You are currently browsing the tag archive for the ‘Samuel R. Delany’ tag.
La perfetta visualizzazione della Città dei Trasporti per come me l’ero immaginata dalle prime pagine di Babel-17. A firma di J (via Instagram).
“Questa città è un porto.”
Un sole di gomma fu squassato, e tramontò; e un nulla nero-sangue si mise a far girare un sistema di cellule intrecciate con cellule intrecciate con cellule intrecciate dentro un unico stelo. E spaventosamente nitida, sullo sfondo di tenebra, una candida fonte zampillò.
Vladimir Nabokov, Fuoco pallido, traduzione di Franca Pece e Anna Raffetto per l’edizione italiana Adelphi (2002)
Finalmente la mia copia del balenottero è venuta a spiaggiarsi qui di fianco e quindi quale occasione migliore per parlarvi un po’ del mio racconto? Il senso del post, come avrete capito, è quanto di più autoreferenziale si possa immaginare. Se decidete di andare avanti, sapete cosa aspettarvi.
1. Riferimenti letterari
Come fa giustamente notare il curatore del volume Franco Forte (che ringrazio oltre che per aver messo in luce il modello, anche per avermi dato la possibilità di comparire ancora una volta in un libro con diverse autrici e autori per cui non ho mai fatto mistero di nutrire da lettore – e a volte anche, nel mio piccolo, da curatore – un apprezzamento incondizionato), sul mio racconto aleggia l’ombra di Sergio “Alan D.” Altieri. Alla fine i conti tornano, no?
Anche lui forse avrebbe usato per questo racconto l’etichetta sci-fi action, che non so se merito, però mi avrebbe fatto senz’altro piacere.
Accanto a lui, altri riferimenti al mio personale pantheon letterario che fanno capolino tra le pagine sono meno scontati per un racconto di fantascienza quale Al servizio di un oscuro potere è, e in particolare penso a H. P. Lovecraft, Thomas Ligotti e Breece D’J Pancake.
2. Suggestioni e ispirazioni
Lo spunto di partenza, la scintilla che ha innescato la suggestione da cui è scaturito il racconto, è una sequenza di fotogrammi di Bologna, una mattina presto d’inverno di due o tre anni fa. In superficie la città deserta, spazzata da un vento gelido che strappava pioggia ghiacciata a un cielo di marmo. Nel sottosuolo, il labirinto multi-livello della stazione dell’alta velocità, con le sue lunghe passerelle di vetro sospese sui binari e immerse in un’atmosfera ovattata, altrettanto rarefatta, e le voci dei passeggeri in attesa che si perdono in lontananza, soffocate dai volumi delle navate sotterranee.
La cordiale voce registrata del sistema di annunci sonori diffusi dagli altoparlanti è stata da ispirazione per Mezereth. Con la complicità di un umore appena più torvo del solito, non è stato difficile delineare invece il personaggio di Maksim Bogdanov. Il nome è un omaggio ad Aleksandr Bogdanov, sulla cui figura è incentrato Proletkult dei Wu Ming, ma anche ad Arkady Bogdanov, uno dei personaggi più intriganti della Trilogia Marziana di Kim Stanley Robinson.
3. Storie dentro storie dentro altre storie
Keira è antecedente a entrambi, essendo ormai anni che medito di raccontarne la storia. Una storia che inizia in una città devastata dalla guerra, subito dopo il crollo della civiltà, e si conclude a bordo di un’astronave interstellare che si lascia alle spalle un sistema solare irreversibilmente sconvolto. In mezzo ci sono un annuncio del SETI a lungo atteso, ma che forse mai avremmo voluto sentirci dare sul serio, e il Programma Majestic. Di tutto questo si fa menzione in Al servizio di un oscuro potere, che va così a coprire con una prima tessera il mosaico di una storia più ampia e più antica. Il resto, prima o poi, lo scriverò.
Dimenticavo. Il personaggio che fa da contraltare a Maksim nella ricerca di Keira per conto di Mezereth si chiama… Irene Adler. Ovviamente, non quella Irene Adler.
4. World-building
Nel mondo post-apocalittico in cui vivono Maksim e Irene Adler, la società e le sue strutture di potere sono state commissariate dalle intelligenze artificiali. Amorevoli, altruistiche IA come Mezereth hanno preso in custodia il genere umano per il bene della civiltà. E gli umani, per lo meno quelli sopravvissuti all’ultima guerra totale, sono stati incasellati, per il loro bene, in ruoli predefiniti in virtù della loro classificazione in sedici tipi psicologici, che riprende lo schema messo a punto dalle psicologhe Myers e Briggs, per altro madre (la seconda) e figlia (la prima), nel secondo dopoguerra (per scoprire il vostro tipo MBTI, potete sottoporvi a test più o meno accurati, anche on line se ne trovano di diversi, tra cui questo in italiano).
Nel racconto mi diverto a giocare, come si sarà capito poco sopra, con i rischi esistenziali di Nick Bostrom, provando ad azzardare una risoluzione “artificiale” del dilemma del prigioniero, che porta a pagare un prezzo alto ma accettabile per evitare la distruzione assicurata. Questo dilemma, nel racconto, è legato al paradosso di Fermi, e a una possibile spiegazione che è stata già affrontata con eccellenti risultati da autori come Stephen Baxter, Alastair Reynolds e Liu Cixin.
5. Altri mondi, altre storie
Il nome della città in cui si apre e finisce il racconto, al-Hastur, è una citazione abbastanza trasparente di Robert W. Chambers, i cui racconti del ciclo del Re in Giallo sono andati a costituire il nucleo di un universo letterario di rimandi e citazioni che si è avvalso nel corso del tempo dei contributi, tra gli altri, di H. P. Lovecraft, sublimando nell’immaginario popolare anche grazie al lavoro di Nic Pizzolatto sulla prima stagione di True Detective.
In effetti, con tutti questi link, sembra che non abbia dovuto fare altro che mettere un po’ di ordine nella cronologia del blog. Ma è stato un po’ più complessa di così.
Nella descrizione di al-Hastur come di una città mausoleo, uno spettrale sepolcro imbiancato, riverberano le sensazioni di Cuore di tenebra di Joseph Conrad, in cui si ritrova una descrizione di Bruxelles che gli permette di materializzare una critica all’imperialismo colonialista europeo (“Mi ritrovai nella città sepolcrale risentito alla vista di individui che si affrettavano nelle strade per sgraffignare un po’ di denaro l’uno all’altro, […] per sognare i loro sogni sciocchi e insignificanti. Calpestavano i miei pensieri. Erano intrusi e la conoscenza che avevano della vita mi appariva un’irritante finzione, perché mi sentivo così sicuro che non potessero certo sapere le cose che sapevo io“).
