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Ogni volta che muore uno scrittore con cui avverto una risonanza, o che in qualche modo ha avuto un’influenza sulla costruzione delle lenti attraverso cui osservo il mondo, non posso fare a meno che tornare alle sue pagine. A volte sono libri che ho già letto e a cui torno come si farebbe ritorno in una casa che abbiamo abitato per un po’, prima di partire per nuove destinazioni (non è così, in fondo, per tutti i libri che leggiamo, almeno i più belli?). Altre sono libri che mi prefiggevo da tempo di leggere ma che per un motivo o per l’altro (crediamo ci sia sempre tempo, per le cose importanti che necessitano di quel tempo) sono rimasti ad accumularsi sulle mensole della libreria. Era successo l’anno scorso con Valerio Evangelisti. Ed ero ancora immerso nelle sue pagine, quelle familiari intrise di un senso di claustrofobia di Cherudek e quelle crudeli e violente che leggevo per la prima volta di Veracruz, quando è arrivata la notizia della morte di Cormac McCarthy.

Cormac McCarthy Photograph © Beowulf Sheehan http://www.beowulfsheehan.com (via Literary Hub)

Adesso, leggere Sunset Limited potrebbe non essere stata la scelta migliore, mentre ero ancora intriso del mood di Cherudek e delle riflessioni di Mark Fisher, ma di sicuro ha amplificato quella risonanza, quel senso di sintonia con alcune considerazioni, sensazioni o convinzioni, che vanno montando da un po’, stratificandosi tra i miei pensieri, condizionando il mio modo di vivere e agire il mondo.

Il libro è un testo teatrale portato in scena per la prima volta nel 2006 a Chicago, e in seguito adattato anche per la televisione da Tommy Lee Jones, che lo ha interpretato con Samuel L. Jackson. Protagonisti sono due uomini con una vita di dolore e rabbia alle spalle, ma mentre il Nero ha trovato una via d’uscita da questa gabbia di oscurità (“Ho avuto quello che mi serviva invece di quello che volevo, e questa è grossomodo la più grande fortuna al mondo“, sostiene a pag. 100 dell’ultima edizione Einaudi del 2017, nella traduzione di Martina Testa), il Bianco continua a vivere in un “mondo buio“, in cui si sente in trappola.

Una mattina il Nero evita al Bianco di trasformarsi in un “pendolare terminale“, strappandolo dalle rotaie davanti al Sunset Limited in arrivo. Lo porta a casa sua, in uno squallido caseggiato popolato di tossici e crackomani, e inizia tra i due un lungo dialogo sui massimi sistemi: la vita, la morte, il destino dell’uomo, il senso del mondo. Una pagina prima, dopo una lunga insistenza da parte del Nero, il Bianco si era finalmente risolto a dichiarare il suo punto di vista:

Per me il mondo è fondamentalmente un campo di lavori forzati da cui ogni giorno si estraggono a sorte i detenuti – completamente innocenti – perché vengano giustiziati. Non è così che la vedo. E’ così che è. Esistono pareri diversi? Certo. Resistono a un esame approfondito? No.

Ma è un confronto che li porta a lambire un po’ tutto lo scibile umano, dalla musica di John Coltrane al metodo scientifico, dalla storia alla letteratura, diventando ben presto un esercizio olistico di critica, come in questo passaggio capace di coniugare fisica quantistica e narratologia:

BIANCO La Bibbia è piena di storie che devono servire da ammonimento. Anzi, ne è piena tutta la letteratura, se è per questo. Ci dicono di stare attenti. Attenti a cosa? A non prendere la strada sbagliata. Il sentiero sbagliato. Quante ne esistono, di strade sbagliate? Un numero infinito. E di strade giuste? Una sola. [pag. 57]

Il Bianco è un pessimista, un disilluso, e in diversi momenti sembra richiamare direttamente la lezione di Thomas Ligotti. Cormac McCarthy non compare nel lungo elenco di nomi e di titoli di cui il maestro delle tenebre fa menzione nelle sue interviste, ma giudicate un po’ voi davanti a una pagina come questa:

BIANCO Ok. Forse ha ragione. Va bene, ecco le notizie che ho da darle, reverendo. Io anelo all’oscurità. Io prego che arrivi la morte. La morte vera. Se pensassi che da morto incontrerei le persone che ho conosciuto in vita, non so cosa farei. Sarebbe la cosa più orrenda. Il colmo della disperazione. Se dovessi incontrare mia madre e ricominciare tutto daccapo, ma stavolta senza la prospettiva della morte a consolarmi… Be’, quello sarebbe l’incubo finale. Kafka coi controfiocchi.

NERO Cazzo, professore. Non vuoi rivedere tua mamma?

BIANCO No, per niente. Gliel’ho detto che si sarebbe arrabbiato. Io voglio che i morti restino morti. Per sempre. E voglio essere uno di loro. Sennonché, ovviamente non si può essere uno di loro, perché ciò che non esiste non può formare una comunità. Ecco: nessuna comunità. Mi si scalda il cuore soltanto all’idea. Silenzio. Buio. Solitudine. Pace. E tutto questo, nell’arco di un battito di ciglia.

NERO Cazzo, professore.

BIANCO Mi faccia finire. Io non considero il mio stato mentale una visione pessimistica del mondo. Io lo considero equivalente al mondo così com’è. L’evoluzione non potrà non condurre la vita intelligente alla consapevolezza di una certa cosa sopra tutte le altre, e questa cosa è la futilità. [pag. 109-110]

Ecco di cosa stiamo parlando, per intenderci. E ogni giorno di più ho la sensazione che la sofferenza sia davvero una costante ineluttabile, nelle nostre vite. Le cose possono andarci tanto bene da oltrepassare le nostre più rosee aspettative, eppure ci sarà sempre quel rumore di fondo a ricordarci che manca qualcosa, che qualcosa potrebbe andare meglio, che quella certa cosa poteva essere fatta meglio. Non è di insoddisfazione che sto parlando, ma proprio di vincoli, di oneri che ci opprimono, che ci schiacciano le spalle e il petto e ci impediscono di riempirci i polmoni di quell’ossigeno vitale di cui avremmo bisogno per dare sfogo alla nostra gioia. Nessuno è davvero libero, e nessuno, che se ne renda conto o meno, può trascendere la verità finale.

Perché, dopotutto, siamo tutti soli anche quando non siamo davvero soli: siamo soli con noi stessi davanti ai bilanci di natura personale, a quei piccoli check point con cui periodicamente sottoponiamo al vaglio ciò che abbiamo fatto e ciò che stiamo facendo, a quegli esami in cui ci misuriamo rispetto all’ideale che avevamo in mente quando abbiamo scelto di essere una determinata persona o fare una certa vita. Questo è qualcosa a cui non possiamo sfuggire, e non saranno le parole delle persone che abbiamo intorno, nemmeno le più vicine, a poter intercedere per noi con l’ultimo giudice a cui ognuno di noi si trova a rendere conto: sé stesso.

Possiamo nasconderci dietro alla facciata che ci siamo dati, dietro l’apparenza delle maschere che indossiamo ogni giorno, ma sotto è con questo che dobbiamo confrontarci. E sono qui che mi trastullo con queste riflessioni quando mi capita davanti questa visione di Hulk firmata da Mark Fielding:

Sembra un segnale dall’universo, no? Uno di quei messaggi che la realtà ti manda per metterti alla prova, per testare la tenuta delle tue convinzioni. Cosa dire, se non sposare ancora una volta le parole del Bianco di McCarthy, che qui entrano in risonanza con immagini di orrore cosmico in grado di richiamare addirittura H. P. Lovecraft:

La rabbia, di fatto, la provo solo nei giorni migliori. Ma in verità non me n’è rimasta molta. In verità le forme che vedo si sono andate pian piano svuotando. Non hanno più nessun contenuto. Sono soltanto figure. Un treno, un muro, un mondo. O un uomo. Una cosa che penzola con le sue espressioni insensate in mezzo a un vuoto ululante. Senza che ci sia alcun significato nella sua vita. Nelle sue parole. [pag. 112-113]

Un sole di gomma fu squassato, e tramontò; e un nulla nero-sangue si mise a far girare un sistema di cellule intrecciate con cellule intrecciate con cellule intrecciate dentro un unico stelo. E spaventosamente nitida, sullo sfondo di tenebra, una candida fonte zampillò.
Vladimir Nabokov, Fuoco pallido, traduzione di Franca Pece e Anna Raffetto per l’edizione italiana Adelphi (2002)

Finalmente la mia copia del balenottero è venuta a spiaggiarsi qui di fianco e quindi quale occasione migliore per parlarvi un po’ del mio racconto? Il senso del post, come avrete capito, è quanto di più autoreferenziale si possa immaginare. Se decidete di andare avanti, sapete cosa aspettarvi.

1. Riferimenti letterari

Come fa giustamente notare il curatore del volume Franco Forte (che ringrazio oltre che per aver messo in luce il modello, anche per avermi dato la possibilità di comparire ancora una volta in un libro con diverse autrici e autori per cui non ho mai fatto mistero di nutrire da lettore – e a volte anche, nel mio piccolo, da curatore – un apprezzamento incondizionato), sul mio racconto aleggia l’ombra di Sergio “Alan D.” Altieri. Alla fine i conti tornano, no?

Anche lui forse avrebbe usato per questo racconto l’etichetta sci-fi action, che non so se merito, però mi avrebbe fatto senz’altro piacere.

Accanto a lui, altri riferimenti al mio personale pantheon letterario che fanno capolino tra le pagine sono meno scontati per un racconto di fantascienza quale Al servizio di un oscuro potere è, e in particolare penso a H. P. Lovecraft, Thomas Ligotti e Breece D’J Pancake.

2. Suggestioni e ispirazioni

Lo spunto di partenza, la scintilla che ha innescato la suggestione da cui è scaturito il racconto, è una sequenza di fotogrammi di Bologna, una mattina presto d’inverno di due o tre anni fa. In superficie la città deserta, spazzata da un vento gelido che strappava pioggia ghiacciata a un cielo di marmo. Nel sottosuolo, il labirinto multi-livello della stazione dell’alta velocità, con le sue lunghe passerelle di vetro sospese sui binari e immerse in un’atmosfera ovattata, altrettanto rarefatta, e le voci dei passeggeri in attesa che si perdono in lontananza, soffocate dai volumi delle navate sotterranee.

La cordiale voce registrata del sistema di annunci sonori diffusi dagli altoparlanti è stata da ispirazione per Mezereth. Con la complicità di un umore appena più torvo del solito, non è stato difficile delineare invece il personaggio di Maksim Bogdanov. Il nome è un omaggio ad Aleksandr Bogdanov, sulla cui figura è incentrato Proletkult dei Wu Ming, ma anche ad Arkady Bogdanov, uno dei personaggi più intriganti della Trilogia Marziana di Kim Stanley Robinson.

