Di recente Charles Stross ha affrontato il tema dello straniamento culturale sul suo blog, con la consueta acutezza, in un densissimo post che vi consiglio di leggere. Eviterò di dilungarmi, ma trovo il suo intervento condivisibile dalla prima all’ultima parola.
Come sapete, credo alla definizione della fantascienza come genere incentrato sugli effetti culturali del cambiamento. Finisco così sempre per trovarmi un po’ a disagio davanti a lavori ambientati secoli se non millenni nel futuro, che pensano di poter fare a meno di cambiamenti di profondo impatto sociale, etico e politico. Un esempio tra quelli citati dallo stesso Stross è quello dei romanzi della serie di Alex Benedict di Jack McDevitt: scritti con uno stile efficace e con un ritmo avvincente, eppure a mio modo di vedere – e a quanto pare non solo – carenti sotto il profilo del world-building in quanto per tutti gli aspetti della società e della politica si limitano a trasporre la società occidentale contemporanea in un contesto interstellare. E questo è uno dei casi più eclatanti della correlazione tra i diversi aspetti della scrittura: perché posso avere in scena i personaggi più accattivanti sulla piazza (e Chase Kolpath di sicuro non passa inosservata), però se penso che le sue azioni si svolgono in una società successiva alla nostra di 10.000 anni, devo fare un lavoro aggiuntivo da lettore per adeguare il livello di sospensione dell’incredulità ed accettare che Chase si trova ad agire non nel mio presente, bensì in un’epoca ancora più remota dalla nostra di quanto il nostro presente sia distante dalla Mesopotamia dei Sumeri.
Come già faceva notare Alastair Reynolds, in uno dei panel più affollati della scorsa Loncon3, il semplice fatto di immaginare un futuro di voli spaziali è uno sforzo rivoluzionario. Probabilmente, pensare a una civiltà umana interstellare è quanto di più vicino ci sia a una celebrazione dell’utopia: se già solo l’impresa di inviare una missione umana tra le stelle presuppone l’allineamento di una serie così difficile di condizioni da sconfinare nell’idealismo, figuriamoci la costruzione e il sostentamento di una società sparsa tra le stelle. E allora come possiamo accettare che, malgrado l’evoluzione tecnologica richiesta per realizzare un simile scenario, i discendenti degli uomini che vivranno in questo contesto potranno non risentire delle ricadute del cambiamento, continuando a comportarsi in maniera del tutto indistinguibile da quella di una normale cittadina americana o europea del 2014?
Una delle ragioni per cui trovo così importante la figura di Aliette de Bodard nella fantascienza contemporanea è proprio la sua capacità di regalarci con poche pennellate scenari radicalmente complessi e profondamente problematici, eppure istintivamente credibili. Il lettore s’immerge nei suoi mondi postumani pressoché senza sforzo, con una spontaneità che ha del miracoloso. Lo straniamento culturale è un presupposto della sua fantascienza e i suoi racconti sono la prova di quanto efficace possa essere il world-building di una società del futuro remoto. Le sue opere fissano così un ideale termine di riferimento a cui chiunque si cimenti con questo tipo di fantascienza dovrebbe aspirare.
4 commenti
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