Ho aggiunto il prefisso al un po’ per un tocco di esotismo, un po’ per caricarlo di un vezzo demoniaco, e poi perché mi sono detto: con tutti questi riferimenti, perché non citare anche Jack Vance?
6. E il titolo?
Ok, adesso l’ultima e poi evito di importunarvi oltre. Il titolo, vi starete chiedendo, o forse no, ma ormai avrete capito che ho comunque intenzione di dirvelo.
Al servizio di uno strano potere è il titolo, preso in prestito da uno dei suoi racconti, di un’antologia di Samuel R. Delany pubblicata in Italia in un numero monografico di Robot (il 35, per l’esattezza, nel febbraio del 1979). Robot è la mia rivista preferita, Delany è uno degli autori di cui non potrei fare a meno (e tra i primi che citerei se mi venisse chiesto il nome di uno scrittore che tutti dovrebbero conoscere) e questa antologia è uno scrigno di pietre preziose (così parafrasiamo pure il suo titolo più bello).
Al servizio di un oscuro potere esiste anche grazie a Robot e a Delany. Ed è un’influenza che va al di là del titolo, ma che il titolo mette da subito in chiaro.
Buona lettura!
Si direbbe che ci stiamo prendendo gusto. Dopo aver rielaborato un pezzo già uscito su Robot per il volume Filosofia della fantascienza (a cura di Andrea Tortoreto, Mimesis Edizioni), con Salvatore Proietti ci siamo candidati lo scorso anno rispondendo a questa call for papers della rivista di filosofia contemporanea Philosophy Kitchen, dedicata ancora una volta ai rapporti tra l’immaginario di fantascienza e la filosofia, proponendo un pezzo inedito sui modelli e le declinazioni del concetto di eterotopia (ed eterocronia) nella fantascienza contemporanea.
Il numero della rivista, a cura di Antonio Lucci e Mario Tirino, annunciato lo scorso anno, ha visto la luce l’altro giorno sotto il titolo denso di suggestioni di Filosofia e fantascienza. Spazi, tempi e mondi altri (può essere scaricata anche in un comodo PDF da questo link) e propone un sommario ricchissimo, con contributi – tra gli altri – di Adolfo Fattori (a cui devo un ringraziamento particolare per avermi segnalato l’iniziativa e avere insistito con garbo) e Gianluca Didino (che non vedo l’ora di leggere). Come scrivono i curatori nella loro introduzione:
Nel nostro piccolo, nel presente fascicolo di Philosophy Kitchen abbiamo cercato di portare ad evidenza, facendo “parlare” le narrazioni, alcuni nuclei di questo portato filosofico presente dietro alle narrative sci-fi. Tra i tanti tagli e approcci possibili, e tra le moltissime direttive presenti nelle suddette narrative fantascientifiche, ne abbiamo privilegiate due: una tematica e una mediologica. A livello mediologico abbiamo cercato di rendere il più possibile amplio lo spettro degli “strumenti del comunicare” analizzati, nella convinzione che i media digitali (in particolare cinema, videoclip, videogioco e serialità televisiva) offrano nuove, ed estremamente importanti, possibilità di sviluppo del conglomerato narrazione-medium-teoria che è al centro degli interessi di noi curatori. […] A livello tematico, appunto, abbiamo privilegiato la lente offerta della triade utopia/distopia/eterotopia, su cui abbiamo invitato a contribuire gli autori che compongono il presente numero. La dimensione spazio-temporale “altra” delle utopie e delle distopie, infatti, ci ha permesso di aprire il ventaglio di opzioni discorsive a nostra disposizione al fine di offrire visioni dell’umano e dell’umanità, dello spazio, del tempo e dell’interazione uomo-macchina, che sfuggissero (senza per questo mancare di rigore) alle griglie della forma-trattato e che aprissero scorci, e visioni, utili – di ritorno – a un sapere filosofico che non sia pregiudizialmente chiuso alle provocazioni della multimedialità e della narratività.
In particolare il nostro pezzo, che abbiamo voluto intitolare Altri spazi, in controtempo: letture e visioni dalle nuove frontiere della fantascienza (e che può essere scaricato anch’esso in PDF cliccando sul link), viene presentato dai curatori come “una lunga ricostruzione tanto teorica quanto attenta alla storia sia romanzesca quanto cinematografica della sci-fi“, volta a offrire “un panorama dei punti di forza teorici (il postumano, le utopie e le eterotopie) che nelle narrative di fantascienza saldano immaginario utopico e tensioni sovraumaniste, mirate alla ricerca di mondi altri e potenziamenti dell’umano”.
Sono poco meno di 9.000 parole e 60.000 battute, in cui a partire da Michel Foucault e Rosi Braidotti parliamo di Ursula K. Le Guin e Samuel R. Delany, di William Gibson e del cyberspazio (ma anche della Trilogia del Ponte), di Pat Cadigan e di Kim Stanley Robinson, di Blade Runner 2049 e di Westworld, di The Man in the High Castle e di tutto quello che siamo riusciti a infilare in queste 30 pagine corredate da una settantina di titoli in bibliografia. Per stuzzicarvi ulteriormente l’appetito, eccovi un abstract in italiano:
La dicotomia tra utopie e distopie in tempi recenti è stata sempre più spesso riveduta in forma di continuum, composto di visioni che vanno dal positivismo acritico al pessimismo apocalittico, e che affrontano il rapporto con la modernità e la postmodernità, e superata nella fantascienza degli ultimi decenni in costruzioni narrative definite di volta in volta come utopie o distopie critiche – affini alle eterotopie di Foucault.
A partire dal cyberspazio di William Gibson (Neuromancer, 1984), lo «spazio altro» per eccellenza in cui le coscienze disincarnate dei cowboy dell’interfaccia compiono le loro scorribande nei territori virtuali della nuova frontiera elettronica, le eterotopie di Michel Foucault ricevono un’attenzione crescente in letteratura come anche nel cinema e nella serialità televisiva.
Per una nuova generazione di autori e autrici, con il cyberspazio Gibson fornisce nuove formulazioni (già esplorate in Philip K. Dick) del confine tra natura e simulazione e sulla convergenza tra umano e artificiale, e in tempi recenti abbiamo visto l’eterotopia rinnovarsi continuamente e assumere forme sempre nuove. Gli ambienti urbani vanno dalla trilogia del Ponte di Gibson al collasso ecologico di Blade Runner 2049; i contesti spaziali rielaborano un topos classico come l’astronave generazionale in Paradises Lost di Ursula K. Le Guin, mentre in serie TV come Battlestar Galactica e Farscape l’astronave funge al contempo da microcosmo e da laboratorio politico e sociale; gli scenari planetari diventano un’epica futura nell’acclamata trilogia di Marte di Kim Stanley Robinson.