Osservatorio ALMA, Cile.

3. Storie dentro storie dentro altre storie

Keira è antecedente a entrambi, essendo ormai anni che medito di raccontarne la storia. Una storia che inizia in una città devastata dalla guerra, subito dopo il crollo della civiltà, e si conclude a bordo di un’astronave interstellare che si lascia alle spalle un sistema solare irreversibilmente sconvolto. In mezzo ci sono un annuncio del SETI a lungo atteso, ma che forse mai avremmo voluto sentirci dare sul serio, e il Programma Majestic. Di tutto questo si fa menzione in Al servizio di un oscuro potere, che va così a coprire con una prima tessera il mosaico di una storia più ampia e più antica. Il resto, prima o poi, lo scriverò.

Dimenticavo. Il personaggio che fa da contraltare a Maksim nella ricerca di Keira per conto di Mezereth si chiama… Irene Adler. Ovviamente, non quella Irene Adler.

4. World-building

Nel mondo post-apocalittico in cui vivono Maksim e Irene Adler, la società e le sue strutture di potere sono state commissariate dalle intelligenze artificiali. Amorevoli, altruistiche IA come Mezereth hanno preso in custodia il genere umano per il bene della civiltà. E gli umani, per lo meno quelli sopravvissuti all’ultima guerra totale, sono stati incasellati, per il loro bene, in ruoli predefiniti in virtù della loro classificazione in sedici tipi psicologici, che riprende lo schema messo a punto dalle psicologhe Myers e Briggs, per altro madre (la seconda) e figlia (la prima), nel secondo dopoguerra (per scoprire il vostro tipo MBTI, potete sottoporvi a test più o meno accurati, anche on line se ne trovano di diversi, tra cui questo in italiano).

Nel racconto mi diverto a giocare, come si sarà capito poco sopra, con i rischi esistenziali di Nick Bostrom, provando ad azzardare una risoluzione “artificiale” del dilemma del prigioniero, che porta a pagare un prezzo alto ma accettabile per evitare la distruzione assicurata. Questo dilemma, nel racconto, è legato al paradosso di Fermi, e a una possibile spiegazione che è stata già affrontata con eccellenti risultati da autori come Stephen Baxter, Alastair Reynolds e Liu Cixin.

Credit: Babylon 5.

5. Altri mondi, altre storie

Il nome della città in cui si apre e finisce il racconto, al-Hastur, è una citazione abbastanza trasparente di Robert W. Chambers, i cui racconti del ciclo del Re in Giallo sono andati a costituire il nucleo di un universo letterario di rimandi e citazioni che si è avvalso nel corso del tempo dei contributi, tra gli altri, di H. P. Lovecraft, sublimando nell’immaginario popolare anche grazie al lavoro di Nic Pizzolatto sulla prima stagione di True Detective.

In effetti, con tutti questi link, sembra che non abbia dovuto fare altro che mettere un po’ di ordine nella cronologia del blog. Ma è stato un po’ più complessa di così.

Nella descrizione di al-Hastur come di una città mausoleo, uno spettrale sepolcro imbiancato, riverberano le sensazioni di Cuore di tenebra di Joseph Conrad, in cui si ritrova una descrizione di Bruxelles che gli permette di materializzare una critica all’imperialismo colonialista europeo (“Mi ritrovai nella città sepolcrale risentito alla vista di individui che si affrettavano nelle strade per sgraffignare un po’ di denaro l’uno all’altro, […] per sognare i loro sogni sciocchi e insignificanti. Calpestavano i miei pensieri. Erano intrusi e la conoscenza che avevano della vita mi appariva un’irritante finzione, perché mi sentivo così sicuro che non potessero certo sapere le cose che sapevo io“).

Ho aggiunto il prefisso al un po’ per un tocco di esotismo, un po’ per caricarlo di un vezzo demoniaco, e poi perché mi sono detto: con tutti questi riferimenti, perché non citare anche Jack Vance?

Credit: Carcosa, by Irrealist.

6. E il titolo?

Ok, adesso l’ultima e poi evito di importunarvi oltre. Il titolo, vi starete chiedendo, o forse no, ma ormai avrete capito che ho comunque intenzione di dirvelo.

Al servizio di uno strano potere è il titolo, preso in prestito da uno dei suoi racconti, di un’antologia di Samuel R. Delany pubblicata in Italia in un numero monografico di Robot (il 35, per l’esattezza, nel febbraio del 1979). Robot è la mia rivista preferita, Delany è uno degli autori di cui non potrei fare a meno (e tra i primi che citerei se mi venisse chiesto il nome di uno scrittore che tutti dovrebbero conoscere) e questa antologia è uno scrigno di pietre preziose (così parafrasiamo pure il suo titolo più bello).

Al servizio di un oscuro potere esiste anche grazie a Robot e a Delany. Ed è un’influenza che va al di là del titolo, ma che il titolo mette da subito in chiaro.

Buona lettura!

Il mondo del futuro è un incubo barocco di burocrazia neofeudale. La Terra è un mondo morente, in cui ciò che resta delle Americhe prospera sulle macerie degli altri continenti, spazzati per decenni da pandemie e pestilenze che ne hanno decimato la popolazione. Alcuni pionieri hanno stabilito avamposti sulla superficie di Marte, nella fascia asteroidale e i più audaci e refrattari al controllo delle Grandi Famiglie terrestri addirittura nei corpi ghiacciati della cintura di Kuiper, dove il sole è poco più di una stella come le altre in una notte senza fine.

Il potere delle Grandi Famiglie e dei loro «vassalli» e servitori si esprime attraverso i Trust, megaconglomerati industriali che hanno trovato nella corsa allo spazio lo sbocco ideale per il loro perdurante scontro di potere. Hanno instaurato così una precaria alleanza con i tecnici e gli scienziati ribelli delle Repubbliche di Kuiper e, sfruttando la tecnologia quantistica alla base dei lanci di Higgs, sono riusciti a raggiungere una decina di mondi nel raggio di qualche centinaio di anni luce dalla Terra, instaurandovi dei presidi di ricerca. Isis è uno di questi mondi, il Progetto Isis è l’insieme di programmi condotti dai Trust per sfruttare le conoscenze che ne potrebbero derivare e Kenyon Degrandpre, un manager di un certo rilievo ma non appartenente a nessuna Famiglia, il direttore della Stazione Orbitale Isis che si sforza di compiacere i suoi superiori, amministrando il progetto con sterile ma servizievole incompetenza, portando a tutta una serie di spiacevoli conseguenze per il migliaio di membri che dipendono da lui.

Perché Isis non è un mondo come gli altri:

Il pianeta era pieno di vita, ma era una vita più vecchia di un miliardo di anni rispetto a quella della Terra, più evoluta ma anche più primitiva, preservata dai cambiamenti per l’assenza di grandi ondate di estinzione; c’era spazio per tutti, per tutti i generi e per ogni strategia di sopravvivenza eccetto quella umana, senziente, terrestre. Siamo creature così semplici, pensò; non riusciamo a tollerare queste fitotossine ben affilate, gli innumerevoli predatori microscopici cui ha dato forma un miliardo di anni di involuzione. Nulla, nell’arsenale del sistema immunitario umano, riesce ad accorgersi delle invisibili armate isiane, e a respingerle.

La vita terrestre sbarcata sul pianeta è sottoposta a una costante minaccia dalle forme di vita indigene. I tecnici e i ricercatori occupati nelle quattro stazioni sulla sua superficie (un avamposto oceanico, una installazione polare e due basi, Gamma e Delta, soprannominate Marburg e Yambuku dal nome delle «prime varietà identificate della febbre emorragica che aveva devastato la Terra del ventunesimo secolo») sono impegnati in una lotta senza tregua per la sopravvivenza, dovendo garantire l’isolamento ermetico degli habitat in cui vivono per prevenire l’intrusione di agenti esterni che porterebbero a un contagio per cui non esiste alcuna cura: «Siamo seduti sul fondo di un oceano biologico ostile, e Yambuku è una batisfera» spiega Elam Mather, una delle veterane di Yambuku, alla nuova arrivata Zoe Fisher. «Una sola falla, e per tutti noi è finita. In un ambiente simile, non possiamo permetterci nulla che non sia una reciproca fiducia».

La vita, su Isis, era un fiume più lungo e profondo. Il suo corso era lento e totalmente sfaldato, punteggiato non da glaciazioni o da impatti di comete ma da ondate di predatori e parassiti. L’ecologia di Isis era una distesa in via di sviluppo, armata. Le sue armi erano formidabili, le sue difese ingegnose.

E questo rendeva il pianeta, tra le altre cose, un’enorme e nuova farmacopea. Gran parte dei costi di mantenimento di Yambuku venivano pagati da consorzi di ditte farmaceutiche appartenenti al Trust del Lavoro. E anche quello era un problema. Ogni cosa che usciva da Yambuku andava giustificata con i contabili del Trust. Lì non c’era spazio per la scienza pura, come veniva fatto chiaramente capire ai dipendenti nativi di Kuiper.

Zoe Fisher è una sopravvissuta terrestre, arruolata dal settore Dispositivi e Personale dei Trust e mandata su Isis con lo scopo di condurre il primo esperimento di «immersione totale»: deve prendere contatto con le forme di vita superiori evolutesi su Isis e studiarle da vicino. Tra queste, i cosiddetti scavatori, dei vertebrati dall’aspetto ripugnante, provvisti di un carapace flessibile, di una tecnologia rudimentale e di possenti arti da scavo con cui realizzano le più ingegnose costruzioni della loro primitiva civiltà:  tumuli e montagnole che, nei loro ventri, celano tunnel che sprofondano nelle viscere del pianeta. Ma il Progetto Isis è affidato al Trust del Lavoro, una fazione rivale della D&P a cui riferisce Zoe, e la sua presenza diventa presto un problema: perché a sua insaputa Zoe non è solo una pedina in uno scontro più grande, con il suo mentore Avrion Theophilus che forse tiene più a ciò che lei «trasporta» che alla sua incolumità, ma un’arma con cui compiere una vendetta ai danni del sistema.

Un fotogramma di Solaris, regia di Steven Soderbergh (2002).

