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Giorno 54 della pandemia e ultimo dello stato di quarantena decretato ormai quasi due mesi fa. Domani inizierà la Fase 2, da tutti tanto attesa da aver lasciato molti delusi nell’annuncio fatto dal governo, che in effetti sembra ancora alquanto lontano dal riuscire a definire un qualcosa che somigli vagamente a una road map o a una strategia per traghettare con sicurezza il paese fuori dall’emergenza (delusione ben sintetizzata da questo editoriale di Luca Sofri).

Guardandoci indietro, ma senza andare a ritroso più di tanto, fermandoci appena a ieri, la fotografia dell’Italia è quella di un paese che ha registrato finora 209.328 casi di contagio e 28.710 decessi, che ne fanno il terzo (dietro USA e Spagna) e secondo (dietro ai soli USA, ma prossimi a essere sopravanzati dalla conta delle vittime in UK) paese più colpito al mondo. Anche se la curva dei nuovi contagi è in evoluzione calante, abbiamo comunque ancora poco meno di duemila nuovi casi registrati al giorno. La curva dei casi attivi, anch’essa in calo, faceva registrare ieri 100.704 casi ancora positivi, ma dobbiamo ancora una volta sottolineare due aspetti di queste statistiche: sono i dati ufficiali raccolti dalle regioni per la Protezione Civile, e scontano sia la strategia dei test (non tutti i sospetti sono testati) sia la definizione di guariti (che comprende anche i dimessi non ancora risultati negativi al test).

Quindi, anche nell’evidente sottostima dei dati ufficiali, continuiamo ad avere almeno centomila casi attivi, prevalentemente concentrati nelle regioni del nord (Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna e Veneto concentrano circa il 75% dei casi fatti registrare in Italia dall’inizio dell’emergenza). Per intenderci, l’8 marzo i casi positivi erano poco più di 6mila. Inoltre, ieri solo 26 province non facevano registrare nuovi casi (in maggior parte, e per fortuna, al Centro-Sud e nelle isole), ma è bene comunque ricordare che per dichiarare superato lo stato emergenziale dell’epidemia occorre che trascorrano due periodi pieni di incubazione del virus (che nel caso del SARS-CoV-2 corrisponderebbe a un tempo di 30-40 giorni).

Guardandoci attorno, possiamo vedere come i paesi più lenti a reagire siano quelli che stanno pagando lo scotto maggiore: negli USA si registra da più di un mese una media di circa 30mila nuovi casi al giorno, nel Regno Unito un trend analogo assestato poco al di sotto dei 5mila nuovi casi giornalieri. I casi nel mondo hanno superato i tre milioni e mezzo di contagi, le vittime sono state finora 245.243.

E provando a guardare avanti? Siamo in molti a chiederci se siamo davvero pronti per la Fase 2.

L’ipotesi di una riapertura scaglionata e graduale su base regionale, su cui pure si era congetturato (e che in molti ritenevamo oltre che plausibile, anche inevitabile), è stata smentita dall’annuncio del Presidente del Consiglio del 26 aprile scorso e dalla pubblicazione dell’ultimo DPCM. In altre parole, l’Italia che stasera va a dormire come Zona Rossa, domani si risveglia tutta intera, se non Zona Verde, almeno Zona Gialla. Continueranno a valere diverse delle restrizioni fin qui messe in atto, ma le misure che verranno allentate verranno allentate senza distinzioni su tutto il territorio nazionale. E questo malgrado ci siano delle province in evidente peggioramento rispetto ad altre. Secondo il modello elaborato dalla Fondazione Gimbe, basato sulla prevalenza (ovvero la densità stimata sul numero di casi totali ogni 100.000 abitanti) e sulla velocità del contagio (misurata sulla base della variazione percentuale dei casi), è evidentemente ingiustificato trattare il Piemonte come l’Umbria.

Ma la cosa che induce qualche preoccupazione in più, è che domani si entrerà nella Fase 2 senza che nemmeno una delle raccomandazioni degli epidemiologi circolate nelle ultime settimane sia stata presa in considerazione.

Per l’ex presidente della International Epidemiological Association Rodolfo Saracci, prima di partire con la Fase 2 il governo avrebbe dovuto innanzitutto domandarsi “se la fase 1 abbia raggiunto l’obbiettivo di ridurre a zero, o quasi, i nuovi casi”, prefissandosi degli obiettivi (nazionali o regionali) per conciliare le riaperture con la propria capacità di gestire l’emergenza (da Scienza in rete). Evidentemente, per quanto scrivevamo sopra, non è stato così.

Per Pierluigi Lopalco, docente di igiene all’università di Pisa e coordinatore della task force per l’emergenza epidemiologica della Regione Puglia, prima di allentare le misure sarebbe stato necessario fissare alcuni standard:

“Quanti tamponi per mille abitanti si riescono a fare in una settimana? Quanti tamponi sul totale risultano positivi? Qual è la quota di casi di covid-19 registrati dal sistema di sorveglianza di cui non si conosce l’origine? Quanti focolai di trasmissione sono ancora aperti? Qual è la quota di casi covid-19 che vengono segnalati per la prima volta quando sono già gravi? Esiste un sistema di sorveglianza di ‘tosse e febbre’ diffuso sul territorio attraverso pediatri di famiglia e medici di medicina generale che segnali precocemente eventuali focolai epidemici? Esiste un sistema di allerta che in tutti gli ospedali del territorio sia in grado si segnalare un eccesso di ricoveri di malattia respiratoria acuta grave?”

Evidentemente, non è stato così, e in seguito all’allentamento delle misure sono già due gli effetti che possiamo aspettarci. Innanzitutto, una possibile risalita del numero dei nuovi contagi: se non una vera e propria seconda ondata, come quella attesa per l’autunno, almeno un secondo picco in grado di mettere nuovamente sotto pressione il Sistema Sanitario Nazionale.

In questo caso non è da escludere che i governi decidano di adottare una strategia che era già stata delineata a metà marzo dai ricercatori dell’Imperial College di Londra: il metodo, denominato colloquialmente stop and go o quarantena di massa yo-yo o anche la danza, consiste nel possibile inasprimento delle misure di distanziamento sociale ogni volta che una certa soglia prefissata di posti occupati in terapia intensiva (stabilita per esempio come percentuale di posti totali o come numero medio di ricoveri settimanali) viene superata, e sta conoscendo una crescente popolarità nelle ultime settimane. Non sarebbe come tornare alla Fase 1, ma piuttosto per diversi mesi potremmo avere un’alternanza di periodi più o meno lunghi di Fase 1 intervallati da parentesi di misure più blande.

Isolamento localizzato, misure di contenimento mirate (per tutelare le fasce più a rischio della popolazione), screening su vasta scala e tracciamento dei contatti sarebbero le altre misure da mettere in campo, anche se per il momento dal governo abbiamo sentito parlare solo dell’app Immuni, annunciandola prima come pilastro portante della ripresa, per poi avviare la Fase 2 senza nemmeno averla ancora licenziata per l’uso.

L’altro effetto sarà il prolungamento dell’emergenza. Considerando la curva dei contagi attivi riportata nel primo grafico di questo articolo, vediamo che ci sono voluti 60 giorni per raggiungere il picco (fatto registrare il 19 aprile con 108.257 casi positivi). Possiamo pronosticare tranquillamente che ce ne vorranno di più per azzerarla: se questo era vero già con l’applicazione delle misure restrittive della Fase 1, lo diventerà ancora di più nella Fase 2, da cui è lecito aspettarsi come minimo una frenata nel calo dei nuovi casi, se non proprio (come dicevamo sopra) una risalita.

Questo è ciò che ci aspetta.

Ma stando così le cose, sconcerta ancora di più non vedere uno sforzo a più lungo termine che si sforzi di guardare al di là dell’orizzonte delle prossime settimane. Qualcosa che non riprenda necessariamente i punti programmatici che, con un minimo sforzo di ascolto e compilazione, elencavamo nel precedente post di questo diario della pandemia, ma che mostri una visione. Di qualche tipo.

E invece che tutto ciò che ci viene proposto dalla nostra classe dirigente è banalmente navigare a vista. Aspettiamo quindi il prossimo scoglio e restiamo pronti a virare, pregando di riuscirci per tempo.

Giorno 40 dell’entrata in vigore delle prime misure restrittive valide per il territorio italiano. 3.491 nuovi casi ieri, ma per una volta evitiamo di snocciolare le solite cifre.

Secondo i dati divulgati dal gruppo di ricerca CoVstat_IT il coefficiente R0, il cosiddetto numero di riproduzioni di base che misura «il numero medio di infezioni secondarie prodotte da ciascun individuo infetto in una popolazione interamente suscettibile, cioè mai venuta in contatto con il virus» e quantifica quindi il grado di potenziale trasmissibilità della malattia, si sta effettivamente avvicinando alla fatidica soglia unitaria, al di sotto della quale si avrà l’attesa perdita di slancio della propagazione del contagio (il migliore intervento che ho letto sull’argomento è quello di Paolo Giordano per le pagine del Corriere della Sera; e anche se trattandosi del quotidiano di via Solferino lo faccio decisamente a malincuore lo linko qua). Il 26 febbraio l’R-zero valeva 4,27, il 31 marzo 1,58, oggi è 1,09. E benché si tratti di una grandezza derivata, figlia del modello adottato per stimarla, l’accordo tra le stime che circolano da alcune settimane sembrano se non altro testimoniare l’efficacia delle misure di distanziamento sociale adottate per contenere il contagio.

Tutto bene, dunque?

Soffermiamoci un attimo sul confronto pubblicato da YouTrend tra le previsioni del governo e l’andamento reale dei nuovi casi:

In realtà si tratta di un grafico che circola da qualche settimana, ma il trend consolidatosi nel frattempo dà una misura dell’ampiezza dello scarto tra quelle che erano le attese per gli effetti del lockdown e quello che sta realmente accadendo: ballano più di 3.000 casi al giorno, e non solo oggi, ma da più di un mese. I conti si fanno presto a fare: sono quasi 100.000 casi in più rispetto alle previsioni, e se oggi ne abbiamo in totale 175.925 (di cui 107.771 ancora positivi) significa che ogni valutazione di ripartenza relativa alla tanto attesa Fase 2 – ammesso e non concesso che con le centinaia di esperti coinvolti nelle varie task force e commissioni istituite dal governo ci siano state delle valutazioni di ripartenza (448 persone in 15 comitati, per una media di 30 teste coinvolte a ogni tavolo) – si basava al momento del lockdown su previsioni che sono state smentite con ampio margine dalla realtà, sottostimate di più del 100% rispetto ai dati ufficiali.

È legittimo sperare che nel frattempo i consulenti convocati dal governo abbiano modificato i modelli per includere nell’elaborazione degli scenari futuri i nuovi dati provenienti dal territorio, anche se sappiamo tutti ormai che quei dati sono in ogni caso molto inferiori ai casi totali di contagio avvenuti in Italia (nelle stime migliori di un ordine di grandezza) e affetti da una sistematicità di errore che ci costringe a basare ogni valutazione sull’andamento su basi poco più che puramente qualitative. Dopotutto hanno avuto come tutti noi più di un mese per lavorarci… Ma il fatto che non siano circolate previsioni diverse da quella usata per il confronto che stiamo esaminando non è molto incoraggiante.

Vale la pena quindi ragionare sulla Fase 2 con questi presupposti?

