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Uno spettro si aggira tra le visioni del futuro dell’umanità. A dire la verità, di spettri potremmo contarne diversi, ma se escludiamo le estrapolazioni in cui la civiltà umana si annienta in una catastrofe globale, il più ingombrante rimane senz’altro quello della futura scalata umana alla Nuova Frontiera.
Per noi vecchi arnesi cresciuti a pane e fantascienza, lo spazio è il convitato di pietra di ogni tentativo di proiezione dell’umanità nel futuro. Lo è anche a dispetto dell’evidenza di tutti gli ostacoli disseminati lungo il cammino verso le stelle, perché con ogni probabilità il mistero del cosmo è iscritto talmente a fondo nel nostro inconscio come specie da essere diventato un marchio a fuoco nel codice memetico del nostro immaginario. E lo è al punto da saltare fuori anche nelle visioni del futuro nominalmente concepite in antitesi con le spensierate avventure tecnologiche della prima fantascienza, quella ormai associata con la Golden Age: se da un lato la space opera non ha mai perso davvero vigore, attraversando le decadi sulla spinta di un motore inerziale che da Edmond Hamilton e Isaac Asimov è passato per la penna di Frank Herbert, Larry Niven, John Varley e C.J. Cherryh per arrivare fino a noi con Lois McMaster Bujold, Iain M. Banks, Vernor Vinge, e poi con Peter F. Hamilton, Alastair Reynolds e numerosi altri anche tra i frequentatori occasionali, è un dato di fatto che lo spazio è un ingrediente fondamentale nel world-building dello stesso cyberpunk (pensiamo alla Disneyland orbitale di Freeside o all’epilogo stesso di Neuromante, agli habitat spaziali della Matrice Spezzata o alle colonie extra-mondo di Blade Runner, tanto per citare i tre pilastri su cui l’immaginario del movimento degli Anni Ottanta ha preso forma), come lo erano stati la Luna, Marte e i satelliti dei giganti gassosi per Philip K. Dick e lo specchio delle contraddizioni terrestri allestito da Ursula K. Le Guin sui pianeti del suo Ecumene, o come lo sarebbero poi stati diversi sfondi del sistema solare per Kim Stanley Robinson, gli autori della cosiddetta fantascienza umanistica, Ian McDonald o gli aderenti alla Mundane SF.
Alla luce di questa scorribanda più veloce della luce, potremmo distillare l’essenza della fantascienza in una formula approssimativa, ma che ne riesce comunque a cogliere una delle caratteristiche più distintive emerse in un secolo di invenzioni, declinate sia nella dimensione della creatività più esplosiva che sul piano della critica più speculativa: vale a dire, che per l’umanità non c’è futuro senza spazio.
Da veterani di questo feeling di lunga data, noi appassionati di fantascienza siamo quindi particolarmente sensibili alle imprese spaziali vagheggiate, programmate o millantate dalla genia dei multimiliardari che da alcuni anni a questa parte inseguono il sogno dello sviluppo commerciale dello spazio. Ancor più di Jeff Bezos (di cui proprio durante la pandemia ha finito per insidiare il primato di uomo più ricco del mondo, secondo molti arrivando nel 2022 addirittura a surclassarlo) o di Richard Branson, che può vantare la costruzione del primo aeroporto spaziale, grazie alla sua sovra-esposizione mediatica è ormai Elon Musk a personificare l’imprenditore del futuro, provvisto di una visione e a capo di un impero economico capace di tentare la conquista della frontiera spaziale. Il più grande capolavoro di Musk è stato probabilmente quello di intestarsi un’immagine di outsider, come se un uomo fuori dalle logiche del mercato potesse arrivare ad accumulare la fortuna richiesta per diventare l’uomo più ricco del mondo – oppure, se è per quello, come se un uomo in grado di twittare 5mila volte in un anno potesse anche essere direttamente coinvolto in un’attività vagamente assimilabile al lavoro.
Questo gli ha permesso di far passare sempre sottotraccia le molteplici contraddizioni della visione imprenditoriale di cui si fa portatore: da una parte la proiezione verso un futuro migliore sbandierata a suon di tweet e interviste, dall’altra le conseguenze pratiche sulla vita degli abitanti di Boca Chica comportate dall’attività della sua Starbase in Texas e i dissidi professionali con i suoi collaboratori e dipendenti. Come emerge, nonostante i toni apologetici, dalla sua biografia scritta da Ashley Vance (Elon Musk: Tesla, SpaceX e la sfida per un futuro fantastico) e come riassumeva Nicolò Porceluzzi nel suo profilo redatto per Prismo, i dipendenti di Musk finiscono per essere utilizzati come munizioni, investiti strumentalmente di un ruolo solo nella logica di finalizzare uno scopo, dopodiché consumati e buttati via. Nello stesso articolo gli esempi si sprecano: dalla collaboratrice di lunga data licenziata per aver chiesto un aumento, alle conseguenze altrettanto estreme per i dipendenti che mancano una deadline o commettono un refuso in una e-mail importante.
Dopotutto ogni cosa per Musk sembra ridursi a un mezzo al servizio dei suoi obiettivi: che siano i dipendenti delle sue aziende o gli abitanti di un villaggio di pescatori che per caso si è venuto a trovare troppo vicino alla sua base operativa per i lanci spaziali. Perché dovremmo quindi sorprenderci se Musk ammette candidamente che il sacrificio da pagare per andare su Marte si misurerà in missioni fallite e vite umane perse? Perché dovremmo stupirci se Musk pianifica la conquista di Marte con un meccanismo di servitù debitoria che somiglia a una forma di schiavitù a esclusivo beneficio dei suoi sogni di colonizzazione spaziale?

Ma se la sorpresa non è giustificata, la generale mancanza di reazione da parte dell’opinione pubblica, di coloro che si fanno passare per intellettuali o – entriamo in modalità utopia estrema? – della politica, desta più di qualche perplessità. Le rare volte in cui Musk ha finito per sfiorare il discorso, come quando il governatore repubblicano Greg Abbot ha dichiarato la vicinanza (se non proprio l’appoggio) del suo nuovo partner in affari alle politiche sociali del Texas, nella scia delle polemiche seguite alle nuove restrizioni sull’aborto introdotte dallo stato nel settembre del 2021, per smarcarsi Musk non ha saputo fare di meglio che prodursi in una dichiarazione pilatesca (quella volta fu questa: “In general, I believe government should rarely impose its will upon the people, and, when doing so, should aspire to maximize their cumulative happiness. That said, I would prefer to stay out of politics“).
Allo stesso modo in cui siamo disposti a ignorare che la lotta al cambiamento climatico per le aziende di Musk è fondamentalmente un business, sembriamo capaci di passare su tutte le altre contraddizioni del personaggio. La vaghezza degli annunci, la cronica mancanza di dettagli a fronte di progetti talmente ambiziosi da richiedere una cura diabolica, per la prima volta sta però cominciando a far breccia in questa sorta di muro di omertà in cui si è trasformato il credito di fiducia incondizionata che siamo stati disposti a riconoscergli per tutto questo tempo: è notizia proprio degli ultimi giorni che il ritardo nei piani di lancio di Starship ha iniziato a produrre qualche perplessità tra i commentatori che s’interessano delle iniziative eloniane.
Sempre in veste di appassionati di fantascienza, avremmo dovuto forse accorgerci prima degli altri che Elon Musk era piuttosto distante dall’ingenuo prototipo del visionario capitalista spaziale celebrato, con il suo tipico slancio ottimistico, da Robert A. Heinlein, a partire dal D. D. Harriman protagonista di Requiem e L’uomo che vendette la Luna, pietre miliari degli Anni Quaranta. Nonostante Musk si sia dichiarato un fan di Iain M. Banks, nonostante tutto il citazionismo di facciata utile a costruirsi un alone da geek funzionale alla sua causa (peraltro, quale scelta migliore di David Bowie o della Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams per triggerare gli entusiasmi dei fan?), i bug che possiamo individuare nel suo programma per rendere la specie umana una civiltà multiplanetaria, come lui stesso ama chiamarla, dovrebbero già adesso insospettirci sui possibili esiti finali. Dal realismo capitalista di Mark Fisher, con Musk facciamo già due o tre passi avanti nel futuro e ci troviamo sbalzati nell’orizzonte di un transrealismo iperliberista: se non c’è alternativa ora al neoliberismo, come potremo rinunciare ai suoi protocolli operativi per piegare il futuro alla volontà della ragione? Tra le crepe che percorrono la superficie di questo sogno si affaccia un futuro che non può essere per tutti. Insomma, suo lo spazio, suo il futuro.
A meno che, e questo diventerà evidente sicuramente prima della fine del decennio, Elon Musk non si dimostri semplicemente un innocuo ciarlatano.
In ogni caso, parafrasando la sua ex-moglie, questo non è il mondo di Elon e noi non siamo lo Starman che lui ha piazzato alla guida di una Tesla Roadster prima di lanciarla nello spazio. Non dobbiamo viverci dentro per forza, se non lo vogliamo. Smettere subito con l’adorazione acritica della sua immagine sarebbe già un inizio, verso un diverso futuro ancora da esplorare.
Come sa ogni appassionato, Blade Runner è il frutto di un lungo, incessante lavoro di adattamento, iniziato da Hampton Fancher, che per primo riuscì ad assicurarsi un’opzione per i diritti cinematografici di Do Androids Dream of Electric Sheep?, e successivamente proseguito sotto le cure di David Webb Peoples, quando Ridley Scott pretese e ottenne dalla produzione un maggior controllo sulla sceneggiatura, insoddisfatto dei risvolti a suo dire eccessivamente sentimentali delle riscritture di Fancher. In questo processo di riscrittura molte cose furono tagliate via dal materiale di partenza: benché il romanzo non fosse particolarmente lungo (210 pagine nel rilegato della prima edizione Doubleday, perfettamente in linea con gli standard degli anni Sessanta e Settanta), era pur sempre una storia di Philip K. Dick, infarcita di idee, suggestioni, ossessioni, mutuate sia dallo spirito della sua epoca che dalle sue personali fissazioni, troppo per far entrare tutto in 124 minuti di film.
Così ecco ridimensionarsi il ruolo di J.R. Isidore, che nel romanzo dava voce a un alter ego dell’autore (Jack Isidore è anche il nome del protagonista di Confessions of a Crap Artist, scritto nel 1959 e unico tra i suoi numerosi romanzi mainstream che Dick riuscì a pubblicare in vita, nel 1975), spartendosi la scena quasi equamente con Rick Deckard, mentre nel film (dove cambia anche nome in J.F. Sebastian e viene interpretato da William Sanderson) vede il proprio minutaggio ridursi a quello di personaggio secondario. Sorte peggiore tocca ad altri personaggi, tra cui Iran (la moglie di Deckard) e Irmgard (la compagna di Roy Baty), depennate dalla sceneggiatura, così come anche Garland, un altro dei replicanti fuggiaschi. Max Polokov viene in parte adattato nella figura di Leon Kowalski (Brion James), Luba Luft (la cantante d’opera protagonista di uno dei ritiri più struggenti del romanzo, il momento in cui Deckard comincia a nutrire dubbi sulla reale necessità della propria missione e sulla legittimità del ruolo dei cacciatori a premi) confluisce parzialmente in quella di Zhora/Salomé (Joanna Cassidy). Solo Pris (Daryl Hannah) rimane più o meno fedele al romanzo, dove in realtà è una replica di Rachael, e con quest’ultima incarna l’archetipo della donna dickiana, e finisce per assimilare anche alcune caratteristiche di Irmgard; e ovviamente Roy (Rutger Hauer), che da Baty (re pipistrello) si trasforma in Batty (re folle).