Come tutti i terrestri, Zoe è provvista di un timostato, un avanzatissimo sistema di bio-regolazione impiantato in un braccio, finalizzato al controllo dell’umore e all’inibizione della fatica: detto anche «termostato dell’anima», è un ritrovato biotecnologico in grado di trasformare i sudditi delle Grandi Famiglie in mansueti ed efficienti operatori al servizio dei Trust. Prima di essere lanciata dal planetoide di Fenice, però, in un atto di sfida e ribellione al sistema, una dottoressa prossima al ritiro ha operato una manomissione al bio-regolatore di Zoe, che si viene così a trovare in un ambiente alieno, spogliata di ogni certezza precedentemente acquisita, a fare i conti non solo con ciò che accade fuori di lei ma anche con le trasformazioni in atto dentro il suo corpo, con effetti non trascurabili sulla sua stabilità psico-emotiva.

Queste sono le premesse di Bios, eccezionale romanzo di Robert C. Wilson del 1999, pubblicato in Italia da Fanucci nell’effimera ma gloriosa collana Solaria nel marzo 2001 (nella traduzione di Domenico Gallo e Andrea Marti). Apparso originariamente con il sottotitolo A Novel of Planetary Exploration, Bios non è il romanzo più noto dell’autore americano-canadese, conosciuto soprattutto per Mysterium (altro romanzo apparso su Solaria, vincitore del Philip K. Dick Aaward nel 1994) e per Spin (Hugo Award nel 2005 e principio di una trilogia molto popolare), ma è ingiustamente sottovalutato e merita di essere riscoperto, come giustamente caldeggiava Enrico Di Stefano in tempi non sospetti dalle pagine di Delos SF, magari anche nella scia dell’attualità (e chissà che Fanucci non possa farci un pensierino).

Diversi sono i passaggi che chiudono interruttori psichici con le cronache di queste settimane, ispirando riflessioni sul mistero della vita, sul ruolo della coscienza nel bilancio della natura, sulla posizione dell’umanità nelle non sempre facilmente decodificabili dinamiche del cosmo. Prendiamo per esempio questo brano, descritto dal punto di vista di Tam Hayes, il direttore di Yambuku che finisce per innamorarsi, ricambiato, della nuova arrivata:

… anthrax, HIV, Nelson-Cahill 1 e 2, Dengue di Leung e tutta l’immensa schiera di virus emorragici… Lì c’erano tutti gli antichi orrori della Terra, predatori più scaltri e tenaci degli animali delle giungle, e altrettanto attivi, che continuavano a diffondersi tra le malnutrite popolazioni dell’Africa, dell’Asia, dell’Europa. Geometrie a spirale e catene proteiche color arcobaleno, tutte ricolme di morte.

Ecologia planetaria, aveva pensato. Antica, incredibilmente ostile. Quella era la bios di Tam diventata tangibile, l’intricato residuo di eoni di evoluzione.

Ma almeno la Terra aveva accolto il genere umano all’interno di quella equazione, per quanto le sue pestilenze fossero micidiali. Isis non aveva contrattato un accordo analogo.

O quest’altro, dal punto di vista di Zoe:

Se l’avessero sistemata non avrebbe più potuto provare quel fremito nell’attesa del suono della voce di Tam, l’improvvisa sensazione di leggerezza quando lui le faceva un complimento, l’intimità sconvolgente della mano di lui sul suo corpo.

Era follia, naturalmente, ma aveva in sé qualcosa di divino. Si domandò se si era imbattuta in una sorta di saggezza andata perduta per il mondo moderno, in un arcaico veicolo di emozioni nascosto sotto i rigidi rituali delle Famiglie o gli accoppiamenti da scimpanzé dei Clan di Kuiper.

Forse era quello il modo in cui i prolet non bio-regolati si innamoravano. L’amore faceva sentire così, si chiese, nelle zone a rischio virale dell’Africa e dell’Asia?

Aveva paura di quel sentimento. E aveva paura della sola idea che un giorno potesse cessare.

Tutto il romanzo è un sofisticato gioco di echi e risonanze, con pagine e sottotrame che si specchiano le une nelle altre, con linee narrative che divergono e confluiscono le une sulle altre come catene proteiche o, meglio ancora, molecole di DNA.

Un fotogramma di Solaris, regia di Andrej Tarkovskij (1972).

La scoperta del pianeta da parte di Zoe, delle sue insidie, dei suoi inesplicabili segreti, si svolge parallelamente alla sua indagine interiore, alla sua trasformazione in donna, una metamorfosi rapida ed effimera come quella di un bruco in farfalla. Per le ragioni sopra descritte, gli umani non possono avventurarsi fuori dai loro habitat severamente controllati, all’esterno sulla superficie di Isis, se non protetti da ingombranti e goffi scafandri, bio-armature corazzate concepite per proteggere i loro inquilini, ma drammaticamente esposte esse stesse all’aggressione degli agenti patogeni della biosfera isiana. Come intuisce Dieter Franklin, il planetologo di stanza a Yambuku, in uno dei suoi rapporti:

Si potrebbero fare congetture, e forse non in modo intempestivo, sulle possibilità inerenti a un network pseudo-neurale che connetta tutte le cellule isiane, una biomassa che (se si include la materia degli oceani e i batteri che fissano minerali distribuiti lungo la superficie del pianeta) sarebbe di proporzioni davvero sbalorditive. I crescenti, fruttuosi attacchi alle sottostazioni potrebbero venire visti, per analogia, come una reazione autonoma alla presenza di un corpo estraneo, nella quale le strategie per fare breccia sviluppate nell’ambiente salino e utilizzate per la prima volta contro la stazione per la ricerca nell’oceano siano state adattate, lentamente ma con efficacia, per l’impiego contro avamposti con base sulla terraferma…

La scoperta, destinata alla Terra, non arriverà mai a destinazione, intercettata da Degrandpre, preoccupato solo di preservare la propria posizione di potere, nutrendo l’illusione dei Trust e delle Grandi Famiglie che su Isis sia tutto sotto controllo. Ma la verità è ben diversa, e lui stesso non potrà evitare di farci i conti, riconsiderando sotto una nuova, spietata luce una vita, una carriera e un’impostazione mentale basate sui confini, sugli steccati, sulle separazioni nette, sui muri:

Ecco qui il vero orrore, pensò Degrandpre, questa rottura delle barriere. La civiltà, dopotutto, consisteva nel creare divisioni, mura e steccati che analizzassero ciò che era sgretolato e caotico ricomponendolo in ordinati elementi di immaginazione umana. Ciò che è selvaggio invade il giardino e la ragione viene abbattuta.

Comprese per la prima volta, o credette di comprendere, l’impulso religioso di suo padre. Le Famiglie e i loro Trust avevano diviso con grande finezza e ordinato in maniera ossessiva ciò che sulla Terra era politicamente e tecnologicamente selvaggio, ogni persona e ogni cosa e ogni procedimento erano stati inseriti nella loro orbita appropriata, all’interno del planetario sociale; ma, all’esterno delle mura delle Famiglie, ciò che era selvaggio continuava a premere, sempre più vicino: i prolet, i marziani, i clan di Kuiper; vettori di malattia che crescevano nelle tane delle classi inferiori; nessun vincitore, alla fine, se non la morte, e la crudele immensità dell’universo.

Regole e istituzioni fallaci con cui in molti si stanno misurando, anche in questi tempi.

Zoe, provvista di una bio-tuta di ultima generazione, sarà la prima umana a esplorare da vicino Isis, ma anche lei dovrà fare i conti con le oscure verità e i segreti sepolti nel suo passato, nella sua storia, nel suo DNA. Come spiega il Maestro Avrion Theophilus al dottor Tam Hayes:

«Non tutta la tecnologia nuova risiede nella sua tuta da uscite esterne, dottor Hayes.»

«Scusi?»

«Zoe è un insieme di programmi. Non è soltanto l’interfaccia. È stata accresciuta internamente, mi comprende? Possiede un sistema immunitario totalmente artificiale aggiunto al suo, quello naturale. Nanofabbriche agganciate all’aorta addominale. Se la tuta viene squarciata, noi dobbiamo saperlo. Ci sono tantissime cose che possiamo venire a sapere da lei, anche se dovesse morire durante l’uscita.»

La sua presenza rientra quindi nei cosiddetti «affari delle Famiglie», ed è un esperimento scientifico in prima persona, un banco di prova per un nuovo ritrovato tecnologico. Ma l’uomo continua a sopravvalutarsi e di conseguenza a sottovalutare la trama del cosmo e degli eventi in cui è inserito. E questo può rivelarsi fatale, specie su un mondo come Isis, lontano anni luce dalla Terra.

Un fotogramma di Solaris, regia di Andrej Tarkovskij (1972).

Denso di informazioni, scritto con un gusto per la parola che oserei quasi definire d’altri tempi, e intriso di una visione del mondo che non ho esitazioni ad accostare a quella di Thomas Ligotti, che su questo blog e altrove abbiamo affrontato a più riprese, Bios è un libro che produce un’onda lunga di pensieri e di riflessioni, esprimendo un pessimismo cosmico che a contatto con l’orrore sepolto al di là dei confini della nostra conoscenza sconfina in un nichilismo assoluto.

Cosa può esserci in fondo di peggio della scoperta di essere soli nell’universo? Di essere l’unica forma di vita a cui l’evoluzione biochimica abbia saputo condurre?

«È questa la risposta […] la risposta a tutte quelle vecchie domande. Noi non siamo soli nell’universo, Zoe. Ma siamo condannati a essere pressoché unici. La vita è antica quasi quanto l’universo stesso. Ma è vita nanocellulare, come quella degli antichi fossili marziani. Si è diffusa per la galassia prima della nascita della Terra. Viaggia nella polvere di stelle esplose».

Non era proprio Dieter a parlare, ma una qualche altra entità che le parlava attraverso il suo ricordo di Dieter. Lei lo sapeva. Avrebbe potuto essere una cosa spaventosa. Ma Zoe non aveva paura. Ascoltava attentamente, invece.

«Te lo spiegherei più per esteso, piccolina, ma voi non possedete le parole per esprimere queste cose. Guardala in questi termini. Tu sei un’entità vivente, cosciente. E pure noi tutti lo siamo. Ma non allo stesso modo. La vita attecchisce ovunque, nella galassia, persino nel suo centro rovente e affollato, dove le radiazioni ambientali ucciderebbero un animale come te. La vita è duttile e sa adattarsi. La coscienza nasce… be’, praticamente dappertutto. Non il tuo tipo di coscienza, però. Non quello degli animali, nati nell’ignoranza, destinati a vivere per un tempo breve e a morire, per sempre. Questa è l’eccezione, non la regola».

«Riesco a sentire le stelle che parlano» disse Zoe.

«Sì. Noi tutti possiamo, sempre. Più che altro si tratta di pianeti, non di stelle. Pianeti come Isis. Spesso alquanto diversi sotto l’aspetto fisico, ma tutti pieni di vita. Tutti loro parlano».