Da più voci arrivano da settimane appelli a sapere almeno se un progetto di ripartenza esista, ma ogni giorno che passa la sensazione che ci si sia fatti prendere in contropiede, senza almeno un piano B e sicuramente nemmeno un piano di riserva al piano di riserva, si consolida. E con queste premesse non sono troppo d’accordo nemmeno con chi invita – e sono sempre più numerosi tra l’altro, a questo punto – a guardare ciò che stanno facendo gli altri paesi e copiarli pedissequamente. Si tratta di un argomento fallace, secondo me, perché se è vero che conviene sempre guardare ciò che succede oltre la porta di casa, è altrettanto vero che ciò che è avvenuto da noi è anche il risultato di decenni di scelte infelici, dal clientelismo al decentramento alla riduzione dei posti letti allo smantellamento dell’assistenza medica intermedia tra case e ospedali e chi più ne ha…

Quindi, se da una parte è comprensibile invocare riaperture almeno selettive dei servizi non essenziali e un cauto ritorno alla «vita di prima», dall’altra abbiamo una serie di considerazioni che ci inducono a non poter essere così ottimisti. Per poterci arrivare saranno inoltre necessarie una serie di misure legate al tracciamento dei contagi (è di pochi giorni fa la notizia della scelta da parte del governo dell’applicazione per il contact tracing), all’adozione di test sierologici efficaci per valutare la reale estensione dei casi entrati in contatto con il virus e, in attesa di avere un vaccino prodotto su larga scala e in quantità sufficienti per tutta la popolazione ancora suscettibile, alla possibilità di disporre chiusure mirate ovunque si renda necessario, per prevenire un nuovo caso Val Seriana.

In aggiunta a questo, è importante che la giusta spinta a farsi carico della responsabilità della scelta, onere e onore di chi ci governa, non produca la più classica delle eterogenesi dei fini a cui la politica ci ha abituati: nascondere dietro le scelte prese in una situazione di emergenza (in cui, al di là della situazione sanitaria, sicuramente c’è anche una parallela crisi economica, testimoniata dai 3,7 milioni di lavoratori che con il lockdown hanno visto venir meno l’unica fonte di reddito delle loro famiglie) l’inefficacia di misure di più ampio respiro. Tanto più che, come ha dichiarato il consigliere scientifico del ministero della Salute Walter Ricciardi, già presidente dell’Istituto Superiore di Sanità e oggi membro del consiglio esecutivo della World Health Organization, la seconda ondata è pressoché certa: le prossime disposizioni dovrebbero però evitare di vanificare i sacrifici sostenuti finora, rischiando di anticiparne l’arrivo a prima ancora dell’estate.

Ripeto: è giusto cercare delle misure che vengano incontro ai milioni di italiani in difficoltà e agli altri che si aggiungeranno a queste cifre in uno scenario di estensione delle restrizioni che nessuno si augura; ma se la scelta è tra a. l’illusione di tornare alla «vita di prima» per poi riprendere l’impennata dei contagi e la conta delle vittime e magari essere costretti a una nuova chiusura nel giro di poche settimane o di qualche mese, e b. l’adozione di misure drastiche ma che consentano di iniziare la necessaria ristrutturazione del sistema; personalmente non ho esitazioni a optare per la soluzione b.

Una proposta possibile potrebbe partire dal corrispondere un reddito di base universale a tutti i lavoratori impossibilitati a tornare alle loro mansioni per la durata dell’emergenza e nel frattempo cominciare a:

  1. rafforzare il sistema sanitario nazionale, con a. la ricostituzione dei servizi di assistenza medica primaria rappresentata dalla rete dei medici di base e dei distretti socio-sanitari che col tempo sono stati smantellati, fusi o accorpati in un’ottica di efficientamento puramente economico; b. l’assunzione e regolarizzazione di medici e infermieri, di cui ci sarà inevitabilmente bisogno anche nel medio-lungo periodo, come ha dimostrato l’impreparazione con cui abbiamo dovuto fare i conti dopo legislature di tagli alla spesa;
  2. elaborare un vero piano scuola, che non può prescindere da investimenti seri e cospicui e non di mera facciata nell’edilizia scolastica (la mente va alle renzate varie e assortite, con tutto lo spettro che va dalle Scuole sicure alle Scuole belle…), per mettere in sicurezza le scuole e riprogettare gli spazi per la didattica; alleggerire la pressione sui docenti (dalle classi da 25-30 alunni a tutti i compromessi richiesti in termini di spese per i materiali didattici) e investire concretamente nella loro formazione (che significa accompagnare nel mondo della scuola docenti preparati e fare in modo che quelli giù in forze sviluppino le necessarie competenze per rimanere al passo con i tempi); sviluppare un serio programma di didattica a distanza che non rischi di lasciare indietro i milioni di alunni che vivono in famiglie che non possono permettersi un tablet o un computer o perfino una linea internet adeguata (le testimonianze dei docenti che si leggono in questi giorni sono tutte abbastanza in sintonia tra loro, riprendo quindi per comodità questa di Clauda Boscolo);
  3. se è vero che durante il lockdown il 55% dei lavoratori ha continuato a svolgere le proprie mansioni, in modalità smart working o direttamente in azienda, è altrettanto vero che la crisi dovrebbe averci insegnato qualcosa sull’importanza (se non proprio l’essenzialità) di alcune tra le categorie meno protette (non ultimi i rider e gli altri lavoratori inquadrati nella cosiddetta gig economy), a cui bisognerebbe riconoscere al più presto tutte le tutele necessarie;
  4. adottare misure anche severe volte a riqualificare il patrimonio immobiliare italiano, sanando soluzioni abitative al limite della vivibilità e riconoscendo a tutti il diritto a una casa commisurata alle esigenze (leggasi: numerosità) del nucleo familiare, che alleggerisca anche la concentrazione demografica delle città che si stanno dimostrando nient’altro che alveari-prigioni e ripopoli i tanti paesi, soprattutto del Centro-Sud, che per anni sono stati trasformati in ghost town dall’emigrazione verso le città del Nord Italia.

Non sono misure che si può pensare di rendere operative da subito, ma senza partire da qualche parte non verranno mai portate a termine. E credo che concorderemo tutti senza difficoltà che si tratta di scelte necessarie, anche se mi rendo conto che è un programma che ora come ora appare utopico, specie con questa classe politica e in queste condizioni. Ma un punto zero prima o poi dovrà essere fatto, e probabilmente se non si decide di farlo alla luce della severa lezione di questa emergenza allora non troveremo mai lo spirito di portarlo a compimento.

Basta saperlo, però, per evitare poi di tornare tutti a lamentarci la prossima volta che si presenterà la necessità di affrontare un’emergenza simile. Perché se c’è un’altra cosa su cui dovremmo essere tutti d’accordo, imbecilli di varie affiliazioni politiche a parte, è che questa situazione, pur nella sua singolarità, non rappresenta affatto un’eccezione ma nei mesi e negli anni che verranno diventerà una regola con cui convivere.

Giorno 39 dalla dichiarazione della Zona Rossa Italia. Raggiunti i 172.434 casi totali. 42.727 dimessi, di cui un numero imprecisato di guariti. 22.745 decessi sicuri, ma diverse migliaia di decessi stimati in aggiunta ai dati ufficiali: nelle case di riposo (e qui per la Regione Lombardia le cose iniziano a mettersi male, con buona pace per tutta la campagna propagandistica che ha accompagnato la gestione dell’emergenza, dalle dirette Facebook del suo assessore al Welfare all’ospedale in Fiera) o in isolamento domiciliare.

La curva dei contagi pare stia raggiungendo l’atteso picco, con tre settimane di ritardo rispetto al picco che in molti ci aspettavamo a fine marzo. Oggi il numero totale dei positivi è salito di sole 355 unità a 106.962: l’incremento minore dal 3 marzo, grazie anche al massimo finora raggiunto dal numero di guariti giornalieri (+2.563), ma sono comunque 10mila unità più del picco che prevedevamo solo la scorsa settimana.

Ma ormai su questi numeri l’attenzione si è molto ridotta, sia per le note metodologie già più volte discusse (e riassunte in questi due articoli del Post), sia per l’allentata pressione sul sistema sanitario nazionale, in particolare con una riduzione del tasso di occupazione delle terapie intensive dal 65% di inizio aprile a circa la metà negli ultimi giorni (37%).

Sulla validità, attendibilità, utilità o credibilità dei dati si sono aggiunti negli ultimi giorni questo commento di Francesco Costa e questo post di Luca Sofri che riprende uno studio di alcuni astrofisici che stanno seguendo l’evoluzione statistica dell’epidemia, e che hanno trovato per primi una spiegazione allo strano andamento ondulatorio della discesa del numero di contagi giornalieri: evitando spoiler per rovinarvi il gusto della scoperta, anticipiamo qui che i «picchi» visibili nella prima delle immagini qui sopra sono distanziati di… 7 giorni.

Tutto sommato, che fosse una farsa avevamo iniziato a sospettarlo già dopo la prima settimana di quarantena.

Ma a proposito di farsa guardiamo cosa sta succedendo nel mondo. Ovvero: 2.223.240 casi totali e 152.328 vittime. Gli USA hanno quasi raggiunto 700.000 casi e 37.000 vittime: i nuovi contagi continuano a crescere da giorni al ritmo di 30.000 al giorno, mentre la conta delle vittime ha visto il suo giorno più nero il 14 aprile, con oltre 6.000 decessi in ventiquattro ore. I numeri, come dimostra l’esperienza italiana, non devono trarre in inganno: gli Stati Uniti, fatte le debite proporzioni, si trovano più o meno dove eravamo noi a fine marzo; sono passate tre settimane e i casi sono continuati ad aumentare. Ma Donald Trump tira dritto per la sua strada e, spaventato da scenari economici sempre più foschi che difficilmente ne favorirebbero la rielezione (nell’ultimo mese sono state presentate 22 milioni di richieste per il sussidio di disoccupazione), ha deciso di andare allo scontro aperto con i governatori degli stati guidati dal Partito Democratico. Mentre lui dichiara di aver sospeso i finanziamenti alla World Health Organization, rea a suo dire di una cattiva gestione della crisi (ma in molti hanno riconosciuto nell’annuncio la solita strategia di Trump per sviare l’attenzione dalle sue responsabilità e dai suoi fallimenti), e propone un piano in 3 fasi per rimettere in moto l’economia, il governatore dello stato di New York Andrew Cuomo estende le misure restrittive fino al 14 maggio.

In Spagna i casi sono arrivati a 188.093, con 19.613 vittime. In Francia a 147.969, con 18.681 vittime. Nel Regno Unito 108.692, con 14.576 vittime, ma il 12 aprile il premier Boris Johnson ha lasciato l’ospedale in cui era ricoverato. In Germania, con 139.134 casi confermati, ci sono state appena 4.203 vittime. Il Portogallo si conferma al contrario una felice eccezione nel panorama del Vecchio Continente.

L’epidemia si diffonde anche in Turchia e Russia, inducendo il governo di Ankara a scarcerare 45.000 detenuti a rischio di contagio (ma non i «detenuti politici») e il presidente russo Vladimir Putin a una posizione inaspettatamente defilata nella gestione di una crisi la cui portata potrebbe essere già oggi più grave di quanto denunciano le cifre ufficiali (32.000 casi, meno di 300 vittime…).

Le autorità cinesi hanno rivisto al rialzo il numero di decessi avvenuti a Wuhan a causa della Covid-19: nella città focolaio della pandemia, ci sarebbero stati almeno 1.290 decessi in più rispetto alle stime originariamente diffuse dal governo. Il bilancio delle vittime sale così a 4.632.

