel senso più ampio del termine: ogni forma di sapere può divenire scienza – se non qui, in linee di universo governate da altre leggi. Questo aspetto scientifico – quale che sia la disciplina di riferimento – deve essere nucleo determinante e centrale ai fini del racconto, strettamente legato e non accessorio alla cronologia alternativa che si descrive.

Niente male, no? Un concetto che non avrebbe meritato di cadere nel dimenticatoio, eppure è rimasto nel cassetto per quasi dieci anni. Grazie al loro contributo, le cose hanno cominciato a prendere un nome e le forme della figura sommersa si sono fatte meno sfocate.

Prendendo spunto da questa intuizione e sviluppando un percorso autonomo a mo’ di esercizio, possiamo adesso provare a formulare una teoria universale dell’utopia e delle sue contraddizioni.

Anarres, il pianeta immaginato da Ursula K. Le Guin nel suo romanzo I reietti dell’altro pianeta.

6. Il quadrato semiotico

Il quadrato semiotico è uno strumento messo a punto dal linguista e studioso di semiotica franco-lituano Algirdas J. Greimas come metodo di analisi strutturale delle relazioni semiotiche tra concetti opposti. Deriva direttamente dal quadrato delle opposizioni che nella logica aristotelica è usato per rappresentare i diversi modi in cui ciascuna proposizione di un sistema è correlata alle altre. Vale la pena fare un excursus riferendoci per praticità di consultazione alla relativa pagina Wikipedia.

Nel suo trattato Περί ἑρμηνείας (latinizzato in De Interpretatione), Aristotele muove dai seguenti quattro tipi di proposizione della logica classica per descriverne le relazioni logiche che si instaurano tra di esse:

  • A – Universale affermativa (universalis affirmativa): che in latino assume la forma «omne S est P», ovvero «tutti gli S sono P»; per esempio: «tutti gli uomini sono bianchi»;
  • E – Universale negativa (universalis negativa): che in latino assume la forma «nullum S est P», ovvero «nessun S è P»; per esempio: «nessun uomo è bianco»;
  • I – Particolare affermativa (particularis affirmativa): che in latino assume la forma «quoddam S est P», ovvero «alcuni S sono P»; per esempio: «alcuni uomini sono bianchi»;
  • O – Particolare negativa (particularis negativa): che in latino assume la forma «quoddam S non est P», ovvero «alcuni S non sono P»; per esempio: «alcuni uomini non sono bianchi».

A ogni affermazione corrisponde una negazione: un’affermazione e la sua negazione sono opposti, nel senso che devono essere alternativamente sempre una vera e l’altra falsa, ma non possono essere allo stesso tempo entrambe vere o entrambe false. Questa relazione di opposizione viene chiamata da Aristotele contraddizione (contradictio, in latino medievale): lo è per esempio la relazione che unisce le affermazioni A-O, oppure E-I. Per contraddire la proposizione «tutti gli uomini sono bianchi» è sufficiente che sia vera la proposizione «alcuni uomini non sono bianchi»; e, analogamente, la negazione di «nessun uomo è bianco» si ha se si prova vera la proposizione «alcuni uomini sono bianchi».

La coppia A-E rappresenta invece un diverso tipo di relazione: le due proposizioni sono tra di loro contrarie (contrariae, in latino medievale), non possono essere entrambe vere, ma allo stesso tempo possono essere entrambe false. A titolo di esempio, come è falso che «tutti gli uomini sono bianchi» perché «alcuni uomini non sono bianchi», allo stesso modo è falso che «nessun uomo è bianco» dal momento che «alcuni uomini sono bianchi».

La coppia I-O introduce invece un ulteriore ordine di possibilità: le due proposizioni, infatti, possono essere entrambe vere. Da Wikipedia: “Dal momento che per ogni proposizione dichiarativa esiste una proposizione opposta (ossia contraddittoria) e dato che una contraddittoria è vera quando il suo opposto è falso, ne consegue che gli opposti di contrari (che i medievali chiamano subcontrari, subcontrariae) possono essere entrambi veri ma non possono essere entrambi falsi. Poiché i subcontrari sono negazioni di dichiarazioni universali, sono stati chiamati dichiarazioni particolari dai logici medievali”.

Illustrazione del XV secolo del quadrato delle opposizioni di Aristotele.

Un’altra opposizione logica, non indicata da Aristotele ma che ci tornerà utile nel prosieguo, è l’alternanza (alternatio), che indica la relazione tra una proposizione particolare e la corrispondente universale tale che la proposizione particolare è implicata dall’universale (e implicita in essa). Il particolare è il subalterno dell’universale, l’universale si dice superalterno del particolare. Per esempio, se la proposizione A «ogni uomo è bianco» è vera, il suo contrario E «nessun uomo è bianco» deve essere falsa. Pertanto la contraddittoria di quest’ultima I «alcuni uomini sono bianchi» risulta vera. E quindi A implica I. Allo stesso modo l’universale E «nessun uomo è bianco» implica la particolare O «alcuni uomini non sono bianchi».

Greimas fa derivare da questo schema il suo strumento di analisi: il quadrato semiotico.

In questo schema:

  • S1 e S2 sono contrari;
  • S1 e ∼S1, S2 e ∼S2 sono contraddittori;
  • ∼S1 e ∼S2 sono subcontrari;
  • S1 e ∼S2, S2 e ∼S1 sono complementari (S1 implica ∼S2; S2 implica ∼S1).

7. Il quadrato semiotico U-D-U*-D*: Utopia, Distopia, Ucronia, Discronia

Proviamo ora a completare il nostro esercizio disponendo ai vertici del quadrato semiotico di Greimas l’utopia e le sue derivazioni, ricalcando gli stessi passaggi di questo esempio, e cerchiamo di scaturirne le caratteristiche del «vertice fantasma» in virtù delle relazioni logiche aristotelico-scolastiche.

  • L’utopia viene a essere il sema positivo, la distopia il suo contraddittorio, e fin qui è intuitivo.
  • L’ucronia è opposta all’utopia: da questa relazione di opposizione nasce però anche un concetto composto; come un ermafrodita può unire caratteristiche maschili e femminili, così possiamo avere narrazioni che sono allo stesso tempo utopiche e ucroniche (sono una rarità, ma una, in senso lato, è la già citata Cultura di Banks, una civiltà interplanetaria composita che si sovrappone per un arco di diversi secoli di storia all’evoluzione della civiltà terrestre).
  • Il contraddittorio del vertice occupato dall’ucronia, come già abbiamo visto, spetta alla discronia, e in seguito proveremo anche a partire da qui a formularla in maniera un po’ più circostanziata.
  • Insieme all’asse degli opposti U-U* (Utopia-Ucronia) si forma un nuovo asse che raccorda i particolari D-D* (Distopia-Discronia): elementi distopici e discronici devono poter coesistere, così come coesistono uomini che sono bianchi e uomini che non sono bianchi.
  • La distopia è subalterna all’ucronia, analogamente la discronia è subalterna all’utopia: se l’ucronia implica la distopia, in maniera particolare con le storie di universi paralleli peggiori del nostro mondo (parafrasando Dick), l’utopia implica la discronia.

Per dirla con Fredric Jameson (dalla prefazione all’edizione americana degli scritti di Greimas On Meaning: Selected Writings), il vertice ∼S2 è considerato “sempre la posizione più critica e quella che rimane più a lungo in sospeso, dal momento che la sua identificazione completa il processo e in questo senso rappresenta l’atto più creativo della costruzione”.

Nella nostra costruzione, il vertice ∼S2 spetta alla Discronia.

8. Discronia: un tentativo di definizione

Proviamo a questo punto a derivare le caratteristiche della discronia dallo schema tracciato poco sopra. Se una storia distopica combina caratteristiche utopiche e ucroniche e offre una falsificazione dell’utopia, una storia discronica contiene aspetti che non sono né utopici né ucronici. Inoltre una discronia deve:

  1. contraddire le premesse dell’ucronia allo stesso modo in cui una distopia falsifica i presupposti dell’utopia;
  2. essere contigua alla distopia senza essere distopica;
  3. essere subalterna all’utopia allo stesso modo in cui la distopia è subalterna all’ucronia.

Date queste premesse, è abbastanza chiara la natura sfuggente, camaleontica della discronia. Possiamo provare a seguire il solco tracciato da Acerbi, Bonfanti e Battisti, concettualizzando un’ucronia innescata non da un POD storico, bensì da una scoperta scientifica o da un’invenzione tecnologica, ma – diversamente da quanto da loro teorizzato – in grado di produrre una ricaduta benefica. Per avere in mente qualche esempio su cui ragionare, lo steampunk e le sue molteplici variazioni sul tema (il dieselpunk, il clockpunk, il decopunk, l’atompunk…) e La macchina della realtà di William Gibson e Bruce Sterling potrebbero costituire delle credibili proposte in tal senso.

Sottoponiamole alla prova dei fatti: parliamo di storie che trattano di luoghi ed epoche storiche facilmente riconoscibili (la Londra vittoriana lo steampunk, la New York tra le due guerre il decopunk, l’Europa rinascimentale il clockpunk…) e quindi sono estranee sia all’utopia che all’ucronia; rappresentano situazioni in cui sono generalmente in atto cospirazioni che porterebbero a esiti distopici, sventate dai protagonisti delle storie; rappresentano un mondo che beneficia delle ricadute di un progresso accelerato (e in questo possono essere considerate subalterne alle premesse dell’utopia); e infine mostrano uno scenario alternativo in cui le cose avrebbero potuto volgere al meglio, conducendo a uno status quo senz’altro auspicabile rispetto alla situazione reale dell’epoca storica descritta.

Se vogliamo ridurci a uno schema drammatico, a una formula narrativa tra le tante possibili, la quintessenza della storia discronica potrebbe essere una storia di spionaggio in cui i protagonisti si oppongono a qualche oscura minaccia volta a sovvertire una società più giusta ed equa della nostra, che ha beneficiato delle ricadute sociali di un progresso tecnologico accelerato, convertendo le sue premesse utopiche in uno scenario in qualche modo distopico. Oppure una storia in cui forze incomprensibili hanno fatto irruzione nella realtà portando a una completa riscrittura dei codici sociali e delle gerarchie di potere (argomento comune a tanto New Weird).

Ai titoli sopra citati si potrebbero quindi aggiungere i fumetti incentrati sulla figura di Lobster Johnson (uno spinoff di Hellboy) di Mike Mignola, e più in generale diverse riprese dei supereroi in chiave pulp (i romanzi di Adam Christopher, per esempio), l’inserzione di elementi fantasy in scenari genericamente descrivibili come ucronici (la serie Obsidian and Blood di Aliette de Bodard), l’irruzione del soprannaturale in contesti realistici tipica dell’urban fantasy (a partire da Nostra Signora delle Tenebre di Fritz Leiber) e le premesse alla base del New Weird rappresentano altri validi candidati da prendere in considerazione per essere classificati sotto questa etichetta.