In realtà non è del tutto corretto dire che Roy Batty e Pris rimangono fedeli al romanzo, in quanto il film opera un capovolgimento prospettico che da un lato avvicina la storia allo spettatore, e dall’altro conferisce uno slancio quasi romantico ai replicanti. Se nel romanzo Dick era infatti interessato a sviscerare i temi a lui cari dell’alienazione e della reificazione, anche attraverso la figura di un protagonista che non si distacca mai dalla sua dimensione di burocrate, di servitore monodimensionale di una sinistra forza di polizia che ha ramificazioni ovunque nel mondo, e come lui le altre figure umane danno prova (con l’unica eccezione appunto dello «speciale» Isidore) di scarsissima umanità, in una parabola nichilista che si risolve in un orizzonte cupo e disilluso; nella pellicola di Scott abbiamo invece un ribaltamento del punto di vista, con Deckard costretto a confrontarsi, più che con delle minacce letali, con l’umanizzazione esasperata dei replicanti, non solo capaci di spacciarsi per umani, ma di esprimere autentiche qualità umane.
Empatia e entropia sono i due grandi concetti intorno a cui si snoda il romanzo di Dick. Ma mentre nel romanzo l’empatia è una qualità estranea agli androidi e che Deckard sospetta sia sempre più rara e difficile da identificare anche tra gli esseri umani, in Blade Runner l’empatia diventa il comune terreno d’incontro tra l’umanità superata e obsoleta di Deckard e la nuova umanità di Rachael e Roy Batty.
Quanto all’entropia, è un’altra vittima illustre che allunga la lista delle modifiche apportate da Ridley Scott al materiale di partenza. In Blade Runner scompaiono gli animali, così centrali nel romanzo da meritarsi un’esplicita menzione nel beffardo gioco con il lettore che è il titolo scelto da Dick. Scompare San Francisco, sostituita da Los Angeles (pare che una delle prime intenzioni di Scott fosse di trasferire l’ambientazione sulla East Coast, motivo per cui la L.A. di Blade Runner somiglia così poco alla metropoli orizzontale californiana, e invece molto di più alla megalopoli verticale del Mid-Atlantic, o Nord-Est che dir si voglia). E spariscono soprattutto le due principali novità fantascientifiche introdotte da Dick nel romanzo, insieme al tema già molto più convenzionale, anche per l’epoca, degli androidi, ovvero il Mercerismo e il kipple.
Il Mercerismo è una delle trovate più inquietanti dell’intera opera di Dick, una religione basata sull’identificazione dei fedeli con il loro profeta, in una sublimazione della liturgia eucaristica cristiana spinta all’estremo grazie al supporto di una tecnologia capace di rendere la realtà virtuale più reale del reale (così come lo slogan della Tyrell Corporation, a cui nel film corrisponde la Rosen Association del romanzo, è “più umano dell’umano“). Durante la condivisione con Mercer, attraverso la misteriosa scatola empatica gli adepti di questo culto del futuro sperimentano le sofferenze e il dolore inflitti al loro predicatore; e, proprio come succederà di lì a una quindicina d’anni con il cyberspazio di William Gibson (il romanzo di Dick, non dimentichiamolo, è del 1968), durante la fusione/connessione possono riportare ferite anche fisiche, come capita allo stesso Deckard (“È vero […]. Io sono Wilbur Mercer, mi sono fuso con lui per sempre. Non riesco più a staccarmi da lui“, dirà nel capitolo 21).
Il kipple è invece la manifestazione letterale dell’entropia, la massa di rifiuti autoreplicanti che ormai assedia le città terrestri insieme alla polvere radioattiva lasciata in eredità dall’Ultima Guerra Mondiale, un’entità contro cui è inutile qualsiasi resistenza (“Nessuno può battere la palta […] tranne che per un po’ di tempo e forse in un posto solo, come nel mio appartamento per esempio, dove ho creato una specie di equilibrio tra la pressione della palta e della nonpalta, finché dura. Ma poi morirò e me ne andrò, e allora la palta riprenderà il sopravvento. È un principio universale valido in tutto l’universo; l’intero universo è diretto verso uno stato finale di paltizzazione totale e assoluta“, spiega Isidore a Pris nel capitolo 6, dove palta è la traduzione scelta da Riccardo Duranti nell’ultima edizione Fanucci del romanzo) e a cui siamo tutti destinati ad arrenderci (“Lui e le altre migliaia di speciali del pianeta Terra erano tutti destinati a confluire nel mucchio della spazzatura. A trasformarsi in palta vivente“, capitolo 7). Del kipple in Blade Runner rimane un più generico e indefinito senso di decadenza, reso in particolare nell’accumulo di vecchi giocattoli di Sebastian e nello stato di semiabbandono della sua dimora.
Scompare anche un’ulteriore folgorante anticipazione dickiana, di quelle che hanno reso il maestro californiano in qualche modo un profeta del nostro tempo, e per cui si è ogni volta tentati di parlare di realtà dickiana a proposito del mondo in cui viviamo: ovvero la centralità dei mass media nella vita delle persone, che nel romanzo è efficacemente rappresentata attraverso il talk show di Buster Friendly.
E scompare soprattutto un’intera sezione del romanzo, che include alcuni dei capitoli chiave del Cacciatore di androidi. Ma di questo parleremo la prossima volta.
Di cosa parliamo quando parliamo di cyberpunk? La risposta è molto meno scontata di quanto potrebbe sembrare a un approccio superficiale. Il cyberpunk letterario è stato spesso accusato di scarsa originalità, monotonia di fondo e, col tempo, conformismo a tutta una serie di elementi divenuti un po’ dei cliché: il mondo distopico dominato dalle multinazionali, gli hacker solitari in lotta contro il sistema, la vita di strada nei bassifondi delle megalopoli… e potremmo continuare. Ma se prendiamo in considerazione i due titoli che hanno contribuito maggiormente a plasmare la nuova sensibilità della fantascienza dagli anni ’80 in avanti, ci accorgiamo di tutta una serie di differenze anche abissali legate non a elementi di contorno, che tutto sommato sono anche abbastanza sovrapponibili (*) – come dimostrano anche le dichiarazioni di William Gibson sulla sua esperienza come spettatore in sala all’uscita di Blade Runner – ma su un elemento che per il cyberpunk è tutto fuorché accessorio: la tecnologia.
(*) E che così di contorno, come vedremo tra poco, comunque non sono.
La tecnologia in Neuromante
Partiamo da Neuromante, il manifesto letterario del cyberpunk. Uscito nel 1984, è ambientato secondo le stime di Gibson intorno al 2035 (sebbene l’arco della trilogia copra 16 anni e quindi questa datazione vada presa molto con le molle, potendo oscillare, diciamo, tra il 2025 e il 2040… ma tutto sommato ancora dietro l’angolo, a differenza di quanto dedotto invece da un lettore su Vice basandosi su altri elementi interni ai romanzi ma probabilmente più dovuti a sviste dell’autore che non riconducibili alle sue reali intenzioni) e dipinge una tecnologia ormai smaterializzata, micro- e nanometrica, pervasiva.
Nel mondo di Case e Molly, la tecnologia si è ormai integrata in maniera indistricabile con i corpi e la psiche degli utenti: il cyberspazio è un piano dell’esistenza complementare alla realtà fisica, con cui si compenetra in declinazioni che assumono di volta in volta le forme di un’internet ante litteram, della realtà virtuale o di una realtà aumentata, e che assolve al ruolo di vero e proprio ecosistema, con le sue nicchie e i suoi agenti (virus informatici, ICE, costrutti di personalità riconducibili al mind uploading, intelligenze artificiali…).
Case, Molly e gli altri abitanti del futuro come loro non esitano a modificare i propri corpi attraverso impianti prostetici che ne aumentano le facoltà e attivano un feedback con il cyberspazio: non sono più solo agenti, ma la loro psiche e il loro organismo diventa un target su cui la rete e altri agenti possono produrre effetti tangibili. La strada ha trovato il suo uso per la tecnologia uscita dai laboratori, per dirla con Gibson. Anzi, ha trovato mille modi per utilizzarla e piegarla alle necessità dei singoli operatori, attraverso tutto un mercato nero di tecnologie trafugate dai centri di ricerca delle multinazionali o dell’esercito e messe in circolazione da una rete di contrabbandieri, corrieri, rigattieri…
La tecnologia in Blade Runner
La visione della Trilogia dello Sprawl prende forma tra la fine degli anni ’70 e i primissimi ’80, e nel 1982 arriva nelle sale Blade Runner. Un film che si inserisce nel solco di quella visione cupa e pessimistica del futuro che negli stesi anni si andava definendo grazie a pellicole epocali come Mad Max di George Miller (1979) e 1997: Fuga da New York di John Carpenter (1981), o Alien dello stesso Ridley Scott (1979). Ma, con la notevole eccezione di quest’ultimo, i film che stavano ridefinendo l’immaginario del futuro erano prevalentemente accomunati da un basso tasso tecnologico: la tecnologia era o ridotta al puro elemento meccanico (le automobili di Mad Max con cui vivono in simbiosi i sopravvissuti dell’outback australiano) o a strumento di controllo (le bombe miniaturizzate iniettate a Plissken per convincerlo a esfiltrare il presidente dal carcere di massima sicurezza di Manhattan).
Lo stesso Alien non è che brilli sotto il profilo dell’estrapolazione tecnologica, ma se non altro, sullo sfondo di una civiltà che è stata comunque in grado di mettere in campo lo sforzo necessario a esplorare rotte spaziali al di fuori del sistema solare, presenta personaggi che sono androidi meccanici indistinguibili dagli esseri umani e computer che rasentano, per autorità anche se non proprio per flessibilità (e qui torniamo alle forme di controllo già citate sopra a proposito di 1997: Fuga da New York), lo status delle IA. Elementi che, con le dovute variazioni, caratterizzano anche Blade Runner, dove ritroviamo appunto una tecnologia pesante: gli avanzamenti nella biotecnologia hanno permesso lo sviluppo di replicanti, androidi biologici indistinguibili dagli esseri umani (anzi, più umani dell’umano), destinati all’impiego in teatri di guerra extra-mondo e a farsi carico di mansioni che richiedono forza e resistenza fisica. L’uso più soft contemplato per i Nexus-6, i replicanti di ultima generazione, è per i modelli femminili, adibiti alla prostituzione nei bordelli delle colonie, non proprio un esempio di visione futuristica sull’impiego del più sofisticato prodotto della tecnologia umana.
In Blade Runner, la tecnologia è sempre separata dai corpi e dalle menti dei suoi utilizzatori umani: l’intermediazione tecnologica nelle relazioni umane è ridotta al minimo, i telefoni sono ancora in cabine pubbliche, i computer quasi nemmeno si vedono e – tralasciando volutamente, per il momento, qualsiasi grande o piccola retcon operata da Blade Runner 2049 – la rete nemmeno esiste. La tecnologia non è bassa, ma è sostanzialmente hard e ha a che fare con la programmazione/manipolazione biologica dei corpi, confinata all’interno di questi (alcune decine o centinaia di migliaia di replicanti sparsi sulle colonie extra-mondo, e pochissimi fuggitivi clandestini sulla Terra), mentre il mondo di fuori è sostanzialmente la fucina di catastrofi ambientali in cui ci troviamo a vivere oggi, con un downgrade della tecnologia attuale a quella degli anni ’80.
Blade Runner & Neuromancer: convergenze non accidentali
Per inciso, ricollegandoci a quanto dicevamo in apertura sulla sovrapponibilità degli elementi d’ambiente e le atmosfere, è interessante anche notare come Gibson e Scott condividessero una visione sostanzialmente comune su quella che l’autore di Neuromante definisce “la più caratteristica delle nostre tecnologie“: la città. Entrambi, Gibson sulla pagina scritta e Scott nei set di Blade Runner, compiono un’operazione che potrebbe apparire scontata (soprattutto a un europeo, sostiene Gibson): sovrapporre elementi del passato, del presente e del futuro nella rappresentazione delle città. In pratica: dare evidenza della stratificazione delle epoche attraverso il mélange architettonico che plasma l’estetica della città.