La World Trade Organization nei giorni scorsi ha diffuso un rapporto in cui prospetta una contrazione del commercio mondiale compresa tra il 13 e il 32 per cento. Nel secondo semestre del 2020 gli scambi potrebbero ripartire limitando i danni; al contrario, se la crisi dovesse proseguire, si potrebbe avere un risollevamento dell’economia solo a partire dal 2021, con un ritorno al volume di scambi di… dieci anni fa. In entrambi gli scenari, l’impatto della pandemia sembra destinato a dimostrarsi peggiore della crisi del 2008.

Previsioni sul volume degli scambi commerciali mondiali; scenari a confronto con la serie storica (fonte: WTO, via Il Post).

E degli scenari bisognerebbe ricominciare seriamente a parlare anche in Italia. Le stime dell’impatto della crisi per il nostro paese peggiorano di settimana in settimana: se a marzo si parlava di un calo del PIL mediamente intorno al 5%, per il Fondo Monetario Internazionale adesso la crisi si tradurrà in una perdita del 9,1%. Non siamo soli: la Germania perderebbe circa il 7%, l’Eurozona nel suo insieme il 7,5%, gli Stati Uniti il 5,9%. Ma siamo sicuramente tra i più colpiti.

Non a caso l’altro giorno la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, intervenendo all’inizio dei lavori di una sessione plenaria straordinaria del Parlamento Europeo, ha rivolto delle scuse all’Italia per non aver fatto abbastanza nelle battute iniziali della crisi. Mentre sono in discussione le nuove misure per fronteggiare la pandemia e le sue conseguenze economiche, con i paesi europei schierati  tra un fronte più intransigente e uno più favorevole a una maggiore flessibilità, questa autocritica è sembrata un’apertura alle istanze del nostro paese… e, giusto per non smentirsi, poche ore dopo i nostri rappresentanti politici all’Europarlamento, senza distinzioni di schieramento, hanno offerto l’ennesima dimostrazione della grande coerenza e dell’amore che nutrono per il nostro Paese. A riprova del fatto che viviamo tutti in una farsa, non c’è altra spiegazione.

Inevitabilmente anche i tassi di disoccupazione aumenteranno dappertutto: dal 10 al 12,7% in Italia, con l’Eurozona al 10,4%. Mario Draghi, ex presidente della Banca Centrale Europea, ha ribadito che bisognerebbe spendere tutto il necessario per sostenere l’economia dei paesi in crisi durante la pandemia e qualcuno si è spinto a ipotizzare un «reddito di quarantena», che mette i brividi fin dalla definizione. Ma con un pizzico di coraggio in più si potrebbe provare a guardare un po’ oltre il nostro naso.

Si prevedono tempi di enormi stravolgimenti e la situazione è talmente incerta che mai come nelle ultime settimane think tank, comitati e risk office hanno elaborato scenari tanto contrapposti. Senza essercene accorti, invece del picco dei contagi potremmo in effetti esserci messi alle spalle il picco del petrolio (il cosiddetto picco di Hubbert, che prende il nome dal geofisico americano Marion King Hubbert), che diversi studi prevedevano per questo decennio (e alcuni per il 2023), e che invece potrebbe esserci stato nel 2019. En passant, la curva di Hubbert (che altro non è che la derivata della funzione logistica o sigmoidale che sappiamo approssimare bene l’andamento dei casi totali) è proprio la funzione adottata nei modelli usati per descrivere l’andamento dei nuovi contagi giornalieri (l’andamento qui sotto è tratto per esempio dal post del 31 marzo).

Scenario_E2_casi_giornalieri_2020-03-31

Per accelerare la ripresa, paesi come la Cina potrebbero decidere di puntare sulla costruzione di nuove centrali a carbone, vanificando i benefici indirettamente comportati dal lockdown in termini di emissioni inquinanti.

Probabilmente con i settori dell’auto e dei trasporti aerei che riporteranno le perdite più gravi a causa della pandemia (e almeno per il trasporto aereo sembra davvero poco plausibile un rilancio nei prossimi mesi) e con il mercato dell’energia che si accinge ad accelerare i tempi di una transizione epocale, potrebbe essere arrivato il momento per rivedere l’intero modello di business su cui si reggono le nostre società occidentali. Ovviamente è presto per parlare di cambiamenti che potrebbero diventare effettivi solo sul medio-lungo periodo, come per esempio la riprogettazione del settore dell’energia, ma i piani decennali che alcuni paesi hanno già avviato potrebbero venire accelerati. Allo stesso tempo, gli effetti della pandemia potrebbero finire per mostrare anche ai più scettici i vantaggi di un sistema sanitario centralizzato o almeno coordinato centralmente e la necessità di  un piano di assistenza medica gratuita universale. Spingendoci ancora un po’ oltre, allora, con milioni di posti di lavoro che andranno in fumo prima che se ne possano creare di nuovi, probabilmente in settori diversi, è ancora così balzana la prospettiva di un reddito universale di base che non sia la ridicola parodia messa in piedi dal M5S in Italia?

Non lo so, ma sugli scenari torneremo sicuramente nei prossimi giorni. Intanto, una chiosa sull’Italia. Il governatore della Campania Vincenzo De Luca si è detto pronto a chiudere i confini della regione se i suoi colleghi dovessero allentare le misure di sicurezza attualmente previste dal governo, con il rischio di una ripresa dei contagi a livello nazionale. Come qualcuno faceva notare, non è una prospettiva molto distante da qualcosa che capitava nelle pagine di Corpi spenti. La realtà potrebbe solo essere arrivata con quei 40 anni di anticipo, per non farci mancare ancora una volta niente. Nemmeno in tempi di pandemia.

Nel mondo i casi documentati di COVID-19 hanno superato le 800.000 unità, di cui 600.000 circa risultano ancora in corso. Gli USA hanno ormai doppiato la Cina, toccando quota 164.435 (contro 81.518). Le vittime tra i cittadini statunitensi salgono a 3.175 (contro 3.305), e il dottor Anthony Fauci, immunologo a capo del National Institute of Allergy and Infectious Diseases e consigliere del presidente Donald Trump per l’emergenza coronavirus, per tranquillizzare la popolazione di fronte a scenari che danno come possibili un milione di decessi, ha parlato di una forbice tra le cento e le duecentomila vittime nel paese. Trump, che nemmeno la gravità della crisi ha saputo richiamare alla realtà, appena qualche giorno dopo aver millantato una riapertura degli esercizi commerciali e delle fabbriche entro Pasqua, ha annunciato come se niente fosse che sarà un successo se riusciranno a stare sotto le centomila vittime: centomila decessi, centomila cittadini americani spazzati via da un virus che avrebbe dovuto sparire «per miracolo». E i sondaggi lo ripagano con il massimo del gradimento da parte degli elettori da tre anni a questa parte…

I morti nel mondo sono 40.633. In Spagna le cose stanno andando anche peggio che in Italia: 8.189 morti a fronte di 94.417 contagiati; a parità di giorni decorsi dal primo caso, l’Italia aveva 64mila casi e meno di 7mila vittime. Nelle ultime 24 ore il paese ha registrato 9.222 nuovi contagi; il picco italiano è stato di 6.557 contagi (il 21 marzo). Madrid si aspetta un impatto sul PIL pari al 4% a causa dell’ibernazione, come viene chiamato in Spagna il lockdown. Sono valori analoghi a quelli che circolavano in Italia un paio di settimane fa, prima che ulteriori valutazioni aggravassero le stime fino e oltre il 10% del PIL.

In Francia, la scrittrice Annie Ernaux (autrice, tra gli altri, di volumi di autofiction, a metà strada tra autobiografia, sociologia e prosa narrativa, come L’evento, Gli anni e L’altra figlia, tutti pubblicati in Italia da L’Orma Editore) ha rivolto una lettera al vetriolo al presidente Emmanuel Macron, additandone l’inadeguatezza nel gestire il paese e nell’affrontare la crisi: esattamente i lavoratori dei settori pubblici (scuola, sanità, energia, poste, ferrovie), bersaglio negli ultimi anni di riforme e tagli che hanno portato anche a violenti scioperi, si ritrovano adesso a reggere i servizi essenziali di un paese bloccato dal coronavirus. Una denuncia autorevole, che si aggiunge alle già numerose prese di posizione contro un sistema che, in Francia come in Italia e nel resto del mondo, sembra incapace di pensare all’emergenza in termini di costi umani, ma non guarda ad altro che agli indicatori economici. Un commento in italiano alla lettera può essere letto su Fanpage.

La visione mercatocentrica porta a storture che dovrebbero farci drizzare le antenne: non sembra che sia così, invece, se proprio nel cuore dell’Europa il parlamento di Budapest guidato da Fidesz, il partito ultranazionalista del primo ministro Viktor Orbán, ha approvato proprio ieri una riforma che conferisce al premier la facoltà di emanare leggi in sostituzione del parlamento stesso senza limiti di tempo, giustificando la decisione con la necessità di contenere la crisi dovuta al coronavirus. Poco più di un pretesto, per le opposizioni e gli osservatori internazionali, che hanno parlato di deriva autoritaria: con questa riforma, secondo l’organizzazione Human Rights Watch, l’Ungheria completa la sua trasformazione in una «dittatura in piena regola». Sono i pieni poteri che qualcuno invocava anche qui da noi, tanto per capirci.

Per fortuna ci pensano l’Albania e il Portogallo a illuminare con un po’ di speranza l’acciaccato vecchio continente. Tirana ha inviato una delegazione di trenta medici per coadiuvare il personale sanitario italiano impegnato nelle difficili operazioni di contenimento del contagio in Lombardia. Il discorso del premier socialista Edi Rama ha scosso molte coscienze: «Non siamo privi di memoria e non ci possiamo permettere di non dimostrare all’Italia che gli albanesi e l’Albania non abbandonano mai l’amico in difficoltà. Questa è una guerra dove nessuno può vincere da solo. [… ] Oggi noi siamo tutti italiani e l’Italia la deve vincere e la vincerà questa guerra, anche per noi e anche per l’Europa e il mondo intero». Per una volta il lessico bellico non sembra fuori luogo, anche perché accompagna parole di solidarietà, di mutuo soccorso e di amicizia, contro un nemico che non è umano e, come sottolineava Ernaux, «non è un nostro simile, non ha volontà di nuocere, è ignaro di frontiere e differenze sociali». Una bella lezione per il mondo intero, così come quella del governo socialista lusitano, che ha riconosciuto il permesso di soggiorno ai richiedenti, con una sanatoria che permetterà loro di accedere ai servizi pubblici e alle cure in caso di necessità. «In questa emergenza i diritti dei migranti devono essere garantiti» ha dichiarato Claudia Veloso, portavoce del ministero degli Interni.

Alcuni tempo fa sostenevano che i politici sono tutti uguali, che destra e sinistra si equivalgono. Col cazzo!, se permettete.

In Italia il mese di marzo si conclude con 105.792 persone contagiate dal coronavirus SARS-CoV-2 (+4.053 rispetto a ieri, quando abbiamo superato quota 100.000). I casi attivi sono 77.635 (+2.107 rispetto a ieri). Di fatto, stiamo rispettando lo scenario E2 (che prevedeva a questo punto rispettivamente 105.418 casi totali e 77.700 casi positivi in corso).