Due titoli freschi di stampa che mi sento di ricondurre a questa medesima sensibilità li trovate entrambi in Cronache dell’Armageddon: sono i racconti Solar Bang di Lukha B. Kremo e il mio Cloudbuster, che avevo scritto proprio per il citato progetto di Edizioni XII e che poi avevo pubblicato sul numero 73 di Robot.

9. Conclusioni

Non è affatto detto che sia il concetto che avevano in mente i suoi ideatori, non ho problemi ad ammetterlo. Ma è un tentativo di formulazione che mi auguro possa gettare le basi per una discussione, stimolando delle riflessioni sulla teoria della fantascienza che possano essere di aiuto soprattutto ai critici e ai lettori per orientarsi in maniera efficace tra i suoi sconfinati orizzonti.

Infine, è fuori di ogni dubbio che una sistematizzazione completa non possa trascurare tutto il discorso sulle eterotopie che abbiamo già affrontato in passato, ma includerle in questa riflessione ci avrebbe probabilmente allontanati dal nucleo della disamina che mi proponevo di illustrare. Non escludo comunque di sviluppare ulteriormente in futuro la proposta qui presentata, che a quel punto non potrà probabilmente prescindere da un’evoluzione del quadrato semiotico in un esagono logico.

Ulteriori suggerimenti e spunti di riflessione sono quindi, a maggior ragione, benvenuti.

Questo è il momento in cui Bruce Sterling, nel bel mezzo della sua conferenza all’ultima edizione del SXSW (South by Southwest Festival), l’annuale ciclo di conferenze, mostre e concerti che ha avuto luogo ad Austin (Texas) dall’8 al 17 marzo, in una parabola celeste che da Villa Abegg si spinge fino a Elon Musk alla ricerca delle attitudini più cyberpunk in circolazione, si sofferma sulla fantascienza italiana e su questo movimento che ha cercato di raccogliere l’eredità del suo manifesto della fantascienza degli anni ’80, continuando a dar voce, anche grazie al suo contributo, a una sensibilità che è tutt’altro che morta: una corrente di autori che si fanno chiamare connettivisti. Ed è anche il momento in cui il nostro ego rischia di esplodere.

Grazie a Bruce per le sue parole e a Sandro Battisti per la segnalazione.

Milan M. Cirkovic è un ricercatore serbo dell’Osservatorio Astronomico di Belgrado che da tempo si occupa di astrobiologia e SETI. In un famoso articolo del 2008, pubblicato sul Journal of the British Interplanetary Society, si sofferma sulle possibili evoluzioni delle società post-biologiche, sia postumane che extraterrestri. L’articolo può essere consultato su Arxiv.org e si intitola, in maniera molto evocativa per chi ha confidenza con un certo immaginario fantascientifico, Against the Empire.

In quello studio Cirkovic considerava due possibili modelli di società post-biologiche, applicabili a società sia postumane che extraterrestri: l’impero e la città-stato. Il primo si basa sulla spinta all’espansione e alla colonizzazione, il secondo sul contenimento delle dimensioni mirato all’ottimizzazione delle risorse. L’autore pone l’accento sul fatto che quasi sempre si analizzano i possibili comportamenti delle società post-biologiche senza tener conto del fatto che in tali società gli imperativi derivanti dalla biologia perderanno la loro importanza. Muovendo da questa considerazione arriva alla conclusione che il modello della città-stato ha ottime probabilità di successo in una società post-biologica, mentre il modello dell’impero non sarebbe così diffuso come siamo spinti a credere per effetto dei bias alimentati dalle nostre letture e visioni fantascientifiche, specialmente quelle più popolari, divenute quasi mainstream (pensiamo a Star Trek o Star Wars, che malgrado la varietà di specie portate in scena rappresentano modelli piuttosto omogenei).

Da tempo sono spinto dalle mie letture e scritture a riflettere sulle possibili caratteristiche delle società postumane. E ormai da diversi anni la fantascienza va elaborando scenari sempre più contaminati, eterogenei, meticci. Tanto che, sicuramente condizionato da queste rappresentazioni (penso a Kim Stanley Robinson, ad Alastair Reynolds, a M. John Harrison, ad Aliette de Bodard), ormai faccio fatica a concepire una società dalla costituzione monolitica e omogenea e anzi, devo ammettere, gran parte del piacere del world-building nasce dalla complessità degli scenari che si vanno elaborando.

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Proviamo a vedere da quali considerazioni scaturiscono queste ipotesi?

1. Diversificazione e postumanesimo. In prima battuta dovrebbe risultare sempre meno plausibile, o quanto meno “bizzarro”, che nel vasto ventaglio delle soluzioni possibili possa prevalere un’unica tecnologia postumanizzante, a meno che questa tecnologia non sia un particolare tipo di intelligenza artificiale, nel qual caso ricadremmo nella fattispecie di problemi che abbiamo già esaminato un po’ di tempo fa e che smorzerebbe sul nascere ogni ulteriore discussione sul merito della faccenda. Quindi ipotizziamo che l’intelligenza artificiale si sviluppi in parallelo con altre tecnologie emergenti (nano- e bio-, genetica, cognitive augmentation, etc.) portando a un’esplosione di intelligenza, spingendo la curva del progresso oltre l’orizzonte percepibile della Singolarità Tecnologica, e innescando tutta quella catena di eventi che su periodi sempre più brevi renderanno sempre più complessa la società in cui viviamo, innescando il meccanismo a orologeria delle contraddizioni irrisolte che si annidano in essa, e rendendo ogni possibile scelta una questione di sopravvivenza. La diversificazione sarebbe funzionale alla resilienza (concetto ultimamente abusato e sempre più diffuso a sproposito), ma non trascuriamo neanche – per dirla con Nassim Nicholas Taleb – i vantaggi dell’antifragilità in contesti dalla spiccata incertezza.

Potrebbe infatti anche essere semplicemente una questione di filosofia: in altre parole, l’umanità potrebbe non essere così compatta da mettere a punto un piano di soluzioni condivise per affrontare i rischi esistenziali che si porranno. Eventi più o meno catastrofici potrebbero mettere l’umanità davanti a bivi più o meno drammatici, fungendo anche da banco di prova per le soluzioni escogitate. E una strategia quanto più diversificata potrebbe essere una risposta possibile (oltre che alquanto probabile) da parte del genere umano in una situazione di forte pericolo. E siccome non è detto che ogni problema abbia un’unica soluzione, eccoci mentre ci addentriamo nel giardino dei sentieri che si biforcano. Un luogo molto particolare, nel quale ad ogni passo corrispondono ore del tempo a cui siamo abituati. E poi giorni. E poi anni…

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2. Diaspora e disgregazione. In seconda battuta, su un periodo sufficientemente lungo (diciamo una prospettiva di qualche decennio, ma volendo stiamo pure larghi e diamoci l’orizzonte temporale del secolo in corso), non riesco a disaccoppiare l’evoluzione postumana dalla colonizzazione spaziale. I due concetti mi sembrano diventare sempre più inestricabilmente correlati man mano che ci addentriamo nell’uno o nell’altro. La Nuova Frontiera Spaziale potrebbe rappresentare quel punto di svolta capace di promuovere la diffusione di numerose tecnologie emergenti. Ho studiato anch’io Kim Stanley Robinson, negli ultimi anni me ne sono occupato diffusamente e ovviamente ho bene in mente questo suo articolo fondamentale, tuttavia non riesco a non pensare a un futuro a medio-lungo termine in cui l’umanità resta confinata sulla Terra.

Non prevedo lo sviluppo di una civiltà interstellare, ma trovo istintivamente poco credibile uno scenario in cui da qui alla fine del XXI secolo non ci siano delle colonie umane nello spazio: habitat artificiali nella cintura asteroidale, o sulla Luna e su Marte, magari anche solo come forma di presidio scientifico se non proprio di sfruttamento minerario, renderanno la frontiera spaziale un po’ quello che nel XX secolo è stato l’Antartide. Sicuramente poco per parlare di una vera e propria civiltà interplanetaria, ma a mio parere un’esperienza fondamentale per dotarsi di quelle conoscenze necessarie a elaborare sistemi di supporto vitale in grado di assicurare agli habitat artificiali un’autonomia dal pianeta madre. Qui mi rendo conto di calpestare un terreno piuttosto scivoloso, però nel 1919 conoscevamo già tutto quello che nella seconda metà del secolo scorso avrebbe reso possibile lo sviluppo di internet, dai laboratori della DARPA alle nostre case (e ancora una manciata di anni dopo alle nostre tasche): il limite era di natura tecnica, non scientifica. Quindi non trovo così astruso pensare a ecosistemi chiusi sempre più efficienti per sostenere piccole comunità di coloni spaziali.

Volendo spingerci più avanti di qualche secolo, senza timore di sconfinare nel dominio delle fantasticherie, la diaspora umana su altri pianeti esterni al sistema solare non farebbe altro che indebolire i reciproci legami e influssi tra le varie comunità. Le distanze in gioco sarebbero tali da comportare una drastica riduzione della banda di comunicazione e un lag culturale di una certa rilevanza. Anche limitandoci a considerare solo i sistemi stellari più vicini (una cinquantina nel raggio di 5 parsec, ovvero 16 anni-luce), senza un qualche tipo di collegamento più veloce della luce (FTL) ci troveremmo di fronte a separazioni dell’ordine di decine di anni di attraversamento (ricordate Interstellar? Allo stato attuale: “La stella più vicina è lontana migliaia di anni…“). La Nuova Frontiera risulterebbe così estremamente incentivante sul fronte della “postumanizzazione” come anche della disgregazione della matrice dell’umanità. A questo proposito sono esemplari i lavori di Samuel R. Delany (che in Babel 17 mette in scena una frammentazione di tipo linguistico e culturale), di Bruce Sterling (che nel sontuoso universo della Matrice Spezzata parte dalla frattura dell’umanità in Mechanist e Shaper per progredire nella disintegrazione tra cladi e fazioni fino a livelli parossistici) e di Alastair Reynolds (che allestisce uno scenario intrigante e piuttosto problematico, con numerose fazioni politiche a contendersi lo scacchiere interstellare del Revelation Space).

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A meno di qualche scoperta o invenzione che ci permetta di infrangere la barriera della luce e contrarre così le distanze tra i diversi avamposti della postumanità, la colonizzazione interstellare condurrà a una crescente frammentazione che potrebbe semplicemente rappresentare la naturale evoluzione della situazione già disgregata di partenza, in uno scenario che richiama l’organizzazione in città-stato a cui si riferisce Cirkovic. In una sorta di gioco frattale di autosomiglianza di scala, le differenze potrebbero ripetersi a livello planetario, stellare e interstellare.