«Ma la Terra no» indovinò Zoe.

«No, la Terra no. Non sappiamo perché. Il granello di vita che ha trovato il vostro sole doveva essersi in qualche modo danneggiato. Siete cresciuti in maniera selvaggia, Zoe. In maniera selvaggia e da soli».

«Come un’orfana».

Dieter… la cosa-Dieter… le rivolse un sorriso triste. «Sì. Esattamente come un’orfana».

Ma non era veramente Dieter a parlare.

Era Isis.

Una chiosa che richiama sicuramente Stanisław Lem e Solaris, ma non privo di un retrogusto dickiano. Come ammette Robert C. Wilson nella sua postfazione, Bios è un romanzo cupo, che riflette lo stato d’animo di un momento particolarmente difficile della sua vita,  «tra la fine di un matrimonio e la morte di mia madre». Dopo averlo letto la prima volta nella primavera del 2017, ho continuato a rimuginarci sopra per tutto questo tempo, accarezzando più di una volta l’idea di parlarne su queste pagine, fino a cedere alla tentazione di rileggerlo negli ultimi giorni.

Non è un libro facile, sicuramente non è una storia che piacerà a tutti.

Ma è fantascienza al suo meglio. Ed è un libro che non si dimentica. E forse non c’è occasione migliore per riscoprirlo di questo periodo, con lo sforzo di resistenza e resilienza a cui siamo tutti chiamati.

Come un pioniere, l’uomo sposta i propri confini sempre più in là, si allontana sempre più da se stesso; si “trascende” sempre di più – e anche se non s’invola in una regione sovrannaturale, tuttavia, poiché varca i limiti congeniti della sua natura, passa in una sfera che non è più naturale, nel regno dell’ibrido e dell’artificiale.

Günther Anders, L’uomo è antiquato

Metto il punto finale a un racconto a cui ho lavorato per un mese in cui sono riuscito a far confluire molti dei miei interessi degli ultimi anni: l’ascesa di una superintelligenza forte in grado di prendere il controllo sulla storia dell’uomo, il contatto con civiltà tecnologiche avanzate extraterrestri, l’ingegnerizzazione dell’umanità in chiave postumana, le pulsioni autodistruttive insite nella nostra natura, il pessimismo cosmico di Lovecraft e Ligotti. In diecimila parole.

Il sabato ideale.

Che il 2019 sia stato un anno eccezionalmente prolifico, soprattutto per i miei standard attuali, lo dimostra il fatto che ho dovuto separare il resoconto sull’annata del blog da questo, in cui passerò in rassegna i miei contributi extra-olonomici. Nel corso dell’anno che si chiudei in queste ore ho pubblicato, in riviste, webzine e raccolte, 15 articoli (dove non specificato diversamente, su Quaderni d’Altri Tempi) e 3 racconti:

E per finire, una corposa intervista a Carmine (sempre per Delos) sul tema delle intelligenze artificiali, altro tema di cui mi sono occupato estesamente negli ultimi anni.

In sostanza, non mi posso davvero lamentare. Inoltre inseriamo nel pacchetto anche l’attesa edizione cartacea di Karma City Blues, che a quanto pare si sta destreggiando ancora abbastanza bene, e il servizio è davvero completo.

In queste ultime ore del 2019 stanno inoltre prendendo forma almeno due racconti che dovrebbero vedere la luce nel corso del 2020, in progetti piuttosto ambiziosi, e comincia a riscaldare nuovamente i motori un’antologia che andrà in rampa di lancio entro la prossima primavera. Di più al momento non posso dire, ma si tratta di tre iniziative a cui sono molto legato.

Una possibile nota di rammarico è rappresentata dal fatto che mi sarebbe piaciuto riuscire a fare molto di più per Next Station, che prima o poi dovrà decollare nuovamente. Intanto, però, abbiamo pubblicato un articolo eccellente di Linda De Santi sulla letteratura distopica delle donne, ed è stata già di per sé un’enorme soddisfazione.

Last but not least: visioni e letture. Nel 2019, dopo quasi un anno di più o meno volontario esilio, siamo tornati al cinema, ma senza vedere nulla di davvero memorabile da segnalare. Più soddisfacente è stata invece l’annata televisiva: oltre alle novità (Chernobyl, Watchmen, la terza stagione di True Detective e l’ancor più atteso, per quanto tutt’altro che soddisfacente, finale di Game of Thrones), sono riuscito finalmente a completare Halt and Catch Fire, ho avuto modo di riguardare con calma (e apprezzare) Save Me e sono giunto al giro di boa di Mr. Robot e all’ultima stagione di Breaking Bad. Prima o poi magari riparleremo delle cose di cui già non abbiamo parlato nel corso del 2019.

Quanto alle letture, stando alle statistiche di aNobii avrei letto 28 libri per complessive 6.547 pagine, ma come sempre si tratta di un’approssimazione per difetto visto che diversi titoli, tra fumetti da edicola e e-book, sfuggono alla classificazione del social network più odiato da chi legge. Motivo, tra gli altri, che mi induce a usarlo sempre meno.

Prima di chiudere, proviamo ad abbozzare una lista di propositi per il 2020? Partiamo con questi tre, che mi sforzerò di portare a termine nell’arco dei prossimi 12 mesi:

  1. Completare il nuovo romanzo, lasciato in stand-by dalla scorsa primavera
  2. Ridurre l’acquisto di nuovi libri cartacei a non più di sei rilegati e ventiquattro tascabili (impresa ardua, viste le medie degli ultimi anni, ma resa ormai necessaria dalla cubatura ormai prossima all’esaurimento delle mie librerie, che comporterà la conversione al digitale per almeno i due terzi dei titoli acquistati – negli ultimi anni circa )
  3. Completare l’inventario della biblioteca (altra impresa resa improrogabile dalla necessità di tenere traccia efficacemente dei nuovi arrivi e dei progressi di lettura, visto il servizio sempre più penoso offerto da aNobii)

A questi se ne aggiunge in realtà un quarto, ma per il momento lo lascio sospeso, non perché di difficile attuazione, ma perché legato almeno in parte alle iniziative in corso (e ai punti precedenti): negli ultimi due mesi sono già riuscito a ridurre la mia presenza sui social network fino a meno di un’ora al giorno di media su Facebook, traendone benefici dal punto di vista della gestione del tempo, delle emozioni (rabbia, frustrazione, picchi da esaltazione adrenalinica e abissi di depressione ridotti ai minimi storici) e, prevedibilmente, della produttività.

Diverse letture (alcune passate in rassegna in questo articolo, forse il più impegnativo che abbia scritto negli ultimi dodici mesi) mi hanno portato a meditare questo cambio di abitudini. L’idea è di continuare a combattere i cattivi comportamenti che assecondano il controllo del capitalismo cronofago sulle nostre giornate, portando a termine un ritiro definitivo da almeno un paio di social (per il momento la pole position è contesa proprio tra aNobii e la creatura di Zuckerberg, anche grazie alle evidenze emerse nell’ambito dello scandalo Cambridge Analytica) entro il 2021. Ma non escludo di farlo prima.

E con questo, dal mio 2019, l’anno dei replicanti e di Akira, è davvero tutto. Godetevi questi sgoccioli e passate degli splendidi momenti con chi volete e vi vuole bene. E se avete voglia di condividere il vostro bilancio del 2019 e i propositi per il nuovo anno, lo spazio dei commenti è come sempre a vostra disposizione.

Buon 2020! Ci troviamo di nuovo qui l’anno che verrà.

Su Quaderni d’Altri Tempi, è uscita oggi una lista dei preferiti (album, libri, lungometraggi e serie televisive) del 2019, selezionati tra le segnalazioni della redazione. Tra gli altri troverete anche i miei contributi, che comprendono:

  • Respiro di Ted Chiang
  • Nato nella paura di Matt Cardin/Thomas Ligotti
  • La ragazza scomparsa di Shirley Jackson
  • Scary Stories to Tell in the Dark di Alvin Schwartz
  • Watchmen
  • Chernobyl

Buona lettura!

Se proprio vogliamo, quello che manca in un libro come Nato nella paura, la raccolta delle interviste rilasciate da Thomas Ligotti curata da Matt Cardin, è un indice dei titoli e dei nomi che aiuti il lettore a recuperare il bandolo della matassa dei riferimenti disseminati dal bardo oscuro di Detroit nelle sue confidenze. Con il proposito di colmare almeno in parte quella lacuna, riporto qui di seguito una bozza da me predisposta durante la lettura. Non posso escludere dimenticanze o omissioni, ma credo possa ambire a un grado di accuratezza prossimo o superiore al 90%.

Nota: i titoli sono in corsivo, gli autori in tondo; i titoli dei racconti di Ligotti sono riportati come citati nel testo, anche laddove siano già presenti delle traduzioni italiane; tra parentesi i numeri delle pagine contenenti le relative menzioni. Il simbolo ⇒ si riferisce ai richiami tra i diversi testi e autori.

Racconti di Ligotti che richiamano Lovecraft e i Miti

I mistici di Muelenburg (22, 23)
La setta dell’idiota (22, 240, 241, 243)
Vastarien (22, 36)
La voce nelle ossa (36)

Racconti di Ligotti ispirati alle sue letture

L’ultima avventura di Alice (26, 111) ⇒ Lewis Carroll
Sogno di un manichino (35, 39) ⇒ Vladimir Nabokov
Il più grande festival delle maschere (35) ⇒ Samuel Beckett, Ramsey Campbell
Mascherata della spada morta (35, 250) ⇒ Edgar Allan Poe
I patimenti del dottor Thoss (35, 109) ⇒ M. R. James, Harry Morris
Bevi a me solo con occhi labirintini (27, 35, 63) ⇒ Stanley Elkin, Gòngora, Donne, Marvell, Ben Johnson
Clinica del dottor Locrian (72), La straziante resurrezione di Victor Frankenstein (196) ⇒ Mary Shelley
La macchia astronomica (86) ⇒ Bruno Schulz
L’isola del dottor Moreau (197) ⇒ H. G. Wells

Racconti di horror corporativo

I Have a Special Plan For This World (74, 81, 83, 110, 122-123, 187) ⇒ My Work Is Not Yet Done (74, 80, 81, 83, 85, 101, 123, 124, 178-179, 223, 225) ⇒ The Nightmare Network (75, 83, 122) ⇒ Il nostro supervisore temporaneo (84, 123) ⇒ A favore dell’azione punitiva (84, 123) ⇒ Purezza (123) ⇒ Il responsabile cittadino (123, 162-163)