La variazione giornaliera prosegue nel trend in discesa e arriva al 4%: finché non arriverà a 0 continueranno a esserci nuovi casi, quindi consideriamo che la terza fase dell’epidemia, dopo l’esplosione e il picco, diventerà uno stillicidio di numeri sempre più piccoli, prima alcune centinaia, poi poche, poi nell’ordine delle decine di nuovi casi al giorno che, come già capitato in Cina e Corea del Sud, si protrarrà per settimane e con le misure di contenimento in atto potrebbe rivelarsi un pungolo continuo per i nostri nervi.

Il modello E2 sembra funzionare bene finora perché il conteggio dei decessi e dei guariti, pur non rispettando esattamente l’andamento atteso (risulta infatti sottostimato nel primo caso, sovrastimato nel secondo), come somma continua a mantenersi allineato alle previsioni (28.157 tra vittime e guariti rispetto alla stima attesa di 27.719).

Ogni mancata previsione sulle guarigioni da parte del modello, a questo punto, inizia a essere imputabile alla mia sottostima dei decessi. Appare purtroppo certo che la mia soglia di 12.666 vittime sarà presto superata, quasi sicuramente già domani: le 837 vittime registrate oggi hanno infatti portato il computo totale dei decessi a 12.428. Nella scala logaritmica qui in alto, lo scalino rosso andrà quindi alzato plausibilmente di diverse migliaia di casi fatali.

Ha senso? Nello scenario E2 il tasso di mortalità considerato era del 9% sul numero totale dei casi, ma il tasso “reale” (virgolette d’obbligo, essendo il valore totale dei casi al denominatore tutt’altro che una misura certa dei contagi realmente avvenuti dall’inizio dell’epidemia) cresce ininterrottamente, a meno di fluttuazioni giornaliere, da più di un mese: dal 2,4% del 28 febbraio siamo arrivati all’11,7% del 31 marzo. E qui bisogna aprire una parentesi lunghetta.

Sui problemi dei numeri che stiamo esaminando ci siamo già soffermati. Il numero reale dei decessi, come dimostrano le registrazioni anagrafiche delle province lombarde confrontate con i dati degli anni scorsi, è sicuramente superiore rispetto al valore comunicato dalla Protezione Civile. Sta facendo molto discutere in questi giorni un rapporto dell’Imperial College di Londra, elaborato in collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità per valutare l’efficacia delle misure di contenimento adottate in 11 paesi europei. Secondo le stime dello studio, la popolazione realmente infettata in Italia sarebbe compresa tra il 3,2% e il 26% della popolazione totale: da un minimo di 2 a un massimo di 16 milioni di italiani avrebbero già contratto il virus, e la percentuale di asintomatici  e paucisintomatici sarebbe quindi tra uno e due ordini di grandezza superiore alle centinaia di migliaia finora stimati. La mortalità riscontrata andrebbe quindi rapportata a questi valori, venendo ricondotta sotto la soglia dell’1% dei casi totali. Gli autori stessi dello studio invitano a considerare con prudenza questi valori: lo scopo dell’analisi è infatti valutare l’effetto delle misure restrittive, che a loro avviso avrebbero già salvato tra le 13.000 e le 84.000 vite solo in Italia, e centinaia di migliaia in Europa.

Tuttavia non possiamo evitare di osservare che il numero di ricoveri in terapia intensiva da alcuni giorni sembra essersi stabilizzato appena al di sopra della soglia di sostenibilità del sistema che avevamo preso in considerazione la settimana scorsa: 4.023 contro una mia stima di 3.755 (e un totale di posti stimati in 6.300, con un tasso di saturazione del 64%).

Dopo essersi mantenuto tra circa 100 e 200 nuovi ricoveri al giorno per quasi tre settimane (con una punta di 241 il 18 marzo), il numero di trattamenti in terapia intensiva da tre giorni si è ridotto considerevolmente: 50 il 29/3, 75 ieri e 42 oggi. In percentuale sul numero totale dei casi attivi, dal 10,9% i ricoveri in terapia intensiva sono scesi a 5,2%, in un trend continuo.

La domanda che m’insegue da qualche giorno, guardando ai dati come a una black box e considerando che metà della regioni italiane sono ormai a un tasso di occupazione superiore al 66% dei posti in terapia intensiva (i due terzi dei posti disponibili, immaginando di lasciare una riserva di un terzo per i casi estranei all’infezione da coronavirus), è se non abbiamo ormai raggiunto la reale capacità di assorbimento del sistema sanitario nazionale, almeno nelle regioni finora più interessate. Questo potrebbe rendere conto, con il basso numero di test effettuati, del tasso di mortalità sproporzionato registrato in Italia.

Prima di chiudere, un primo sguardo al futuro. Mi fa piacere ritrovarmi a non essere l’unico a interrogarsi sugli orizzonti che ci aspettano. Una riflessione interessante è quella di Luca Sofri, il direttore del Post (che con Internazionale continua a essere una delle migliori fonti di informazione in lingua italiana sulla pandemia e non solo).

Il direttore dell’Italian Institute for the Future Roberto Paura firma invece questo editoriale per Futuri che è anche un manifesto e, se nei dettagli può essere più condivisibile per alcuni di noi e meno per altri, nell’orizzonte che si sforza di abbracciare e nell’approccio che decide di adottare è quanto di più lucido e consapevole mi sia capitato di leggere dall’inizio della pandemia.

Molti di noi stanno maturando delle aspettative verso il dopo che, in un senso o nell’altro, finiranno per essere deluse almeno in parte: per la forza della resistenza al cambiamento che pervade tutti i settori produttivi della nostra società e per il contesto ambientale che non potremo più concederci il lusso di ignorare.

Come ci fa notare Roberto, un patto transgenerazionale, una presa di coscienza del nostro ruolo nel mondo (e nei processi produttivi e nelle dinamiche sociali), una maggiore responsabilità verso l’ecosistema e un uso della tecnologia che pieghi l’innovazione a questa responsabilità sono le condizioni da cui non possiamo prescindere per proiettarci oltre l’ostacolo del rischio esistenziale, per dirla con Nick Bostrom, in cui ci siamo imbattuti.

Ma per cambiare davvero le cose, dovremo uscire in maggior parte “arricchiti” da questa esperienza. Arricchiti nel senso di formati, naturalmente. Viviamo quindi la quarantena (l’isolamento, il contenimento, l’ibernazione), le restrizioni, la rinuncia a molte libertà (ma per fortuna ancora non tutte), come banco di prova per il futuro. Da come ne usciremo, sarà facile capire quale grado di fiducia nutrire verso le nostre risorse alla successiva catastrofe che prima o poi senz’altro si presenterà.

Mi riprometto sempre di non commentare le uscite dei politici italiani, consapevole che discutere dichiarazioni palesemente imbecilli o proposte intrinsecamente irricevibili significa comunque farle girare, contribuire a diffonderle, e così si rischia di legittimarle e conferirgli una dignità che non hanno e che non meritano. Però non sempre ci riesco, e questo è il post in cui appunto non ci riesco.

Leggo in giro di proposte da parte del partito più insignificante dell’arco parlamentare di riaprire tutto con gradualità. L’intervista rilasciata dal suo leader ad Avvenire risponde in tutta evidenza a un esigenza di visibilità, la stessa esposizione che con boutade di tenore analogo ricercano anche i leader dell’opposizione (e uno in particolare) in calo di consensi da mesi. E fa il paio con almeno altre due imbarazzanti campagne portate avanti dallo stesso partitino che naviga poco al di sopra del livello del 2% nei mari in burrasca della politica italiana: riempire i supermercati di colombe e uova di pasqua e abbellire i balconi degli italiani di fiori (non sto scherzando, non riporto i link per pietà, ma potete recuperare i riferimenti googlando senza troppa difficoltà).

Adesso bisognerebbe riaprire le fabbriche prima di Pasqua e poi il resto: negozi, scuole, librerie e chiese, «perché non possiamo aspettare che tutto passi. Perché se restiamo chiusi la gente morirà di fame. Perché la strada sarà una sola: convivere due anni con il virus». E se gli appelli alla tradizione delle colombe e alle decorazioni floreali si sottraevano a qualsiasi commento per la loro insulsaggine, parole come queste suonano di una gravità inaudita in un simile momento, a poche ore di distanza dagli inviti alla prudenza del presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Silvio Brusaferro e del presidente del Consiglio Superiore di Sanità Franco Locatelli. Mentre gli esperti invitano a non abbassare la guardia, preparando anche psicologicamente la strada per il prolungamento delle misure restrittive in vigore fino al 3 aprile, qualche politico in cerca di esposizione mediatica non sta mettendo al primo posto la salute dei cittadini.

Ed è se possibile ancora meno ricevibile una proposta del genere se si prova a confezionarla con il richiamo a ineludibili necessità economiche, per tutelare i patrimoni delle imprese e il potere di acquisto dei cittadini. Il Corriere della Sera si è accodato a questa linea di pensiero l’altro giorno, ospitando un intervento sottoscritto da diversi economisti italiani in cui, nel nome di una ectoplasmica ripresa economica, si delineano con entusiasmo scenari distopici se possibile ancora peggiori di quelli dell’immediato futuro, con derive che definire orwelliane è pure riduttivo.

In Europa l’Italia è da anni il fanalino di coda per investimenti nella ricerca e per sostegno all’innovazione delle aziende. Quindi tutto quello che riusciamo a fare in questo momento per uscire dallo stallo, è ragionare su proposte che prevedono il ritorno allo status quo precedente: riaprire le fabbriche, tenere in funzione la filiera agroalimentare come la conosciamo, tornare alle classi sovraffollate delle materne e delle elementari. Proposte non solo irricevibili (come il reinserimento “coatto” dei dipendenti nei vecchi processi di produzione), ma perfino irrealistiche.

Gli economisti che firmano manifesti come quello sopra linkato e i politici che giocano al rialzo a un tavolo in cui è in ballo il futuro di intere generazioni, dimostrano non tanto la spregiudicatezza di cui forse vorrebbero pavoneggiarsi, ma piuttosto una innata mancanza di concretezza e una totale incapacità di misurarsi con la realtà. E la realtà è quella che s’intravede, a fatica, tra i numeri della Protezione Civile: numeri che tutti sappiamo essere sottostimati, in alcuni casi fino forse a un ordine di grandezza (e la Lombardia non fa eccezione: in Emilia-Romagna le modalità di accesso ai test sono pressoché le stesse, e stiamo parlando delle due regioni con il maggior numero di casi documentati), ma che dipingono un fenomeno che già oggi sappiamo finirà per coinvolgere centinaia di migliaia di persone.

In uno scenario conservativo come quello su cui stiamo ragionando dalla settimana scorsa, a Pasqua ci troveremo ad avere un numero di positivi attivi superiore a quelli che abbiamo oggi e a piangere non meno di 12.000 vittime: non si capisce bene che cosa dovremmo festeggiare, a cosa dovrebbero servire colombe e uova di pasqua, o perché in una situazione più grave di oggi si debbano riaprire fabbriche, uffici ed esercizi commerciali oggi chiusi per tornare gradualmente a una normalità perduta. Dobbiamo guardare negli occhi la realtà, che nel migliore dei casi avrà l’aspetto qui sotto rappresentato, ma che non è affatto detto sia così clemente.

Questo malgrado le disposizioni del governo. Immaginarsi cosa succederebbe allentando proprio adesso quelle misure non è difficile: a Codogno, in seguito alla riapertura dell’ex area protetta, i casi di COVID-19 sono tornati ad aumentare.