Insieme alla letteratura, nei media visivi è la serialità televisiva, piuttosto che il cinema, a riservare l’offerta più ricca e interessante, spaziando dal parco giochi tematico sul cui sfondo vediamo consumarsi gli effetti della Singolarità Tecnologica (Westworld) all’ucronia distopica in grado di sovvertire la rassicurante familiarità della storia (The Man in the High Castle).
In ambito letterario, negli ultimissimi anni autrici come Ann Leckie e Aliette De Bodard stanno contribuendo a ridefinire le coordinate dell’immaginario di genere, operando un’inattesa fusione degli scenari di più ampio respiro della space opera con una riflessione sui temi dell’identità e della persona, come anche della memoria storica e della tradizione.
L’intenzione di questo saggio è approfondire, anche alla luce delle più recenti elaborazioni teoriche e femministe sul postumano, le connessioni interne all’immaginario di genere e le risonanze che queste instaurano con i temi di più stringente attualità affrontati nel dibattito scientifico e filosofico di inizio secolo, dai cambiamenti climatici agli interrogativi etici sollevati dallo sviluppo delle intelligenze artificiali. Il nostro approccio rifiuta le macronarrazioni top-down prevalenti nella critica italiana e ci proponiamo, attraverso il loro superamento, di sviluppare un’analisi letteraria e culturale più rispettosa dell’autonomia del genere.
E a beneficio dei naviganti anglofoni che capitano da queste parti (e che negli ultimi tempi rappresentano misteriosamente il grosso del traffico del blog) ne riporto anche la traduzione in inglese:
The utopia-dystopia dichotomy, a continuum which may summarize the range of visions (from uncritical positivism to apocalyptic pessimism) vis-à-vis modernity and postmodernity, has been more and more challenged and superseded in the science fiction of the latest decades through narrative constructions variously described as critical utopias and dystopias – akin to Michel Foucault’s notion of heterotopia.
Starting with William Gibson’s 1984 Neuromancer, the «other space» par excellence in which the disembodied consciousness of interface cowboys perform their raids in the virtual territories of the new electronic frontier, heterotopias receive growing attention, in manifold variants across literature, film, and television.
For a new generation of authors, Gibson’s cyberspace has reformulated interrogations (already explored in Philip K. Dick) on the boundaries between nature and simulation, as well as on the convergence between the human and the artificial, and in recent times readers/viewers have witnessed heterotopias assuming new shapes, across all media. Urban environments range from Gibson’s Bridge trilogy to the eco-collapse of Blade Runner 2049; space-travel settings rework the classic motif of the generation starship in Ursula K. Le Guin’s Paradises Lost while in TV series such as Battlestar Galactica and Farscape, the spaceship is a microcosm and a socio-political testing ground; planetary scenarios become an epic of the future in Robinson’s own Mars trilogy.
Along with print fiction, among visual media television, rather than film, seems to provide the deepest sources of interest, from the theme park affected by the Technological Singularity in Westworld to the subversion of history’s reassuring familiarity in the dystopian alternate history of The Man in the High Castle.
In the very latest years, the original voices of women writers such as Ann Leckie and Aliette de Bodard are redefining the genre’s imaginary, with their fusion between far-future space opera and a meditation on identity, personhood, gender, memory, and tradition
In this essay, in the light as well of the recent theoretical and feminist work on the notion of the posthuman, we intend to explore the inner connections of the genre’s iconography as it resonated with some of the most urgent topics in contemporary scientific and theoretical debates, from climate change to the ethical debates raised by the emergence of artificial intelligences. Our approach, beyond all-too-frequent top-down macronarratives, is meant as a contribution to cultural-literary analysis that does not do away with respect for the genre’s own autonomy.
Dal 1975 la SFWA, l’associazione che riunisce gli autori americani di fantascienza è fantasy, assegna il titolo di Grand Master (dal 2002 dedicato alla memoria di Damon Knight, autore, curatore e critico, nonché tra i fondatori dell’associazione, che conta oggi oltre 1.900 iscritti nel mondo) a un autore che con il suo lavoro ha dato un contributo incisivo e determinante alla storia del genere. Il primo a essere insignito, quell’anno, fu Robert A. Heinlein, e dopo di lui è stato il turno – tra gli altri – di Fritz Leiber (1981), Arthur C. Clarke, Isaac Asimov, Alfred Bester e Ray Bradbury (tra il 1986 e il 1989), Ursula K. Le Guin (2003), Harlan Ellison (2006) e Samuel R. Delany (2014), per citare solo alcune tra le 35 leggende viventi onorate da questo riconoscimento.

Foto di Jason Redmond per Wired.
L’ultimo in ordine di tempo, annunciato ieri dal bollettino della SFWA, è William Gibson, che da queste parti non ha certo bisogno di presentazioni. Ne ho scritto così tanto che probabilmente fate prima a esplorare i post del blog contrassegnati dal suo tag (dall’inizio dell’anno mi accorgo che è già la terza volta che lo taggo, ed è appena trascorsa una settimana), ma anche fuori da Holonomikon ricordo che trovate un profilo in due parti di qualche anno fa (che necessita prima o poi di essere aggiornato), un pezzo giovanile scritto in occasione del suo 60esimo compleanno e qualche recensione dei suoi ultimi lavori:
- William Gibson: nessuna mappa per questi territori – 7 gennaio 2007
- William Gibson: modelli emergenti nel tessuto della storia – 27 aprile 2007
- I 60 anni di Mr. Cyberpunk – 17 marzo 2008
- Guerreros – 1 luglio 2008
Nella sua motivazione, il presidente della SFWA Cat Rambo ha dichiarato:
William Gibson ha coniato la parola cyberspazio nel suo racconto La notte che bruciammo Chrome, sviluppando quel concetto due anni dopo nel romanzo Neuromante. Ha forgiato un corpo di opere che hanno giocato un ruolo di spicco nella definizione del movimento cyberpunk, esercitando un’influenza su decine di autori di cinema, letteratura, giochi, e su creativi di ogni tipo. Non contento di essere uno degli scrittori più autorevoli in un solo sottogenere, ha poi aiutato a definire il genere steampunk con Bruce Sterling nel loro lavoro a quattro mani La macchina della realtà. Gibson continua a produrre opere tese ed evocative che riflettono l’angoscia e le speranze del XXI secolo. Essere un Grand Master della SFWA significa essere un autore di speculative fiction che ha plasmato il genere rendendolo ciò che è oggi. Gibson ricopre abbondantemente questo ruolo.
Il conferimento ufficiale del titolo avrà luogo in occasione dell’annuale cerimonia di consegna dei premi Nebula, a Los Angeles, il prossimo 16-19 maggio.