Ciò che Ridley Scott fa con Blade Runner, lo si ritrova nella stessa misura sia in Neuromante che nei precedenti racconti di Gibson: le strade delle loro città sono concentrati di archeologia urbana e per questo danno una misura incontestabile del tempo che è corso su quelle superfici e di ciò che è costato.
Blade Runner vs Neuromancer: dove saltano gli schemi
Tutto semplice, quindi? Forse no, perché il doppio finale di Blade Runner, con il problema della duplice interpretazione della natura di Deckard, complica significativamente lo schema fin qui delineato. A seconda delle letture che si vogliono dare al personaggio, il cacciatore di replicanti può essere un umano (chiave interpretativa prediletta dall’interprete del ruolo Harrison Ford) o un replicante lui stesso (lettura sostenuta a più riprese da Ridley Scott, almeno fino all’uscita nelle sale del sequel di Denis Villeneuve che invece opta per la versione di Ford).
Se Deckard è un umano, la sua fuga finale con Rachael assume le valenze metaforiche di un matrimonio tra la sfera umana e quella artificiale, una sorta di romantica conciliazione tra la natura e la tecnologia. Poco plausibile forse, sicuramente suggestiva, estrinsecata in particolare nella sequenza dell’auto che attraversa i boschi a nord di Los Angeles sulle note incalzanti della leggendaria colonna sonora di Vangelis. Si tratta del finale voluto dallo sceneggiatore Hampton Fancher e realizzato da Scott su input della produzione “riciclando” le sequenze girate per Shining scartate da Stanley Kubrick.
Se Deckard al contrario è un replicante, la sua scoperta finale (molto in linea con la sensibilità di Philip K. Dick benché non fedele alla lettera al romanzo), suggellata dalla chiusura delle porte dell’ascensore scelta come final cut dal regista, diventa l’agnizione lacerante dell’incompatibilità della propria esistenza con la natura, l’anamnesi sul proprio essere – esattamente come i replicanti a cui il cacciatore ha finora dato la caccia – una contraddizione in atto, la prova «vivente» che la realtà ha ormai raggiunto un livello di falsificazione da cui è impossibile tornare indietro: non sono solo i ricordi a essere contraffatti, ma l’effetto si estende inevitabilmente alla percezione stessa della realtà. La natura è destinata a scomparire, sostituita da repliche che si credono originali e reali. Le superiori capacità mimetiche dei simulacri renderanno infine vano qualsiasi tentativo di resistenza.
La versione di Ford (e di Fancher) chiude in qualche modo un cortocircuito con la visione tecnologica di Neuromante, dove la sintesi tra organico e sintetico viene subita ma a cui non ci si sforza di resistere, cercando piuttosto di piegarla alle esigenze dei protagonisti: sotto questa luce, Blade Runner prospetta un’accettazione perfino ottimistica di questa sintesi, facendo quindi un ulteriore passo avanti.
La versione di Scott (e di Dick), invece, stabilisce che non c’è ragione di sposare ciò che è fuori con ciò che è dentro, l’organico e l’inorganico. Semplicemente, l’inorganico, l’artificiale, il sintetico, il simulacro, ormai più umano dell’umano, è destinato a soppiantare l’organico, il naturale, l’originale. Non c’è scampo, non esiste via di fuga, la partita è segnata.
Siamo sotto scacco, a una mossa di distanza dallo scacco matto. Solo che non ce ne siamo ancora resi conto.
No, il titolo non è un’epigrafe tombale, ma la formula più sintetica che mi è venuta in mente per commemorare il grande anniversario che si celebra quest’anno. Il 25 giugno di 40 anni fa arrivava infatti nelle sale d’oltreoceano Blade Runner, un film destinato a condizionare profondamente il nostro immaginario, ridefinendo probabilmente anche le coordinate stesse del futuro verso cui ci muovevamo.
Questo blog ha sempre dedicato un’attenzione particolare alla pellicola di Scott e alle diramazioni che ha originato a partire dall’universo narrativo di Dick. Per amor di statistica, ad oggi, con questo post, si contano 37 tag per Blade Runner (circa il 10% dei contenuti totali), oltre a 20 per Ridley Scott (5%) e ben 38 per Philip K. Dick (che, ok, sono rientrati sicuramente anche in altre discussioni con le rispettive produzioni), a testimonianza della centralità che il film gioca nella mia (de)formazione personale e nella mia visione non solo del futuro, ma oserei direi del mondo.
Il mio amore per il cyberpunk e la fantascienza, probabilmente anche per il cinema e il postmodernismo, per le contaminazioni, per Philip K. Dick, per il noir, e potrei continuare a lungo, nascono da questo film, che come poche altre esperienze ha rappresentato uno spartiacque nella mia crescita. Prima di vederlo, la mia dieta culturale era rappresentata in prevalenza da B-movie di fantascienza e horror, dagli anni ’50 ai primi anni ’90. Dopo averlo visto, i miei orizzonti si sono ampliati a dismisura, fino ad abbracciare fumetti, letteratura, videogame, non sempre, non tutti, necessariamente riconducibili al capolavoro di Scott & Co., ma di certo entrati nel mio radar solo dopo aver settato i parametri di riconoscimento sulle caratteristiche di quello che per me, da quel momento, è diventato la pietra di paragone per tutto il resto.
Oggi, nell’era dello streaming e della pay TV, dei contenuti on-line raggiungibili con qualche click e al massimo previa corresponsione di una fee di una manciata di euro per l’acquisto o il noleggio, potrà sembrare un’assurdità, ma nel 1994, quando riuscii per la prima volta a vederlo durante una messa in onda notturna, registrandolo su una VHS che avrei poi consumato, avrebbero potuto trascorrere anni tra la scoperta di un titolo e la sua visione, specialmente se, come me: a. si viveva in una provincia di Bassitalia; b. la città più vicina distava più di cinquanta chilometri da casa tua; c. non si avevano nemmeno quattordici anni; d. non si aveva la fortuna di avere un genitore o un fratello/sorella maggiore con la passione per l’ambito specifico di quel genere.
[Sembrano trascorse epoche intere, e invece era la nostra infanzia. Il che mi spinge a riflessioni sul tempo e la mia età che vi risparmio.]
La mia scoperta di Blade Runner fu sulle pagine del primo, storico Almanacco della Fantascienza (di cui non a caso conservo oggi non una, ma due copie, una per il valore affettivo e l’altra per necessità di consultazione). Dalla lettura degli articoli che lo menzionavano al momento in cui riuscii a intercettarlo tra i Bellissimi di Rete 4 (quelli che venivano introdotti dalla sigla di Tina Turner, come ricorderanno i veterani in circolazione) passarono forse quindici o diciotto mesi, e la prima volta che lo vidi… mi addormentai per svegliarmi di soprassalto nel bel mezzo di un sogno in cui la pioggia e il mood della Los Angeles del 2019 erano filtrati attraverso la soglia del dormiveglia sulle note della colonna sonora di Vangelis.
Da allora, ho rivisto il film decine e decine di volte, a voler mantenere una stima conservativa e senza voler dare l’impressione di essere sprofondato nella palude della monomania… per quanto, per un certo periodo della mia vita, Blade Runner sia sicuramente stato una fissazione. L’interesse ossessivo per tutto ciò che circonda la pellicola resiste ancora oggi e nelle ultime settimane mi è capitato in diverse occasioni di riguardarne degli spezzoni, ogni qual volta mi è capitato di adocchiarne i fotogrammi durante lo zapping notturno o antelucano.
Va da sé che non potevo lasciar correre la ricorrenza senza organizzare un qualche tipo di festeggiamento. Per cui, a partire da oggi e con una cadenza al momento indefinita – e che con ogni probabilità rimarrà tale – nel corso di quest’anno in maniera più assidua che mai mi troverete su queste pagine a parlare del film, del suo background, delle opere derivative che ha prodotto, e di tutto ciò che mi passa per la mente quando ripenso al mondo di Dick a cui Fancher, Peoples, Scott, Mead e Vangelis, tra gli altri, hanno dato forma. Anche – perché no? – attraverso il recupero della mole sterminata di materiali che ho scritto negli anni.
L’idea che gli Stati Uniti d’America potessero sfaldarsi in una costellazione di entità indipendenti sembrava fino a solo pochi anni fa un pretesto per uno scenario distopico di fantascienza a buon mercato. Non solo la più potente, ma per la forza del suo impatto sull’immaginario comune e per la sua influenza sulla percezione delle persone, sui cittadini dei posti più remoti della Terra, anche la più grande nazione al mondo, un paese in cui tutti vorrebbero (o avrebbero voluto) vivere. Il cuore dell’Impero, a cui noi che abbiamo avuto la fortuna/sfortuna di nascere in una delle sue province d’oltremare potevamo guardare solo con invidia e ammirazione. Un posto da cui dipendono mode e stili di vita, in cui tutto viene deciso, dove si forgia l’idea stessa di futuro. Ecco, almeno quest’ultima parte era per la verità venuta già un po’ meno durante la doppia Amministrazione Bush, ma nemmeno in quei difficili anni di dura guerra al terrorismo era mai venuta meno la convinzione che un paese così, benché diviso e ferito, sarebbe stato per sempre.
Solo nelle storie di fantascienza degli anni ’70 (il discusso Dr. Adder di K. W. Jeter e in parte anche il successivo Noir, il racconto d’esordio di William Gibson Frammenti di una rosa olografica) o in piccole produzioni molto decentrate rispetto alla produzione mainstream (il film per la televisione La seconda guerra civile americana di Joe Dante) poteva capitare di imbattersi in scenari fantapolitici in cui gli USA si erano disuniti in un arcipelago di stati ostili all’autorità centrale, e più o meno impegnati in uno schema di rivalità reciproche sulla falsariga dell’Italia pre-risorgimentale. Se si trascurano le ucronie in cui gli Stati Confederati sono usciti vincitori o in qualche modo sono sopravvissuti alla guerra di secessione, casi concreti se ne contavano anche prima, ma tutti in qualche modo riconducibili a un qualche tipo di catastrofe (spesso connessa al tragico epilogo di una guerra nucleare) da cui emergeva un nuovo ordine in grado di mettere insieme una parvenza di governo sulle rovine del passato (penso ai classici degli anni ’60 Un cantico per Leibowitz di Walter M. Miller o a Davy, l’eretico di Edgar Pangborn).
Molti esempi sono ripresi dal sempre enciclopedico Paul Di Filippo in questo suo excursus sui futuri frammentati della fantascienza, e qualcosa avevo messo insieme anch’io in questo vecchio pezzo sulla fine del mondo. Ma credo proprio – anche se potrei sbagliare – che sia solo con i primi vagiti del cyberpunk che, sul modello della più grandiosa e inquietante delle storie alternative, quella immaginata da Philip K. Dick per La svastica sul sole, cominciano a prendere forma scenari meno granitici, che si confrontano con la prospettiva di un’America frammentata, balcanizzata dalle spinte centrifughe delle stesse entità a livello statale che la compongono. Non più una federazione, ma un continente in perenne stato di guerra intestina, bruciato da un fuoco in grado di incendiare il mondo.