Ieri è stato registrato il maggior numero di decessi dall’inizio dell’emergenza: 919, che portano il conteggio totale oltre le 9mila vittime. I numeri rendono solo in parte fede a una situazione reale che ha già fatto centinaia, forse migliaia di vittime in più rispetto alle cifre ufficiali. I nuovi casi registrati ieri sono stati 5.959, che portano il totale a 86.498 contagi: il giorno in cui l’Italia si è lasciata alle spalle la Cina per dimensioni dell’epidemia, gli USA hanno superato i centomila contagi, con il 50% di casi attivi in più rispetto all’Italia, che al momento ne ha 66.464. Tra i 14.543 casi del Regno Unito, dall’altro giorno è conteggiato anche il primo ministro Boris Johnson, insieme al suo ministro della Salute (la fortuna è cieca, ma il karma ci vede benissimo a quanto pare).

Nel mondo i casi sono più di 600.000, le vittime 27.468.

Ieri il Papa si è rivolto a una piazza vuota per una preghiera speciale. Tanti non credenti (come chi scrive) hanno sottolineato la forza delle immagini e delle parole dell’omelia del 27 marzo. Trovo anch’io importante registrarle a futura memoria: hanno molto più senso di quelle dei nostri politucoli da quattro soldi.

Così inizia il Vangelo che abbiamo ascoltato. Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo ritrovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: «Siamo perduti» (v. 38), così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme.

Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. Ora, mentre stiamo in mare agitato, ti imploriamo: “Svegliati Signore!”. «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, ci rivolgi un appello, un appello alla fede. Che non è tanto credere che Tu esista, ma venire a Te e fidarsi di Te. In questa Quaresima risuona il tuo appello urgente: “Convertitevi”, «ritornate a me con tutto il cuore» (Gl 2,12)

415.146 casi registrati. 18.562 vittime. 108.296 guariti. Ecco la situazione nel mondo nel momento in cui scrivo (dati forniti da Worldometers).

La metà dei casi riguardano l’Europa, che ha ormai staccato la Cina come focolaio più attivo a livello globale: dell’Italia parleremo dopo, ma la Spagna ha raggiunto quasi i 40mila casi, con 2.800 vittime e 5.400 contagiati tra gli operatori sanitari, di cui 2.000 solo negli ultimi 2 giorni a causa della carenza di dispositivi di protezione; la Germania è a 32mila casi e il basso numero di vittime (156) per il momento sembra dovuto alla maggiore diffusione dei contagi tra le fasce più giovani della popolazione e con il diffondersi dell’epidemia sempre più anziani potrebbero essere colpiti, ma sembra difficile che l’emergenza possa assumere le proporzioni raggiunte in Italia, grazie ai 28mila posti in terapia intensiva di cui dispone la Bundesrepublik; la Francia, con oltre 22mila casi, ha superato oggi le mille vittime e i consulenti scientifici del presidente Emmanuel Macron hanno suggerito di proseguire il blocco del paese almeno per altre sei settimane fino alla fine di aprile.

Secondo un portavoce dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’85% dei nuovi casi registrati nelle ultime 24 ore sono stati in Europa e in USA. Malgrado gli States abbiano più di 50mila casi e 667 decessi, e nonostante la richiesta d’aiuto del governatore dello stato di New York Andrew Cuomo perché il governo federale sostenga lo stato con 30.000 nuovi respiratori prima che si trasformi nel prossimo epicentro globale del coronavirus, il presidente Donald Trump in controtendenza ostenta ottimismo e rimanda qualsiasi decisione sulla riapertura degli esercizi commerciali alla prossima settimana.

Intanto gli stati che hanno annunciato il lockdown sono 15, con misure che riguardano la metà circa dei 330 milioni di cittadini americani. A questi si aggiungono India, Sud Africa e Nuova Zelanda, che entreranno in lockdown tra poche ore per almeno tre settimane: 2,6 miliardi di persone sono costrette a casa come misura per contenere il dilagare della pandemia.

Anche il Giappone si è arreso e ha accettato di rimandare le Olimpiadi al 2021: non era mai capitato prima che le Olimpiadi venissero spostate e l’ultima volta che erano state annullate era il 1944.

In Italia il Consiglio dei Ministri ha approvato nel pomeriggio un nuovo decreto per porre ordine nelle misure di contenimento fin qui disposte, precisando che i provvedimenti adottati possano essere rinnovati per ulteriori 30 giorni alla scadenza e successivamente estesi fino al 31 luglio, data di scadenza dei sei mesi dallo stato di emergenza dichiarato il 31 gennaio scorso. Il testo inasprisce le sanzioni per i trasgressori (che sono comunque molti meno di quanto si pensa e di quanto si sarebbe potuto credere) e introduce per i prefetti la possibilità di avvalersi delle forze armate per far rispettare le misure previste. Agli amministratori regionali e comunali viene riconosciuta la facoltà di disporre in autonomia provvedimenti più restrittivi, che non potranno però avere durata superiore ai sette giorni se non confermati attraverso un decreto ministeriale. Il presidente del consiglio Giuseppe Conte domani riferirà in Parlamento.

Ma come sta andando il contagio in Italia?

Oggi si sono registrati 5.249 nuovi casi, che portano il totale a 69.176 contagi. I decessi salgono a 6.820 (+743), i guariti a 8.326 (+894). I casi positivi attualmente in corso sono 54.030, con un incremento di 3.612 rispetto a ieri (trend in diminuzione per il terzo giorno di fila): di questi 21.937 sono ricoverati e 3.396 sono i ricoverati in terapia intensiva, con un tasso di saturazione salito al 54%.

Il rallentamento degli ultimi giorni è facilmente percepibile nell’andamento della variazione percentuale giornaliera dei casi.

Potremmo effettivamente essere al picco dei contagi, la concordanza con lo scenario E2, che altro non è che lo scenario E corretto per tener conto dell’andamento degli ultimi giorni, incoraggia a pensarlo.

Questo scenario è sostanzialmente in accordo con le estrapolazioni su cui riflettevamo il 21 marzo. Lo scenario di crescita dei casi totali mostra una leggera sovrastima rispetto ai casi totali effettivamente registrati ad oggi: continuando di questo passo, anziché sfondare quota 120.000 casi registrati a fine epidemia (con l’inevitabile disclaimer che questi sono solo i casi visibili, mentre i casi reali – necessari anche a riportare il tasso di letalità nelle medie registrate in altri paesi – potrebbero già essere molti di più), potremmo fermarci tra i 100 e i 120.000.

Uno scenario di sviluppo dei casi attivi compatibile con queste premesse è quello del grafico seguente, in cui il picco dei casi attivi si assesta verso gli 80.000 casi intorno al 4 aprile.

Questo significa che, malgrado l’ottimismo che inevitabilmente filtrerà dalla lettura dei numeri snocciolati nei bollettini giornalieri, nel giro di poco più di una settimana ci troveremo a fronteggiare un numero di casi che potrebbe essere tra il 30 e il 50% più alto di quelli che abbiamo oggi, con la necessità di soddisfare più di 7.000 ricoveri in terapia intensiva (per essere più precisi siamo in una forbice tra 5 e 8.000).

Come si vede dall’andamento dei ricoveri, già nei prossimi giorni il trend di crescita potrebbe entrare in collisione con la capacità di tenuta del sistema sanitario nazionale, ammesso e non concesso che questo non sia già successo, almeno a livello locale e in alcune regioni, con conseguenze già visibili nello scarto consistente tra l’andamento del modello e quello dei ricoveri effettivi in ICU.

Quindi, se anche la situazione dei contagi potrebbe essere finalmente sotto controllo, grazie alle misure restrittive adottate a partire dall’inizio di marzo, il rallentamento del tasso di crescita dei nuovi contagi registrato negli ultimi giorni non è un invito alla pazza gioia: mentre i cittadini dovranno proseguire nella ferrea disciplina di distanziamento sociale che si sono imposti con questi incoraggianti risultati, le autorità dovranno continuare ad adattare la capacità di ricovero in terapia intensiva per i casi più critici per poterci traghettare felicemente fuori dall’emergenza, configurando i primi segnali di un ritorno alla normalità non prima del mese di maggio.

Qui sopra vedete la sigmoide rossa del numero dei decessi che si stabilizza tra le 12 e le 13.000 vittime. Ma basterà sottovalutare i dieci giorni che ci aspettano o commettere un solo passo falso perché questi valori si alzino come una marea rossa, configurando scenari ben peggiori.

Il feeling positivo ispirato dalle notizie di ieri è ripreso in serata, dopo che l’alba ci aveva consegnato un altro triste risveglio. Il tempo di confrontarsi con le notizie provenienti dal resto del mondo: oltre un miliardo di persone costrette nelle loro case in tutto il mondo, la curva dei contagi negli USA che schizza vertiginosamente verso l’alto (i casi sono cresciuti di dieci volte in meno di una settimana, e dopo essere arrivati ieri oltre i 30mila, oggi sono saliti ulteriormente a quasi 42mila con 500 vittime: al 21esimo giorno dell’emergenza, in Italia eravamo a metà dei casi…), le scene dagli ospedali spagnoli assiepati di malati in attesa di un posto letto e la vicepremier Carmen Calvo ricoverata per un’infezione respiratoria. Il sindaco di New York Bill de Blasio ha dichiarato di aspettarsi «un mese di aprile peggiore di quello di marzo, e un mese di maggio ancora peggiore» e ha avviato i lavori per trasformare un centro congressi in un ospedale da mille posti letto.

In Italia il mezzo pasticcio sulle chiusure delle attività produttive non essenziali propiziato dal caos istituzionale tra governo centrale e regioni, in cui s’inserisce un nuovo scontro tra Confindustria e sindacati, che annunciano scioperi nelle regioni del Nord.

La situazione al Sud è altrettanto tesa: Basilicata e Calabria hanno annunciato la chiusura dei loro confini regionali. I sindaci dei comuni dell’alta Calabria hanno chiesto al prefetto di Cosenza l’autorizzazione a istituire check point con l’aiuto di agenzie private sulle strade di accesso alla ragione. Mentre il governatore della Sicilia e il sindaco di Messina denunciano sbarchi non autorizzati dalla Calabria.

Il numero degli operatori sanitari contagiati è salito a 4.824, il doppio rispetto alla Cina.

I contagi nel mondo sono saliti a 375.000 casi, con 16.000 vittime (10.000 solo in Europa) e più di 12.000 ricoverati in condizioni critiche. In Italia la curva dei nuovi contagi segna un valore in riduzione per il secondo giorno di fila, con 50.418 casi attivi e 63.927 totali, ma rimandiamo ai prossimi giorni ulteriori considerazioni sulla curva. Intanto la provincia di Milano sembra aver frenato, ma le regioni del Sud stanno per diventare le osservate speciali per capire come evolverà la crisi.

In serata il premier britannico Johnson ha completato la svolta a U cominciata lunedì scorso e ha annunciato severe misure di contenimento, confrontabili con quelle adottate in Italia: chiusura degli esercizi commerciali non essenziali, forti restrizioni negli spostamenti, chiusura di biblioteche, parchi giochi e luoghi di culto, sospensione di battesimi e matrimoni. Prove tecniche di lockdown. La polizia avrà il potere di disperdere assembramenti e comminare multe anche molto salate. E il tutto durerà non meno di tre settimane. Ci sono volute più di trecento vittime per far cambiare idea a Johnson e ai suoi. È un duro bagno di realtà per chi aveva vaneggiato sul lasciar fare all’epidemia il suo corso.

Théodore Géricault, La zattera della Medusa (Louvre, 1819).