Altri titoli di Ligotti

L’abisso delle forme organiche (87)
L’arte perduta del crepuscolo (33)
I bozzoli (84, 109)
Il chimico (62, 66, 84, 101)
Le consolazioni dell’orrore (38)
Conversazioni in lingua morta (39)
Di notte, al buio. Appunti critici sulla narrativa del mistero (208)
Dr. Voke e Mr. Veech
(143, 197)
Les Fleurs
(197)
The Frolic
(156-157)
Ghost Stories for the Dead (124)
In una città straniera, in una terra straniera (69, 187)
Luna park (86)
La Medusa (37)
Il miraggio eterno (64)
The Night School (110)
Gli occhiali nel cassetto
(69, 109)
L’ordine dell’illusione (109)
Il pagliaccio marionetta (164-165, 168)
The Shadow at the Bottom of the World
(63, 85, 110, 245)
I sonagli suoneranno per sempre (70)
Teatro grottesco
(66, 122)
La torre rossa (171-172)
L’ultimo banchetto di Arlecchino
(70, 121-122, 133, 154, 184, 232)
Il villino (64, 109, 243)

La cospirazione contro la razza umana (ampiamente citato)
Crampton (sceneggiatura scritta con Brandon Trenz, 89-91)

Modelli e fonti di ispirazione di Ligotti

Charles Baudelaire (62, 234)
Samuel Beckett (26, 38, 44, 239)
Thomas Bernhard (44, 91, 116-118, 126, 172, 216)
Aloysius Bertrand (44)
Algernon Blackwood (21, 22, 34)
William Peter Blatty (107)
Jorge Luis Borges (35, 44, 69, 126, 212)
Joseph Payne Brennan (34, 68, 92)
William S. Burroughs (69, 75, 118, 126, 216)
Dino Buzzati (44, 68, 73, 229)
James Branch Cabell (107, 110)
Ramsey Campbell (43, 92, 212)
Raymond Chandler (216, 248)
E. M. Cioran (35, 69, 97, 117, 133, 171)
Samuel Taylor Coleridge (220)
Géza Csàth (73)
Rubén Dario (62)
Len Deighton (174)
Philip K. Dick (174)
Arthur Conan Doyle (ampiamente non citato)
Ronald Firbank (107)
Gustave Flaubert (36)
William H. Gass (216)
Nikolaj Vasil’evič Gogol’ (26, 40, 216, 229)
Witold Gombrowicz (229)
Stefan Grabinski (233-235)
John Grisham (174)
Sadeq Hedayat (62)
E.T.A. Hoffmann (38, 229)
Joris-Karl Huysmans (62)
Henry James (113)
M. R. James (22, 33, 34, 41, 92, 227)
Franz Kafka (86, 92, 212, 229)
T.E.D. Klein (43, 92, 212)
John Le Carré (173)
Giacomo Leopardi (69)
H. P. Lovecraft (ampiamente citato)
Arthur Machen (21, 22, 41, 92, 128)
Vladimir Nabokov (26, 35, 126, 210)
Mervyn Peake (110)
Edgar Allan Poe (ampiamente citato)
Hagiwara Sakutaro (62)
Bruno Schulz (35, 44, 73, 86, 92, 118, 126, 211, 235-238, 244)
Arthur Schopenhauer (97, 137, 231-232)
William Shakespeare (131, 170)
Logan Pearsall Smith (44)
Gertrude Stein (216)
Hunter S. Thompson (221)
Roland Topor (40)
Georg Trakl (44)
Lev Nikolàevič Tolstoj (170)
Mark Twain (119)
Paul Valéry (86, 246)
Paul Verlaine (62)
Stanislaw Ignacy Witkiewicz (238)
Peter Wessel Zapffe (ampiamente citato)

Decadentisti francesi (38, 44, 62, 216)
Espressionisti tedeschi (35, 38)
Poeti metafisici inglesi (35)
Scrittori buddhisti (97)
Tragedia giacobita (216)

Opere di altri autori

J. Améry, Levar la mano su di sé (134)
S. Beckett, Aspettando Godot (49)
D. Benatar, Meglio non essere mai nati. Il dolore di venire al mondo (231)
A. Blackwood, I salici (48, 112, 209)
W. P. Blatty, L’esorcista (107-108)
W. S. Burroughs, Le città della morte rossa (219-220)
W. S. Burroughs, Pasto nudo (220)
W. S. Burroughs, Terre occidentali (118)
R. Campbell, Demons by Daylight (43)
J. Conrad, Cuore di tenebra (106)
G. Csàth, Oppio e altre storie (214)
J. Ferry, Le tigre mondain (213)
N. V. Gogol’, Il cappotto (162, 211)
N. V. Gogol’, Il naso (211)
S. Grabinski, L’amante di Szamota (234)
S. Grabinski, L’area (234)
K. Hamsun, Fame (177)
H. Hesse, Il lupo della steppa (177)
G. Heym, L’autopsia (73)
E. T. A. Hoffmann, L’uomo della sabbia (229)
W. S. Home, Hollow Faces, Merciless Moons (213)
A. E. Housman, Un ragazzo dello Shropshire (151)
E. Ionesco, La foto del colonnello (213)
S. Jackson, L’incubo di Hill House (20-21, 29, 127)
F. Kafka, Il processo (154, 162, 245)
P. Kapleau, I tre pilastri dello Zen (169)
D. Kiš, Giardino, cenere (213)
T. E. D. Klein, I fatti di Poroth Farm (151, 212)
Lautréamont, Canti di Maldoror (102)
J. S. Le Fanu, Tè verde (59)
H. P. Lovecraft, Il caso di Charles Dexter Ward (107, 241)
H. P. Lovecraft, Il colore venuto dallo spazio (39, 45, 48, 175)
H. P. Lovecraft, L’estraneo (231)
H. P. Lovecraft, L’immagine della casa (240)
H. P. Lovecraft, Le montagne della follia (45)
H. P. Lovecraft, La musica di Erich Zann (26, 45, 112)
H. P. Lovecraft, Nyarlathotep (244)
H. P. Lovecraft, L’ombra venuta dal tempo (26, 45)
H. P. Lovecraft, Il richiamo di Cthulhu (175)
H. P. Lovecraft, La ricorrenza (26)
H. P. Lovecraft, Vicende riguardanti lo scomparso Arthur Jermyn e la sua famiglia (153)
A. Machen, Arcieri (25)
A. Machen, Il grande dio Pan (207)
A. Machen, Il popolo bianco (207)
A. Machen, I tre impostori (207)
C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica (134)
L. Millman (a cura di), A Kayak Full of Ghosts: Eskimo Tales (213)
V. Nabokov, Lolita (115)
R. Otto, Il sacro (115)
E. A. Poe, Il barile di Amontillado (165, 216)
E. A. Poe, Il crollo della casa Usher (155, 175, 211)
E. A. Poe, Il cuore rivelatore (25, 155, 165, 209, 211)
E. A. Poe, Filosofia della composizione (248)
E. A. Poe, Marginalia (113)
E. A. Poe, La maschera della morte rossa (35, 39)
J. P. Sartre, La nausea (177)
B. Schulz, La via dei coccodrilli (118)
G. Stein, C’era una volta gli americani (247)
D. F. Wallace, La persona depressa (152)
S. I. Witkiewicz, Sonata di Belzebù (214)
P. W. Zapffe, L’ultimo messia (97, 139, 153)

Film

2022: I sopravvissuti (233)
L’alba dei morti viventi (174)
Alien (73, 174)
Apocalypse Now (105)
A prova di errore (174)
A sangue freddo (173)
A Venezia… un dicembre rosso shocking (174)
Bel Air (174)
Il buio oltre la siepe (174)
Cape Fear (174)
Carrie – Lo sguardo di Satana (174)
C’era una volta in America
 (82)
Chinatown (173)
Codice Trinity: attacco all’alba (174)
Comma 22 (173)
La conversazione (173)
Copycat (174)
La cosa (73, 174)
… e l’uomo creò Satana (174)
Equus (173)
L’esorcista (174)
La formula (136)
Il gabinetto del dottor Caligari (27, 73)
Il giorno dei morti viventi (175)
Impostor (174)
Inception
(244)
Gli invasati (20, 29, 127, 174)
L’invasione degli ultracorpi (174)
JFK (174)
Il maratoneta (173)
Minority Report (174)
Misery non deve morire (174)
La mosca (174)
Il mostro (174)
Nosferatu (27)
La notte dei morti viventi (175)
Oltre il giardino (173)
Il padrino (173)
Perché un assassino (174)
Piccoli omicidi (206)
Poltergeist (174)
Psycho (174)
Il presagio (174)
Quel pomeriggio di un giorno da cani (173)
Quinto potere (173)
I ragazzi venuti dal Brasile (173)
Relentless (174)
Il seme della follia (175)
Sette giorni a maggio (174)
Se7en (167, 174)
Shining (174)
Sindrome cinese (174)
Sleuth (173)
La spia che venne dal freddo (173)
La stangata (173)
Sweeney Todd (151)
La talpa (173)
Taxi Driver (173)
Total Recall – Atto di forza (174)
I tre giorni del Condor (136)
Tutti gli uomini del presidente (173)
Tutti gli uomini di Smiley (173)
Gli uccelli (174)
Ultimi bagliori di un crepuscolo (174)
Vampyr
(27)

Per me, leggere un racconto dell’orrore dovrebbe somigliare molto a sognare, e più simile a un sogno è un racconto, più mi colpisce. Non sono il primo a dire che l’incubo, non il giornale del mattino, è il modello ideale per la narrativa horror. Persino l’elemento soprannaturale è sacrificabile. Tuttavia, quello che rimane cruciale è la sensazione del soprannaturale, la sensazione di qualcosa di tremendo e meraviglioso che va oltre ogni analisi, una sensazione che potrebbe benissimo essere ispirata da qualcosa che di solito consideriamo «normale», come la pazzia o la morte (Poe lo fa con risultati incredibili, specialmente nel Cuore rivelatore, dove sfrutta una semplice vignetta raccapricciante per evocare tutta la potenziale singolarità, il mistero, l’orrore spirituale della morte e della pazzia). E il senso del soprannaturale è qualcosa che nasce dal confronto tra il lettore e il racconto, non da una divisione tra reale e irreale interna al racconto stesso. Naturalmente, avere livelli diversi di realtà narrativa è utile e va bene, ma non per forza è una fonte di orrore. Una volta che sei intrappolato in un incubo – intendo un incubo come si deve – nessuno deve venire a chiederti di sospendere l’incredulità riguardo all’orrore che sta per travolgerti. Per Lovecraft, la violazione delle leggi di natura era il concetto più terribile della mente umana, ma in un racconto del soprannaturale una violazione di questo tipo potrebbe altrettanto facilmente liberarci dal terrore, a seconda di chi la sta praticando e perché (cito le potenze benevole degli Arcieri di Machen). Persino Lovecraft era irritato dal giogo del tempo e sognava di esserne libero, ma le possibilità che ne derivano non sono una scampagnata, nel suo L’ombra venuta dal tempo. Il significato di un evento dipende dalla coloritura emotiva che gli danno i partecipanti o gli spettatori, o da come l’evento è vissuto o ritratto. La letteratura è piena di esempi in cui un’«intrusione» soprannaturale nella realtà quotidiana non porta scompiglio e non disturba. Tutto dipende da come lo scrittore presenta il materiale e da come il lettore lo percepisce. La sensazione dell’orrore deriva dalla doppia natura di un fenomeno che al tempo stesso è straordinario e minaccioso in una maniera molto particolare. Da qui l’ampia varietà di forme che l’orrore assume nella narrativa, dai nani malefici di Machen agli dèi ciclopici di Lovecraft. È tutto estremamente soggettivo. Il punto di vista, in narrativa o nella vita, è tutto. Messo nella giusta prospettiva, il caos universale potrebbe essere un gran bello spasso. E, dopo tutto, esiste gente che crede sinceramente nel soprannaturale senza perdere le rotelle. Quindi: l’orrore non è questione di metafisica ma di emozione. Per questo l’atmosfera è così importante: è il segnale e il generatore del senso; può riempire di emozione un evento oggettivamente neutrale.