Questa copertina è stato il primo punto di contatto tra me e Gibson: se non era il 1993, era il 1994 (un quarto di secolo abbondante, insomma… e chi l’avrebbe mai detto?):
Milan M. Cirkovic è un ricercatore serbo dell’Osservatorio Astronomico di Belgrado che da tempo si occupa di astrobiologia e SETI. In un famoso articolo del 2008, pubblicato sul Journal of the British Interplanetary Society, si sofferma sulle possibili evoluzioni delle società post-biologiche, sia postumane che extraterrestri. L’articolo può essere consultato su Arxiv.org e si intitola, in maniera molto evocativa per chi ha confidenza con un certo immaginario fantascientifico, Against the Empire.
In quello studio Cirkovic considerava due possibili modelli di società post-biologiche, applicabili a società sia postumane che extraterrestri: l’impero e la città-stato. Il primo si basa sulla spinta all’espansione e alla colonizzazione, il secondo sul contenimento delle dimensioni mirato all’ottimizzazione delle risorse. L’autore pone l’accento sul fatto che quasi sempre si analizzano i possibili comportamenti delle società post-biologiche senza tener conto del fatto che in tali società gli imperativi derivanti dalla biologia perderanno la loro importanza. Muovendo da questa considerazione arriva alla conclusione che il modello della città-stato ha ottime probabilità di successo in una società post-biologica, mentre il modello dell’impero non sarebbe così diffuso come siamo spinti a credere per effetto dei bias alimentati dalle nostre letture e visioni fantascientifiche, specialmente quelle più popolari, divenute quasi mainstream (pensiamo a Star Trek o Star Wars, che malgrado la varietà di specie portate in scena rappresentano modelli piuttosto omogenei).
Da tempo sono spinto dalle mie letture e scritture a riflettere sulle possibili caratteristiche delle società postumane. E ormai da diversi anni la fantascienza va elaborando scenari sempre più contaminati, eterogenei, meticci. Tanto che, sicuramente condizionato da queste rappresentazioni (penso a Kim Stanley Robinson, ad Alastair Reynolds, a M. John Harrison, ad Aliette de Bodard), ormai faccio fatica a concepire una società dalla costituzione monolitica e omogenea e anzi, devo ammettere, gran parte del piacere del world-building nasce dalla complessità degli scenari che si vanno elaborando.
Proviamo a vedere da quali considerazioni scaturiscono queste ipotesi?
1. Diversificazione e postumanesimo. In prima battuta dovrebbe risultare sempre meno plausibile, o quanto meno “bizzarro”, che nel vasto ventaglio delle soluzioni possibili possa prevalere un’unica tecnologia postumanizzante, a meno che questa tecnologia non sia un particolare tipo di intelligenza artificiale, nel qual caso ricadremmo nella fattispecie di problemi che abbiamo già esaminato un po’ di tempo fa e che smorzerebbe sul nascere ogni ulteriore discussione sul merito della faccenda. Quindi ipotizziamo che l’intelligenza artificiale si sviluppi in parallelo con altre tecnologie emergenti (nano- e bio-, genetica, cognitive augmentation, etc.) portando a un’esplosione di intelligenza, spingendo la curva del progresso oltre l’orizzonte percepibile della Singolarità Tecnologica, e innescando tutta quella catena di eventi che su periodi sempre più brevi renderanno sempre più complessa la società in cui viviamo, innescando il meccanismo a orologeria delle contraddizioni irrisolte che si annidano in essa, e rendendo ogni possibile scelta una questione di sopravvivenza. La diversificazione sarebbe funzionale alla resilienza (concetto ultimamente abusato e sempre più diffuso a sproposito), ma non trascuriamo neanche – per dirla con Nassim Nicholas Taleb – i vantaggi dell’antifragilità in contesti dalla spiccata incertezza.
Potrebbe infatti anche essere semplicemente una questione di filosofia: in altre parole, l’umanità potrebbe non essere così compatta da mettere a punto un piano di soluzioni condivise per affrontare i rischi esistenziali che si porranno. Eventi più o meno catastrofici potrebbero mettere l’umanità davanti a bivi più o meno drammatici, fungendo anche da banco di prova per le soluzioni escogitate. E una strategia quanto più diversificata potrebbe essere una risposta possibile (oltre che alquanto probabile) da parte del genere umano in una situazione di forte pericolo. E siccome non è detto che ogni problema abbia un’unica soluzione, eccoci mentre ci addentriamo nel giardino dei sentieri che si biforcano. Un luogo molto particolare, nel quale ad ogni passo corrispondono ore del tempo a cui siamo abituati. E poi giorni. E poi anni…
2. Diaspora e disgregazione. In seconda battuta, su un periodo sufficientemente lungo (diciamo una prospettiva di qualche decennio, ma volendo stiamo pure larghi e diamoci l’orizzonte temporale del secolo in corso), non riesco a disaccoppiare l’evoluzione postumana dalla colonizzazione spaziale. I due concetti mi sembrano diventare sempre più inestricabilmente correlati man mano che ci addentriamo nell’uno o nell’altro. La Nuova Frontiera Spaziale potrebbe rappresentare quel punto di svolta capace di promuovere la diffusione di numerose tecnologie emergenti. Ho studiato anch’io Kim Stanley Robinson, negli ultimi anni me ne sono occupato diffusamente e ovviamente ho bene in mente questo suo articolo fondamentale, tuttavia non riesco a non pensare a un futuro a medio-lungo termine in cui l’umanità resta confinata sulla Terra.
Non prevedo lo sviluppo di una civiltà interstellare, ma trovo istintivamente poco credibile uno scenario in cui da qui alla fine del XXI secolo non ci siano delle colonie umane nello spazio: habitat artificiali nella cintura asteroidale, o sulla Luna e su Marte, magari anche solo come forma di presidio scientifico se non proprio di sfruttamento minerario, renderanno la frontiera spaziale un po’ quello che nel XX secolo è stato l’Antartide. Sicuramente poco per parlare di una vera e propria civiltà interplanetaria, ma a mio parere un’esperienza fondamentale per dotarsi di quelle conoscenze necessarie a elaborare sistemi di supporto vitale in grado di assicurare agli habitat artificiali un’autonomia dal pianeta madre. Qui mi rendo conto di calpestare un terreno piuttosto scivoloso, però nel 1919 conoscevamo già tutto quello che nella seconda metà del secolo scorso avrebbe reso possibile lo sviluppo di internet, dai laboratori della DARPA alle nostre case (e ancora una manciata di anni dopo alle nostre tasche): il limite era di natura tecnica, non scientifica. Quindi non trovo così astruso pensare a ecosistemi chiusi sempre più efficienti per sostenere piccole comunità di coloni spaziali.