A mali estremi, misure estreme. Era inevitabile che prima o poi qualcuno si assumesse la responsabilità di far chiudere tutte le attività non essenziali in questo periodo di emergenza. Mettere il motore del paese al minimo, come ha detto il Presidente del Consiglio nel suo discorso alla nazione in diretta Facebook… la notte scorsa.

Alla fine, siccome i singoli datori di lavoro e le autorità regionali non si sono saputi far carico della responsabilità a cui erano chiamati, se non in pochi casi, al punto da tenere in produzione la gran parte delle attività localizzate in Lombardia, la decisione con relativo annuncio annesso è arrivata direttamente dallo Stato centrale.

Era facilmente prevedibile, dato che la notizia già circolava da giovedì-venerdì, eppure ancora una volta la forma della comunicazione ha lasciato ampiamente a desiderare. Proprio come nelle occasioni precedenti (in cui di volta in volta fughe di notizie e ritardi comunicativi hanno contribuito a creare un clima di attesa snervante, risolvendosi poi nelle ben note partenze tutt’altro che intelligenti dalle regioni del Nord per portare nel resto del paese il contagio di focolai che potevano essere facilmente tenuti sotto controllo), anche stavolta le recidive strategie comunicative del governo e in particolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri sono state incomprensibili, scriteriate e in definitiva ingiustificabili, tanto più alla luce della criticità della situazione che ha condotto all’adozione delle misure che bisognava annunciare.

La diretta Facebook annunciata per le 22.45 e iniziata con quasi un’ora di ritardo è un canale non commisurato alla gravità delle circostanze. Una scelta in linea con la progressiva inutilità informativa assunta dalla conferenza stampa giornaliera della Protezione Civile, una liturgia ormai fine a se stessa di cui un po’ tutti, per varie ragioni, abbiamo avuto modo di lamentarci negli ultimi giorni.

L’avvocato del popolo Giuseppe Conte che si rivolge alla webcam leggendo il discorsetto preparato con i suoi collaboratori, non esattamente quelli che si definirebbero uomini e donne provvisti di un qualche senso dello Stato, somiglia sempre di più a un eggregora o un tulpa, una proiezione mentale della compagine di governo evocata all’occorrenza per battersi contro la minaccia metafisica di un nemico invisibile e sfuggente come un virus.

E il racconto mediatico delle misure contenitive disposte per arginare la diffusione dell’epidemia è sempre di più a questo che assomiglia, con gli stucchevoli dibattiti sul jogging e le chiusure dei supermercati e gli interventi di opinionisti senza la minima competenza in materia richiesta da un tema tanto delicato.

Sappiamo che si sta combattendo una guerra, che siamo nel vivo di un’emergenza sanitaria senza precedenti, ma finché qualcuno non ci impone un giro di vite a danno dei nostri diritti è come se quella guerra questa emergenza fosse confinata in un qualche piano astrale. E invece è una guerra un’emergenza che ci riguarda tutti, anche se molti fanno ancora fatica a capirlo, la nostra classe dirigente non diversamente da tutti gli altri.

Edit 13:30. La retorica bellica francamente ci ha saturati. Scusate se ci sono cascato a mia volta.

Ha senso continuare a registrare i numeri, inserirli nei nostri modelli statistici per calcolare regressioni ed estrapolare tendenze future? Oggi in Italia abbiamo superato i 50mila casi (53.578 per l’esattezza, 6.557 più di ieri), con 42.681 casi attivi documentati (+4.821), tra isolamento domiciliare (22.116) e più di 20mila ricoverati in ospedale, di cui 2.857 in terapia intensiva.

La provincia più colpita continua a essere Bergamo, ormai quasi a 6mila casi, ma la crescita di Milano città (a 1.829 casi) e provincia (a 4.672) comincia a destare preoccupazione. Se non dovessero esserci segnali di miglioramento entro i prossimi giorni, qualcuno – su entrambi i versanti dello schieramento politico – dovrebbe avere la decenza di scusarsi con i cittadini lombardi e italiani per il messaggio deleterio inviato con le varie iniziative collegate all’hashtag #milanononsiferma.

I test effettuati sono stati 233.222, con un tasso di positivi pari al 23%, a riprova del fatto che l’adozione delle linee guida ministeriali ha portato a test estremamente mirati: per confronto, consideriamo che in Corea del Sud sono stati effettuati oltre 300.000 test con un tasso di positività inferiore al 3%. E le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità vanno proprio in quella direzione. L’Italia, in altre parole, avrebbe dovuto testare a questo punto più di un milione e mezzo di persone.

Nel mondo i casi hanno superato quota 300.000: un contagio documentato su sei è stato contratto in Italia, ma il tasso di crescita negli Stati Uniti è se possibile ancor più preoccupante che da noi, continuando a raddoppiare ogni due giorni.

Al momento attuale, non possiamo dire molto di vagamente sensato né su quando avremo il picco in Italia né su quando potremo ritenere di essere pronti a tornare alla vita di prima, in Italia e nel mondo. Viviamo a tutti gli effetti in una zona morta: non più una dimensione simbolica e filosofico-morale, ma una condizione umana in cui qualsiasi tentativo di estrapolazione e proiezione verso l’orizzonte del futuro è letteralmente azzerata.

Tuttavia la tendenza che registravamo ieri è proseguita anche oggi: la percentuale di ricoverati ICU rispetto al totale dei casi positivi in corso è scesa sotto il 7%. Appare un po’ meno sicuro il dato sulla percentuale di saturazione, ma secondo il consueto situation report di Intelworks dovremmo essere al 46,5% dei 6.141 posti totali a cui si è giunti nel frattempo. Come potete vedere dallo spaccato regionale, la situazione è già al limite della sostenibilità oltre che in Lombardia in almeno altre quattro regioni, tutte già potenziate o in corso di potenziamento.

Probabilmente la prima cosa che ci converrà guardare d’ora in avanti saranno proprio questi indicatori: i posti ICU disponibili, il numero di ricoverati ICU e il relativo tasso di saturazione per regione. Se lo scenario più conservativo tra quelli oggi plausibili prevede un picco di massima diffusione di più di 80mila casi contemporaneamente attivi (circa il doppio di quelli che abbiamo oggi), significa anche che l’originario piano di potenziamento delle terapie intensive disposto dal Ministero della Salute dovrà essere adeguato, aggiungendo almeno 3-4mila posti ai 7.635 finali che ancora si prevedono: questo implica non solo un numero maggiore di macchinari per la ventilazione assistita, ma anche più personale medico e infermieristico, anche per compensare il personale che inevitabilmente finisce per contrarre il virus (ad oggi, più di duemila).

Senza questi 10-12mila posti ICU (il doppio di quelli fin qui disponibili), le vittime potrebbero diventare migliaia al giorno per molti giorni, qualcosa che nessuno si augura di dover mai commentare.

20 marzo 2020, equinozio di primavera. Un’altra giornata nera per l’Italia.

Il totale dei casi registrati sale a 47.021 (5.986 più di ieri). Deceduti: 4.032 (+627), tasso grezzo di letalità: 8,6%Guariti: 5.138 (+698).

Totale casi attivi: 37.851 (+4.670). Ricoverati in terapia intensiva: 2.655 (+157), corrispondenti al 7% sul totale dei casi attuali. Tasso di saturazione stimato dei posti letto in terapia intensiva: 45%.

Guardando i dati diffusi dalla Protezione Civile ci accorgiamo che il numero dei ricoverati in terapia intensiva non sta crescendo con la stessa rapidità dei casi positivi in corso: lo scollamento non è fluttuante ma mostra un progressivo aumento da una decina di giorni a questa parte.

Nell’immagine seguente lo scostamento è più evidente, ed è rappresentato da quello scalino tra l’andamento attuale dei ricoveri in ICU (intensive care unit) e quello stimato al tasso delle prime due settimane della crisi (mediamente intorno al 10% del numero dei casi attivi): rispettivamente la linea rosso/arancio e quella blu elettrico con gli indicatori.

Naturalmente il numero dei ricoveri in terapia intensiva non può superare la capienza dei reparti (linea rossa spezzata, già comprensiva del piano di rafforzamento disposto dal Ministero della Salute), anzi non vi si può nemmeno avvicinare: si stima che a regime un terzo circa dei posti totali non siano destinabili a trattamenti per il COVID-19, e quindi l’andamento attuale sembra piuttosto un effetto del progressivo assorbimento della richiesta crescente di ICU nelle regioni più colpite (in particolare la Lombardia, dove da diversi giorni decine di contagiati bisognosi di cure vengono trasferiti in strutture in altre regioni).

Essendo giunti a questo punto e con un tasso di contagi accertati compatibile con un livello di massima diffusione del COVID-19 (picco dei casi attivi) di più di 80mila casi, più del doppio delle cifre su cui ragionavamo solo all’inizio di questa settimana (non ero il solo), gli scenari si fanno decisamente cupi. Per di più stiamo cercando di fare previsioni ragionando su cifre fortemente condizionate dal bias delle procedure ministeriali (secondo cui andavano testati solo soggetti con sintomi che avessero avuto un link epidemiologico chiaro con i focolai o con altri contagiati): quello che sta succedendo oggi è l’effetto di una situazione solo in parte sotto controllo due-tre settimane fa e che nel frattempo ha avuto modo di evolvere secondo dinamiche caotiche. E nel frattempo continuiamo a fare molti meno tamponi di quanto l’Organizzazione Mondiale della Sanità suggerisce di fare.

Così più passano i giorni più aumenta la distanza tra lo stato dei fatti e la rappresentazione che ne possiamo dare. Come dicevamo anche ieri, ormai i dati della Lombardia sono legati solo in parte alla reale entità del contagio. Un ottimo articolo in merito è apparso proprio oggi, nemmeno a dirlo, sul Post.

E sempre dal Post apprendiamo che i 466 casi attualmente positivi in Puglia avrebbero avuto tutti contatti nelle settimane scorse con persone arrivate dalle regioni del Nord Italia. Un’altra cittadina è stata chiusa dopo i casi in Campania: questa volta è toccata a Fondi, in provincia di Latina, mentre un uomo risultato positivo al tampone dopo il decesso del padre è fuggito da un ospedale della Val Brembana e ha fatto perdere le sue tracce: carabinieri, vigili del fuoco e soccorso alpino sono impegnati nelle ricerche.

Tornando all’epicentro della crisi epidemica in Lombardia, alle ipotesi iniziali della scorsa settimana sul trigger che avrebbe accelerato la diffusione del coronavirus si sono continuati ad aggiungere ulteriori dettagli. Una combinazione letale di negligenza e superficialità ha piazzato una bomba a orologeria sotto i piedi di un’intera comunità. Anteporre il fatturato delle aziende alla salute dei lavoratori e delle loro famiglie ha fatto il resto.

19 marzo 2020. La sinistra contabilità del contagio è sempre più impietosa.

Totale dei casi registrati: 41.035 (con 5.322 nuovi casi). Deceduti: 3.405 (+427), tasso grezzo di letalità: 8,3%Guariti: 4.440 (+415).

Totale casi attivi: 33.190 (+4.480). Ricoverati in terapia intensiva: 2.498 (+241), corrispondenti all’8% sul totale dei casi attuali. Tasso di saturazione stimato dei posti letto in terapia intensiva: 42%, grazie all’incremento dei posti disponibili da 5.293 a 5.951.

(C) Il Sole 24 Ore.

Ogni giorno va peggio.