Primo recupero del 2017, con un libro che merita a tutti gli effetti di essere incluso tra le uscite più importanti dello scorso anno. Si tratta de La vita segreta. Tre storie vere dell’èra digitale di Andrew O’Hagan, uscito per Adelphi, e ne parlo oggi su Quaderni d’Altri Tempi.

Julian Assange. Satoshi Nakamoto. Ronnie Pinn. Una celebrità di rango planetario, il profeta di una nuova era, un’identità fittizia costruita ad hoc. Sono loro i profili scelti dallo scozzese Andrew O’Hagan (romanziere classe 1968, collaboratore della London Review of Books e di Esquire) per raccontarci l’epoca in cui viviamo. Come fa notare lui stesso nella prefazione, le loro storie, in cui il reale si fonde con la finzione a un livello di profondità tale da vanificare qualsiasi tentativo di separazione, non formano un canone e ci sono sicuramente casi virtuosi o comunque agli antipodi che racconterebbero esperienze diverse nella nostra interazione con la rete.
La scelta di questi tre soggetti particolari risponde però a un intento preciso: mostra infatti in controluce le sagome che si muovono sul grande quadro in continua evoluzione del web, un affresco luminoso, rischiarato dalle “costellazioni di dati” che risplendono sulle “linee di luci” (Gibson, 2017) di una città di radiose promesse e di accecante bellezza, le cui strade restano tuttavia immerse nell’oscurità più impenetrabile. Sono i bassifondi di internet, in cui spie e criminali sono liberi di muoversi, che offrono un sicuro rifugio per le ombre. Le nostre ombre.

[Continua a leggere su Quaderni d’Altri Tempi.]

La presentazione di Nuove Eterotopie a Stranimondi è stata anche l’occasione per confrontarsi con le impressioni e le considerazioni di un osservatore d’eccezione della realtà – e perché no, anche della fantascienza – italiana: Bruce Sterling, guest star dell’antologia con un romanzo breve scritto in esclusiva per questa pubblicazione, che segna il suo esordio come scrittore connettivista e che echeggia idealmente la vena sfrenata e dissacrante (e visto il contesto milanese potremmo dire anche “scapigliata”) del suo contributo scritto a 4 mani con Lewis Shiner che chiudeva Mirrorshades, intitolato appunto Mozart in Mirrorshades.

Numerosi sono stati gli spunti di riflessione che Sterling ha disseminato nel suo intervento, mesmerizzando la platea e i curatori coinvolti nella presentazione con la suggestione dei suoi argomenti. Non abbiamo in effetti difficoltà ad ammettere che se in quella sede l’antologia è riuscita a ottenere un riscontro che va al di là delle nostre più rosee aspettative è in gran parte merito suo, che ci ha onorati di un intervento a sorpresa, che non saprei definire altrimenti se non sontuoso, da vero fuoriclasse.

Bruce Sterling in posa con una copia di Nuove Eterotopie e una nutrita delegazione connettivista davanti al Kipple Lander Force One. Foto di Alessandro Napolitano.

Sterling si è mostrato decisamente interessato alla nostra esperienza. Il connettivismo è innanzitutto un movimento che ha voluto darsi un programma, con una dichiarazione d’intenti che non è frequente nel panorama letterario, specie in quello di genere, per via delle critiche a cui si rischia di finire facilmente esposti. Il coraggio dei connettivisti è stata la scintilla che ha innescato la sua curiosità, avendo esteso personalmente il manifesto del cyberpunk ed essendosi poi occupato nel corso degli anni di altre iniziative analoghe in cui ha riversato gli insegnamenti delle avanguardie europee (last but not least, lo slipstream, ovvero la “fiction of strangeness“, con la sua definizione – “…questo è un tipo di scrittura che ti fa semplicemente sentire molto strano; come pure vivere nel XX secolo ti fa sentire strano, se sei una persona di una certà sensibilità” – che potrebbe essere anche letta come la descrizione della condizione media dei partecipanti a Stranimondi). Ma una caratteristica di cui Sterling si è detto ancora più ammirato è rappresentata dalla tenuta del movimento, dalla sua solidità, dalla sua longevità. Infatti, stando alla sua esperienza, Sterling non si sarebbe aspettato che un movimento del genere potesse durare così a lungo.

Mediamente i movimenti artistici e letterari sono destinati a esaurire la loro spinta propulsiva nel giro di sette anni, ma il connettivismo è ancora qua dal 2004 e si appresta a concludere il suo secondo giro di boa settennale (previsto per la fine del 2018). Non può essere un caso che un movimento resista così a lungo. I movimenti vanno infatti tipicamente a estinguersi quando almeno uno dei loro esponenti raggiunge una celebrità tale da offuscare tutto il resto, oppure da spingere l’interessato a rescindere i legami con il suo background. Nel nostro caso, pur non potendoci dire del tutto estranei alla notorietà (diversi connettivisti si sono aggiudicati negli anni premi di rilevanza nazionale con le loro opere, non ultimo il Premio Urania, forse il più ambito di tutti), non possiamo negare che la celebrità non ha sfiorato nessun connettivista, almeno per il momento, quindi è presto per dire se riusciremmo a sopravvivere alle luci della ribalta, ma di certo abbiamo diversi elementi utili per valutare quello che gli anglofoni definiscono l’engagement dei nostri esponenti: nelle nostre iniziative si conferma sempre la sensibilità di anteporre l’interesse del collettivo a quello del singolo, e questo lascia ben sperare per il futuro.

Sterling si è anche detto ammirato dalla capacità dei connettivisti di sfruttare tutte le possibilità che i tempi in cui viviamo offrono a chi si occupa di letteratura. Ci ha lusingati molto la sua considerazione sulla nostra consapevolezza del mondo in cui viviamo: non è banale, con tutti i nostalgici ancora in circolazione, con i soloni e i depositari della verità ultima che si sentono in obbligo di pontificare sempre su tutto e tutti, ritenendo accessoria qualsiasi conoscenza del fenomeno su cui pretendono di esprimersi. Tutti avrebbero qualcosa da imparare dall’umiltà con cui Sterling si è avvicinato a una cosa a cui tutto sommato poteva benissimo rimanere indifferente. E poi è stato interessante notare la sua sorpresa di fronte allo spirito d’iniziativa dei connettivisti, che con una casa editrice di riferimento come la Kipple Officina Libraria riescono anche a gestire direttamente i mezzi di produzione del mercato editoriale, qualcosa che nel ben più vasto e strutturato mercato in lingua inglese sarebbe impensabile. Questa è una specificità tutta italiana e probabilmente si avvantaggia anch’essa delle dimensioni tutto sommato contenute del settore. Come si suol dire, di necessità virtù, ma il connettivismo si configura in effetti un po’, nel piccolo campo della fantascienza, come un’applicazione riuscita delle linee marxiste sulla gestione diretta dei mezzi di produzione (anche se questo ho evitato di farlo presente al buon vecchio Bruce, ma in effetti sarebbe stato interessante approfondire con lui anche l’esperienza controculturale della Nazione Oscura Caotica fondata e presieduta dal nostro Lukha B. Kremo).

La possibilità di partecipare con un racconto connettivista a Nuove Eterotopie è stata colta da Sterling come un’occasione per sganciarsi dalla sua immagine come autore, che in effetti è pilotata dai suoi editori americani e inglesi: quando si raggiunge uno status di riconoscibilità tale da meritarsi un seguito nazionale o internazionale, ha infatti spiegato Sterling, l’autore smette di essere un autore e diventa un vero e proprio asset per la sua casa editrice. Questo è il motivo per cui dopo il suo trasferimento a Torino nel 2007 ha cercato di costruirsi un alias come Bruno Argento, sganciato dalla sua immagine pubblica e in questo modo libero di muoversi con maggiore disinvoltura nei temi che desiderava esplorare come autore. Una libertà che ha potuto nuovamente esercitare in Robot tra le rose, il romanzo breve con cui è presente nella nostra antologia.

Infine, Sterling ha fatto notare come per lui il connettivismo sia un fenomeno di stampo “genuinamente” romano. Mentre il cyberpunk era un fenomeno variegato, dispersivo, nato nelle città americane ma con una forte impronta canadese, Sterling ha colto l’occasione di questo racconto per esplorare quello che a lui sembrava un fenomeno che non poteva essersi originato da nessun’altra parte se non a Roma. Ora, io non so da cosa il buon Bruce abbia potuto derivare questa impressione, però se da una parte è vero che il connettivismo non è meno geograficamente distribuito del cyberpunk (e, come faceva notare anche Salvatore Proietti nel suo intervento in chiusura di presentazione, ha tra gli altri meriti anche quello di aver abbassato il baricentro geografico della fantascienza italiana con numerosi autori originari del Meridione), è altrettanto incontestabile che al momento della definizione del movimento sia Sandro che io risiedevamo entrambi all’interno del Grande Raccordo Anulare. Ma come tutto questo si sia trasferito nell’imprinting del connettivismo, dovremo approfittare di una prossima occasione per indagarlo meglio con Sterling.

Intanto, non perdete l’occasione di lasciarvi trascinare in una folle scorribanda connettivista dal suo Robot tra le rose, degna ciliegina sulla torta delle nostre Nuove Eterotopie.

Con Sandro Battisti, Silvio Sosio e Bruce Sterling durante la presentazione di Nuove Eterotopie. Foto di Giovanna Repetto.

Nuove Eterotopie reca un sottotitolo altisonante ma abbastanza ingannevole: “l’antologia definitiva del connettivismo“. Ora, sappiamo tutti quanto i proclami siano per loro natura destinati a essere smentiti dalla realtà, e quel sottotitolo non fa eccezione: esprime in forma scaramantica tutta la nostra volontà (dei curatori, certo, ma siamo abbastanza sicuri anche di tutti gli autori coinvolti nel connettivismo, oltre che dell’editore stesso) di andare avanti almeno per altri dieci anni.

In effetti, lavorando a questo libro con Sandro Battisti, ci siamo resi conto della mole sterminata di lavori di ottima qualità che avrebbero meritato di essere inclusi in un best of come questa antologia in fondo aspira a essere. Niente di meglio, quindi, per guardare con fiducia ai prossimi dieci anni in cui abbiamo già messo un piede. Nuove Eterotopie può pertanto presentarsi come una vetrina e allo stesso tempo una porta spalancata su un movimento ancora in fieri, un work in progress che va avanti da 13 anni e che non ha nessuna intenzione di lasciarsi imbalsamare per essere esposto in un museo. Gli autori e le autrici che lavorano con noi, coinvolti nei numerosi progetti della pipeline editoriale della Kipple Officina Libraria, devono quindi sentirsi investiti e sfidati a dare il loro meglio in maniera da rendere ancora più complicate le scelte dei prossimi curatori per un’eventuale – ma nemmeno troppo ipotetica a questo punto – futura raccolta (chiamiamola pure Nuove Eterotopie 2, ma avremmo già un titolo d’impatto, nel caso, e questo titolo non potrebbe essere che Nuove Eterocronie!).