Dallo scorso 6 gennaio 2021 e dal tragico assalto a Capitol Hill, è uno scenario più attuale che mai. Da osservatore remoto delle vicende americane, non mi sembra che un anno di presidenza Biden abbia potuto curare le ferite di quattro anni di trumpismo rampante, né a spazzare via le bugie sparse a piene mani dalla propaganda repubblicana negli ultimi quattordici mesi, e un editoriale del New York Times addita ora la minaccia di una spada di Damocle sospesa sulla testa della democrazia americana, che da un anno vive di fatto in un 6 gennaio permanente. È notte fonda e probabilmente questo senso di precarietà ha già scavato a fondo dentro di noi, come un fiume carsico nelle viscere del nostro immaginario di cui lo sguardo compassionevole verso il passato è solo l’ennesimo sintomo, in un lento processo durato anni che ha gradualmente, progressivamente e inesorabilmente eroso la nostra capacità di guardare al domani, saldandosi con le dinamiche di cui scrivevo a proposito della nostalgia del futuro.
Ricordo di avervi già parlato della mia valle, ma la lettura di questo pezzo direttamente dall’Antro Atomico del Dr. Manhattan mi ha ricordato di non avervene mai parlato nei termini che avrei sempre voluto. Nell’articolo citato, viene coniata una felice espressione che riflette ciò a cui penso il novanta per cento delle volte (forse più) delle volte che con la mente torno indietro agli anni ’90: per il Doc Manhattan è l’extaterritorialità della nostalgia, per me è – con parole che credo di aver rubato a un vecchio articolo dell’indimenticato Giuseppe Lippi – la cosiddetta nostalgia del futuro.
Negli anni ’90 la realtà sembrava attraversata da un ronzio elettrico che poteva preannunciare qualsiasi cosa, e in effetti nei venti anni successivi le abbiamo viste quasi tutte: dagli attacchi terroristici al cuore dell’impero Stars and Stripes all’esplosione di una pandemia come prima ci era capitato di leggere solo nei libri di fantascienza (ops… mi tocca autolinkarmi di nuovo). Il mondo era su un punto di discontinuità come raramente gli era capitato prima di trovarsi: potevamo imboccare tante strade diverse, sull’onda delle ricadute tecnologiche che cominciavano ad accelerare in maniera sensibile la nostra rincorsa al futuro.
E io dov’ero? Beh, io attraversavo il decennio con passo veloce, cercando di dribblare la vita nei suoi anni migliori, nella convinzione che gli amici e i compagni di strada di quegli anni sarebbero stati lì per sempre e che io sarei stato a mia volta sempre lì per loro, incapace di decidere cosa fare da grande ma così entusiasta del futuro da divorarlo su vecchi tascabili fuori commercio che riportavano storie scritte in un passato ormai anche molto distante come per esempio quello da cui mi parlava la voce di Philip K. Dick, ma anche quello che mi sembrava il futuro da cui scriveva del mio presente William Gibson. Perché, anche se Neuromante aveva più di dieci anni quando lo lessi la prima volta, sentivo che funzionava come un reportage in presa diretta dal mondo in cui sarei potuto finire catapultato da un momento all’altro, e intanto guardavo i pomeriggi correre fuori dalla finestra su una valle che ormai, quando va bene, rivedo dal vivo quattro o cinque volte all’anno.
Dopo la scuola leggevo – o, più spesso, rileggevo – Nathan Never e dietro ai miei occhi le montagne che racchiudono l’Alta Valle del Sele si trasformavano in arcologie e grattacieli, immensi habitat urbani che trasfiguravano lo Sprawl di cui leggevo sui libri e le megalopoli che incontravo nei fumetti o sul nastro consumato di una VHS su cui avevo registrato nel 1996 una replica notturna di Blade Runner (con tanto di Tg Notte all’intervallo) e che da allora, se non ero impegnato a riguardarla per l’ennesima volta, era perché l’avevo prestata per l’ennesima volta a qualche amico o compagno di scuola.
Il futuro era lì, a un passo da noi, e sapevamo tutti che stava affilando le lame con cui ci avrebbe dato il benvenuto. Lo vedevamo arrivare, lo aspettavamo, perfino, eravamo pronti ad affrontarlo corpo a corpo se necessario. Fa una certa impressione pensare che da allora è passato quasi il doppio del tempo che all’epoca ci separava dall’uscita di Blade Runner, che tutti riconoscevamo come un capolavoro ma nessuno di noi osava immaginare che avrebbe saputo descrivere in maniera così pervasiva, accurata ed efficace il futuro che si andava componendo sotto i nostri occhi.
Eravamo troppo intenti a rincorrere il futuro, a gettarci nelle sue bracci, per vederlo arrivare alle nostre spalle, a fauci spalancate, come effettivamente è poi successo. Ma da allora, da quei pomeriggi di autunno, inverno, primavera o estate passati a intervallare i libri di scuola con letture meno ortodosse, cercando il senso delle cose tra le parole degli autori che avrebbero plasmato il mio senso del futuro e il mio immaginario, mentre le stagioni si alternavano sul cielo della valle trascolorandola e cambiando forma e inclinazione alle ombre, il ricordo dei giorni perduti si mischia inestricabilmente a quello del mio apprendistato fantascientifico. Ed è così che, in preda a un riflusso di nostalgia del futuro, ogni volta ripenso alla mia valle, e a com’era cyberpunk sotto il cielo di una televisione sintonizzata su un canale morto.
Nel luglio 1993, nell’edicola del mio quartiere, m’imbattei in una copertina plastificata che mesmerizzò la mia mente di dodicenne. Il titolo dell’albo recitava Almanacco della Fantascienza 1993 e nelle sue pagine, che divorai nello spazio di un pomeriggio e una serata, scoprii tra le altre cose un personaggio Bonelli che da allora avrei seguito fedelmente almeno per i successivi quindici anni (recuperando peraltro tutti gli arretrati, in un’epoca ormai preistorica in cui il servizio arretrati era un’esperienza a metà strada tra ludopatia e religione), una panoramica delle uscite librarie e cinematografiche dell’ultimo anno (con incursioni nei fumetti e nei videogame) e, soprattutto, in un dossier di Mauro Boselli sul cyberpunk.
Cosa fosse la fantascienza, lo sapevo già, nel mio piccolo di fan formatosi più che altro con i film tramessi in prima e seconda serata dalle reti commerciali e locali (in un’epoca che, fortunatamente, non conosceva gli attuali vincoli di programmazione che hanno devastato il palinsesto della televisione generalista), ma con qualche sporadica lettura alle spalle. Il cyberpunk, invece, non lo avevo mai sentito prima, ma l’accostamento con un film che già adoravo (Blade Runner), l’estetica delineata nelle illustrazioni che accompagnavano l’articolo e le caratteristiche tracciate in maniere sintetica ma efficace da Boselli, mi dischiusero un mondo. Ritrovai gli stessi ingredienti che mi avevano così affascinato nella storia a fumetti contenuta nel volumetto, che era stata la prima cosa su cui mi ero fiondato appena tornato a casa: un piccolo gioiello, sceneggiato da Bepi Vigna e disegnato con il tratto che mi sarebbe diventato familiare del grandissimo Roberto De Angelis, dal titolo Vendetta Yakuza.
Qualche anno più tardi, quando avrei finalmente messo le mani su una copia di La notte che bruciammo Chrome, dopo averlo a lungo cercato nelle librerie di provincia all’epoca ovviamente sprovviste di un accesso diretto ai cataloghi dei distributori, avrei ritrovato tra le pagine di William Gibson (in particolare il racconto che dà il titolo all’antologia e Johnny Mnemonico) le atmosfere, i personaggi, le tecnologie e le dinamiche che mi avevano affascinato in quella storia, senza che da allora questo mi abbia comunque rovinato le successive riletture. Dentro c’era anche altro: Johnny Mnemonic sarebbe uscito al cinema solo un paio di anni dopo e per Matrix avremmo dovuto attendere la fine del decennio, così in quegli anni l’immaginario cinematografico del cyberspazio era fortemente debitore di altri titoli oggi semi-dimenticati (Tron e Il tagliaerbe), e Nathan Never in fondo era ispirato fin dall’impermeabile alla figura di Deckard, il cacciatore di replicanti di Ridley Scott.
Alcuni anni più tardi (tra il 1997 e il 1998), tra le pagine di una rivista trovai un’offerta 2×1 dell’Editrice Nord: avrei potuto acquistare due volumi della collana Grandi Opere pagandone una sola. Compilai il coupon, lo spedii e due settimane più tardi ricevetti in contrassegno un pacco con dentro due volumoni, I mondi del possibile e Cyberpunk, entrambi curati da Piergiorgio Nicolazzini, e il mio primo numero del Cosmo SF, più tardi noto come Nord News, erede (avrei scoperto più tardi) del glorioso Cosmo Informatore. In anni in cui la rete muoveva i primi passi, quello era per gli appassionati la principale fonte di approvvigionamento di notizie sul fandom e sul settore, non solo relativamente alle uscite editoriali della casa editrice di Gianfranco Viviani.
Divorai i 28 racconti contenuti in Cyberpunk e i saggi che lo completavano nel corso dell’estate di quell’anno, e mi misi alla ricerca dei titoli citati nelle accurate bibliografie che lo accompagnavano. Così risalii nei mesi successivi agli altri titoli pubblicati dall’Editrice Nord, in particolare gli imprescindibili Neuromante e La matrice spezzata, e poi, poco a poco, a quasi tutto Philip K. Dick, a cominciare da Cacciatore di androidi e La svastica sul sole (com’erano conosciuti allora Ma gli androidi sognano pecore elettriche? e L’uomo nell’alto castello), ma non solo. Perché prima la stella di Dick e poi le informazioni raccolte in Cosmo SF mi avrebbero guidato nelle mie successive, un po’ più strutturate e via via più consapevoli esplorazioni della fantascienza.
Insomma, per me il cyberpunk è stato la porta di accesso al genere, e da allora non ho ancora smesso di leggere né l’uno né l’altro. Da Gibson sarei poi passato a Dashiell Hammett, a Thomas Pynchon, a William S. Burroughs e a Don DeLillo. E leggendo loro mi sarei trovato a percorrere piste piuttosto caotiche nella letteratura nordamericana del Novecento, ma non solo. E benché non sia più un lettore assiduo, mi capita ancora di comprare di anno in anno diversi albi di Nathan Never, e di numerose altre serie Bonelli. Perché una cosa che mi ha insegnato il cyberpunk è che i confini sono costruzioni artificiali, non meno di quanto lo siano le etichette. Ma se queste ultime hanno a volte una loro utilità generale, gli steccati finiscono sempre per affamare entrambe le parti che separano, per quanto una delle due possa essere convinta della loro benefica necessità.
Per questo ho approfittato della recente uscita negli Oscar Draghi di un tomo annunciato come l’antologia assoluta del filone e a sua volta intitolato Cyberpunk, che con i citati Neuromante, La matrice spezzata e Mirrorhades include anche – sebbene molto arbitrariamente – Snow Crash di Neal Stephenson, arrivato in concomitanza con lo sbarco su Amazon Prime dell’ultima stagione di Mr. Robot, per rimettere insieme un po’ di idee. Che per il momento trovate in un articolo/mappa su Quaderni d’Altri Tempi, ma che mi riprometto di ampliare per percorrere fino in fondo i sentieri che ho potuto solo abbozzare sulla mappa.
La mappa non è il territorio e mai lo sarà. Ma forse mi aiuterà a replicare in una scatola il fascino della scoperta che non mi ha mai tradito lungo quei percorsi.
Approfittando dell’operazione imbastita sulla scia di Blade Runner 2049 da Alcon Entertainment (attuale detentrice dei diritti di sfruttamento sul franchise dedicato ai cacciatori di replicanti) e Nightdive Studios (software house esperta nella restaurazione di videogame classici), lo scorso gennaio avevo recuperato anch’io una copia rimasterizzata del videogioco di culto che tante giornate del mio penultimo anno di liceo aveva monopolizzato. Dal 1998 avevo avuto poi modo di rigiocare l’avventura grafica dei leggendari Westwood Studios solo un paio di volte, recuperando nel 2018 un vecchio portatile e facendo girare i CD-ROM del cofanetto originale, ancora miracolosamente funzionanti.