Tratto da Thomas Ligotti. Nato nella paura, a cura di Matt Cardin
(Il Saggiatore, 2019 – traduzione di Luca Fusari, pagg. 25-26)

Il soprannaturale è la controparte metafisica della follia, e ciò rende il genere dell’orrore soprannaturale il miglior veicolo possibile per esprimere l’incubo misterioso di una mente cosciente naufragata in questa casa infestata che è il mondo, e portata alla pazzia dal suo incredibile raccapriccio. Questo tipo di orrore non ha niente a che vedere con la disumanità dell’uomo verso l’uomo, ma è una demenza necessaria, un ordine superiore di bizzarria e desolazione incorporato nel sistema in cui noi tutti funzioniamo.

Tratto da Thomas Ligotti. Nato nella paura, a cura di Matt Cardin
(Il Saggiatore, 2019 – traduzione di Luca Fusari, pag. 95)

Il più grande sogno della letteratura del soprannaturale è rappresentare con il massimo grado di intensità l’immagine dell’universo come una sorta di incubo incantatore.

Su Quaderni d’Altri Tempi recensisco la raccolta delle interviste a Thomas Ligotti selezionate da Matt Cardin: Nato nella paura.

Un po’ come L’ultimo banchetto di Arlecchino di Thomas Ligotti, ma con i Krampus dell’Alto Adige.

Siamo entrati da alcune settimane in quel mood un po’ nostalgico che fin dalle estati della nostra giovinezza si accompagna alla fine delle esperienze in cui abbiamo a lungo investito in termini emotivi. Non è una questione facilmente riducibile in termini quantitativi: per quanto possano sembrare tante in termini assoluti, una ottantina di ore spese a guardare una serie TV o una saga cinematografica finiscono per essere molto diluite quando vengono spalmate su un arco temporale di una decina di anni, ma questo non ne riduce affatto l’impatto qualitativo, perché tra un episodio e il successivo, tra una stagione o una fase e quella che ci aspetta, abbiamo speso una quantità non facilmente misurabile di tempo a farci domande e a parlarne con altri appassionati (o potenziali appassionati tra cui fare proseliti), che ha inevitabilmente contribuito ad aumentare le nostre aspettative e con esse il nostro investimento in quel particolare universo narrativo.

Il nostro mood mentre la fine si avvicina… [Lyanna Mormont (Bella Ramsey) in Game of Thrones, courtesy of HBO]

Dopotutto, non credo che sia un’esagerazione affermare che siamo le storie di cui ci nutriamo. Quindi, mentre portiamo avanti la discussione sulle conclusioni di quelli che sono probabilmente i due fenomeni culturali di proporzioni più vaste di quest’ultimo decennio, mi sono inevitabilmente ritrovato a riflettere sui momenti tristemente noti come finali. Sia su Game of Thrones che sul Marvel Cinematic Universe si è ineluttabilmente pronunciato Emanuele Manco, tra i maggiori esperti italiani di entrambi, e sebbene condivida il suo giudizio solo in parte (e più sul primo che sul secondo) vi rimando alle sue disamine dell’episodio 3 dell’ottava stagione di Game of Thrones e di Avengers: Endgame senza dilungarmi oltre. In ogni caso sono stati dei bei viaggi e, come per tutti i viaggi, forse non è così importante quello che troviamo alla fine rispetto a tutto quello che abbiamo avuto modo di apprezzare e imparare nel frattempo, anche (e forse soprattutto) su noi stessi.

Il nostro mood quando una storia finisce… [Marvel Studios’ AVENGERS: ENDGAME: Rocket (voiced by Bradley Cooper) and Nebula (Karen Gillan). Photo: Film Frame ©Marvel Studios 2019]

Però prendendo spunto da questa stagione di grandi e attesi finali, più o meno epici, più o meno riusciti, ho pensato di proporvi una lista, ispirata anche da questo montaggio di CineFix, e quindi, fatta questa doverosa premessa per scaldare i motori, eccoci a parlare di cinque finali su cui ancora oggi, a distanza di anni e in alcuni casi di decenni, continuiamo ancora a parlare, su cui continuiamo a fare ipotesi, costruire castelli teorici e alimentare un dibattito che contribuisce a prolungare la vita delle opere stesse ben oltre i confini temporali della loro fruizione (il che è un po’ la missione di ogni fandom che si rispetti). Sentitevi liberi di aggiungere le vostre considerazioni (e altre graditissime segnalazioni) nei commenti.

E adesso partiamo.

5. 2001: Odissea nello spazio (regia Stanley Kubrick, tratto da un racconto di Arthur C. Clarke, 1968)

Il film che ha consacrato la dimensione leggendaria di un regista già di culto come Stanley Kubrick. L’astronauta David Bowman (Keir Dullea) raggiunge l’orbita di Giove, destinazione della missione Discovery di cui è l’unico membro sopravvissuto, oltrepassa la soglia del monolito che è l’obiettivo della spedizione e si ritrova a esplorare una dimensione interiore, uno spazio psichico e psichedelico. Negli anni della New Wave (il seminale articolo di J. G. Ballard Which Way to Inner Space? apparve sulla rivista New Worlds nel 1962), ecco la prima e più incisiva rappresentazione visiva della rivoluzione concettuale che stava vivendo l’immaginario non solo di genere, proprio mentre l’uomo si apprestava a sbarcare sulla Luna e davvero il futuro era lì a portata di mano. Proprio come Ballard, anche Kubrick e, abbastanza sorprendentemente, il veterano Clarke suggeriscono che le vere frontiere dell’esplorazione non ci attendono lì fuori, ma sono sepolte dentro di noi, e l’ignoto spazio profondo non fa che avvicinarci a questo inner space, sbattendoci in faccia la sua intrinseca inconoscibilità. Se non conosciamo bene noi stessi (chi siamo? da dove veniamo?) come possiamo pretendere di capire ciò che ci attende alla fine del cammino (dove stiamo volando?)? Cosa è diventato Bowman, alla fine del suo viaggio oltre l’infinito? Quali implicazioni avrà la sua metamorfosi per il futuro della Terra e dell’umanità? Per affinità e assonanze, aggiungiamo non solo per dovere di cronaca che questa menzione non può che tirarsi dietro, come spesso accade quando si cita Kubrick in ambito sci-fi, anche Andrej Tarkovskij e i suoi altrettanto fondamentali Solaris (1972, tratto dal romanzo omonimo di Stanisław Lem) e Stalker (1979, tratto dal romanzo dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij Picnic sul ciglio della strada).

4. Blade Runner (regia di Ridley Scott, tratto dal romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep? di Philip K. Dick, 1982)

Più umano dell’umano, è lo slogan che demarca il target delle nuove linee di replicanti messi a punto dalla Tyrell Corporation per assistere il programma coloniale extra-mondo. E i Nexus 6 in fuga dalle colonie spaziali, sbarcati sulla Terra per ottenere un prolungamento delle loro vite artificialmente limitate a una durata di soli quattro anni, sono davvero indistinguibili dagli esseri umani di cui sono la copia, se non per il fatto di vantare una resistenza e una forza fisica perfino superiori. Il cacciatore di taglie Rick Deckard (Harrison Ford), richiamato in servizio dall’LAPD per un’ultima missione, riuscirà fortunosamente ad avere la meglio e portare a casa la pelle, anche grazie al provvidenziale ripensamento del leader dei replicanti ribelli Roy Batty (Rutger Hauer). Tornato a casa, deciderà di lasciare la città con l’ultimo replicante, un esemplare fuori serie che lo stesso creatore non ha esitato a definire “speciale” (Rachael Rosen, interpretata da Sean Young). Alla fine gli interrogativi lasciati aperti dalla pellicola, anche per via di un refuso di sceneggiatura (che menziona sei replicanti ribelli, mentre quelli effettivamente presenti o citati nel prosieguo della pellicola sono solo cinque) e poi attraverso i successivi editing di Ridley Scott (con montaggi alternativi che hanno incluso nuove scene, rimosso il finale e la voce fuori campo e apportato altri aggiustamenti minori), vertono tanto sulla figura del cacciatore di taglie (Deckard stesso è un umano o il replicante mancante?) quanto dell’androide che porta in salvo (cos’è che rende davvero speciale Rachael?). Dopo la vasta letteratura di seguiti ufficiali partoriti da K. W. Jeter, a entrambi gli interrogativi prova a dare una risposta con esiti decisamente più convincenti il sequel cinematografico diretto da Denis Villeneuve nel 2017, Blade Runner 2049, che tuttavia lascia aperti ulteriori spazi di indagine e di speculazioni sulle colonie extra-mondo e sul vero ruolo dei replicanti nei piani del magnate Niander Wallace (Jared Leto).