Ancora una volta la Lombardia ha fatto segnare un salto in avanti nel conteggio dei casi e delle vittime: sono quasi 20mila i contagi accertati e più di duemila i decessi. Ma gli esperti suggeriscono di non guardare più i numeri della regione, che avrebbero perso significato per via sia della sottovalutazione iniziale dei casi (si parla di ben un ordine di grandezza) che dell’attuale stato di stress del sistema sanitario lombardo (il numero dei decessi sarebbe più alto di quanto fornito dalle stime ufficiali).

La foto che forse immortala questa fase della pandemia ha fatto nelle ultime ore il giro del mondo: rappresenta una colonna di mezzi militari che attraversa le strade di Bergamo per trasportare i feretri dei defunti che non possono più essere cremati nel cimitero cittadino: verranno cremati in altre città della regione e delle province limitrofe e faranno poi ritorno nel capoluogo orobico.

(C) ANSA.

Cosa abbia trasformato Bergamo nella capitale italiana dell’epidemia è ancora ignoto, ma iniziano a circolare alcune ipotesi e testimonianze. L’auspicio è che davvero nelle province più colpite di Bergamo, Brescia e Cremona il picco sia vicino, e che Milano non raggiunga i loro livelli di diffusione. A questo proposito ha fatto molto discutere nei giorni scorsi la notizia del tracciamento degli spostamenti operati sui residenti lombardi, che rivelerebbe un calo di circa il 60%, ritenuto insufficiente a rendere efficaci le misure restrittive disposte dal governo. Si parla già di un’estensione delle disposizioni straordinarie oltre i termini iniziali (25 marzo per le attività commerciali, 3 aprile per scuole, università e spostamenti) e di un giro di vite contro i trasgressori.

Ma nel disagio non dobbiamo dimenticare l’impatto che le misure di distanziamento sociale dello stato di emergenza in corso stanno avendo, come sempre, inevitabilmente, sulla vita (e sulla qualità della vita) di malati e disabili, senzatetto, migranti. La prossima volta che ci verrà voglia di lamentarci, facciamo lo sforzo di pensare all’effetto che le misure di contenimento del coronavirus stanno avendo sulla loro condizione. E proviamo a non dimenticarci di loro.

Italia, 17 marzo 2020. 27simo giorno dal primo contagio registrato di coronavirus all’interno del territorio nazionale. Ottavo giorno dalla trasformazione del paese in un’unica, grande Zona Rossa.

Totale dei casi registrati: 31.506 (+3.526). Deceduti: 2.503 (+345), tasso grezzo di letalità: 7,9%. Guariti: 2.941 (+192).

Totale casi attivi: 26.062 (+2.989). Ricoverati in terapia intensiva: 2.060 (+209), corrispondenti al 7,9% sul totale dei casi attuali.

Ieri un uomo fuori forma è stato sorpreso a passeggio in una strada del centro di Roma. Malgrado le restrizioni, lo stato di emergenza, le disposizioni di distanziamento sociale e le sanzioni previste per chiunque le violi. Un uomo con la sua fidanzata. Scortati.

L’uomo fuori forma è lo stesso che sette mesi fa si aggirava in tournée per le spiagge italiane, invocando i pieni poteri. I cittadini italiani glieli avrebbero concessi, a suo dire. Il popolo italiano era con lui, contro l’invasione dei migranti, contro l’Europa matrigna, contro i burocrati. Con lui, l’uomo comune, l’uomo comune che ama la bella vita, come ogni italiano che si rispetti, la Nutella, il buon cibo quando se lo può permettere altrimenti va bene anche il cibo di merda, il vino, il calcio (e il tifo ultrà e gli spacciatori delle curve). Un uomo come tanti, che come ogni italiano che si rispetti ama le soluzioni semplici, perché questo vogliono le menti semplici. E pazienza che il mondo sia invece complesso, richieda letture complesse e troppo spesso fallibili… i professoroni si mettano l’anima in pace, hanno studiato tanto ma per niente, questo mondo non appartiene a loro ma alla gente comune, che lo sottomette e piega alla propria volontà e al proprio gusto, perché è questo che evidentemente gli hanno insegnato decenni di dieta a base di ottima melassa televisiva.

L’uomo passeggiava per le strade di una Roma in stato di quarantena, con la sua scorta e la sua fidanzata, mano nella mano (con la fidanzata, non con la scorta, per quanto… ma non divaghiamo). E un pensiero mi ha attraversato la testa. per l’ennesima volta negli ultimi otto giorni, da quando questo stato di emergenza è cominciato, da quando sessanta milioni di italiani sono in stato di isolamento forzato, costretti nei loro domicili, al più con il permesso di spostarsi per comprovate esigenze lavorative o per situazioni di necessità o per motivi di salute. Tutte valide ragioni, come andare a prendere una boccata d’aria con la scorta e la fidanzata, benché i moduli delle autocertificazioni del governo non prevedano quest’ultimo caso. Era un pensiero un po’ perverso, come capita alle menti costrette all’inazione. Un pensiero accompagnato da un lungo brivido.

Il pensiero che quell’uomo che se ne andava a spasso per la capitale, mano nella mano con la sua fidanzata e la sua scorta (non necessariamente in quest’ordine… ma lasciamo stare), se sette mesi fa non avesse deciso di giocare un all in su una puntata perdente, oggi sarebbe stato pienamente titolato a disporre nello stato di emergenza misure restrittive che si addicono a uno stato di polizia, nelle cui maglie sarebbe stato facile trarre i presunti nemici della nazione, del popolo italiano, del cuore immacolato di maria. E con qualche minima estensione interpretativa, senza nemmeno il bisogno di approvare modifiche al decreto, instaurare un regime del terrore in cui un qualunque buzzurro legittimato dal consenso popolare o dalla sua divisa avrebbe potuto citofonare alla casa di un privato cittadino e autoinvitarsi nel suo domicilio per inquisirlo: lei spaccia? nasconde pacchi di carta igienica? colleziona boccette di amuchina?

Un sogno bagnato per ogni caudillo. L’estasi per il piccolo sceriffo che alberga dentro ogni fascista.

Per fortuna, la storia è andata diversamente. E per questo, quando mi viene da incupirmi per il clima distopico di questi giorni, mi basta ripensare a quell’uomo piccolo piccolo, ma non mentre passeggia per Roma, ma quando in piena sbornia da consensi, nel bel mezzo dell’estate, forse per un mancino colpo di sole o solo per uno scherzo del destino, si piantò la zappa sui piedi dall’alto del suo 30% di supposta – nel senso di presunta, non fraintendete – egemonia elettorale. Un uomo piccolo piccolo, che si è fatto fuori con le sue mani, risparmiandoci dolori e sofferenze ancora più grandi dei sacrifici a cui siamo chiamati.

Ed è così che mi convinco che ce la faremo. Perché questa non è una tragedia, il tempo delle tragedie è trascorso. La storia italiana è ormai ben avviata sulla strada della farsa e del grottesco. Un’eterna tragicommedia dalle fiacche risate, ma pur sempre inconciliabile con la fine di tutte le cose.

State allegri. Il peggio forse non è ancora passato. Ma se non altro non siamo nemmeno ancora fottuti.

La dashboard dell’osservatorio globale sulla diffusione della sindrome da COVID-19 del Center for Systems Science and Engineering (CSSE) della John Hopkins University oggi si presentava cosi:

Il conto dei casi totali per la prima volta ha doppiato la Cina: 178.508 nel mondo contro gli 81.032 delle province cinesi. L’Italia, ormai stabilmente al secondo posto, ha raggiunto 27.980 contagi e superato la soglia di un terzo dei casi registrati in Cina. Se pensate che due settimane avevamo 2.500 casi, meno del dieci per cento dei casi attuali, mentre la Cina aveva appena oltrepassato la soglia allora per noi remota degli 80.000 contagi, vi renderete conto di due cose: come funziona una crescita esponenziale, che per sua natura riesce a stravolgere la prospettiva nel volgere di breve tempo, sovvertendo la linearità dei fenomeni per noi più intuitivi; e come le misure di distanziamento sociale possano riuscire a flettere la curva di espansione del virus mutando la crescita esponenziale in una funzione sigmoidale, mandandola a stabilizzarsi verso un asintoto orizzontale (è tutto illustrato con delle utili dimostrazioni pratiche in questo illuminante articolo del Washington Post). Quell’asintoto è il tetto della crescita, il coperchio sulla padella di olio infiammato che soffoca l’esplosione del fuoco prima che sia troppo tardi: in Cina ha funzionato, Italia e Spagna stanno provando a farla funzionare.

Il governo di Madrid, che ha schierato l’esercito per presidiare le stazioni ferroviarie nelle principali città e ha autorizzato la polizia a servirsi di droni per sorvegliare gli spostamenti dei cittadini, si appresta a chiudere le frontiere e a disporre un’estensione delle misure restrittive oltre i 15 giorni originariamente previsti. Anche la Svizzera si è decisa a dichiarare lo stato d’emergenza, che durerà più di un mese, fino al 19 aprile. La Francia ha rinviato a giugno il secondo turno delle comunali, mentre la Germania ha varato misure straordinarie per fronteggiare la crisi.

Il primo ministro britannico Boris Johnson, che appena quattro giorni fa annunciava al Regno Unito il piano del suo governo di non arginare la diffusione del contagio, è tornato sui suoi passi e ha invitato i cittadini a evitare i contatti e i viaggi non essenziali. Il Foreign Office ha alzato il livello di rischio dopo che i dati accertati sulla diffusione del coronavirus hanno toccato stamattina i 1.543 casi. Ieri il Guardian aveva diffuso un rapporto della Public Health England, organismo esecutivo del ministero della Salute britannico, secondo cui la diffusione del contagio in assenza di misure di contenimento raggiungerebbe l’80% dei residenti nel Regno Unito entro la primavera del 2021, causando quasi 8 milioni di ricoveri e almeno 318mila decessi. La stima si basa sull’ipotesi che il tasso di mortalità del COVID-19 si attesti intorno allo 0,6%, ma i dati italiani sono attualmente bene dieci volte più alti (qui ci sono alcune ipotesi sul perché). Per proteggere gli ultrasettantenni, si prevede adesso un isolamento forzato fino a quattro mesi.

L’idea dell’immunità di gregge che ispira l’inazione del governo britannico e dei suoi consiglieri non ha ancora trovato conferma negli studi. Per avere una panoramica delle cose che ancora non conosciamo del coronavirus, vi consiglio di leggere questo ottimo articolo del Post. L’impatto di una strategia passiva rischia di provocare milioni di morti, risolvendosi in una catastrofe sociale.

Intanto, oltreoceano, il governatore dello Stato di New York Bill De Blasio ha chiuso le scuole almeno fino al 20 aprile, ma con la prospettiva che possano non riaprire fino a giugno. Il governatore della California Gavin Newson ha invece chiuso tutti i bar, i ristoranti, i pub e i nightclub dello stato.

E qui da noi? Dopo il giorno con il più alto numero di vittime, in Italia oggi i decessi sono stati 349, di cui 202 solo in Lombardia: i morti salgono a 2.158, 1.420 nelle province lombarde. Lombardia e Marche hanno quasi saturato la capienza delle loro strutture sanitarie, ma a Milano dovrebbe entrare in funzione entro due settimane un nuovo padiglione per cure intensive all’Ospedale San Raffaele. Il totale dei casi attualmente positivi è 23.073, di cui 1.851 ricoverati in reparti di terapia intensiva, con un tasso di occupazione del 35% dei posti allestiti: sono circa 200 posti in meno di quanto prevedeva il nostro scenario E, che a questo punto stimava un tasso di saturazione di circa il 40%.