Non lo sapevo mentre la stavo iniziando la sera del 4 gennaio 2020, ma quella sarebbe diventata la partita più lunga della mia esperienza di fan di Blade Runner. Perché per 364 giorni, per varie ragioni, non ho più trovato il tempo per sedermi al PC e finire l’avventura iniziata quella sera. Ho rimediato questo pomeriggio, con quattro ore di gioco che vanno a completare i venti minuti iniziali di quella sessione.
E benché il gioco meriti una scrupolosa disamina, sono ancora inebriato dalle sue atmosfere, quindi mi accontento di condividere con voi alcune istantanee di quest’ultima, lunga partita. Basti dire che stiamo parlando di un gioco che, grazie all’accuratissimo lavoro di scrittura dello sviluppatore David Leary e dello sceneggiatore David Yorkin (figlio di Bud Yorkin, produttore della pellicola originale) realizza una sintesi perfetta tra il capolavoro di Scott e il romanzo originale di Philip K. Dick, di cui riprende diversi spunti, e che non fa rimpiangere né la regia, né la fotografia o la musica, né tantomeno le ambientazioni che ci hanno mesmerizzati sul grande schermo. Nei prossimi giorni o mesi, cercherò di esplorare possibili ramificazioni alternative a partire dagli snodi che ho preventivamente salvato. Intanto, qua sotto, ecco alcuni flash dell’edizione rimasterizzata di Blade Runner in tutta la sua magnificenza.
Siccome Tenet è finalmente sbarcato nelle sale e tutti ne parlano, anche chi normalmente forse non lo farebbe ma invece adesso si sente in dovere dal momento che si tratta comunque del primo vero grande film distribuito dopo il lockdown, con tutto ciò che ne consegue, starete forse cercando di orientarvi nella giungla dei pareri discordi e vi starete probabilmente chiedendo se vale la pena andare a vederlo.
Ecco allora alcune buone ragioni per cui non dovreste prestare ascolto alle campane contrarie e dovreste precipitarvi al cinema prima che l’ondata di comportamenti scriteriati delle ultime settimane si traduca in una nuova serrata generale.
1. Perché, come ogni film di Christopher Nolan, dal più riuscito al più zoppicante, è garmonbozia per le vostre menti, in grado di tradurre le più macchinose e astruse contorsioni cerebrali in un senso di appagamento post-orgasmico. Alcune risposte ad alcune domande che vi sorgeranno durante la visione, potete trovarle qui (e in italiano qui). Ma cliccate su questi due link solo dopo aver visto il film, a meno che non siate già passati attraverso un tornello e passati attraverso un’inversione.
2. Perché Tenet è sia un film di spionaggio che un film di fantascienza, è un blockbuster tutto azione e colpi di scena e allo stesso tempo un esercizio filosofico sulla natura della realtà, un film alla vecchia maniera (vedi il punto 3) e un film del futuro (vedi sempre il punto 3).
3. Perché pochi registi come Nolan riescono a essere così efficaci nel coniugare il citazionismo (molti i modelli qui omaggiati, dalla spy story alla James Bond al western di Sergio Leone, dal solito Philip K. Dick al solito Christopher Priest) e l’autocitazionismo (l’assalto al teatro dell’Opera di Kiev nella sequenza di apertura è un condensato di tutte le più spettacolari operazioni di Bane in The Dark Knight Rises); così credibili nel sintetizzare la fedeltà a un’idea di spettacolo e una visione del cinema pronta a sfidare ogni volta nuovi limiti.
4. Perché Tenet è un gioco di prestigio e come ogni numero di magia è composto da tre parti o atti. La prima parte è chiamata la promessa. L’illusionista vi mostra qualcosa di ordinario: una sequenza d’azione, un’operazione dei servizi segreti che finisce male, o un pezzo di metallo dalla forma strana. Vi mostra questo oggetto. Magari vi chiede di ispezionarlo, di controllare che sia davvero reale… sì, inalterato, normale. Ma ovviamente… è probabile che non lo sia. Il secondo atto è chiamato la svolta. L’illusionista prende quel qualcosa di ordinario e lo trasforma in qualcosa di straordinario: il pezzo di metallo viaggia indietro nel tempo: vi salta in mano dal pavimento, si muove prima che lo tocchiate, rotola verso le vostre dita senza che nessuno lo abbia spinto. Ora voi state cercando il segreto… ma non lo troverete, perché in realtà non state davvero guardando. Voi non volete saperlo. Voi volete essere ingannati. Ma ancora non applaudite. Perché mostrare qualcosa che sfida il nostro senso comune non è sufficiente; bisogna anche farci credere che sia possibile. O, ancora meglio, che sia inevitabile. Ecco perché ogni numero di magia ha un terzo atto, la parte più ardua, la parte che chiamiamo il prestigio. E Tenet fa tutte e tre queste cose meglio di qualsiasi altra cosa si sia vista al cinema, per lo mento dai tempi di The Prestige.
5. Perché a ogni nuovo film Nolan si ritaglia un posto nell’olimpo dei registi più grandi di tutti i tempi – quello, per intenderci, dove siedono Orson Welles e Alfred Hitchcock, Stanley Kubrick e Akira Kurosawa, Andrej Tarkovskij e Sergio Leone, e continuate voi l’elenco. Dell’ultima generazione di cineasti, lui e il collega Denis Villeneuve sono i candidati più accreditati a unirsi alla schiera di cui sopra. E questo dovrebbe bastare per non lasciarsi scappare ogni nuovo parto delle loro menti.
6. Perché Tenet prosegue una riflessione sul tempo che accompagna Nolan fin dai suoi esordi, da Following e Memento fino a Interstellar e Dunkirk, passando per Insomnia e Inception, e mette insieme il gusto per i paradossi e la fascinazione della meccanica quantistica che già facevano capolino in The Prestige e Interstellar. E riesce a costruire due ore e mezza di spettacolo senza tregua a partire da uno schema di 5 parole:
S A T O R
A R E P O
T E N E T
O P E R A
R O T A S
7. Perché ci sono 5 attori in stato di grazia: John David Washington è già da BlacKkKlansman qualcosa di ben più di un “figlio d’arte” e non è quindi una sorpresa, come non lo sono Kenneth Branagh (qui alla seconda collaborazione con Nolan dopo Dunkirk) e ovviamente Michael Caine (a cui bastano pochi minuti per registrare l’ennesima interpretazione indimenticabile di una carriera straordinaria); ma sono state per me delle rivelazioni sia Robert Pattinson (su cui, malgrado la buona prova di Cosmopolis, ammetto il mio pregiudizio) che Elizabeth Debicki (che era anche nei Guardiani della Galassia Vol. 2, ma di cui non avevo visto altro prima di questo film).
8. Perché non credo che vi capiterà di vedere tanto presto qualcosa di simile o anche solo di lontanamente paragonabile. Per la molteplicità di livelli di lettura/visione (pellicola action, riflessione filosofica sulla realtà, operazione metanarrativa fin dal nome e dal ruolo eterodiretto del Protagonista… vedi il punto 2); e per la magistrale resa coreografica dello spettacolo, in grado di filmare qualcosa che sulla carta è per sua definizione non filmabile.
9. Perché forse lo avete già visto. E quindi dovete per forza rivederlo.
10. Perché Tenet è tutto questo e molto altro ancora e quindi, se non sono riuscito a convincervi, andate a vederlo per farvi un’idea vostra. E magari tornate da queste parti e riparliamone.
11. Perché viviamo in un mondo crepuscolare. Nessun amico al tramonto.
Buona visione!
Il mondo del futuro è un incubo barocco di burocrazia neofeudale. La Terra è un mondo morente, in cui ciò che resta delle Americhe prospera sulle macerie degli altri continenti, spazzati per decenni da pandemie e pestilenze che ne hanno decimato la popolazione. Alcuni pionieri hanno stabilito avamposti sulla superficie di Marte, nella fascia asteroidale e i più audaci e refrattari al controllo delle Grandi Famiglie terrestri addirittura nei corpi ghiacciati della cintura di Kuiper, dove il sole è poco più di una stella come le altre in una notte senza fine.
Il potere delle Grandi Famiglie e dei loro «vassalli» e servitori si esprime attraverso i Trust, megaconglomerati industriali che hanno trovato nella corsa allo spazio lo sbocco ideale per il loro perdurante scontro di potere. Hanno instaurato così una precaria alleanza con i tecnici e gli scienziati ribelli delle Repubbliche di Kuiper e, sfruttando la tecnologia quantistica alla base dei lanci di Higgs, sono riusciti a raggiungere una decina di mondi nel raggio di qualche centinaio di anni luce dalla Terra, instaurandovi dei presidi di ricerca. Isis è uno di questi mondi, il Progetto Isis è l’insieme di programmi condotti dai Trust per sfruttare le conoscenze che ne potrebbero derivare e Kenyon Degrandpre, un manager di un certo rilievo ma non appartenente a nessuna Famiglia, il direttore della Stazione Orbitale Isis che si sforza di compiacere i suoi superiori, amministrando il progetto con sterile ma servizievole incompetenza, portando a tutta una serie di spiacevoli conseguenze per il migliaio di membri che dipendono da lui.
Perché Isis non è un mondo come gli altri:
Il pianeta era pieno di vita, ma era una vita più vecchia di un miliardo di anni rispetto a quella della Terra, più evoluta ma anche più primitiva, preservata dai cambiamenti per l’assenza di grandi ondate di estinzione; c’era spazio per tutti, per tutti i generi e per ogni strategia di sopravvivenza eccetto quella umana, senziente, terrestre. Siamo creature così semplici, pensò; non riusciamo a tollerare queste fitotossine ben affilate, gli innumerevoli predatori microscopici cui ha dato forma un miliardo di anni di involuzione. Nulla, nell’arsenale del sistema immunitario umano, riesce ad accorgersi delle invisibili armate isiane, e a respingerle.
La vita terrestre sbarcata sul pianeta è sottoposta a una costante minaccia dalle forme di vita indigene. I tecnici e i ricercatori occupati nelle quattro stazioni sulla sua superficie (un avamposto oceanico, una installazione polare e due basi, Gamma e Delta, soprannominate Marburg e Yambuku dal nome delle «prime varietà identificate della febbre emorragica che aveva devastato la Terra del ventunesimo secolo») sono impegnati in una lotta senza tregua per la sopravvivenza, dovendo garantire l’isolamento ermetico degli habitat in cui vivono per prevenire l’intrusione di agenti esterni che porterebbero a un contagio per cui non esiste alcuna cura: «Siamo seduti sul fondo di un oceano biologico ostile, e Yambuku è una batisfera» spiega Elam Mather, una delle veterane di Yambuku, alla nuova arrivata Zoe Fisher. «Una sola falla, e per tutti noi è finita. In un ambiente simile, non possiamo permetterci nulla che non sia una reciproca fiducia».
La vita, su Isis, era un fiume più lungo e profondo. Il suo corso era lento e totalmente sfaldato, punteggiato non da glaciazioni o da impatti di comete ma da ondate di predatori e parassiti. L’ecologia di Isis era una distesa in via di sviluppo, armata. Le sue armi erano formidabili, le sue difese ingegnose.
E questo rendeva il pianeta, tra le altre cose, un’enorme e nuova farmacopea. Gran parte dei costi di mantenimento di Yambuku venivano pagati da consorzi di ditte farmaceutiche appartenenti al Trust del Lavoro. E anche quello era un problema. Ogni cosa che usciva da Yambuku andava giustificata con i contabili del Trust. Lì non c’era spazio per la scienza pura, come veniva fatto chiaramente capire ai dipendenti nativi di Kuiper.