3. C’era una volta in America (regia di Sergio Leone, tratto dal romanzo The Hoods di Harry Grey, 1984)

Un film su cui si sono spese forse altrettante pagine di congetture da rivaleggiare con 2001. L’ultima impresa di Sergio Leone, a cui richiese uno sforzo produttivo durato tredici anni (e dieci mesi di riprese in USA, Canada, Francia e Italia) e che pose di fatto fine alla sua carriera. Allo stesso tempo, è il coronamento dell’opera di un autore straordinario, forse unico nel panorama della cultura italiana del ‘900 per l’influenza che è stato in grado di esercitare sulla cinematografia mondiale (e non solo nel western o nel cinema stesso: pensiamo anche alla fantascienza e ai debiti letterari riconosciuti da autori del calibro di William Gibson), la migliore conclusione possibile per la seconda trilogia di Leone (dopo quella del dollaro, quella del tempo). Un omaggio anche all’immaginario americano, con gli Stati Uniti rappresentati per quel generatore di miti che in effetti sono stati, il motore dell’immaginario del ‘900.  “Una sfilata di fantasmi nello spazio incantato della memoria”, come ha scritto Morando Morandini nel suo Dizionario, ma anche “un sogno di sogni”, in cui “la memoria del singolo tende a dissolversi in quella di un intero paese” (come ha scritto invece Gian Piero Brunetta nel suo Cent’anni di cinema italiano). E un noir su cui, disorientati dal sofisticato meccanismo narrativo che combina caoticamente analessi e prolessi, non siamo ancora stati capaci di decidere se la storia che stiamo guardando sia frutto di una rievocazione o di una proiezione immaginaria. Ma alla fine, è davvero così importante sapere se Noodles (Robert De Niro) vivrà (ha vissuto) o no quei famosi trentacinque anni che gli sono stati rubati dal suo socio di un tempo Max (James Woods)? In che modo un furto di tempo e di vita può risultare diverso dall’altro? I fumi dell’oppio non aiutano a fare chiarezza, ma continuano ad alimentare l’incanto di una pellicola che c’incolla allo schermo con la densità stilistica compressa in ogni singolo fotogramma.

2. Inception (scritto e diretto da Christopher Nolan, 2010)

Da un sogno di sogni a un altro, Inception è il film che probabilmente ha alimentato le discussioni più lunghe in quest’ultimo decennio, generando una quantità di infografiche esplicative che hanno cercato di districarne l’intreccio (forse l’unico film a poter rivaleggiare in questo con Primer di Shane Carruth). Tra il secondo e il terzo capitolo della trilogia dedicata al Cavaliere Oscuro, Christopher Nolan torna a coltivare il suo amore per le architetture narrative sofisticate e chiude il decennio della sua consacrazione autoriale così come lo aveva iniziato nel 2000 con Memento. Il film è un sogno ricorsivo che deve molto anche alla letteratura di fantascienza (non ultimo Roger Zelazny), ma con quel tocco personale che rende inconfondibili i film del regista londinese. Dominic Cobb (Leonardo Di Caprio) è un ladro psichico capace di estrarre segreti preziosi dalla mente dei suoi bersagli, ma un giorno viene arruolato da Mr. Saito (Ken Watanabe) per tentare un’operazione inedita: innestare un’idea nella testa dell’erede dell’impero finanziario con cui è in competizione. Per portare a termine l’impresa, Cobb progetta un meccanismo di sogni condivisi annidati a più livelli di profondità e arruola una squadra di professionisti, ma la missione lo pone davanti a ostacoli sempre maggiori, non ultimo l’interferenza del ricordo della defunta moglie Mal (Marion Cotillard). L’unico modo che hanno i sognatori per distinguere tra la realtà e il sogno è affidandosi a un totem, che nel caso di Cobb è una trottola metallica: in un sogno, non essendo soggetta alle leggi fisiche della gravità, contrariamente a quanto accade nel mondo reale la trottola è destinata a girare all’infinito. Quando alla fine Cobb riesce a tornare dai suoi figli, ricompensa per la buona riuscita dell’incarico, vuole avere la certezza che non sia ancora intrappolato nel limbo in cui è dovuto addentrarsi per salvare Mr. Saito, ma quando abbraccia i bambini la trottola sta ancora girando. Cobb si è davvero svegliato dal sogno o è ancora intrappolato nel limbo?

1. True Detective (ideato da Nic Pizzolatto, 3 stagioni, 2014 – in produzione)

Serie antologica della HBO, True Detective ha esordito nel 2014 con una stagione memorabile che si è indelebilmente impressa nella nostra memoria di spettatori grazie alle interpretazioni di Matthew McConaughey e Woody Harrelson e a una scrittura fortemente debitrice delle suggestioni horror e delle vertigini cosmiche dei maestri del weird, da Robert W. Chambers e H. P. Lovecraft fino a Thomas Ligotti. Una seconda stagione un po’ sottotono e incapace di tener fede alle altissime aspettative sembrava averla condannata al limbo delle produzioni cinetelevisive, ma nel 2018 una terza stagione (forte delle interpretazioni di Mahershala Ali, Stephen Dorff e Carmen Ejogo) si è dimostrata capace di rinverdire i fasti degli esordi (ne abbiamo parlato diffusamente anche su queste pagine). Come la prima stagione, anche quest’ultima ha uno dei suoi punti di forza nell’atteso twist finale e in entrambi i casi le implicazioni sottese alle scelte di sceneggiatura e regia hanno innescato una ridda di ipotesi e suggestioni. Cosa vede davvero Rustin Cohle pugnalato a morte dal Re Giallo? E Wayne “Purple” Hays riconosce o no Julie Purcell nella madre a cui riesce a risalire dopo decenni di indagini e solo ora che le sue facoltà cognitive sono irrimediabilmente compromesse dall’Alzheimer? Cos’è la giungla in cui si ritrova a vagare nella notte, come ai tempi delle sue missioni in Vietnam come recog? Un finale in grado di richiamare altri grandi classici della recente serialità televisiva, non ultimo la popolare Life on Mars prodotta dalla BBC, i cui enigmi sono poi stati sciolti nella successiva Ashes to Ashes.

Il destino di Frankenstein nel romanzo originale era una degna punizione del suo crimine? E la vita della sua creatura si poteva rendere ancora più tormentosa? Si potrebbe convenire che il dolore inflitto dalla giovane Mary Shelley all’uno e all’altro possa bastare. Ma a volte i lettori di storie dell’orrore non sono sazi delle tragiche agonie offerte alla loro approvazione. E se tra essi c’è un autore dell’orrore, la posta in gioco può raggiungere le vette dei torvi cieli gotici. Ciò non avviene per puro amore di sadismo, il dare alla vite un altro giro per il piacere di strappare nuove urla ai torturati. Si compie – è stato compiuto – a mo’ di autoflagellazione vicaria, brutalissimo schiocco di frusta che colpisce alla schiena i personaggi di fantasia e distrae l’autore dai colpi che la vita reale infligge a lui in uno specifico momento dell’esistenza.

Thomas Ligotti, dalla Prefazione a La straziante resurrezione di Victor Frankenstein

Tra gli autori che hanno saputo plasmare le frontiere della letteratura dell’orrore, modificandone la percezione e la considerazione presso lettori e studiosi, un posto di rilievo è occupato da questo schivo e ormai leggendario scrittore di Detroit. Quello che prima di lui era riuscito con la narrativa di genere a H. P. Lovecraft, di cui in qualche modo raccoglie il testimone, Ligotti ha saputo riproporlo a partire dagli anni ’80 con i suoi racconti, che da qualche anno l’attenzione di case editrici come Elara e Il Saggiatore sta facendo conoscere anche ai lettori italiani.

Per un’introduzione alla sua figura e opera non posso che rimandare all’eccellente profilo tracciato da Andrea Bonazzi, tra i primi in Italia a occuparsi di Ligotti e suo massimo conoscitore.

Tutt’altro che popolare, Ligotti propone una letteratura weird estremamente ambiziosa, coerente con una poetica antiumana di cui in molti (scrittori e sceneggiatori, ma non solo) hanno finito per nutrirsi, e la sua parabola è analoga a quella descritta da Philip K. Dick nella fantascienza, se non fosse per la non irrilevante differenza che Ligotti è diventato un oggetto di culto ancora da vivo e in attività.

Il Saggiatore ha recentemente dato alle stampe l’edizione italiana di questo affascinante libello, impreziosito dalle meravigliose opere d’arte di Harry O. Morris e rivolto ai seguaci del suo culto. Oggi ne parlo su Quaderni d’Altri Tempi.

True Detective è tornato e la terza stagione si annuncia dai primi due episodi ricca almeno di punti di contatto con la prima, di cui tutti serbiamo un ricordo indelebile. Gli indizi disseminati sono diversi. Per esempio, nei boschi che circondano West Finger, l’immaginaria cittadina nella contea di Washington che fa da sfondo alla scomparsa di due bambini di dodici e dieci anni, vengono rinvenute delle bambole di paglia dalle fattezze di sposa che ricordano le trappole per uccelli che marchiavano il passaggio del Re Giallo della prima serie. Stessa simbologia occulta, come viene fatto notare a un certo punto da un personaggio menzionando esplicitamente lo scandalo della contea di Franklin:

Sapevi che nelle zone circostanti sono state scoperte cerchie di pedofili con una organizzazione su larga scala, collegate a personalità influenti? Eri a conoscenza dello scandalo Franklin? È stato ipotizzato che le bambole di paglia siano il marchio di un gruppo di pedofili, come la spirale spezzata.

Ma non è tutto. Come mi faceva notare Andrea Bonazzi a ridosso della prima visione, nella cameretta di uno dei due bambini scomparsi i detective incaricati del caso Wayne Hays (Mahershala Ali) e Roland West (Stephen Dorff), entrambi veterani del Vietnam (dove il primo era soprannominato Purple Hays, suppongo in riferimento alla celebre Purple Haze di Jimi Hendrix), scoprono un volume dal titolo piuttosto significativo per un appassionato di letteratura fantastica, specie se declinata secondo le coordinate weird care a un certo H. P. Lovecraft.

Le Foreste di Leng. Nella geografia di Lovecraft, il “gelido altopiano di Leng” fa la sua prima apparizione nel racconto del 1920 Celephaïs, dove viene presentato come la dimora del “grande sacerdote che non bisogna descrivere, colui che porta una maschera di seta gialla e vive da solo in un monastero di pietra preistorico” (nell’impareggiabile traduzione di Giuseppe Lippi, da Tutti i racconti). Due anni più tardi, nel racconto Il segugio, i protagonisti s’imbattono in “un amuleto esotico e dal disegno bizzarro” che riproduce le fattezze stilizzate di “un cane alato che sta per spiccare il balzo, o forse una sfinge dalla faccia canina, […] ricavato con squisita arte orientale da un frammento di giada verde“. Alla base del manufatto, “come il marchio dell’artista, un teschio molto particolare“, in cui riconoscono “lo spaventoso simbolo spirituale dei divoratori di cadaveri, il cui culto è praticato in Asia centrale, sull’altopiano di Leng“.