Ma adesso è di Nuove Eterotopie che vorrei parlarvi, riprendendo il discorso iniziato in occasione della presentazione del volume tenutasi a Stranimondi.

Innanzitutto, perché Nuove Eterotopie? Il titolo è un omaggio, neanche a dirlo, a Samuel R. Delany, che scelse di intitolare uno dei suoi romanzi più ambiziosi e rappresentativi Trouble on Triton: An Ambiguous Heterotopia (1976). Benché il libro sia stato poi ripetutamente dato alle stampe con il titolo più immediato e sintetico di Triton, la scelta originaria di Delany denunciava la sua intenzione di proseguire il discorso iniziato da Ursula K. Le Guin con il suo capolavoro del 1974 The Dispossessed (in italiano I reietti dell’altro pianeta, ma anche Quelli di Anarres), sottotitolato An Ambiguous Utopia. E non è un caso se sia Delany che Le Guin, voci fuori dal coro di una letteratura di idee dalla forte carica politica e dalla convinta vocazione a infrangere gli schemi precostituiti, potrebbero essere visti come due dei più significativi numi tutelari di tutta questa operazione che va sotto il nome di connettivismo.

Ovviamente, la parola eterotopia, che come spiega Wikipedia sta tanto per “altro spazio” quanto per “spazio delle diversità“, è un prestito dal filosofo francese e “archeologo dei saperi” Michel Foucault, che per primo adottò il termine nel suo saggio del 1967 Spazi Altri per descrivere quei luoghi che si pongono al di là delle convenzioni sociali stabilite, o – citando testualmente – “quegli spazi connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi designano, riflettono o rispecchiano“. Secondo Foucault la storia della civiltà inanella fin dalle società primitive esempi di eterotopie, che continuano a sopravvivere nelle nostre società moderne e postmoderne in forme sempre diverse: come eterotopie di crisi (esempi ne sono i collegi e le caserme), come eterotopie di deviazione (ospizi e ospedali), o come repliche delle nostre città (quali l’altra città per definizione, ovvero il cimitero, in cui vengono trasferiti al sopraggiungere del passaggio finale gli abitanti della città dei vivi, oppure le colonie delle potenze europee in Africa o America Latina, con gli spazi che replicano fedelmente lo schema degli equilibri dei poteri coinvolti – l’autorità coloniale e la Chiesa – e i tempi della giornata che vengono da questi rigorosamente scanditi).

Ma le eterotopie che ci circondano sono innumerevoli e comprendono anche le prigioni, i manicomi, i giardini, le camere d’albergo, i treni, e in qualche misura si sovrappongono ai nonluoghi teorizzati dall’antropologo ed etnologo Marc Augé (anch’egli francese) per definire quegli spazi con la prerogativa di non essere identitari, relazionali o storici: le stazioni, gli aeroporti, i centri commerciali. I più attenti di voi avranno notato le numerose affinità con alcuni degli spazi evocati nel nostro manifesto. Nel suo saggio, Foucault fa un esempio ancora più illuminante per spiegare l’eterotopia, mettendola in relazione appunto con l’idea a noi più familiare di utopia. Le utopie sono consolatorie, le eterotopie inquietanti: “minano segretamente il linguaggio”, “spezzano e aggrovigliano i luoghi comuni”. Come capita con le immagini che vediamo riflesse in uno specchio, in cui ci vediamo dove non siamo.

Quella sugli spazi è una riflessione che coinvolge la fantascienza fin dalle origini. Con le utopie, certo, ma poi anche con la contrapposizione in chiave New Wave tra inner space (lo spazio interno ballardiano) e outer space (la frontiera esterna dell’esplorazione spaziale), declinata da J. G. Ballard nel saggio Which Way to Inner Space pubblicato da Michael Moorcock nel 1962 sul numero di maggio di New Worlds. Per proseguire poi sulla frontiera elettronica del cyberspazio, portato alla ribalta all’inizio degli anni ’80 dagli autori cyberpunk. E se i racconti e i romanzi di William Gibson, il futuro informatizzato che prende forma nelle pagine di Neuromancer (1984) e Burning Chrome (1986), sono il principale motivo per cui mi sarei trovato, qualche anno dopo aver letto e riletto i suoi lavori, a scriverne di miei sulla stessa falsariga, se c’è una comune passione che ha decretato la convergenza del mio personale cammino con il percorso artistico di Sandro Battisti prima, e poi di Marco Milani, è stata senza ombra di dubbio quella per i rutilanti scenari postumani dipinti da Bruce Sterling nel suo ciclo della Matrice Spezzata (Schismatrix, 1985). Sterling è stato uno dei capifila della nuova fantascienza degli anni ’80, riconosciuto presto come il teorico del movimento sia per il lavoro con la zine Cheap Truth, sia per la sua sintesi come curatore dell’antologia-manifesto del cyberpunk, Mirrorshades (1986). Ma la sua carica non si è esaurita in quel decennio, continuando a esercitare un’influenza magmatica anche sui decenni successivi, attraverso la transizione dal cyberpunk al post-cyberpunk (e di qui a tutto il filone postumanista), attraverso le sue incursioni in altri territori contigui come lo steampunk o lo slipstream, per non parlare dei suoi progetti collaterali come il Dead Media Project o il Viridian Design Movement (date un’occhiata alla sua pagina su Wikipedia per credere). In definitiva, non potevamo chiedere un regalo migliore per un’antologia come Nuove Eterotopie di un contributo di Sterling, e se avevamo qualche timore nel chiedergli una postfazione, siamo rimasti sbigottiti quando è stato lui stesso a proporci di sua iniziativa di contribuire con il suo primo racconto connettivista!

Sterling ha avuto fin dall’inizio parole molto lusinghiere per il nostro lavoro, ma forse niente batte le sue considerazioni sulla nostra consapevolezza sul mondo in cui viviamo. E in effetti, se c’è una cosa che ci ha distinti fin dall’inizio, è stata proprio quella di scrivere come se il cyberpunk fosse accaduto sul serio, e come se dopo la singolarità del cyberpunk fosse esplosa la galassia del post-cyberpunk, che sono tutte cose accidentalmente successe davvero, mentre alla metà del decennio scorso ci sembrava che molti intorno a noi volessero fingere a tutti i costi che non fossero mai capitate. I connettivisti si sono impegnati fin da subito in uno sforzo comune di sintesi, cercando di mettere in relazione approcci anche molto diversi tra di loro, ma che condividevano un interesse di fondo per l’altro, quello che oggi – con una parola forse inflazionata – viene fatto ricadere sotto l’ombrello della diversità. Abbiamo sempre rivendicato il valore della diversità come ricchezza: formalmente, con la nostra attitudine alle contaminazioni di genere (con il noir e l’horror, per esempio, ma anche con il romance, il weird, e da qualche anno con un progetto di infiltrazione del mainstream attraverso quelle espressioni che potremmo ricondurre a un ideale di fantascienza ripotenziata, vale a dire quella fantascienza ridotta all’essenza del suo immaginario di riferimento e applicata a una dimensione meno epica e più umana); e tematicamente, con la nostra curiosità per tutto ciò che si muove sulla frontiera dell’immaginario, come testimoniano anche le nostre frequenti incursioni nel campo del postumano, quando non proprio del post-biologico.

Eterotopie, in relazione a tutto questo, ci sembrava davvero il termine più appropriato per descrivere lo spazio in cui si sono sviluppate le traiettorie delle nostre ricerche, analisi, esplorazioni e proiezioni, tutto quello che generalmente e genericamente facciamo passare sotto la parola di “scritture”. Non mi soffermo sui singoli racconti inclusi nell’antologia, ma ci tengo a sottolineare che nella reciproca diversità provano le differenze nell’approccio seguito da ogni singolo autore, e allo stesso tempo risuonano tra di loro attraverso gli echi reiterati di sensibilità comuni e comuni passioni. Questo in fondo è quello che il connettivismo ha voluto essere fin dalla sua nascita: un laboratorio, un incubatore, un terreno di coltura su cui far fiorire idee aliene, sforzandoci di coinvolgere anche autori che mai e poi mai vorrebbero essere incasellati sotto un’etichetta. Questo è quello che facciamo.

Nel saggio citato di Foucault, non a caso le eterotopie fornivano il gancio per parlare anche di eterocronie, in merito a quei luoghi in cui il tempo si accumula all’infinito (musei e biblioteche, per esempio) oppure viene sospeso ed esaltato nelle sue manifestazioni più futili (i luna park, altro esempio di convergenza con i nonluoghi di Augé). Il nonluogo in cui l’eterotopia si fonde idealmente con l’eterocronia, in cui il tempo si ripiega sullo spazio e annulla ogni distanza, è il non-spazio in cui tutto si svolge in tempo reale, la perfetta sintesi di eterotopia/eterocronia della nostra epoca, qualcosa che Foucault non poteva immaginare e che non ha fatto in tempo a vedere: Internet, lo specchio del mondo in cui viviamo. E questo ci fornisce l’occasione per parlare un po’ anche delle nostre origini, perché senza il web difficilmente ci sarebbe stato il connettivismo, e quindi difficilmente avrebbe potuto esistere un’antologia come Nuove Eterotopie o come tutte quelle che l’hanno preceduta.

I primi connettivisti solevano riunirsi intorno al primo storico blog di Sandro Battisti, Cybergoth, ospitato dalla piattaforma ormai dismessa di Splinder. Un blog che brillava come un faro nella notte quanto i social network erano al più l’embrione di un sogno notturno ancora ben lontano dall’avverarsi, e su cui ci ritrovavamo a-periodicamente per svolgere delle vere e proprie sessioni di scrittura istantanea nello stile delle jam session da cui prese forma il bebop, non a caso richiamato come ideale parallelo culturale anche dagli autori cyberpunk. E con la rete siamo maturati, stringendo connessioni, consolidando legami, esplorando orizzonti che in assenza di questa potente mediazione tecnologica non avremmo mai potuto conoscere. Siamo forse il primo movimento nato nell’era del web, di certo il primo in Italia, e siamo ancora qui dopo tutti questi anni. Non abbiamo intenzione di sparire, quindi sentitevi liberi di trattarci come un fenomeno reale.

 Foto di Marcus Broad Bean, al cui reportage sulla nostra presentazione a Stranimondi rimando per una versione altrettanto appassionata, ma più lucida e meno coinvolta, sul progetto connettivista.

 

Il festival del libro fantastico Stranimondi³, svoltosi a Milano lo scorso 14-15 ottobre con enorme partecipazione di pubblico e addetti ai lavori e ancor maggior soddisfazione dei presenti, ha offerto anche la cornice per la prima presentazione di Nuove Eterotopie, la nuova antologia di racconti connettivisti.