Zoe Fisher è una sopravvissuta terrestre, arruolata dal settore Dispositivi e Personale dei Trust e mandata su Isis con lo scopo di condurre il primo esperimento di «immersione totale»: deve prendere contatto con le forme di vita superiori evolutesi su Isis e studiarle da vicino. Tra queste, i cosiddetti scavatori, dei vertebrati dall’aspetto ripugnante, provvisti di un carapace flessibile, di una tecnologia rudimentale e di possenti arti da scavo con cui realizzano le più ingegnose costruzioni della loro primitiva civiltà: tumuli e montagnole che, nei loro ventri, celano tunnel che sprofondano nelle viscere del pianeta. Ma il Progetto Isis è affidato al Trust del Lavoro, una fazione rivale della D&P a cui riferisce Zoe, e la sua presenza diventa presto un problema: perché a sua insaputa Zoe non è solo una pedina in uno scontro più grande, con il suo mentore Avrion Theophilus che forse tiene più a ciò che lei «trasporta» che alla sua incolumità, ma un’arma con cui compiere una vendetta ai danni del sistema.
Come tutti i terrestri, Zoe è provvista di un timostato, un avanzatissimo sistema di bio-regolazione impiantato in un braccio, finalizzato al controllo dell’umore e all’inibizione della fatica: detto anche «termostato dell’anima», è un ritrovato biotecnologico in grado di trasformare i sudditi delle Grandi Famiglie in mansueti ed efficienti operatori al servizio dei Trust. Prima di essere lanciata dal planetoide di Fenice, però, in un atto di sfida e ribellione al sistema, una dottoressa prossima al ritiro ha operato una manomissione al bio-regolatore di Zoe, che si viene così a trovare in un ambiente alieno, spogliata di ogni certezza precedentemente acquisita, a fare i conti non solo con ciò che accade fuori di lei ma anche con le trasformazioni in atto dentro il suo corpo, con effetti non trascurabili sulla sua stabilità psico-emotiva.
Queste sono le premesse di Bios, eccezionale romanzo di Robert C. Wilson del 1999, pubblicato in Italia da Fanucci nell’effimera ma gloriosa collana Solaria nel marzo 2001 (nella traduzione di Domenico Gallo e Andrea Marti). Apparso originariamente con il sottotitolo A Novel of Planetary Exploration, Bios non è il romanzo più noto dell’autore americano-canadese, conosciuto soprattutto per Mysterium (altro romanzo apparso su Solaria, vincitore del Philip K. Dick Aaward nel 1994) e per Spin (Hugo Award nel 2005 e principio di una trilogia molto popolare), ma è ingiustamente sottovalutato e merita di essere riscoperto, come giustamente caldeggiava Enrico Di Stefano in tempi non sospetti dalle pagine di Delos SF, magari anche nella scia dell’attualità (e chissà che Fanucci non possa farci un pensierino).
Diversi sono i passaggi che chiudono interruttori psichici con le cronache di queste settimane, ispirando riflessioni sul mistero della vita, sul ruolo della coscienza nel bilancio della natura, sulla posizione dell’umanità nelle non sempre facilmente decodificabili dinamiche del cosmo. Prendiamo per esempio questo brano, descritto dal punto di vista di Tam Hayes, il direttore di Yambuku che finisce per innamorarsi, ricambiato, della nuova arrivata:
… anthrax, HIV, Nelson-Cahill 1 e 2, Dengue di Leung e tutta l’immensa schiera di virus emorragici… Lì c’erano tutti gli antichi orrori della Terra, predatori più scaltri e tenaci degli animali delle giungle, e altrettanto attivi, che continuavano a diffondersi tra le malnutrite popolazioni dell’Africa, dell’Asia, dell’Europa. Geometrie a spirale e catene proteiche color arcobaleno, tutte ricolme di morte.
Ecologia planetaria, aveva pensato. Antica, incredibilmente ostile. Quella era la bios di Tam diventata tangibile, l’intricato residuo di eoni di evoluzione.
Ma almeno la Terra aveva accolto il genere umano all’interno di quella equazione, per quanto le sue pestilenze fossero micidiali. Isis non aveva contrattato un accordo analogo.
O quest’altro, dal punto di vista di Zoe:
Se l’avessero sistemata non avrebbe più potuto provare quel fremito nell’attesa del suono della voce di Tam, l’improvvisa sensazione di leggerezza quando lui le faceva un complimento, l’intimità sconvolgente della mano di lui sul suo corpo.
Era follia, naturalmente, ma aveva in sé qualcosa di divino. Si domandò se si era imbattuta in una sorta di saggezza andata perduta per il mondo moderno, in un arcaico veicolo di emozioni nascosto sotto i rigidi rituali delle Famiglie o gli accoppiamenti da scimpanzé dei Clan di Kuiper.
Forse era quello il modo in cui i prolet non bio-regolati si innamoravano. L’amore faceva sentire così, si chiese, nelle zone a rischio virale dell’Africa e dell’Asia?
Aveva paura di quel sentimento. E aveva paura della sola idea che un giorno potesse cessare.
Tutto il romanzo è un sofisticato gioco di echi e risonanze, con pagine e sottotrame che si specchiano le une nelle altre, con linee narrative che divergono e confluiscono le une sulle altre come catene proteiche o, meglio ancora, molecole di DNA.
La scoperta del pianeta da parte di Zoe, delle sue insidie, dei suoi inesplicabili segreti, si svolge parallelamente alla sua indagine interiore, alla sua trasformazione in donna, una metamorfosi rapida ed effimera come quella di un bruco in farfalla. Per le ragioni sopra descritte, gli umani non possono avventurarsi fuori dai loro habitat severamente controllati, all’esterno sulla superficie di Isis, se non protetti da ingombranti e goffi scafandri, bio-armature corazzate concepite per proteggere i loro inquilini, ma drammaticamente esposte esse stesse all’aggressione degli agenti patogeni della biosfera isiana. Come intuisce Dieter Franklin, il planetologo di stanza a Yambuku, in uno dei suoi rapporti:
Si potrebbero fare congetture, e forse non in modo intempestivo, sulle possibilità inerenti a un network pseudo-neurale che connetta tutte le cellule isiane, una biomassa che (se si include la materia degli oceani e i batteri che fissano minerali distribuiti lungo la superficie del pianeta) sarebbe di proporzioni davvero sbalorditive. I crescenti, fruttuosi attacchi alle sottostazioni potrebbero venire visti, per analogia, come una reazione autonoma alla presenza di un corpo estraneo, nella quale le strategie per fare breccia sviluppate nell’ambiente salino e utilizzate per la prima volta contro la stazione per la ricerca nell’oceano siano state adattate, lentamente ma con efficacia, per l’impiego contro avamposti con base sulla terraferma…
La scoperta, destinata alla Terra, non arriverà mai a destinazione, intercettata da Degrandpre, preoccupato solo di preservare la propria posizione di potere, nutrendo l’illusione dei Trust e delle Grandi Famiglie che su Isis sia tutto sotto controllo. Ma la verità è ben diversa, e lui stesso non potrà evitare di farci i conti, riconsiderando sotto una nuova, spietata luce una vita, una carriera e un’impostazione mentale basate sui confini, sugli steccati, sulle separazioni nette, sui muri:
Ecco qui il vero orrore, pensò Degrandpre, questa rottura delle barriere. La civiltà, dopotutto, consisteva nel creare divisioni, mura e steccati che analizzassero ciò che era sgretolato e caotico ricomponendolo in ordinati elementi di immaginazione umana. Ciò che è selvaggio invade il giardino e la ragione viene abbattuta.
Comprese per la prima volta, o credette di comprendere, l’impulso religioso di suo padre. Le Famiglie e i loro Trust avevano diviso con grande finezza e ordinato in maniera ossessiva ciò che sulla Terra era politicamente e tecnologicamente selvaggio, ogni persona e ogni cosa e ogni procedimento erano stati inseriti nella loro orbita appropriata, all’interno del planetario sociale; ma, all’esterno delle mura delle Famiglie, ciò che era selvaggio continuava a premere, sempre più vicino: i prolet, i marziani, i clan di Kuiper; vettori di malattia che crescevano nelle tane delle classi inferiori; nessun vincitore, alla fine, se non la morte, e la crudele immensità dell’universo.
Regole e istituzioni fallaci con cui in molti si stanno misurando, anche in questi tempi.
Zoe, provvista di una bio-tuta di ultima generazione, sarà la prima umana a esplorare da vicino Isis, ma anche lei dovrà fare i conti con le oscure verità e i segreti sepolti nel suo passato, nella sua storia, nel suo DNA. Come spiega il Maestro Avrion Theophilus al dottor Tam Hayes:
«Non tutta la tecnologia nuova risiede nella sua tuta da uscite esterne, dottor Hayes.»
«Scusi?»
«Zoe è un insieme di programmi. Non è soltanto l’interfaccia. È stata accresciuta internamente, mi comprende? Possiede un sistema immunitario totalmente artificiale aggiunto al suo, quello naturale. Nanofabbriche agganciate all’aorta addominale. Se la tuta viene squarciata, noi dobbiamo saperlo. Ci sono tantissime cose che possiamo venire a sapere da lei, anche se dovesse morire durante l’uscita.»
La sua presenza rientra quindi nei cosiddetti «affari delle Famiglie», ed è un esperimento scientifico in prima persona, un banco di prova per un nuovo ritrovato tecnologico. Ma l’uomo continua a sopravvalutarsi e di conseguenza a sottovalutare la trama del cosmo e degli eventi in cui è inserito. E questo può rivelarsi fatale, specie su un mondo come Isis, lontano anni luce dalla Terra.
Denso di informazioni, scritto con un gusto per la parola che oserei quasi definire d’altri tempi, e intriso di una visione del mondo che non ho esitazioni ad accostare a quella di Thomas Ligotti, che su questo blog e altrove abbiamo affrontato a più riprese, Bios è un libro che produce un’onda lunga di pensieri e di riflessioni, esprimendo un pessimismo cosmico che a contatto con l’orrore sepolto al di là dei confini della nostra conoscenza sconfina in un nichilismo assoluto.
Cosa può esserci in fondo di peggio della scoperta di essere soli nell’universo? Di essere l’unica forma di vita a cui l’evoluzione biochimica abbia saputo condurre?
«È questa la risposta […] la risposta a tutte quelle vecchie domande. Noi non siamo soli nell’universo, Zoe. Ma siamo condannati a essere pressoché unici. La vita è antica quasi quanto l’universo stesso. Ma è vita nanocellulare, come quella degli antichi fossili marziani. Si è diffusa per la galassia prima della nascita della Terra. Viaggia nella polvere di stelle esplose».
Non era proprio Dieter a parlare, ma una qualche altra entità che le parlava attraverso il suo ricordo di Dieter. Lei lo sapeva. Avrebbe potuto essere una cosa spaventosa. Ma Zoe non aveva paura. Ascoltava attentamente, invece.
«Te lo spiegherei più per esteso, piccolina, ma voi non possedete le parole per esprimere queste cose. Guardala in questi termini. Tu sei un’entità vivente, cosciente. E pure noi tutti lo siamo. Ma non allo stesso modo. La vita attecchisce ovunque, nella galassia, persino nel suo centro rovente e affollato, dove le radiazioni ambientali ucciderebbero un animale come te. La vita è duttile e sa adattarsi. La coscienza nasce… be’, praticamente dappertutto. Non il tuo tipo di coscienza, però. Non quello degli animali, nati nell’ignoranza, destinati a vivere per un tempo breve e a morire, per sempre. Questa è l’eccezione, non la regola».
«Riesco a sentire le stelle che parlano» disse Zoe.
«Sì. Noi tutti possiamo, sempre. Più che altro si tratta di pianeti, non di stelle. Pianeti come Isis. Spesso alquanto diversi sotto l’aspetto fisico, ma tutti pieni di vita. Tutti loro parlano».