Volendo spingerci più avanti di qualche secolo, senza timore di sconfinare nel dominio delle fantasticherie, la diaspora umana su altri pianeti esterni al sistema solare non farebbe altro che indebolire i reciproci legami e influssi tra le varie comunità. Le distanze in gioco sarebbero tali da comportare una drastica riduzione della banda di comunicazione e un lag culturale di una certa rilevanza. Anche limitandoci a considerare solo i sistemi stellari più vicini (una cinquantina nel raggio di 5 parsec, ovvero 16 anni-luce), senza un qualche tipo di collegamento più veloce della luce (FTL) ci troveremmo di fronte a separazioni dell’ordine di decine di anni di attraversamento (ricordate Interstellar? Allo stato attuale: “La stella più vicina è lontana migliaia di anni…“). La Nuova Frontiera risulterebbe così estremamente incentivante sul fronte della “postumanizzazione” come anche della disgregazione della matrice dell’umanità. A questo proposito sono esemplari i lavori di Samuel R. Delany (che in Babel 17 mette in scena una frammentazione di tipo linguistico e culturale), di Bruce Sterling (che nel sontuoso universo della Matrice Spezzata parte dalla frattura dell’umanità in Mechanist e Shaper per progredire nella disintegrazione tra cladi e fazioni fino a livelli parossistici) e di Alastair Reynolds (che allestisce uno scenario intrigante e piuttosto problematico, con numerose fazioni politiche a contendersi lo scacchiere interstellare del Revelation Space).
A meno di qualche scoperta o invenzione che ci permetta di infrangere la barriera della luce e contrarre così le distanze tra i diversi avamposti della postumanità, la colonizzazione interstellare condurrà a una crescente frammentazione che potrebbe semplicemente rappresentare la naturale evoluzione della situazione già disgregata di partenza, in uno scenario che richiama l’organizzazione in città-stato a cui si riferisce Cirkovic. In una sorta di gioco frattale di autosomiglianza di scala, le differenze potrebbero ripetersi a livello planetario, stellare e interstellare.
Con colpevolissimo e ingiustificato ritardo, vi segnalo l’uscita, ormai da un paio di settimane, del nuovo numero di Quaderni d’Altri Tempi, con l’intervento che vi avevo annunciato su Samuel R. Delany e La Ballata di Beta-2: s’intitola in maniera un po’ altisonante, ma consistente con l’argomento di fondo del romanzo, che può essere letto come una trasposizione della narrazione cristiana della Passione. Il libro contiene, come sempre accade con Delany, anche molto di più.
Anche questo numero di QdAT contiene molto di più. Non ho ancora finito di leggerlo, ma spulciando nel sommario ne troverete sicuramente a sufficienza da soddisfare i vostri gusti. Personalmente, ho davvero molto apprezzato le riflessioni di Roberto Paura e Valerio Pellegrini innescate da due dei migliori film dell’ultima stagione, rispettivamente Ex Machina (di cui mi riprometto di parlarvi a mia volta) e Mad Max: Fury Road.
Concludo invitando chi si fosse lasciato sfuggire il romanzo di Delany in edicola a recuperarlo in formato elettronico (per esempio qui). Gli e-book sono la salvezza dell’appassionato e questa ne è la prova.
Artwork by Leo and Diane Dillon, via io9.
Ogni volta che prendo — o riprendo — tra le mani un’opera di Samuel R. Delany, sia un racconto, una novella o un romanzo, mi scopro a sorprendermi di quanto il caro vecchio “Chip” abbia ancora da insegnarci.
Nel 2006, dopo una lunga campagna di caccia per bancarelle e librerie dell’usato, per la prima volta riuscivo a mettere le mani su una copia logora e polverosa de La Ballata di Beta-2: si trattava del BiGalassia curato da Vittorio Curtoni e Gianni Montanari (artefici anche della traduzione) che lo riuniva con Babel 17. Quella primavera erano trascorsi più di trent’anni dalla sua stampa (nonché ultima manifestazione editoriale della Ballata), e circa quaranta dalla pubblicazione dei testi originali, ed entrambi non erano invecchiati di un solo giorno.
Negli anni mi è poi capitato di rileggerli entrambi diverse altre volte, in preda a un’assuefazione crescente. A quel punto, come insegna William Gibson (nel racconto Il mercato d’inverno, da La notte che bruciammo Chrome), avrei dovuto vedere attenuarsi progressivamente l’effetto che quelle pagine avevano su di me:
— Effetto truffa — dissi, arrotolando un pezzo di cavo.
— Come?
— È il sistema che usa la natura per dirti di piantarla. È una specie di legge matematica: puoi avere vera soddisfazione da uno stimolante solo un tot di volte, anche se aumenti la dose. Ma non riuscirai mai a ricavarne l’effetto che hai provato le prime volte. O comunque non ne saresti capace. Questo è il guaio con le droghe sintetiche: sono troppo furbe.
Invece la dipendenza non ha comportato un aumento della soglia di tolleranza: anzi, ogni rilettura portava con sé un piacere nuovo, inatteso.
L’ultima volta è capitato con La Ballata di Beta-2 alcune settimane fa, in occasione dell’attesa ristampa di Urania nella sua collana dei classici. Rileggerlo mi ha pervaso di un senso di soddisfazione e appagamento, come da sempre mi capita con i lavori di Delany. Non riesco a pensare a nessun altro autore provvisto della stessa abilità del caro vecchio Chip di incantarmi e tenermi incollato alle sue storie. Il giro delle frasi reso magistralmente dai suoi eccellenti traduttori italiani, la carica visionaria delle immagini, la forza dirompente dei concetti sottesi alla sua letteratura. Spesso le storie di Delany ci parlano di futuri lontanissimi, in cui l’umanità si è diffusa per tutta la galassia — se non ha già addirittura tentato qualche salto al di là dei suoi bordi — eppure il legame con l’epoca dell’autore si avverte in maniera indubitabile e riverbera nei nostri tempi, un segno inequivocabile delle opere destinate a restare.
Lette durante i giorni più caldi e bui della crisi dei migranti, diverse pagine de La Ballata di Beta-2 si caricano di una luce nuova, che le rende se possibile ancora più vivide. Più o meno in quei giorni mi capitava anche di leggere questa disamina a firma di Gioacchino Toni, apparsa su Carmilla on line, del volume La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo. Eterotopie, personaggi, mondi, una raccolta di articoli curata da Sara Martin sviluppati “dall’idea che la serialità si trovi ad essere al centro di una tensione trasformatrice della società contemporanea”. In quell’articolo trovavo anche un particolare passaggio, riferito a un’analisi di The Walking Dead, che accendeva una serie di risonanze con l’attualità e, di riflesso, con La Ballata di Beta-2:
Lo scritto di Gabriele de Luca si occupa della rappresentazione dello straniero attraverso la figura del morto vivente in The Walking Dead (AMC, dal 2010). Prima di affrontare direttamente la serie, l’autore ricostruisce brevemente come la figura del morto vivente si presti a divenire nelle produzioni audiovisive contemporanee metafora “dello straniero, e più precisamente del migrante, quello irregolare, che si sposta clandestinamente, che viaggia senza i documenti necessari”. Analizzando le caratteristiche dello zombie, suggerisce de Luca, diviene possibile “riflettere sullo statuto attuale di questa figura” e sulla “rappresentazione dell’altro nei media contemporanei”.