Nuove Eterotopie, che ho avuto il privilegio di curare con Sandro Battisti, è nata su invito dell’editore Silvio Sosio (Delos Digital) per offrire ai lettori di Odissea Fantascienza (una delle migliori collane di fantascienza in circolazione, detto per inciso) una selezione di quanto di meglio prodotto dai connettivisti nei loro primi dieci anni di attività. E se con Sandro abbiamo ricevuto il mandato di assemblarla già nel 2014, metterla insieme con la cura necessaria senza farci rubare il tempo dai nostri altri impegni ci ha tenuti impegnati praticamente fino alla scorsa estate. Tre anni in cui i connettivisti sono andati per fortuna avanti, al punto che non è un’esagerazione pensare di essere entrati in una nuova stagione, di cui magari riusciremo prima o poi a presentare i frutti in una “seconda antologia definitiva del connettivismo”.

L’antologia, che si pregia di una esoterica e ipnotica copertina realizzata da Ksenja Laginja, è accompagnata da un’introduzione dei due curatori e da una illuminante postfazione di Salvatore Proietti, e si compone di 16 racconti scelti tra i migliori apparsi sulle nostre pubblicazioni in questi primi 10-12 anni di attività, più un contributo extra che ci rende particolarmente orgogliosi: un romanzo breve che Bruce Sterling ha voluto scrivere appositamente per questo libro e che quindi abbiamo il privilegio di presentare in anteprima mondiale.

Sterling ci ha onorati della sua presenza anche alla presentazione del 15 ottobre, con un intervento ricco di spunti da approfondire di cui torneremo a parlare nei prossimi giorni in un post dedicato.

Intanto ecco la table of contents del volume:

Sandro Battisti e Giovanni De Matteo Uno, nessuno e centomila: di cosa parliamo quando parliamo di connettivismo
Simone Conti Amiens, 1905
Giovanni De Matteo Nell’occhio del Vortice, con gli spettri del tempo
Fernando Fazzari Un battito di ciglia
Roberto Furlani L’arca dell’Alleanza
Lukha B. Kremo Senza titolo
Umberto Pace I giocolieri
Umberto Bertani Border
Marco Milani In Nomine Patris
Francesca Fichera Interno blu
Marco Moretti Brani scelti dal “Catalogo delle Specie Extrasolari”, II edizione
Francesco Verso Il livello dell’assassino
Alex Tonelli Pensa a Phleba
Giovanni Agnoloni Il sepolcro del nuovo incontro
Domenico Mastrapasqua Osmosiac
Roberto Bommarito Parole
Sandro Battisti Daddy
Bruce Sterling Robot tra le rose (trad. Marco Crosa)
Salvatore Proietti Introduzione alla prossima fantascienza

Il libro è disponibile sia in volume cartaceo che in edizione elettronica. Questa è la pagina sul sito dell’editore, con tutte le informazioni e le opzioni di acquisto. E questa è la quarta:

Le eterotopie sono luoghi dischiusi su altri luoghi, spazi “connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi designano, riflettono o rispecchiano” (Michel Foucault). Le utopie sono consolatorie, le eterotopie inquietanti: “minano segretamente il linguaggio”, “spezzano e aggrovigliano i luoghi comuni”. Come i racconti qui racchiusi, che dissolvono i confini tra i generi in una miscela esplosiva di speculazione scientifica, anticipazione tecnologica, sperimentazione linguistica e proiezione sociologica.

Sedici nuove eterotopie, dunque.

Più una: un inedito di Bruce Sterling, scritto espressamente per quest’antologia.

Postfazione di Salvatore Proietti

E insomma, non di sole distopie vive lo scrittore di fantascienza. Quando Francesco Verso mi ha reclutato per l’antologia Segnali dal futuro, ho pensato di cogliere l’opportunità per visualizzare un mondo molto distante dagli scenari che sono solito frequentare, e che potremmo convenzionalmente ricondurre a futuri – terrestri o spaziali – a tinte alquanto cupe. Per l’occasione ho pensato di avventurarmi in un territorio per me quasi del tutto nuovo, comunque molto al di fuori dalla mia comfort zone.

Volevo descrivere da un punto di vista da embedded il lavoro degli ingegneri e scienziati del futuro, diciamo intorno all’anno 2100, e volevo che il loro progetto derivasse dalle premesse stesse insite nel mondo in cui vivevano, per evitare che la storia potesse inciampare nello schematismo dello scienziato che arriva e risolve tutti i problemi dell’umanità: quella non sarebbe stata né scienza né fantascienza, ma nient’altro che solipsismo in salsa hollywoodiana. Quindi ho provato a immaginare un mondo ancora gravato da contraddizioni, ma già impegnato sull’audace cammino di una “transizione ecologica post-capitalista“, in cui le fondamenta per un nuovo stile di vita e per un nuovo modello di organizzazione sociopolitica vengono gettate dall’adozione di nuovi sistemi di produzione e recupero: lavoro intellettuale, energie sostenibili, integrazione ambientale e tecnologie emergenti aprono le porte a un diverso livello di consapevolezza del ruolo dell’uomo nel mondo, e la società comincia così a muoversi verso un nuovo punto di equilibrio. Per questo avevo bene in mente una serie di modelli di riferimento, primo su tutti Kim Stanley Robinson, ma anche altri autori impegnati sul fronte del futuro come Bruce Sterling e Cory Doctorow.

Il risultato è una società che non ha subito gli effetti della Singolarità (o di un evento di equivalente portata), ma che al contrario ha cominciato da tempo a guidare la propria evoluzione grazie alla sinergia con le tecnologie. Non a caso si parla di Wende, come nel processo di riunificazione delle due Germanie, anche se in termini quasi antitetici: dall’economia di mercato il post-capitalismo imbocca il sentiero di un’economia della post-scarsità pianificata, logisticamente supportata delle intelligenze artificiali. Potremmo forse definirla una tecnocrazia socialista. Ma come sappiamo i cambiamenti comportano sempre degli imprevisti, per cui, per quanto si possa cercare di dirigerne gli effetti, ci saranno sempre degli esiti non calcolati. Specie in un sistema complesso grande quanto il pianeta Terra.

Alla fine La vita nel tempo delle ombre è la cosa più vicina a un’utopia che abbia mai scritto. Una cosa che mi fa uno strano effetto, a dirla tutta. Ma non poi così strano. Dopo il salto, ne condivido con voi un estratto: una sessione di brainstorming tra i due protagonisti. Il libro invece è qui. Leggi il seguito di questo post »

Segnali dal futuro è la nuova pubblicazione dell’Italian Institute for the Future, associazione fondata aIIF_Segnali_dal_Futuro Napoli e attiva nel campo dei future studies: un’antologia di racconti di anticipazione selezionati da Roberto Paura e Francesco Verso, che delineano possibili scenari futuri spaziando “dall’intelligenza artificiale all’espansione umana nello Spazio, dalla disoccupazione tecnologica alla vita all’interno di mondi virtuali fino al sogno di replicare la coscienza umana”, introdotti da altrettanti saggi di esperti del settore (Massimo M. Auciello e Rino Russo, Riccardo Campa, Roberto Paura, Valerio Pellegrini, Emmanuele J. Pilia).

L’iniziativa, che non ha precedenti in Italia, si ispira a progetti analoghi che da sempre vengono sviluppati altrove. Un esempio storico è rappresentato dall’Institute for the Future di Palo Alto, tra le cui pubblicazioni recenti si segnala una raccolta di questo tipo intesa a “rendere tangibile il futuro”, con contributi di sei firme di spicco del panorama SF globale (tra gli altri Bruce Sterling e Cory Doctorow) sul tema della Internet of Things: An Aura of Familiarity. Altri esempi altrettanto rappresentativi sono il Project Hieroglyph curato da Neal Stephenson (di cui abbiamo parlato), l’antologia celebrativa dei cinquant’anni di Spectrum, Coming Soon Enough (con Greg Egan e Nancy Kress), oppure la serie Twelve Tomorrows pubblicata con cadenza annuale dall’MIT.

Segnali dal futuro prende le mosse dalla sessione introduttiva del Congresso Nazionale di Futurologia 2014 e si propone di offrire cinque assaggi possibili del mondo in cui domani potremmo svegliarci. Perché, come abbiamo imparato, il modo migliore per prevedere il futuro è inventarlo. Nell’antologia troverete anche un mio racconto ispirato al tema del mind uploading, ma che si trova a sfiorare anche altri campi a cui sono particolarmente interessato: l’intelligenza artificiale, la sostenibilità ecologica, la transizione verso un modello di società post-capitalista, l’ubiquitous computing, il turismo virtuale, le città iperconnesse (come Dubai o la megalopoli del Delta del Fiume delle Perle) la riproducibilità della memoria, gli spazi simulati e i diritti degli esseri artificiali. Con una spruzzata della poetica visionaria di William S. Burroughs e di Makoto Shinkai. Il tutto dal punto di vista di un… no, stavolta niente detective, solo un ingegnere elettronico.

Delta_City

Il racconto s’intitola La vita nel tempo delle ombre, è introdotto da un saggio di Emmanuele J. Pilia (esperto di transarchitettura, ma non solo) e si accompagna ad altri quattro racconti firmati da totem come Ken Liu o Francesco Grasso e autorevoli esponenti dell’ultima ondata di fantascienza italiana come Clelia Farris e Francesco Verso.

Il libro è in vendita a 9,90 euro sul sito dell’IIF.

Seconda parte del nostro ipotetico panel sulla lavorazione di YouWorld. Ringrazio Lanfranco per essersi prestato al gioco.

Marilyn_Monroe_California_1949

Giovanni

Il nostro racconto è una storia dal gusto molto postmoderno, e già questa è una cosa che non si vede spesso nella scrittura italiana, specie se di genere. In effetti abbiamo saccheggiato a piene mani il nostro immaginario, non solo quello di fantascienza. E alla base, sotto l’epidermide cyberpunk e i tessuti muscolari da social sci-fi, c’è sicuramente un’ossatura pulp. Per certi versi è forse il racconto di fantascienza più tarantiniano che mi sia capitato di leggere.

Lanfranco

Sì, forse è tarantiniano, ma al tempo stesso potremmo dire che è lucasiano o che è un epigono dell’espressionismo tedesco o che è un hard-boiled degli anni trenta. Non riesco ad assegnargli un’etichetta univoca, né una netta preminenza di un elemento sugli altri. Il racconto è una macchina citazionale ai più alti livelli. Anche come colonna sonora, è forse rock in alcune componenti, ma in sottofondo si sente sempre Diamonds Are A Girl’s Best Friend.