L’effigie non può non richiamare tutta la simbologia delle spirali spezzate (“crooked spirals“) che ricorre nella prima stagione, e che come abbiamo visto sopra viene esplicitamente richiamata nella terza.

Allo stesso modo in cui Leng non può non evocare Carcosa, la figura del grande sacerdote (“high-priest“) sembra trasporre l’ombra del Re Giallo che incombeva sulle indagini di Rust Cohle (Matthew McConaughey) e Marty Hart (Woody Harrelson) e i due adulti vestiti da fantasmi di cui in un altro passaggio della seconda puntata di questa nuova stagione si parla potrebbero essere i suoi emissari. Per approfondire questi aspetti, rimando a una pagina Reddit ricca di riflessioni interessanti. Una più di tutte: quando fa la sua apparizione ne La ricerca onirica dello sconosciuto Kadath (1926-27), il protagonista Randolph Carter, alter ego di Lovecraft, a un certo punto giunge “nel più spaventoso e leggendario di tutti i luoghi, il monastero preistorico dove vive da solo il sacerdote che non bisogna descrivere, colui che indossa la maschera di seta gialla e prega gli Altri Dei e il caos strisciante Nyarlathotep“. E Nyarlathotep, non serve ricordarlo, è la miglior rappresentazione del caos che irrompe nella quotidianità, ghermendo gli sventurati che gli capitano a tiro per trascinarli negli abissi della follia.

È presto per dire se come la prima stagione anche questa virerà verso gli orizzonti soprannaturali dell’orrore cosmico, ma intanto due puntate sono sufficienti per individuare almeno tre possibili sovrapposizioni con lo schema narrativo delle indagini di Cohle e Hart che nel 2014 imposero True Detective come la serie rivelazione della stagione:

  1. prima di tutto, l’ambientazione nella provincia profonda, con il recupero delle atmosfere tipiche del Southern Gothic (lì era la Luisiana dei bayou, qui siamo nell’altopiano di Ozark, nell’Arkansas nordoccidentale) in contrapposizione alla California metropolitana che faceva da sfondo alla seconda stagione;
  2. in seconda battuta, la struttura temporale: l’intreccio ancora una volta si snoda in tre diversi momenti storici: nel 1980, con la scomparsa dei due bambini che mette in moto il meccanismo narrativo; nel 1990, con un tentativo di riapertura del caso; nel 2015, con lo sforzo di riannodare i fili del passato sul filo della memoria (mentre Hays comincia a fare i conti con la perdita irreversibile dei suoi ricordi);
  3. e poi, con la coppia di investigatori diversi come il giorno e la notte, chiamati a mettere insieme i rispettivi punti di forza (acume e ostinazione) contro le macchinazioni politiche dei loro superiori per venire a capo del caso.

Senza dubbio per Nic Pizzolatto è un ritorno a una formula di successo. E in attesa di vedere se il pessimismo che pervade la visione del mondo di Hays e West si tradurrà in qualcosa di più weird, possiamo anticipare che un ulteriore sicuro punto di contatto tra la prima e la terza stagione è il ruolo che i personaggi attribuiscono al sogno, centrale in tutto Lovecraft e in particolare proprio nella ricerca onirica di Carter. Se nella prima stagione Cohle confidava al collega: «I don’t sleep. I just dream», qui il padre dei due bambini scomparsi, Tom Purcell (Scoot McNairy), chiede agli investigatori: «Are we going to find Julie or what? ‘Cause I can’t live through this man. Neither of us can. If we’re not going to find her I just need to know now. I can’t go to sleep. And I can’t wake up.»

Più ancora di quanto non sia stato il Vietnam, il caso Purcell diventa il nuovo spartiacque nella vita di Purple Hays, ma anche di tutte le persone che ha intorno. Ci sarà un prima e un dopo la scomparsa dei due bambini, e niente sarà più lo stesso. Prendendo in prestito le parole di Thomas Ligotti:

Nell’universo religioso, l’inferno si sostanzia come luogo destinato agli altri, non come il destino riservato a coloro che l’hanno inventato. Ma in senso figurato, ciascuno di noi è condannato a inventare il proprio inferno. E dopo aver preso residenza in un pozzo, cerchiamo compagni con i quali dolerci: soci nel dolore, nostri pari condannati per i medesimi errori o abbagli, che siano intenzionali o meno.

 

L’invito di Quaderni d’Altri Tempi a partecipare con alcune segnalazioni alla lista degli imperdibili dell’anno che si conclude oggi mi offre il pretesto per condividere con voi una lista più ampia, che abbraccia tutto quello che ho visto e ho letto nel 2017 (sarei stato bravo a leggere tutto, ma ammetto che in alcuni casi si tratta di titoli che avrei voluto/dovuto leggere, ma ancora non sono riuscito a farlo… ma c’è tempo per rimediare!) e che porto con me nell’anno nuovo.

Se volete, nei commenti aggiungete pure le vostre segnalazioni: titolo, autore ed editore, con l’unico vincolo che si tratti di cose uscite nel corso dell’anno solare (prime edizioni o ristampe dopo una lunga assenza). A differenza di Quaderni, separerò le mie segnalazioni per canale. Quindi eccovi i miei consigli, in ordine sparso e del tutto casuale:

Letture

  1. Eymerich risorge, Valerio Evangelisti (Mondandori)
  2. Nottuario, Thomas Ligotti (Il Saggiatore) [ne abbiamo parlato approfonditamente, qui e su Quaderni]
  3. Le venti giornate di Torino, Giorgio De Maria (Frassinelli) [anche questo recensito]
  4. Autonomous, Annalee Newitz (Fanucci)
  5. La ferrovia sotterranea, Colson Whitehead (Sur)
  6. Ucronia, Elena Di Fazio (Delos Books)
  7. Carnivori, Franci Conforti (Kipple Officina Libraria)
  8. Elysium, Jennifer Marie Brissett (Zona 42)
  9. Laguna, Nnedi Okorafor (Zona 42)
  10. New York 2140, Kim Stanley Robinson (Fanucci) [per ora solo brevemente qui]
  11. Il problema dei tre corpi, Cixin Liu (Mondadori)
  12. Inverso, William Gibson (Mondadori)
  13. Einstein perduto / Nova, Samuel R. Delany (Mondadori)
  14. Domani il mondo cambierà, Michael Swanwick (Mondadori)
  15. Sirene, Laura Pugno (Feltrinelli)
  16. Atlantide e i mondi perduti, Clark Ashton Smith (Mondadori)
  17. Lacerazioni, Anne-Sylvie Salzman (Hypnos)
  18. Entanglement, Vandana Singh (Future Fiction) [per ora solo brevemente qui]
  19. Jerusalem, Alan Moore (Rizzoli)
  20. Il racconto dell’ancella, Margaret Atwood (Ponte alle Grazie)
  21. L’invenzione di Morel, Adolfo Bioy Casares (Sur)
  22. Universi paralleli, Roberto Paura (Cento Autori)
  23. Black Monday di Jonathan Hickman e Tomm Coker (Mondadori) [brevemente qui]
  24. Arcangelo di William Gibson (Magic Press) [brevemente qui]
  25. Nameless di Grant Morrison (Saldapress)
  26. Mio padre la rivoluzione, Davide Orecchio (Minimum Fax)
  27. Schiavi dell’Inferno, Clive Barker (Independent Legions Publishing)

Serie

  1. Taboo, di Tom Hardy, Edward “Chips” Hardy, Steven Knight (Scott Free Productions, Hardy Son & Baker
  2. Legion, di Noah Hawley (Marvel Television, FX Productions, 26 Keys Productions)
  3. Fargo, di Noah Hawley (FX Productions, The Littlefield Company, MGM Television)
  4. Mindhunter, di Joe Penhall (Denver and Delilah, Jen X Productions, Panic Pictures / No. 13)
  5. Twin Peaks – La serie evento, di Mark Frost e David Lynch (Rancho Rosa Partnership Production, Lynch/Frost Productions)
  6. Gomorra, di Giovanni Bianconi, Stefano Bises, Leonardo Fasoli, Ludovica Rampoldi, Roberto Saviano (Sky, Cattleya, Fandango, LA7, Beta Film)
  7. Quarry, di Graham Gordy e Michael D. Fuller (HBO Entertainment, Anonymous Content, Night Sky Productions, One Olive)
  8. The Young Pope, di Paolo Sorrentino (Wildside, Haut et Court TV, Mediapro)
  9. Babylon Berlin, di Henk Handloegten, Tom Tykwer, Achim von Borries (X-Filme Creative Pool, Beta Film, Sky Deutschland, Degeto Film)

Cinema

  1. Arrival, regia di Denis Villeneuve, sceneggiatura di Eric Heisserer da un racconto di Ted Chiang (produzione Lava Bear Films, 21 Laps Entertainment, FilmNation Entertainment)
  2. The War – Il pianeta delle scimmie, regia di Matt Reeves, sceneggiatura di Mark Bomback e Matt Reeves (produzione Chernin Entertainment)
  3. Dunkirk, regia e sceneggiatura di Cristopher Nolan (produzione Syncopy Inc., RatPac-Dune Entertainment, Warner Bros. Pictures)
  4. Blade Runner 2049, regia di Denis Villeneuve, sceneggiatura di Hampton Fancher, Michael Green e Ridley Scott [non accreditato] (produzione Alcon Entertainment, Thunderbird Entertainment, Scott Free Productions) [ne abbiamo parlato diffusamente su Fantascienza.com, su Delos e qui, ma una delle cose migliori che ho letto sul film è apparsa ieri a firma di Luca Giudici]

Avvertenza. Questa lista è inevitabilmente parziale e viziata dalla mia prospettiva distorta: sicuramente ci sono numerosi altri titoli meritevoli di segnalazione che non vengono qui menzionati, perché passati sotto il mio radar oppure semplicemente perché le mie idiosincrasie non mi permettono di pronunciarmi prima di un’occhiata più approfondita. Ma per fortuna abbiamo tutto il futuro per rimediare. Intanto portiamoci questo nel 2018 e cercheremo di recuperare il resto.

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Vivere anche il quotidiano nei termini più lontani. -- Italo Calvino, 1968

Neppure di fronte all'Apocalisse. Nessun compromesso. -- Rorschach (Alan Moore, Watchmen)

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Mi chiamo Giovanni De Matteo, per gli amici X. Nel 2004 sono stato tra gli iniziatori del connettivismo. Leggo e guardo quel che posso, e se riesco poi ne scrivo. Mi occupo soprattutto di fantascienza e generi contigui. Mi piace sondare il futuro attraverso le lenti della scienza e della tecnologia.
Il mio ultimo romanzo è Karma City Blues.

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