«Ma la Terra no» indovinò Zoe.
«No, la Terra no. Non sappiamo perché. Il granello di vita che ha trovato il vostro sole doveva essersi in qualche modo danneggiato. Siete cresciuti in maniera selvaggia, Zoe. In maniera selvaggia e da soli».
«Come un’orfana».
Dieter… la cosa-Dieter… le rivolse un sorriso triste. «Sì. Esattamente come un’orfana».
Ma non era veramente Dieter a parlare.
Era Isis.
Una chiosa che richiama sicuramente Stanisław Lem e Solaris, ma non privo di un retrogusto dickiano. Come ammette Robert C. Wilson nella sua postfazione, Bios è un romanzo cupo, che riflette lo stato d’animo di un momento particolarmente difficile della sua vita, «tra la fine di un matrimonio e la morte di mia madre». Dopo averlo letto la prima volta nella primavera del 2017, ho continuato a rimuginarci sopra per tutto questo tempo, accarezzando più di una volta l’idea di parlarne su queste pagine, fino a cedere alla tentazione di rileggerlo negli ultimi giorni.
Non è un libro facile, sicuramente non è una storia che piacerà a tutti.
Ma è fantascienza al suo meglio. Ed è un libro che non si dimentica. E forse non c’è occasione migliore per riscoprirlo di questo periodo, con lo sforzo di resistenza e resilienza a cui siamo tutti chiamati.

Non è molto sportivo sparare su un avversario disarmato. Io pensavo che tu dovessi essere bravo. Non eri tu quello bravo? Vieni Deckard. Fammi vedere di cosa sei fatto.
È a un crudele scherzo del destino che tutti avremo pensato apprendendo la scorsa estate la notizia che Rutger Hauer ci aveva lasciati dopo una breve malattia. L’uomo che aveva dato un volto e una voce a Roy Batty ci lasciava proprio nell’anno che era stato fatale al suo personaggio più memorabile. Ma la sorte si era dimostrata perversamente beffarda con Hauer ben prima del 19 luglio 2019: se si eccettua forse il magnetico Navarre in Ladyhawke di Richard Donner (1985), nessun’altra performance aveva saputo replicare il successo, la carica iconica e la persistenza nell’immaginario del suo secondo ruolo per Hollywood.
E questo benché molti di noi ne avessero apprezzato la presenza in film di seconda categoria, che proprio grazie alla sua partecipazione hanno sviluppato col tempo un alone di culto: pellicole di serie B come Giochi di morte (1989) o Detective Stone (1992) o produzioni televisive come Fatherland (1994), così come anche film se vogliamo ancor più privi di pretese come Sotto massima sorveglianza (sempre del 1989) o di categoria perfino inferiore come Arctic Blue (1993), Omega Doom (1996), Hemoglobin – Creature dell’inferno o Redline (entrambi del 1997). Pronunciate un titolo a caso tra gli oltre cento a cui ha preso parte nell’arco della sua carriera, e troverete da qualche parte un club di estimatori disposti a cantarne le lodi al di là dei limiti che sarebbero evidenti a chiunque. Chiamatelo, se volete, effetto Hauer, e sappiate che funzionava da molto prima che l’attore olandese cominciasse a capitalizzarlo in produzioni rispettate come Confessioni di una mente pericolosa di George Clooney (2002), Sin City di Robert Rodriguez e Frank Miller e Batman Begins di Christopher Nolan (2005).
D’altro canto, il contributo di Rutger Hauer alla pellicola di Ridley Scott fu incommensurabile. Le sue qualità attoriali furono determinanti tanto per caratterizzare il leader dei replicanti ribelli, quanto per contribuire a renderlo una figura senza precedenti nel nostro immaginario. Anzi, mi spingerò oltre affermando che è grazie a lui se abbiamo avuto un Roy Batty diametralmente opposto alla fredda, spietata e inesorabile macchina da guerra che era il Roy Baty di Philip K. Dick. Il personaggio da cui partiva era infatti un grigio epigono della creatura del dottor Frankenstein, del tutto privo di qualsiasi afflato romantico e meno interessante di tutti gli altri androidi con cui il cacciatore a premi Deckard entra in contatto nel corso della sua battuta di caccia.

Nelle mani di Hauer, invece, il processo di crescita già intrapreso con il passaggio di consegne tra Hampton Fancher e David Peoples alla sceneggiatura giunge a compimento e produce un frutto forse inatteso: un personaggio che è in grado di eclissare qualunque altro personaggio con cui si trovi a condividere la scena, che si tratti del suo creatore Eldon Tyrell (che proprio tra le sue mani finisce immolato in un truculento rituale teocida) o del protagonista Rick Deckard (peraltro interpretato dall’astro nascente Harrison Ford). E Roy Batty diventa l’antagonista con cui lo spettatore non può fare a meno di solidarizzare, l’anti-Frankenstein per eccellenza: una creatura sintetica, creata dall’uomo e superiore a esso per intelligenza, forza e resistenza fisica, ma che si spoglia di qualsiasi componente perturbante con una metamorfosi finale, rivelandosi superiore agli stessi esseri umani nell’unica facoltà che davvero dovrebbe tracciare la linea di demarcazione tra le due condizioni, ovvero l’empatia. E come se non bastasse, in virtù di questa evoluzione, in aggiunta a tutti i parallelismi con il martirio cristiano che sono fin troppo facili da individuare nel corso di Blade Runner, la ribellione dei replicanti ai loro creatori assume anche una inattesa dimensione politica, sviluppando una dialettica di chiaro stampo marxista. Emblematica a questo proposito la battuta-chiave:
Bella esperienza vivere nel terrore, vero? In questo consiste essere uno schiavo.
Roy Batty è stato davvero il primo esemplare di una nuova umanità, o se volete della postumanità, sul grande schermo. La migliore tra le creature artificiali ma “più umane dell’umano” che si fa paladina di un ideale di giustizia e libertà, e che si mostra davvero più umana degli esseri umani al culmine di un percorso che ha scavato nel cuore di tenebra di una dimensione che pensavamo essere la psicologia deviata dei replicanti, ma che in realtà non era nient’altro che il riflesso fin troppo fedele della condizione umana.
Sui replicanti come simulacri nell’accezione di Jean Baudrillard molto si è scritto. Qui aggiunto solo che l’assenza di Rutger Hauer e del suo Batty rappresenta forse l’unica macchia che si può contestare allo straordinario lavoro svolto da Denis Villeneuve con il seguito Blade Runner 2049. L’importanza di Roy Batty era stata intuita da K. W. Jeter nei suoi seguiti ufficiali, ma senza che neanche lui riuscisse a mio avviso a sviscerare bene le risorse offerte ai possibili sviluppi narrativi da una dimensione tanto complessa: l’immane riserva di carisma, profondità, problematicità anche (quale il rapporto di Batty con l’umano di cui aveva ereditato i ricordi e almeno parte del patrimonio genetico?), rimane del tutto inesplorata.
E la dipartita dell’uomo che era Roy Batty rende ormai del tutto speculativa qualsiasi ipotesi di futuri sviluppi in quella direzione.

“Una nuova vita vi attende nelle colonie extra-mondo. L’occasione per ricominciare in un Eldorado di buone occasioni e di avventure, un nuovo clima, divertimenti ricreativi…”
E allora, adesso che ci siamo finalmente arrivati, al novembre 2019 che ci annunciava il cartello di apertura di Blade Runner, scopriamo le carte: quanti tra noi si sono chiesti dove siano i replicanti e le colonie extra-mondo? Così pochi?
Forse è perché il nostro 2019 è molto più simile di quanto vorremmo ammettere al 2019 trasposto sullo schermo nel 1982 da Ridley Scott, Syd Mead e Lawrence G. Paull (che purtroppo proprio il 10 di questo mese ci ha lasciati, dopo aver abbandonato il mondo del cinema nei primi anni Duemila). È curioso ricordare attraverso le parole dello stesso art director, che con questo lavoro si guadagnò una nomination agli Oscar, come quel futuro prese forma: il regista lasciò carta bianca agli scenografi, con la promessa che qualsiasi cosa avrebbero costruito, lui l’avrebbe filmata. Per artisti abituati a vedere il loro lavoro venire sempre dietro alle altre esigenze produttive, l’invito di Scott funzionò come un incentivo a superarsi (e a infrangere il tetto del budget, ma questa è un’altra storia), e così abbiamo visto prendere forma sul grande schermo le sterminate distese industriali della carrellata d’apertura (simpaticamente ribattezzate Hades), le imponenti piramidi del quartier generale della Tyrell Corporation, le strade dei bassifondi intorno al Bradbury Building, fino a Chinatown e al distretto della vita notturna.
Sembra quasi che col tempo la realtà abbia però voluto prendersi una rivincita sull’immaginario, operando un doppio ribaltamento. Il primo capovolgimento, in effetti, fu quello operato dagli sceneggiatori Hampton Fancher e David Peoples sul mondo di Philip K. Dick, trasportando l’azione dalla Bay Area a Los Angeles, sostituendo un mondo spopolato e soffocato dalla cenere radioattiva e dal kipple con un mondo sovraffollato e annegato nelle piogge monsoniche, trasformando una NorCal devastata dalle ricadute dell’olocausto nucleare che aveva suggellato l’Ultima guerra mondiale con una SoCal al collasso ambientale ben prima che la crisi climatica diventasse argomento di stringente attualità. Tutto il subplot di Dick legato alla comunione empatica e al culto di Wilbur Mercer rimane fuori dall’adattamento cinematografico, ma viene recuperato in maniera sottile nella caratterizzazione dei replicanti: quelli che in Do Androids Dream of Electric Sheep? non erano altro che macchine prive di sentimenti, creature artificiali in cui era stato accidentalmente sintetizzato un istinto animale di sopravvivenza amplificato all’ennesima potenza, nella pellicola di culto di Scott diventano a tutti gli effetti “più umani dell’umano“, come da slogan della Tyrell.
Così i Nexus-6, che nel romanzo non erano altro che androidi, evolvono in replicanti, termine nato da un brillante spasmo neologico di Peoples: non più automi, congegni, meccanismi, robot organici… ma creature a tutti gli effetti indistinguibili dagli umani, simulacri senza un originale perché dotati di qualità superiori agli stessi prototipi, che ereditano sia l’istinto animale che le facoltà empatiche degli animali superiori, senza le quali l’homo sapiens difficilmente avrebbe potuto gettare le basi per il processo di civilizzazione. I replicanti sono gli umani della prossima generazione, postumani per definizione, gli unici a poter sostenere l’antico slancio dell’umanità verso le stelle e quindi tutti gli sforzi legati al programma di colonizzazione spaziale.
Nel momento in cui la realtà ha deciso di prendersi una rivincita sull’immaginario, il mondo anziché trovarsi preso di mira dai replicanti in fuga dalle colonie extra-mondo, attirati sulla Terra dall’invisibile richiamo mnemonico o dalla risonanza morfica della culla dell’umanità, si ritrova invaso di zombie: un po’ come se tutte le facoltà superiori che gli ingegneri genetici di Tyrell erano riusciti a codificare nei replicanti fossero state sottratte agli umani delle ultime due o tre generazioni, lasciando spazio a un vuoto pneumatico in cui sono andate espandendosi le paure, i timori e tutti gli stati negativi presenti nel nucleo più primitivo dei nostri comportamenti animali. Invece dei replicanti, abbiamo così dei ritornanti, degli androidi organici la cui programmazione viene continuamente assicurata dall’azione martellante della propaganda, un’autentica fabbrica di fake news e di consenso fondato sull’ignoranza e la disinformazione. Non usciremo illesi dall’era della post-verità, probabilmente occorreranno decenni per curare le ferite.