Il classico dilemma circa la vera natura dei morti viventi torna anche in The Walking Dead: queste figure appartengono o meno al genere umano? I morti viventi della serie si presentano trasandati, pallidi, affamati e muti. “Gli zombie, come i migranti ridotti al silenzio dalle culture dominanti, sono muti, incapaci di articolare le proprie rivendicazioni, in grado a malapena di dialogare tra loro”. L’elemento che però sembra accomunare maggiormente zombie e migranti irregolari è la deindividualizzazione. I media rappresentano quasi sempre i migranti, esattamente come gli zombie, come folla, come orda che avanza col fine ultimo di sconvolgere la vita delle comunità civili. Tra le peculiarità della serie esaminata, de Luca individua il fatto che “la presenza dei walkers da stato d’eccezione diventa caratteristica costante di un mondo nuovo, rispetto al quale quello vecchio non è che un ricordo”.
Non so se posso concordare precisamente con il parallelo di De Luca, ma non faccio fatica a trovare corrispondenza tra la percezione dei migranti manifestata da un numero preoccupante di persone e la rappresentazione dei media, spesso congegnata ad hoc (vedi in particolare il discorso della deindividualizzazione) per sottrarre complessità al problema e far leva sulle paure più istintive.
E proprio alla luce di questo mi sono accorto di quanto ha ancora da insegnarci un libro come La Ballata di Beta-2, che ci parla di scontro di civiltà ma inserendo il discorso sui binari dell’incontro, di aspirazioni ottuse all’autarchia e all’isolazionismo che vengono decriptate solo attraverso la ricerca, il confronto e la comprensione, di progresso come un’attitudine da condividere, non come una risorsa da cui escludere l’altro da sé. È un libro denso di insegnamenti, La Ballata di Beta-2. Ecco perché andrebbe letto ancora oggi, e magari fatto leggere soprattutto ai lettori più giovani.
E già che ci sono vi segnalo questa lunga intervista rilasciata da Delany a Rachel Kaadzi Ghansah della Paris Review, in cui vengono affrontati in maniera approfondita numerosi aspetti della condizione umana personale di Delany e della sua scrittura, nonché diversi temi più generali di critica letteraria.
Giovanni Agnoloni ha sintetizzato per PostPopuli alcune sue riflessioni sull’Altro, che presto confluiranno in un saggio più strutturato sul connettivismo, conducendo una panoramica su Corpi spenti e la serie della psicografia in cui si inserisce. Con l’occasione mi ha rivolto anche alcune domande su argomenti di cui si è molto discusso in rete – anche da queste parti – negli ultimi tempi: i “realisti di una realtà più grande” di Ursula K. Le Guin, il congresso di futurologia e lo stato della fantascienza in Italia. E così l’articolo è diventato una sorta di termometro della situazione. Ve lo consiglio anche per questo.
Eccone un estratto:
In un nostro recente scambio di battute su FB – a seguito del suo articolo uscito su Holonomikon – hai sottolineato come il Connettivismo si fondi sulla sostanziale compresenza (o, eventualmente, sull’alternanza) di generi diversi, fusi però in un’unica sensibilità capace di proiettarsi anche su un orizzonte narrativo mainstream. Si può dire che il movimento stia cercando di evolversi in una direzione che vada oltre certe resistenze “passatiste” della produzione strettamente fantascientifica italiana, che evocavi nel tuo articolo?
Ho sempre creduto che la cosa importante fosse evitare di fossilizzarci. Per restare in ambito fantascientifico, la mia prima grande passione è stato il cyberpunk: dai quindici anni in poi ho cercato di acciuffare qualsiasi cosa fosse stata pubblicata in Italia di riconducibile a questa corrente letteraria. Ho accumulato decine di libri e li ho divorati tutti, leggendoli più e più volte. Ma per mia fortuna, quando ho scoperto il movimento di Gibson e soci, Bruce Sterling ne aveva già certificato la morte da quattro o cinque anni. La scena del crimine, quando sono arrivato io, era già fredda… Così ho potuto spingermi in esplorazione, fuori dal filone, e sai cosa ho trovato? Altre fonti di meraviglia che hanno acceso altre passioni: Philip K. Dick, per cominciare; e poi Samuel R. Delany, J.G. Ballard e gli altri protagonisti della New Wave; e poi Alfred Bester, Fritz Leiber, Frederik Pohl e gli altri padri ispiratori del genere. E, tra gli italiani, Valerio Evangelisti, Vittorio Catani, Vittorio Curtoni, Lino Aldani…
Tra gli utenti del fandom di SF attivi in rete, c’è un certo numero di nostalgici che rimpiangono un’età dell’oro perduta: la cara vecchia space opera, le storie semplici e accattivanti di una volta, i protagonisti tutti d’un pezzo, e non so che altro. Non credo che siano la frangia più numerosa del fandom (figuriamoci dell’intero bacino di lettori di fantascienza, di cui il fandom rappresenta solo la punta dell’iceberg), ma di sicuro è la più rumorosa. Scalpita, recrimina, rivendica un ritorno a stagioni della nostra storia che purtroppo per i loro sogni non si ripeteranno mai più. Come non si ripeterà più il decennio del cyberpunk. Ma questo non vuol certo dire che in futuro non ci saranno correnti e filoni altrettanto vitali e interessanti.
Già adesso nel mondo anglosassone si parla di una nuova Golden Age: lo hanno fatto quest’anno gli editori e gli addetti ai lavori riuniti a Londra in occasione della WorldCon. Si guarda con interesse ad altre culture, grazie al fatto che la società americana e quella britannica, di fatto le culle della science fiction, acuiscono sempre di più i loro tratti multietnici. E si guarda con uguale interesse al tema dei diritti civili, che dal femminismo in avanti non ha mai conosciuto battute d’arresto. Solo qui in Italia possiamo trovare gente che si permette di fare la voce grossa guardando al passato, senza che si inneschi un moto di risposta collettivo che riesca a isolare e far risaltare l’insulsaggine di queste pretese.