Il postmoderno era di fatto obbligato nel momento in cui ci siamo messi a giocare con i materiali. Abbiamo realmente saccheggiato il nostro immaginario, e probabilmente l’immaginario collettivo o la mitologia del ventunesimo secolo, ma penso che i vari elementi si siano amalgamati insieme molto bene. D’altronde è nella premessa della storia: costruire mondi virtuali altamente narrativi in cui gli esseri umani possono interagire con le Entertainment Artificial Intelligences. È ovvio che alcune delle protagoniste e interpreti insieme si siano portate dietro i loro, ma al tempo stesso si sono ritrovate a giocare in scenari a loro completamente estranei perché questo veniva richiesto dalla divinità, l’uomo, che disponeva delle loro sorti. In questo senso non mi pare di trovare qualcosa di artificioso o scarsamente motivato.

Quello che invece penso di poter dire è che risalta un’impostazione molto “visiva” nelle scene che, proprio essendo spesso citazioni da film, si prestano molto a essere girate anziché descritte. Casualmente, oltre alla fantascienza abbiamo trovato delle radici o quanto meno degli amori comuni in molti altri luoghi dell’immaginario.

Giovanni

Io però distinguerei il citazionismo che troviamo a livello di grana fine, nei singoli paragrafi e nelle singole scene, dalla sensibilità che informa il quadro generale e dà forma allo spazio narrativo in cui abbiamo deciso di muoverci. Il binomio di attitudine postmoderna e immaginario cinematografico (ma non solo) ha fatto scattare automaticamente nella mia testa l’associazione con Tarantino. Ma certo, non c’è solo quello.

Inoltre credo che con il regista americano ci sia un punto in comune tutt’altro che trascurabile. Il buon gusto a cui ci siamo attenuti per le nostre scelte di casting!

Lanfranco

Non è molto complicato fare il casting quando pur facendo un film indipendente non ci si deve preoccupare del budget e l’unico problema che hai è quello di scoraggiare con tatto le attrici che sgomitano per essere della partita! E la selezione è stata dura, con nuove assegnazioni di parte e defenestramenti anche all’ultimo momento, malgrado questo ci abbia costretto a buttare qualche metro di materiale già girato.

Giovanni

In principio era Marilyn

1954:  American film star Marilyn Monroe (1926-1962).  (Photo by Baron/Getty Images)

1954: American film star Marilyn Monroe (1926-1962). (Photo by Baron/Getty Images)

Lanfranco

Esatto, se ricordo bene, Marilyn è sempre stata la protagonista sin dalla primissima idea, potremmo dire quasi ancora prima del “fiat lux“. In modo istintivo, da parte mia – “chi è che potendo costruire un mondo virtuale non ci metterebbe dentro Marilyn Monroe?” – ma successivamente l’idea confusa di lei si è rivelata a un secondo e un terzo ragionamento un vero e proprio personaggio a strati: un mito dell’immaginario collettivo, una specie di divinità dei tempi moderni e persino le sue coprotagoniste le riconoscono questo ruolo; un’icona pop tramite Andy Warhol e i fotografi che l’hanno immortalata; una citazione del maestro Ballard; il fatto che la stessa Marilyn fosse un costrutto artificiale e spesso si percepisse come tale, continuamente in uno stato di disequilibrio tra Marilyn e Norma Jean; una persona che ha passato la vita cercando di essere altro, di evolversi tornando a studiare recitazione malgrado il successo e diventando produttrice essa stessa in un momento in cui era una scelta ancora insolita. E tutta la narrazione, come mai mi è capitato, si è avvolta e sagomata intorno al personaggio come fosse un vestito.

Giovanni

Credo che nessuna diva avrebbe potuto assolvere meglio a quel ruolo. Per di più Marilyn ha svolto una funzione trainante nella nostra storia proprio in virtù delle sue caratteristiche, prestandosi a tutta una serie di rimandi e livelli di interpretazione, come giustamente fai notare. Nel nostro gioco metatestuale ci siamo fermati all’incrocio forse più conclamato, con Madonna che da sempre gioca a rifare Marilyn. Ma ancora negli ultimi anni abbiamo avuto casi eclatanti – e più o meno riusciti – di riletture del personaggio da parte di giovanissime colleghe, come per esempio Lindsay Lohan o Michelle Williams. Per non parlare degli scoop o pseudo-tali che la sua figura continua ad alimentare, a mezzo secolo di distanza dalla sua tragica e triste scomparsa. Probabilmente Marilyn si è innestata ormai tanto in profondità nel nostro immaginario da essere imprescindibile: è parte del codice sorgente della nostra realtà, e da lì continua a lanciare istanze, come un virus. O forse un meme…

CALIFORNIA, UNITED STATES - MAY 1953:  Marilyn Monroe on patio outside of her home.  (Photo by Alfred Eisenstaedt/Pix Inc./Time & Life Pictures/Getty Images)

CALIFORNIA, UNITED STATES – MAY 1953: Marilyn Monroe on patio outside of her home. (Photo by Alfred Eisenstaedt/Pix Inc./Time & Life Pictures/Getty Images)

Tornando a YouWorld, ricordi altri casi in cui delle celebrità del mondo dello spettacolo vengono ricreate in forma di costrutti digitali? Così su due piedi, l’unico titolo che mi viene in mente è S1m0ne di Andrew Niccol, che per altro ha lavorato al soggetto e alla sceneggiatura di uno dei film più dickiani e riusciti sul tema delle realtà “simulate”: The Truman Show. In effetti, a pensarci bene, è incredibile quanti punti di contatto ci siano, a livello tematico, tra la nostra storia e quei due titoli. Eppure prima d’ora non ci era mai capitato di parlarne, benché la gestazione della novella sia durata la bellezza di quattro o cinque anni!

Lanfranco

Parlando di corto circuiti anche Nicole Kidman ha fatto un servizio fotografico come Marilyn Monroe (e tacciamo per pietà dell’interpretazione di “Diamonds…” in Moulin Rouge!).

No, come riferimenti non ne abbiamo mai parlato, anche se sono praticamente lì, né abbiamo mai parlato di Matrix, che ovviamente è sotto tutto. Per rispondere alla tua domanda, francamente non me ne viene in mente nessuno, ma questo non significa che non possano esserci stati altri casi, dopo aver letto forse una decina di migliaia di racconti ricordi l’oceano, non le singole gocce d’acqua… Solitamente la ricreazione è fisica mediante clonazione o costruzione, ad esempio se non ricordo male c’è una bambola fatta a immagine di Marilyn in Il Chiosco di Sterling. Anche i cartoni di Dario Tonani sono fin troppo fisici. Parlando di digitale, in modo più terra terra quello che mi viene in mente è una pubblicità di non ricordo cosa “girata” con Audrey Hepburn, utilizzando spezzoni di Colazione da Tiffany, o il film Dead men don’t wear plaid di Carl Reiner che interpola scene di film noir a quelle girate appositamente, mettendo nel casting praticamente tutte le grandi celebrità di Hollywood degli anni 30-40. E naturalmente gli articoli e i documentari secondo cui gli studios sarebbero in realtà già pronti a girare film senza attori. Possiamo considerarli dei punti di partenza verso la costruzione di uno YouWorld? Parlando invece di veri e propri costrutti e di celebrità ma non del mondo dello spettacolo, in Star Trek: Voyager Janeway si intrattiene con Leonardo da Vinci sul ponte ologrammi.

Ecco, l’holodeck di Star Trek è forse la cosa più vicina allo YouWorld che riesco a identificare.

Marilyn_Monroe_04

Giovanni

Bene, sono sicuro che la nostra chiacchierata ha saputo fornire dei validi input ai lettori più curiosi, soprattutto quelli interessati a conoscere i retroscena della scrittura. A questo punto possiamo fermarci, ricordando a tutti che lo spazio dei commenti è aperto alle vostre considerazioni, riflessioni e proposte. Se ci sono altre curiosità, non avete che da formularle e noi saremo felici di rispondervi nonostante le temperature africane di questa torrida estate.

Grazie per essere passati da queste parti e ricordate sempre:

YouWorld è la vostra casa!

Una chiacchierata con Lanfranco Fabriani sulla genesi del nostro lavoro a quattro mani: YouWorld.

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Giovanni

Ricordi come è nato il progetto?

Lanfranco

Il progetto è nato per gioco, con una mia mail a te, per il desiderio di confrontarsi, anche a prescindere da un risultato finale. Assieme alla constatazione che mentre negli USA, casa madre della fantascienza non è insolita una collaborazione tra due scrittori, in Italia queste si contano veramente sulla punta della dita di una mano. Differenza antropologica nell’intendere la scrittura? Ma lo scopo era soprattutto quello di imparare, se possibile, uno dall’altro, consci delle nostre differenze, della conoscenza delle nostre due storie completamente differenti, ma poi fino a un certo punto. E appunto per le nostre differenze il gioco sarebbe diventato più interessante.

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Ancora su Corpi spenti, con due pareri autorevoli da parte di due illustri colleghi. Enrico Di Stefano, autore catanese di numerosi racconti a partire da Il record impossibile e del romanzo  L’ultimo volo di Guynemer, approfitta della lettura del romanzo per sviluppare una più ampia riflessione a tutto tondo sul connettivismo. Riporto il suo intervento senza tagli:

Corpi spenti di Giovanni De Matteo conclude (?) la vicenda di un corpo molto speciale della polizia italiana del futuro, quei Necromanti che ho cominciato a seguire con Sezione π2, il romanzo vincitore del Premio Urania 2007. Le due opere si apprezzano appieno se affrontate in successione, senza interporre troppo tempo tra la lettura delle due parti. Io, ad esempio, ho riletto il n° 1528 prima di affrontare il 1607. Vi chiederete: perché tanto zelo? È semplice: a parte il piacere di leggere un buon romanzo di SF, che non guasta mai, desideravo chiarirmi le idee circa il connettivismo. Per i pochi che non lo conoscessero, si tratta di un movimento letterario nato nel 2004 sotto la spinta degli autori che oggi redigono la rivista NeXT e che ha avuto in De Matteo uno dei suoi principali animatori. In realtà diverse suggestioni le avevo tratte dalla lettura di E-Doll di Francesco Verso (“Urania” n°1552). Ma seguendo attentamente le vicende di Vincenzo Briganti, e soprattutto lo scenario in cui questi si muove, ho potuto definire meglio le conclusioni alle quali ero giunto cinque anni or sono.