Ma c’è un’altra buona notizia: l’andamento dei contagi pare stia uscendo dall’inviluppo tra le curve degli scenari C e D, che delineavano gli orizzonti peggiori.

Dai totali giornalieri mancano i dati di Puglia e provincia di Trento, ma estrapolando le tendenze degli ultimi giorni difficilmente la loro somma supererà alcune centinaia di casi, che andrebbero sommati ai 3.233 comunicati dal bollettino della Protezione Civile (rispetto ai 3.497 di sabato e ai 3.590 di ieri). Sicuramente è presto per cantare vittoria, ma forse tra qualche giorno, riguardando indietro, riusciremo a distinguere nitidamente la cresta dell’onda che ci auguriamo di stare cavalcando proprio in queste ore.

Intanto non dobbiamo abbassare la guardia, o i sacrifici sostenuti finora finirebbero vanificati. Come dimostrano i casi esemplari dei comuni messi in isolamento nelle province campane di Avellino e Salerno:

Intanto negli ultimi giorni diversi comuni italiani sono stati messi in quarantena in seguito alla rilevazione di molti casi di contagio, con il divieto per chiunque di entrare o uscire.

Il primo comune a subire questa misura è stato quello di Ariano Irpino (provincia di Avellino), dove nei giorni scorsi erano risultati 21 casi (quando in tutta l’Irpinia sono stati 37). Sono stati poi messi in quarantena altri quattro comuni campani, tutti nella provincia di Salerno: Sala Consilina, Atena Lucana, Polla e Caggiano. Secondo il presidente della Campania, Vincenzo De Luca, i contagi sarebbero tutti legati a un ritiro spirituale di una comunità di neocatecumenali avvenuto in un hotel di Atena Lucana il 28 e 29 febbraio, in cui i partecipanti avrebbero partecipato a un rito religioso bevendo tutti dallo stesso calice.

(dal Post)

Al quarto giorno dalla decisione della World Health Organization di attribuire all’infezione da COVID-19 lo status di pandemia, l’Europa continentale è un arcipelago di zone rosse. Con misure ancora una volta scoordinate (la Germania che chiude le frontiere ai vicini come pochi giorni fa aveva fatto la Polonia; Spagna, Austria e Repubblica Ceca che adottano misure analoghe all’Italia; la Francia che chiude scuole e università ma manda i suoi cittadini a votare per la tornata delle comunali, a cui già si annuncia un tasso di astensione record, oltre il 50%, che induce il governo a riconsiderare l’opportunità di sospendere il secondo turno previsto per domenica prossima), ma almeno il contagio non è più preso sottogamba: anche perché le proporzioni che sta assumendo altrove, come per esempio in Spagna, sono del tutto raffrontabili con quelle che il fenomeno ha raggiunto in Italia.

In USA il presidente Donald Trump ha addirittura accettato di sottoporsi al tampone, risultato negativo (per quello che vale il comunicato della Casa Bianca). Sua figlia Ivanka da ieri è in isolamento volontario dopo essere stata a contatto nei giorni scorsi con un ministro australiano che nel frattempo è risultato positivo al test. La Cina cerca di far ripartire la sua economia, ma sarà dura recuperare ai livelli pre-crisi.

Il bollettino odierno della Protezione Civile registra 3.590 nuovi casi in Italia, che portano il totale a 24.747, di cui 20.603 attualmente positivi. Questi dati sono in linea con la sigmoide dello scenario E che esaminavamo ieri e questo in qualche modo ci conforta. Tuttavia, esaminando lo spaccato dei dati, ci rendiamo conto di due cose:

  • I guariti sono complessivamente 2.335, ma il numero dei decessi è salito a 1.809, con 368 nuovi morti che rappresentano il nuovo triste record dall’inizio della crisi, e questo purtroppo riporta il tasso grezzo di letalità oltre il 7% dopo l’illusorio ribasso di ieri. Per raffronto, consideriamo che in Cina, la cui situazione è stata rappresentata e continua a essere raccontata come pre-apocalittica, il numero totale dei morti è ad oggi di 3.199, con un tasso inferiore al 4%. In tutti gli scenari che esaminavamo ieri consideravamo un progressivo riallineamento del tasso di mortalità a quello medio degli altri paesi, ma al momento questo obiettivo appare allontanarsi.

  • I ricoveri in terapia intensiva sono 1.672 (il rombo blu visibile nel grafico sottostante), leggermente inferiori rispetto alla curva verde che vedevamo ieri, e questo forse anche per effetto (ipotesi mia, ma da approfondire) della progressiva saturazione che si va profilando nella regione più colpita: la Lombardia, che conta la metà degli oltre 20mila casi attivi in Italia, è infatti arrivata al 90% della capienza delle sue strutture. In queste condizioni l’aumento della mortalità è un dazio amaro da pagare. Dobbiamo confidare soprattutto nel tasso di guarigione dei ricoverati, che vengono man mano sottoposti a cure meno intensive con il decorso positivo della malattia, e nel contenimento del contagio nelle regioni limitrofe, perché si trovino i posti necessari per far fronte alla domanda dei prossimi giorni.

Approfittando del fine settimana, abbiamo cominciato a guardare The Outsider, serie HBO tratta dal romanzo di Stephen King, che ci ha preso abbastanza da mettere per il momento in stand-by sia la seconda stagione di Altered Carbon che la terza di Mr. Robot. Restano in coda di visione Yellowstone e Mindhunter. Chi è a casa e vuole un consiglio, ne tenga conto. Chi deve affrontare i prossimi giorni in autoisolamento domestico, può prendere inoltre in considerazione altri recuperi, tra cui la seconda stagione di Westworld visto l’imminente arrivo della terza (magari anche due visioni, vista la complessità della sua struttura temporale), oppure due miniserie targate anch’esse HBO come Save me e – per restare in qualche modo in tema – Chernobyl.

Libri in lettura: I marziani di Kim Stanley Robinson, antologia di racconti riconducibili al suo vasto affresco planetario, una delle costruzioni più ambiziose di tutta la fantascienza (e non solo).

Nel rapportare le traiettorie che rappresentano la diffusione di COVID-19 nei diversi paesi, due cose colpiscono: la prima è che l’Italia rimane ancora distante dalla stabilizzazione della Corea del Sud, che anzi nel giro di una settimana abbiamo praticamente triplicato; la seconda è che qualitativamente gli altri paesi occidentali stanno seguendo le orme dell’Italia. Francia e Germania (rispettivamente con 4.480 e 4.515 casi) sono dov’eravamo noi intorno alla metà della settimana scorsa, la Spagna con 6.315 casi è dov’eravamo noi lo scorso fine settimana.

Non sorprendono quindi le misure restrittive che stanno progressivamente adottando i rispettivi governi, nemmeno in Francia, dove fino a pochi giorni fa illustri esponenti del governo sbandieravano cautela e puntavano altezzosamente il dito verso i cugini transalpini, cioè noi.

La situazione dell’Italia continua a destare preoccupazione. I nuovi casi registrati nella giornata odierna sono stati 3.497, che hanno portato il totale complessivo a 21.157. Per intenderci: siamo a circa un quarto delle proporzioni raggiunte dalla Cina. I casi attualmente positivi sono 17.750, di cui 1.518 ricoverati in terapia intensiva. Anche considerando l’aumento della capienza dei posti a 5.293, la pressione sul sistema sanitario pubblico sfiora il 30%.

Il ministero della Salute ha già disposto l’aumento dei posti in terapia intensiva a 6.200 unità entro la fine del mese, per poi salire ulteriormente a circa 7.500 posti nel mese successivo. In media un paziente positivo al coronavirus su dieci richiede cure mediche che necessitano un ricovero in terapia intensiva (ICU), con tempi di permanenza nell’ordine dei 30 giorni (circa il doppio della media dei ricoveri in terapia intensiva). Inoltre, stando ai dati del Prontuario statistico nazionale, il tasso annuo medio di occupazione dei 5.090 posti letto che costituiscono la base del servizio del nostro paese è pari al 48,4%, il che ci porta a stimare una media di 2.465 posti da prevedere per la somministrazione di cure per casi non associati all’epidemia da coronavirus, il che significa che già oggi una richiesta di poco più di 2.800 posti, corrispondente al 53,4% della capacità ICU del Sistema Sanitario Nazionale italiano, potrebbe comportare seri problemi.

Per questo adesso più che mai è fondamentale capire a che punto della curva di contagio ci troviamo.

Se esaminiamo i dati della prima fase della diffusione dell’epidemia da COVID-19 in Italia, l’andamento dei casi sembra compatibile con un picco imminente. Nel grafico sottostante, la scala della curva a campana dei nuovi casi è sull’asse verticale secondario (a sinistra) e stima un picco grosso modo dove siamo arrivati oggi.

In questo scenario E, la curva dei guariti replica qualitativamente l’andamento delle guarigioni nel precedente cinese: di fatto, abbiamo un ritardo di circa un mese a separare il picco dei contagi dal picco delle guarigioni. Se sia o meno corretto, lo capiremo già da domani o al più tardi da lunedì prossimo, ma in questo scenario la pressione sulle strutture ospedaliere sarebbe gestibile, perché il carico massimo arriverebbe verso fine marzo, quando potrebbero già iniziare a essere operative le prime nuove unità di terapia intensiva in fase di preparazione, consegna e allestimento.

Ma cosa accadrebbe se lo scenario sopra descritto non fosse quello a cui stiamo andando effettivamente incontro? Due delle curve che approssimano meglio il trend attuale, sono la crescita esponenziale con base 1,2 (ogni giorno i casi totali sono il 20% in più del giorno prima, scenario C) e una quasi cubica (in potenza 2,85, scenario D). Come si può vedere dal grafico qui in basso, negli ultimi giorni i casi hanno seguito abbastanza fedelmente l’andamento del caso C:

Ipotizzando che sia lo scenario C che lo scenario D raggiungano il picco di contagi intorno alla metà della settimana prossima (per la serie: facciamoci un regalo per la festa del papà), assumendo un tasso invariato di trattamenti in terapia intensiva rispetto a quello attuale (pari al 9% dei casi attivi in circolazione), l’andamento dei ricoveri in terapia intensiva assumerà nei tre scenari presi in considerazione le forme seguenti:

A parte lo scenario E, nessuno degli altri è anche lontanamente sostenibile. Vale la pena ricordare che nel momento in cui scrivo, la situazione negli ospedali italiani (tratta dal solito situation report) è la seguente, con alcune regioni (come Lombardia e Marche) ormai quasi ai limiti della loro capienza:

Inoltre i motivi per avere fiducia nello scenario E sono purtroppo indeboliti dalle ricorrenti notizie di fughe dalle regioni del Nord Italia, con migliaia di cittadini che negli ultimi due fine settimana hanno fatto ritorno nelle regioni del Centro-Sud (Lazio e Puglia in primis) e nelle Isole. Nell’ultima settimana i casi sono quadruplicati in Lazio e Puglia e triplicati in Sicilia. Se anche il picco dovesse arrivare nel giro di questo fine settimana o dell’inizio della prossima, non è detto che questo scongiurerebbe ulteriori picchi futuri legati al mancato contenimento del virus nelle regioni centro-meridionali.

 

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Mi chiamo Giovanni De Matteo, per gli amici X. Nel 2004 sono stato tra gli iniziatori del connettivismo. Leggo e guardo quel che posso, e se riesco poi ne scrivo. Mi occupo soprattutto di fantascienza e generi contigui. Mi piace sondare il futuro attraverso le lenti della scienza e della tecnologia.
Il mio ultimo romanzo è Karma City Blues.

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