Con il connettivismo abbiamo messo in piedi un tentativo in questa direzione. E l’idea di cristallizzarci in uno schema imitativo (sia pure di noi stessi) non ci sfiora nemmeno. Quest’anno varchiamo l’orizzonte dei dieci anni. Era una notte di dicembre del 2004, quando quest’oscuro congegno si mise in moto. Chi l’avrebbe detto che dieci anni dopo saremmo stati ancora qui (con Sandro Battisti, Marco Milani e un gruppo sempre più numeroso di amici acquisiti per strada, tutti animati dalla stessa passione) a parlare di fantascienza e a proporre progetti per il futuro?
Seconda notizia editoriale della settimana. Esce in questi giorni un mio nuovo racconto, il primo per Future Fiction, la factory fondata da Francesco Verso in seno alla Deleyva Editore di Emanuele Pilia. La collana, fin dalla sua dichiarazione d’intenti, si prefigge di dar voce a storie dal futuro, ovvero a “narrazioni “potenziate” che esplorano la relazione ambigua tra gli esseri umani e la tecnologia, le trasformazioni dell’identità personale e dell’organizzazione sociale, l’incontro tra l’umanità e la scarsità oppure l’abbondanza di risorse: visioni che scrutano in ogni futuro possibile“.
Credo che Riti di passaggio s’inserisca bene in questa visione. Scritto tempo fa (la prima stesura risale al 2009) sull’onda di una serie di suggestioni metaletterarie, non ultime quelle innescate dall’ennesima rilettura del racconto L’integrazione segreta di Thomas Pynchon, di cui tiravo le fila in un vecchio post dello Strano Attrattore, il racconto è imperniato sul dilemma isolazionismo/integrazione (che in termini diversi avevo cominciato a delineare fin da questa panoramica critica risalente al 2008) e affronta il tema della esplorazione spaziale da un punto di vista molto problematico. In presenza di un ecosistema alieno, come converrebbe impostare il processo di colonizzazione: terraformando e distruggendo l’ambiente preesistente, oppure avviando uno sforzo per la modifica biologica dei coloni volta alla piena integrazione della loro società nell’ecosistema del nuovo pianeta? Ai coloni terrestri giunti nel sistema di Kappa Ceti Primo, lontana 30 anni luce dal Sole, viene offerta una ghiotta opportunità: un sistema planetario doppio, due corpi celesti molto simili tra di loro e non privi di vita aliena, su cui poter sperimentare un nuovo inizio.
Rispetto alla prima versione, il racconto è stato profondamente modificato in sede di revisione grazie agli spunti e ai consigli di Francesco Verso, con il quale abbiamo affrontato una fase di editing feroce quanto fruttuosa. E alla fine l’opera ne ha tratto enorme beneficio, tanto a livello di struttura quanto di fruibilità.
Questa la sinossi ufficiale:
Secoli prima, Triton e Siren, due pianeti gemelli nel sistema stellare Kappa Primo Ceti, erano stati colonizzati da una spedizione terrestre secondo filosofie diametralmente opposte: integrazione con l’ecosistema nativo nel primo caso e isolamento biologico della colonia nel secondo. Le conseguenze di queste scelte si riflettono adesso nello stile di vita e nelle contraddizioni delle due società postumane che si sono sviluppate dagli insediamenti originari dei Precursori.
Per Maya, cresciuta su Siren in una bolla pacifica e isolata dalla natura ostile del pianeta, la Vecchia Terra è solo un vago ricordo appreso nel corso delle lezioni di storia pre-Transito. Ma nel passaggio dall’adolescenza alla maturità la protagonista della storia scoprirà di avere una conoscenza molto limitata anche del pianeta in cui vive. Perché il mondo degli adulti è fatto di compromessi e macchinazioni che mal si accordano con la curiosità tipica della sua età. Insieme alla coetanea Larisa e a 3-Naïme, suo droide e tutore personale, Maya si metterà alla ricerca di qualcosa che la porterà a scoprire i segreti del processo di colonizzazione, proprio mentre la crisi politica su Triton rischia di sconvolgere il sogno utopistico della sua comunità.
“Riti di passaggio” può essere letto sia come una storia di ‘formazione’ che di ‘terraformazione’, dove gli elementi rituali scandiscono le varie fasi della genesi di Maya e della storia di Siren. Con uno stile fluido e ricercato, e soluzioni che richiamano alla mente sia la narrativa di anticipazione di Samuel Delany che le estrapolazioni postumane di Greg Egan e Alastair Reynolds, Giovanni De Matteo con questo racconto si conferma essere una delle voci più impegnate e interessanti nel panorama della fantascienza italiana.
L’immagine di copertina è di Mattia De Iulis. L’e-book consta di 35 pagine e può essere acquistato al prezzo di 1,46 euro sui principali bookstore on-line, a partire da Amazon.
Il giorno è arrivato! Da oggi potete trovare in edicola Corpi spenti: un distillato purissimo di angoscia urbana post-cyberpunk da centellinare con cura. Il volume cartaceo targato “Urania” sarà disponibile per tutto il mese di giugno, a richiesta dal vostro edicolante di fiducia. L’edizione digitale del romanzo resterà inoltre disponibile al download sui principali store on-line: Amazon, BookRepublic, IBS, inMondadori, LaFeltrinelli, a seconda dei vostri gusti e delle vostre adesioni ideologiche. In attesa della copertina del volume, eccovi intanto la copertina proprio dell’e-book, a firma di Franco Brambilla:
La quarta:
Nel 2049 sono cominciate le operazioni della Sezione Investigativa Speciale di Polizia Psicografica, un gruppo di agenti che possono estrarre informazioni dai morti, recuperandone la memoria. Sono i necromanti e il loro uomo di punta, Vincenzo Briganti, ha risolto nel 2059 il caso battezzato ufficiosamente Post Mortem (ma pubblicato su “Urania” come Sezione π²). Ora siamo nel 2061, anno del bicentenario dell’Unità italiana, e la Bassitalia sta per secedere dal resto del paese “come una coda di lucertola”. Sulla manovra gravano pesanti ipoteche, perché qualcuno pensa di trasformare il Territorio Autonomo del Mezzogiorno in una vera e propria riserva di caccia per i signori della nuova società feudale. Briganti e i suoi colleghi avranno poco meno di un mese per scoprire tutti gli intrighi ed evitare che il Territorio si trasformi in un ghetto tecnologico per schiavi del lavoro… o molto peggio.
Un libro e un racconto. Per il tracciamento dei container trasportati via mare e lo scenario da guerra di spie in cui il Mediterraneo sta scivolando in Corpi spenti, ho derivato lo spunto di partenza da Guerreros di William Gibson.
Un altro debito importante è verso Samuel R. Delany (non è la prima volta, non sarà l’ultima) e il suo Sì, e Gomorra. A distanza di 47 anni dalla prima pubblicazione gli scenari delineati nel racconto, con le sottoculture urbane che fioriscono intorno allo sfruttamento sessuale degli spaziali in licenza, continuano a risultare una metafora insuperabile, soprattutto come rappresentazione delle alternative di utilizzo che la strada riesce sempre a trovare per le ricadute del progresso.