Il Manifesto del Connettivismo, al suo apparire, mi aveva disorientato. “Troppa carne al fuoco” mi dicevo, non riuscendo a farmi un’idea di dove volessero andare a parare i promotori dell’iniziativa che concludevano il loro programma con la frase “Noi saremo tutto”. Per fortuna sono arrivate le opere che ho appena citato ed in tal modo ho potuto restringere il campo d’indagine. Essendo un vecchio fanzinaro non potevo non dissezionare le mie letture per cercare di decifrarne i significati e confrontarmi su di essi con gli altri appassionati. Mi è venuto spontaneo cercarne i comuni denominatori. Dunque, secondo me il connettivismo è caratterizzato da uno scenario, da una premessa tecnologica e da un tema caratteristici. Il primo è l’ambiente urbano o, meglio ancora, metropolitano. Il secondo è lo straordinario sviluppo delle tecnologie informatiche e nanotecnologiche. Il terzo è il postumano con tutte le sfumature e le implicazioni che il termine comporta. Attenzione, queste tre coordinate non devono essere interpretate come limitazioni perché già offrirebbero territori sterminati da esplorare. Non voglio dire che il connettivismo sia solo questo, ma la massa dei lettori lo conosce prevalentemente per i romanzi di Verso e De Matteo che, su tale substrato, hanno costruito due tra le più interessanti opere prodotte nell’ultimo decennio dalla fantascienza italiana. Che, lasciatemelo dire, in questo ambito temporale non è stata per niente avara di cose valide.

Tornando a Corpi spenti vorrei concludere sottolineando come l’autore abbia lavorato lasciando intravedere molta attenzione all’indagine antropologica definendo personaggi che sono sì futuribili, ma le cui ascendenze potremmo facilmente individuare tra i protagonisti della realtà odierna. Inoltre, ho avuto l’impressione di aver letto un romanzo fortemente politico. E, se permettete, non potrebbe essere altrimenti dato che Giovanni De Matteo, originario della Basilicata, conosce benissimo le realtà sociali ed economiche di quel Mezzogiorno che in Corpi spenti procede verso una forma di secessione. Ipotesi tutt’altro che peregrina, considerando le tormentate vicende della politica italiana dell’ultimo ventennio. Questa, naturalmente, è solo la mia interpretazione. Passo la palla a voi. Buona lettura.

Carmine Treanni, curatore di Delos SF, ha usato parole altrettanto lusinghiere in una nota pubblicata su Facebook, che ha coinciso anche con il suo primo intervento sul social network. Anche in questo caso, riporto integralmente e senza filtri:

Vorrei dedicare questo mio primo post a Giovanni De Matteo, fratello di fantascienza, facendo pubblica ammenda: non sono riuscito a dare spazio al suo romanzo Corpi spenti su Delos. Non posso rimediare, ma con piacere posto qui la mia inedita recensione del romanzo… Se qualcuno non lo ha letto, ricordo che il romanzo è disponibile in e-book.

La città premeva sul porto con la spinta di una nebulosa urbana in decompressione. Nel melange cleptoarchitettonico che sovrastava le acque torbide, ruderi d’epoca e falansteri si accalcavano intorno al Golfo come un esercito di sbandati in rotta: la battaglia doveva essersi risolta epoche addietro, tutto ciò che restava era il caos del presente.

Il pirotecnico incipit (omaggio a Gibson e Sterling) di Corpi spenti (Urania n. 1607, Mondadori, disponibile in e-book), l’ultimo romanzo di Giovanni De Matteo, mi sembra la giusta introduzione per parlare di un progetto narrativo pienamente riuscito sotto vari punti di vista che proverò a spiegare. Intanto, va segnalato che il romanzo è il seguito di Sezione π², pubblicato nel 2007 sul numero 1528 di Urania, vincitore del Premio Urania, ma appare dopo il breve romanzo Terminal Shock — 2184 Labirinti Alieni (Mezzotints Ebook, 2013), definito dallo stesso autore una cyberspace opera, ossia un’opera narrativa che mescola space opera e cyberpunk. Un testo in cui De Matteo spinge ai limiti la sua prosa con risultati, a mio avviso, notevoli e che ritroveremo anche in Corpi spenti.
Il romanzo si apre con un doppio inizio. Nel primo ritroviamo l’ispettore capo Corrado Virgili, detto Guzza, al porto: sulla Milenaki, una nave mercantile russa, viene ritrovato morto un marinaio. L’uomo è stato assassinato prima che la nave attraccasse al porto di Napoli. La cosa più inquietante, però, è che il corpo mostra i segni di una lettura della mente operata da un necromante. Qui, De Matteo ci introduce nel romanzo in medias res, nel vivo di una indagine che mostra da subito un volto inquietante.
Nel secondo inizio, invece, ritroviamo Vincenzo Briganti, protagonista del precedente romanzo della saga della Pi-Quadro e ora a capo della Sezione Investigativa Speciale di Polizia Psicografica. Il poliziotto è tormentato perché Tornatore il suo più giovane collaboratore, si appresta a diventare un necromante, un passaggio che segnerà per sempre la sua vita, così come ha segnato quella di Briganti, allorquando il fondatore della Pi-Quadro Di Cesare lo iniziò alla necromanzia.
All’omicidio del marinaio russo si aggiunge il ritrovamento in fin di vita di due “spaziali”, adolescenti il cui sviluppo è stato bloccato geneticamente per lavorare nello spazio, finite però poi per diventare prostitute: “Le spaziali crescevano, invecchiavano, ma il loro corpo non maturava al punto di esprimere appieno i caratteri sessuali.
Briganti e i suoi uomini si ritrovano ad investigare, ma – pur potendo contare sull’appoggio di Grazia Conti, pubblico ministero della procura di Napoli – devono scontrarsi con il resto del corpo di polizia che mal sopporta i metodi e gli uomini della Pi-Quadro.
Sullo sfondo c’è Napoli, capitale morale del Sud che nel 2061, anno del bicentenario dell’Unità italiana, sta per staccarsi dal resto del paese trasformandosi nel Territorio Autonomo del Mezzogiorno. Una manovra politica che nasconde in realtà un ambizioso obiettivo: trasformare il meridione d’Italia in una zona franca dove la criminalità, con cui la politica è collusa, possa gestire tranquillamente i suoi affari. La città è anche un territorio devastato.
Il protagonista di Corpi spenti è Vincenzo Briganti, ora a capo della Sezione Investigativa Speciale di Polizia Psicografica. Per certi versi è un poliziotto come molti altri: è un leader; sa cercare nelle pieghe dei fatti criminali le informazioni necessarie per arrivare alla verità, giuridica o meno che sia; è amato dai suoi collaboratori e sa come gestire una squadra di poliziotti. Ma l’esercizio della necromanzia, ossia il recuperare informazioni da un cadavere, attraverso un’apposita tecnologia, è anche un fattore di profonda destabilizzazione. Una discesa all’inferno che non è immune da conseguenze devastanti per chi si addentra nella mente di un morto: rivivere la morte o un aggressione vissuta dalla vittima significa addossarsi un dolore insopportabile, difficile da gestire e da digerire.
Il peso di questo dolore sceglie di portarlo il giovane Tornatore che farà proprio da contraltare al personaggio di Briganti. E qui veniamo a uno dei motivi per cui ho segnalato all’inizio di questa recensione la riuscita del progetto narrativo di Corpi spenti: i personaggi. Briganti, Guzza e la PM Conti sono i tre personaggi che emergono con forza nelle pieghe della storia, con una personalità forte e decisa, anche quando le avversità sono estreme. Anche gli altri comprimari – gli altri membri della squadra Pi-Quadro e il direttore di Nova X-Press, Chianese, giornale libero e indipendente – hanno un ruolo preciso e sono funzionali ad una storia che pagina dopo pagina si carica di adrenalina pura, temperata però proprio dal nichilismo dei personaggi. Briganti, Conti, Chianese e tutti quelli della Pi-Quadro si rendono conto che si trovano al centro non semplicemente di un’indagine di polizia, ma alle soglie di una trasformazione epocale del loro vivere civile. Sono loro – poliziotti, giornalisti, magistrati – l’ultimo baluardo di un cambio di rotta che il Paese e il Sud dell’Italia si apprestano a compiere, in nome di una politica sempre più corrotta e collusa con la criminalità.
De Matteo racconta le macerie morali di una città che sta per – o potrebbe – subire una rivoluzione politica e sociale senza precedenti, ma Napoli è la metafora dell’Italia di oggi, non quella del 2061. Un paese che vacilla tra una politica che non riesce a offrire risposte concrete e una voglia di anti-politica come una mezzo per esprimere il proprio dissenso politico. Il nichilismo dei personaggi del romanzo sembra essere quello degli italiani, poco importa se sono quelli di oggi o del futuro ipotizzato dall’autore di Sezione π². In questo, Corpi spenti è un romanzo “politico”, nel senso di una denuncia sociale che anche nel passato ha trovato nella fantascienza un alleato ideale.
Come per Sezione π², più che uno scenario, la Napoli del futuro descritta da De Matteo è essa stessa un personaggio, un territorio devastato parzialmente da un’eruzione del Vesuvio e sommersa da una sostanza fangosa denominata Kipple. Ma Napoli è anche una città che vive in piena post-singolarità, ossia quell’accelerazione tecnologica e sociale in cui l’informatica si è sviluppata a livelli incredibili, portando l’umanità a convivere con tecnologie inimmaginabili, di cui un esempio è proprio quella che permette ai necromanti di leggere la mente dei defunti.
Un ulteriore punto di forza del romanzo è lo stile con cui De Matteo ha narrato le vicende di Briganti e dei suoi uomini. Mai banale, capace di osare con un ricchezza di vocabolario che ha pochi eguali nella fantascienza italiana. Una ricercatezza lessicale – declinata al “verbo” fantascienza – che però si alterna ad uno stile semplice che ha l’obiettivo di accompagnare il lettore in quelle parti in cui la trama ha bisogno di scivolare nelle lettura senza affanni.
È questa la fantascienza che ci piace leggere, quella in cui alle spalle di frasi come “Nel melange cleptoarchitettonico che sovrastava le acque torbide, ruderi d’epoca e falansteri si accalcavano intorno al Golfo come un esercito di sbandati in rotta” c’è l’assist dello scrittore che invita noi lettori ad immaginare, evocare sogni e visioni. E non questo uno dei motivi fondanti per cui la fantascienza si distingue dalla letteratura mimetica?
Non ci resta che sottolineare, per quel che vale, la collocazione del romanzo a livello di genere letterario: Corpi spenti è un future-noir, si inserisce cioè in quel filone che ha come precedenti L’uomo disintegrato (1952) di Alfred Bester, Dr. Adder (1984) e Noir (1998) di Kevin W. Jeter. Ancora il cyberpunk, a partire dalla “Trilogia dello Sprawl” di William Gibson, formata da Neuromante (1984), Giù nel cyberspazio (1986) e Monnalisa Cyberpunk (1988). Più recentemente è stato lo scrittore inglese Richard K. Morgan a forgiare opere che esplicitamente propongono un’interessante mistura di noir e science fiction, come nel suo primo e più noto romanzo Bay City (2002).
Non possiamo tralasciare il fatto, poi, che Corpi spenti è un romanzo che si colloca a pieno diritto nel connettivismo, il movimento letterario che Giovanni De Matteo ha co-fondato. Per averne una prova basta leggere l’ultimo punto del Manifesto del Connettivismo, dove si legge: “Noi vogliamo cantare le strade deserte della notte, i monumenti congelati nel silenzio, le luci al neon della metropolitana, le periferie spettrali, i cimiteri di campagna, i reperti dell’archeologia postindustriale, le autostrade abbandonate, le città rase al suolo dai bombardamenti, le strade dei briganti, la morbida geometria dei corpi, il silenzio attinico di stanze d’albergo abbandonate, la carica sensuale della promiscuità tecnologica, il caos, le stelle, i pianeti deserti, le sonde lanciate verso la notte, la musica radiante di quasarmorte, la tenebra metafisica di un orizzonte degli eventi, la connessione neurale.
In definitiva, Corpi spenti è uno dei migliori romanzi degli ultimi tempi e segna la piena maturità di Giovanni De Matteo. Un componimento narrativo visuale e seminale che (ri)usa i generi della narrativa popolare per tracciare nuove direzioni, non quella della contaminazione, categoria ormai superata, ma in quella di un’etica civile, di un ardore per la parola che ascrivono l’opera di De Matteo a ciò che Wu Ming 1 ha ben descritto nel suo Memorandum sul New Italian Epic.