Intanto continuiamo a temere invasioni fantasma buone solo per lo share e per pompare nei sondaggi le liste dei neofascisti, mentre nell’indifferenza generale lasciamo che il Mediterraneo si trasformi in un cimitero sottomarino, lo Stige all’altezza del suo nome per tutti i profughi imprigionati nei lager libici. Siamo troppo svuotati per empatizzare con chi è disposto a mettere a repentaglio la propria vita e quella dei propri figli per coltivare la pur remota speranza di un futuro migliore, quando invece è a quei sogni che dovremmo guardare con rinnovato slancio, facendoli nostri per superare la trappola irrazionale della paura. In altre parole: per tornare a essere umani, se non proprio dei replicanti migliori.
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La prima volta che mi sono imbattuto nel concetto di falso ricordo è stato senza dubbio in Blade Runner. La storia è probabilmente nota a tutti, ma in questo discorso due sono le scene chiave: la prima, quando Deckard, appena tornato in servizio per la Blade Runner Unit dell’LAPD, viene mandato dal suo superiore, il capitano Harry Bryant, alla Tyrell Corporation, e qui il cacciatore di replicanti ha un’illuminante conversazione con il magnate a capo della compagnia, subito dopo essere stato invitato a sottoporre la sua assistente al Test Voight-Kampff, un meccanismo quasi infallibile per riconoscere un replicante.
Deckard: Non sa di esserlo?
Eldon Tyrell: Forse comincia ad averne il sospetto.
Deckard: Il sospetto? Come fa a sapere cos’è il sospetto?
Eldon Tyrell: Il commercio. È il nostro fine qui alla Tyrell. “Più umano dell’umano” è il nostro scopo. Rachael è un esperimento, niente di più. Cominciamo a riconoscere in loro strane ossessioni: in fondo sono emotivamente senza esperienza, con solo pochi anni in cui accumulare conoscenze che per noi umani sono scontate. Se noi li gratifichiamo di un passato, noi creiamo un cuscino, un supporto per le loro emozioni, di conseguenza li controlliamo meglio…
Deckard: Ricordi. Lei sta parlando di ricordi!
I ricordi sono centrali in Blade Runner e questa rappresenta forse la più preziosa innovazione apportata da Ridley Scott e dagli sceneggiatori Hampton Fancher e David Peoples al romanzo originale di Philip K. Dick (che qui lo sfiora appena, mentre intorno al tema della memoria, in senso più o meno lato, aveva incentrato altre tappe della sua ricca produzione, dai racconti Ricordiamo per voi e I labirinti della memoria che avrebbero ispirato i film Atto di forza e Paycheck, a Scorrete lacrime, disse il poliziotto, passando ovviamente per La svastica sul sole). La memoria diventa il discrimine per far fare il salto di qualità ai Nexus 6, l’ultima generazione di replicanti messa in produzione dalla Tyrell, rendendoli di fatto inconsapevoli della loro natura artificiale e dotandoli in questo modo in un comportamento indistinguibile dagli esseri umani.
La seconda scena fondamentale per la riflessione che voglio fare, ha luogo poco più avanti, quando Rachael si reca a far visita a Deckard per convincerlo di aver mal interpretato l’esito del test. Colto alla sprovvista, Deckard prova a liquidarla con fare sbrigativo ma poi, di fronte alle insistenze della donna, non trova altro di meglio che attaccarla frontalmente per scoraggiarla nei suoi tentativi di convincimento:
Deckard: […] Ricordi il ragno in quel cespuglio davanti alla tua finestra? Il corpo arancione, le zampe verdi… lo guardasti fare la rete tutta l’estate e un giorno ci vedesti un grosso uovo. L’uovo si schiuse…
Rachael: L’uovo si schiuse…
Deckard: E…
Rachael: … e centinaia di ragnetti ne uscirono… e la divorarono.
Deckard: Innesti. Non sono ricordi tuoi, sono di qualcun altro. Della nipote di Tyrell, forse.
Quello di Rachael somigliava in realtà più a un tentativo di autopersuasione, e per questo il comportamento di Deckard risulta allo spettatore ancora più deprecabile, ma quello che l’ex-poliziotto sta a sua volta cercando di fare è di frapporre una barriera emotiva tra sé e l’androide: sta cercando di non farsi coinvolgere. Come non tarda lui stesso a realizzare:
Deckard (fuori campo): Tyrell aveva fatto un gran lavoro con Rachael. Perfino un’istantanea di una madre che non aveva mai avuto e di una figlia che non lo era mai stata. Non era previsto che i replicanti avessero sentimenti. Neanche i cacciatori di replicanti. Che diavolo mi stava succedendo? Le foto di Leon dovevano essere artefatte come quelle di Rachael. Non capivo perché un replicante collezionasse foto. Forse loro erano come Rachael: avevano bisogno di ricordi.
I replicanti, quindi, dotati di memorie false dai loro progettisti, sviluppano qualcos’altro: il bisogno di ricordi. Credo che sia una delle trovate più illuminanti del film, nonché uno degli sviluppi più profondi innestati sul materiale originale, dove a essere centrale era in realtà la riconoscibilità dell’umano dall’artificiale. Di fatto, l’adattamento cinematografico opera un cambio di paradigma.
La seconda volta che ho avuto a che fare con i falsi ricordi è stato invece durante la lettura del romanzo I transumani (Factoring Humanity, 1998) di Robert J. Sawyer. Forse non uno dei lavori migliori dello scrittore canadese, ma non privo di validi spunti d’interesse, come appunto la sindrome del falso ricordo (ma anche il primo contatto alieno e l’interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica, per non dire della teoria della super-mente… in effetti, qui come anche altrove, uno dei problemi di Sawyer è probabilmente la quantità di carne che si mette ad arrostire, sufficiente per un reggimento in parata, ma decisamente eccessiva per una semplice grigliata in giardino).
— Credo che possa trattarsi di un caso di sindrome da falso ricordo.
— Ah — commentò Kyle con aria saputa. — La famosa SFR…
Conoscendolo, Heather non si lasciò incantare. — Non hai la minima idea di quel che sto dicendo, vero?
— Confesso la mia ignoranza.
— E i ricordi rimossi lo sai che cosa sono… almeno in teoria?
— Dunque, ricordi rimossi… be’, sì, certo, ne ho sentito parlare. […]
— […] Gli psicologi ci si accapigliano da decenni, sulla questione se sia possibile o no rimuovere il ricordo di un’esperienza traumatica. Di per sé, il concetto di rimozione è roba vecchia e risaputa. Anzi, diciamo pure che è il fondamento della psicanalisi: basta costringere i pensieri rimossi a emergere in piena luce ed ecco che le tue nevrosi svaniscono come neve al sole. Però milioni di persone che hanno vissuto situazioni traumatiche sostengono che il problema è esattamente l’opposto: esse non dimenticano mai quello che gli è accaduto… […] Ma come la mettiamo se accade qualcosa di talmente inatteso, di così fuori dell’ordinario, di sconvolgente a tal punto che la ragione umana non è semplicemente in grado di affrontarlo? Come reagisce, in tal caso, la mente? Forse, davvero, innalzando una barriera per difendersi dall’intollerabile. Così per lo meno credono alcuni psichiatri e un numero incalcolabile di presunte vittime d’incesto. D’altra parte…
Kyle la fissò interrogativo. — D’altra parte?
— Ecco, secondo molti psicologi ciò non può assolutamente verificarsi in quanto i meccanismi della rimozione, semplicemente, non esistono… cosicché, quando ricordi traumatici compaiono d’improvviso a distanza di anni, o addirittura decenni, dal supposto evento scatenante, si tratta necessariamente di falsi ricordi. In psicologia se ne discute da più di trent’anni e ancora non esiste una risposta convincente.
Kyle respirò a fondo, cercando di raccapezzarcisi. — Insomma, quale sarebbe la conclusione? Che gli esseri umani riescono a liberarsi del ricordo di esperienze traumatiche effettivamente vissute… o che, al contrario, possiamo rammentare distintamente cose mai avvenute?
Heather annuì. — Lo so, nessuna delle due è una prospettiva allettante. Qualunque si decida di accettare… e, bada bene, non si può scartare l’eventualità che possano entrambi verificarsi, in momenti diversi… la conclusione è che i nostri ricordi, il nostro senso di identità e la percezione del nostro ruolo nel mondo sono molto più evanescenti e inattendibili di quanto ci piacerebbe credere.
— Be’, io se non altro so per certo che i ricordi di Becky sono fasulli. Ma quello che proprio non riesco a capire è da dove provengano, simili ricordi.
— Secondo la teoria più diffusa, sono stati inculcati.
— Inculcati? — Kyle ripeté il vocabolo in tono esitante, come se fosse la prima volta che lo udiva pronunciare. […] — Ma perché mai un analista dovrebbe fare una cosa del genere?
Già, perché? Mi sono ritrovato a chiedermelo un numero imprecisato di volte affrontando la lettura di Veleno, la sconvolgente inchiesta di Pablo Trincia pubblicata da Einaudi, tratta da una serie podcast che tra il 2017 e il 2018 ha riscosso un vasto seguito, al punto da spingere il corso della giustizia a riaprire processi risalenti a vent’anni fa. Potete ascoltare tutte le puntate del podcast (curato da Trincia con la collega Alessia Rafanelli) da questa pagina, che tra l’altro raccoglie anche una quantità di materiale extra, incluse le registrazioni delle testimonianze, le foto dei luoghi e una registrazione in studio con alcuni protagonisti (sarebbe meglio definirli vittime) di questa incredibile vicenda. Una discesa nelle spire di una follia collettiva, una psicosi di massa forse senza precedenti nella storia italiana ma con profonde affinità con altri casi analoghi accaduti sulle due sponde dell’Atlantico a partire dalla caccia alle streghe nel Massachusetts del Settecento, di cui ho parlato su Quaderni d’Altri Tempi.
Il caso dei Diavoli della Bassa è emblematico delle aberrazioni a cui possono condurre pratiche di assistenza psicologica in assenza delle necessarie attenzioni. Una marea nera all’improvviso ha inghiottito le vite di decine di persone, alcune delle quali non sono più riemerse dall’abisso in cui furono scaraventate. Altre continuano a lottare, ma le dimensioni spesso insormontabili degli ostacoli che si sono trovate ad affrontare nel corso di questi lunghissimi anni restano per noi estranei solo vagamente intuibili.
In un altro film di fantascienza, Inception di Christopher Nolan, il protagonista Dom Cobb, incaricato di innestare il seme di un’idea nella testa dell’erede di un impero industriale nell’ambito di un’ambiziosa manovra finanziaria, a un certo punto spiega che:
Il seme che pianteremo nella mente di quell’uomo diventerà un’idea che lo condizionerà per sempre. Potrebbe cambiarlo… può arrivare a cambiarlo radicalmente.
Inception è tutto giocato sulla malleabilità della mente, sulla sua plasticità ed esposizione a forze esterne. E non ho potuto fare a meno di ripensare a tutte queste opere mentre leggevo le pagine di Veleno, mentre mi immergevo nell’ascolto dei podcast, nella ricostruzione del caso, nei sopralluoghi dei reporter in posti che distano solo poche decine di chilometri dal luogo in cui abito. Se in particolare nel capolavoro di Ridley Scott i falsi ricordi servivano a rendere i replicanti indistinguibili dagli esseri umani, nella cronaca dei Diavoli della Bassa sembra quasi che il loro innesto ci dica quanto già molti presunti esseri umani siano indistinguibili da creature artificiali, incapaci di mostrare tracce di quel sentimento che Dick volle riconoscere come il vero discrimine tra l’umano e l’artificiale: l’empatia.
Quella raccontata in Veleno è una storia che lascia sconcertati. Dovremmo leggerla tutti, per evitare di ricadere come società negli stessi errori. E per risparmiarci in futuro altri simili orrori.
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