Uno dei punti-chiave del romanzo è la colonizzazione spaziale. Il che potrebbe sembrare paradossale, per un future noir che si svolge interamente per le strade di una metropoli e nei suoi bassifondi. Ma la Nuova Frontiera incombe sui personaggi e sulle loro storie. Tra i principali spunti che ho voluto approfondire nel libro c’è appunto l’approccio dell’umanità allo spazio: il modo in cui ci si arriva, il modo in cui la conquista dello spazio ci cambia. L’outer space si riversa nell’inner space, e come insegna J.G. Ballard il terreno di battaglia sono prima di tutto la nostra psiche e i nostri corpi.
Tre parole-chiave per l’approccio alla tecnologia in Corpi spenti: nichilismo, alienazione, paranoia.
Immagini via Exonauts.
Stagione di transizione, ritorno all’ora solare, domenica. Il momento ideale per riascoltarsi Sunday Morning dei Velvet Underground. Al di là della nenia quasi sognante e del suo andamento oserei dire onirico, il testo di Lou Reed e John Cale sprigiona un senso di ossessione (it’s just a restless feeling, fin dalla prima strofa) che affonda le radici nel rapporto tra il presente/futuro e il passato. Da una parte abbiamo il territorio delle possibilità, dall’altro quello delle azioni concluse, degli errori commessi (early dawning / sunday morning / it’s all the wasted years / so close behind) e degli effetti delle decisioni prese (early dawning / sunday morning / it’s all the streets you’ve crossed / not so long ago). Come si può notare dai due esempi, l’uso accorto dell’anafora dimostra una consapevolezza che va ben al di là della presunta estemporaneità della lirica.
Si raccontano molte storie, intorno a questa canzone. Pare che fosse stata commissionata esplicitamente dal co-produttore Tom Wilson per avere un’altra traccia sul loro ormai leggendario album di debutto The Velvet Underground & Nico (1967) da registrare con la voce della cantante tedesca. Fu quindi l’ultima canzone composta dal gruppo per l’album, a quanto tramanda la storia proprio all’alba di una domenica mattina nel novembre del 1966, non dopo un sabato sera di bagordi come si potrebbe intuire dal testo ma dopo una nottata di registrazioni in studio. Si dice che fu il produttore Andy Warhol a suggerire a Lou Reed il tema dell’angoscia strisciante e che John Cale incluse il motivo del carillon quando notò nello studio una celesta (una variante dello xilofono) e pensò bene di usarla come strumento. Dopo le prove iniziali che videro Nico alla voce, la versione definitiva fu registrata da Lou Reed stesso, mentre la cantante passò al coro. E il risultato fu tale da meritarsi la traccia d’apertura dell’album. Ma sono tutte notizie facili da recuperare in rete, a partire dalle relative voci sulle edizioni italiana e inglese di Wikipedia.
Quello che più mi piace della canzone è il senso di commistione, di sconfinamento, di compenetrazione tra il presente, il passato e il futuro. La trovo una canzone molto fantascientifica, in questo senso. Emblematico in particolare è il ritornello:
Watch out, the world’s behind you
There’s always someone around you
Who will call
It’s nothing at all
Ora, il ritornello è proprio il motivo da cui nasce la mia ossessione per Sunday Morning. In un’intervista rilasciata al critico Larry McCaffery nel 1996, William Gibson riconosce Lou Reed come una delle sue massime influenze e dichiara che avrebbe voluto usare il primo verso del ritornello come epigrafe per il suo romanzo d’esordio: Neuromante, il libro che nel 1984 ha cambiato la storia della fantascienza, con un influsso che si è propagato presto ben al di là dei limiti del genere. Forse per un errore di trascrizione, il verso diventa però “Watch out the worlds behind you“, distorcendo sottilmente il significato originale del testo, e in questa versione mi giunse quando per la prima volta lessi l’intervista nel 2001. Ovvero: “Attento ai mondi dietro di te”, come riporta anche questa traduzione per le pagine di Intercom, producendo quell’effetto di spiazzamento che probabilmente è la causa principale – ma non l’unica – della mia associazione tra il mood della canzone e un panorama fantascientifico.
Tutta questa storia ha un vago sapore di mistero, se me lo consentite. Mi ricorda lo scavo filologico operato da Samuel R. Delany nel superbo La Ballata di Beta-2 (1965), dove la canzone del titolo racchiude nascosto tra i suoi versi il senso ultimo della catastrofe che ha spazzato via una spedizione spaziale. Ma se vogliamo restare in ambito musicale, mi richiama alla mente anche la storia di Strawberry Fields Forever, canzone del 1967 che rappresenta uno dei primi passi dei Beatles nel rock psichedelico. Quando cominciò a scriverla durante un soggiorno in Spagna tra il settembre e l’ottobre del 1966, John Lennon tornò con la memoria al campo giochi proibito della sua infanzia, dietro l’omonimo orfanotrofio di Liverpool, e scrisse una strofa da cui tutto sarebbe partito, ma che non sarebbe mai stata inclusa nella versione definitiva, per la quale preferì una scrittura ancora più criptica. E fu così che:
No one is on my wavelength
I mean, it’s either too high or too low
That is you can’t you know tune in but it’s all right
I mean it’s not too bad
divenne:
No one I think is in my tree
I mean it must be high or low
That is you can’t, you know, tune in
But it’s all right
That is I think it’s not too bad
Un caso, insomma, di versi fantasma, cancellati dal nostro continuum spazio-temporale. Per quelli tra di voi che fossero interessati ad approfondire, Wikipedia ricostruisce la genesi della canzone (in italiano e in inglese). Per i musicofili, in rete si trova anche uno studio accuratissimo firmato dall’esperto Alan W. Pollack.
Per qualche motivo, Gibson non poté adottare la citazione di Sunday Morning in Neuromante, ma riuscì a rimediare nel 1999 con il suo sesto romanzo personale, che da una canzone inclusa nello stesso album – guarda caso, la traccia numero 6 – titolò All Tomorrow’s Parties (da noi American Acropolis). Il verso modificato è anche una delle citazioni di apertura del mio Sezione π², un caso di blooper intenzionale, come se il romanzo non appartenesse a questo, ma a uno degli innumerevoli mondi che pensiamo di esserci lasciati dietro le spalle, e che invece continuano a braccarci, come lupi famelici nelle luci grigie dell’alba che s’infiltrano nel tessuto dei sogni.
[Questo post è originariamente apparso su Uno Strano Attrattore, il 16 settembre 2012.]
Interazioni recenti