E di fronte a due giudizi così, non posso che inchinarmi e ringraziarne gli autori.

HieroglyphIl Project Hieroglyph nasce dal confronto di Neal Stephenson, autore di monumentali opere di fantascienza fortemente ancorate al sostrato tecnologico come Snow CrashCyptonomicon, il Ciclo Barocco e Anathem, con i docenti e i ricercatori della Arizona State University, che lo hanno invitato a considerare la possibilità di sviluppare, attraverso le sue opere, idee che potessero essere adottate e implementate sul breve-medio termine da scienziati, ingegneri, architetti. Esaltando, in questo modo, le caratteristiche della fantascienza di condizionare il progresso tecnologico. Il progetto, che ha subito attirato l’interesse di numerosi colleghi (da Bruce Sterling a Cory Doctorow, da Kathleen Ann Goonan a Elizabeth Bear, da Rudy Rucker a Charlie Jane Anders, in molti hanno contribuito con le loro storie all’antologia Hieroglyph curata da Ed Finn e Kathryn Cramer), è interessante soprattutto per un motivo: nasce programmaticamente per mettere a confronto le visioni di scrittori e scienziati e creare uno spazio comune di riflessione e discussione sul futuro, capace di autoalimentarsi attraverso una sorta di catena di retroazione positiva.

Martedì scorso Marco Passarello ne ha parlato su Repubblica Sera, in un articolo che riportava anche i punti di vista di alcuni autori italiani, tra cui anche il sottoscritto. Come riporta ora sul suo blog, Marco pubblicherà la versione integrale del pezzo, completa degli interventi di tutti gli autori consultati, sul prossimo numero di Robot. Intanto qui potete leggere l’articolo scritto per Repubblica. Dove mi sono scoperto nel ruolo del più possibilista tra tutti i colleghi italiani consultati sul progetto. La qual cosa, viste le cose che solitamente scrivo, potrebbe destare una certa incredulità. Rimando al prossimo numero di Robot per circostanziare meglio il mio pensiero, in maniera da non bruciare l’articolo integrale di Marco, e in questa sede riporto solo un breve estratto che forse serve a precisare meglio la mia posizione:

A mio avviso è solo collaterale la connotazione che pure si sta dando al progetto in relazione a un approccio

Author Neal Stephenson writes of a fictional 20km-tall tower constructed of steel (source: BBC News Magazine)

Author Neal Stephenson writes of a fictional 20km-tall tower constructed of steel (source: BBC News Magazine)

improntato all’ottimismo tecnologico. È solo un pretesto il ricorso alla contrapposizione verso il filone dei futuri distopici, pressoché dominante negli ultimi decenni, un espediente utile a marcare ulteriormente i contorni di questo tipo di fantascienza, con lo svantaggio di offrire una visione parziale, riduttiva e in definitiva ingrata della fantascienza più cupa. Dopotutto, come fa notare giustamente Annalee Newitz, altra importante personalità che ha aderito al progetto, anche nelle sue manifestazioni pessimiste la fantascienza non può essere liquidata come puro e semplice sensazionalismo nichilista: “[queste opere] nascondono anche imprevedibili messaggi di speranza. Se riusciamo a richiamare l’attenzione su questi avvertimenti immaginari […], allora possiamo anche immaginare le soluzioni prima che il disastro colpisca”.

Non dimentichiamo che William Gibson iniziò a presentarci [il cyberspazio] in storie oppresse da una pesante cappa di pessimismo. Eppure la tecnologia e l’uso che ne faceva la strada venivano presentate come risorse nelle mani dei preteriti, degli ultimi, dei reietti relegati ai margini della società, sottolineandone in tal modo la natura di arma a doppio taglio. È come se ogni distopia racchiudesse in sé, opportunamente camuffato, il seme di un’utopia.

Comunque, dal punto di vista strettamente critico, mi piace constatare come la mia posizione odierna sia abbastanza in linea con quella che esprimevo nel 2008 in relazione a un dibattito analogo in corso all’epoca nel mondo anglosassone. Lasciamo gli autori liberi di scrivere la fantascienza che preferiscono. Quello che conta è l’onestà di ciascuno di noi verso se stesso e verso i lettori.

Charlie Jane Anders ha appena lanciato dalle colonne di io9, probabilmente la piattaforma dedicata alla fantascienza più

English: Photo of Charlie Jane Anders, photo b...

English: Photo of Charlie Jane Anders, photo by Gregory Bartning (Photo credit: Wikipedia)

popolare al mondo, un’idea che ha un po’ il sapore di una provocazione, ma che evidentemente nasce soprattutto da una conoscenza approfondita del genere, oltre che da una forte passione. Detta in soldoni: la fantascienza è forse giunta nuovamente in una di quelle fasi in cui ciclicamente si è trovata, nel corso della sua storia, ad aver bisogno di un impulso endogeno al rinnovamento. L’autrice (nonché editor/redattrice/curatore) individua due punti nodali nell’evoluzione del genere: la New Wave, un’epoca ricca di opere seminali capaci di segnarne irreversibilmente il cammino, e lo Slipstream, teorizzato in primis da Bruce Sterling nel 1989, che vi travasò le intuizioni e i conseguimenti maturati nel corso dell’esperienza cyberpunk. E si domanda se non sia giunto il momento di lanciare un nuovo movimento letterario, capace di mutuare le ambizioni stilistiche della New Wave e la vocazione al superamento dei confini di genere dello Slipstream. Il suo articolo merita davvero una lettura: potete trovarlo a questo indirizzo.

Charlie Jane Anders individua due poli opposti nelle modalità di concepire la fantascienza: a un estremo, l’approccio autoreferenziale, tipico degli autori che si rivolgono alla nicchia dei lettori specializzati, con cui condividono un background di elementi che vanno a costituire una sorta di barriera all’entrata per ogni altro lettore; all’estremo opposto, l’approccio letterario, che se da un lato si differenzia per una maggiore consapevolezza stilistica e per una più accentuata risonanza emotiva, riesce d’altro canto anche a parlare a un pubblico più vasto, non esigendo dai lettori una conoscenza specifica delle caratteristiche del genere. E in un passaggio cruciale si domanda:

If you see those two things as opposing points on a spectrum, then you’re bound to judge works (to some extent) based on two qualities: how beholden they are to the genre’s past, and their stylistic traits. But those are just two strengths among many — and what if you tried to create genre works that were beholden to neither past science fiction or present literary fiction?

Ovvero: “cosa ne dite se ci svincolassimo dal canone di questa polarizzazione e cercassimo di creare opere di genere che non siano in debito né verso la fantascienza del passato né verso la letteratura contemporanea?” Che è una posizione coraggiosa, anzi di più: audace. Ma che secondo Anders va incontro proprio a quella necessità di “catturare la stranezza di vivere nel nostro tempo accelerato” da cui nasceva – guarda caso – lo Slipstream. Il nuovo movimento letterario che potrebbe fornire la propulsione richiesta per il rilancio della fantascienza dovrebbe quindi essere al contempo “meno rilevante e meno riverente”.

Cover of "The Time Traveler's Wife"

Cover of The Time Traveler’s Wife

Se vogliamo, è un approccio simmetrico a quello tentato dal connettivismo, e in fin dei conti nemmeno del tutto estraneo a ciò che fanno i connettivisti. In particolare, in una fase in cui tutti nel movimento stiamo guardando con crescente attenzione al mainstream, quello indicato da Charlie Jane Anders potrebbe benissimo attestarsi come uno dei sentieri che ci condurranno verso il nextstream. Dopotutto non è poi distante dalle coordinate di quella che avevo voluto definire “fantascienza ripotenziata” parlando dell’eccellente romanzo di Audrey Niffenegger La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo, in questo senso e non solo un autentico caso di studio. Per evitare confusioni di termini e volendomi riallacciare anche alle riflessioni che sviluppavo in questo articolo del 2008 sul dibattito che si era acceso nel mondo anglosassone in merito alla rilevanza del genere, mi verrebbe da richiamarmi a quanto scritto da Charlie Jane Anders e ridefinire questa opzione come “light science fiction“. Dove l’attributo non vuole avere nessuna connotazione di merito o di valore, ma esclusivamente specificare una qualità, per identificare un tipo di fantascienza alleggerito dal suo background di riferimento, capace di estrarre il massimo dall’essenza dei suoi tòpoi. E per distinguerla in questo modo da una heavy science fiction, che invece punta sull’accumulo di elementi caratteristici del genere per ricavare il suo massimo impatto.

In qualche modo le riflessioni di Anders vanno a saldarsi con un dibattito critico in corso tra i connettivisti, forse tenuto un po’ troppo nelle retrovie. Forse, stiamo assistendo davvero ai prodromi di una nuova transizione di fase del genere. E forse, per una volta, ci troviamo in condizione di non subirne le ricadute a posteriori, potendo invece prendere attivamente parte al processo. Tutto sommato, il lavoro svolto fin qui, in questi dieci anni trascorsi dalla nascita del movimento connettivista, è servito sostanzialmente a realizzare le condizioni perché questo fosse possibile.

 

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Mi chiamo Giovanni De Matteo, per gli amici X. Nel 2004 sono stato tra gli iniziatori del connettivismo. Leggo e guardo quel che posso, e se riesco poi ne scrivo. Mi occupo soprattutto di fantascienza e generi contigui. Mi piace sondare il futuro attraverso le lenti della scienza e della tecnologia.
Il mio ultimo romanzo è Karma City Blues.

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