I miei sogni, da molto tempo a questa parte, deviano raramente verso la dimensione dell’incubo. Anche quando ero più giovane, i «brutti sogni» occupavano una porzione piuttosto marginale, direi quasi occasionale, della mia esperienza onirica. Potrei contare sulle dita di una, al massimo due mani gli incubi di cui ho memoria, e quello più vecchio di tutti, che a differenza degli altri si è anche ripresentato nel corso del tempo al punto da poter aspirare allo status di «incubo ricorrente», ha a che vedere con l’acqua.

Il primo ricordo che ne ho risale a quando avevo sei o sette anni e all’epoca lo associai alle immagini di un film che dovevo aver visto sul vecchio televisore a casa dei miei nonni. L’apparecchio era un Philips dei primi Anni ’80, da dieci o dodici canali, a sintonia rigorosamente manuale: si poteva cambiare canale tramite una pulsantiera situata accanto allo schermo, ma a parte le reti Rai e i tre canali del Caimano che si apprestava a fagocitare il paese, riusciva a catturare le frequenze solo di un paio di altre emittenti locali, assecondando i capricci della telediffusione dell’epoca.

Il tubo catodico illuminava fosfori scadenti, restituendo immagini che già di per sé sembravano recuperate dalle memorie di un cadavere, ma io ho da sempre il ricordo nitido e certo di questa piovosa e grigia mattina domenicale della mia infanzia in cui, forse per la prima volta, m’imbattei nella sequenza onirica ambientata in un abisso molto particolare che mi avrebbe accompagnato da lì in avanti.

Non si trattava di un abisso naturale, ma di qualcosa di molto più inquietante. Ci trovavamo infatti in una struttura sommersa di qualche tipo, come mi sarebbe capitato di ritrovare anni dopo tra le pagine di J. G. Ballard e che a un certo punto mi sarebbe sembrato di riconoscere nella sequenza iniziale di Inferno, il film di Dario Argento che in effetti sarebbe cronologicamente compatibile con la ricostruzione, ma che purtroppo presenta con i miei ricordi una sovrapposizione solo parziale. Infatti, nella sequenza perpetuata nei miei ricordi, a nuotare nelle profondità abissali di una costruzione sommersa erano un uomo e una donna, o per meglio dire un uomo alle prese con il vano tentativo di liberare la donna, disperatamente avvinta da catene. Anche se la memoria si attenua e si fa sempre più fallace, giurerei che la donna era sbucata da una cassa, forse una bara, ma il particolare che mi sembra ancora adesso maggiormente degno di nota è un altro: non erano corde ad avvolgere le sue membra, mentre i cui lunghi capelli si aprivano a ventaglio nelle profondità di questo abisso senza scampo, ma catene d’acciaio, e in effetti una logica irrazionale connotava tutta la sequenza.

Non riuscii mai a capire come fossero arrivati lì sotto quei due, o chi avesse incatenato e rinchiuso la donna nella cassa, né tantomeno come fosse finito sott’acqua quel palazzo, ma negli anni successivi mi sarebbe sembrato di cogliere echi e riflessi della sequenza in un numero imprecisato di opere, quasi sempre incompatibili, oltre che per i dettagli anche storicamente, con le circostanze del mio ricordo.

La visione di quella sequenza mi ipnotizzò ed ebbe un effetto quasi mesmerizzante sulla mia immaginazione di bambino. Credo che fu proprio questo il motivo per cui qualche adulto della mia famiglia, mia madre o forse mio padre, vedendomi tanto assorto e affascinato dalle immagini che si componevano sullo schermo a bassa risoluzione del Philips e temendo per gli incubi che avrebbero potuto istradarsi nella mia attività onirica notturna, si decisero a interrompere bruscamente la visione, spegnendo la TV o cambiando canale. Non sono in grado di dire se quella sequenza anticipò, quindi a tutti gli effetti ispirandoli, i miei incubi, o se al contrario furono i miei incubi a trovare una risonanza inattesa nelle immagini di quel film perduto di cui non sono mai riuscito a ricostruire la trama, il titolo e le caratteristiche di produzione, sempre che sia mai davvero esistito.

In anni recenti, mi è capitato però di tornare a quel sogno/incubo. L’ultima volta alcuni dettagli erano più chiari e facili da decodificare: mi trovavo in una specie di piattaforma petrolifera sprofondata nelle acque, e guardando verso la superficie riuscivo a riconoscere in controluce un carroponte e delle gru, verso cui mi sforzavo di risalire, ma ogni bracciata, ogni spinta, non riusciva ad accorciare la distanza che mi separava da loro. Alla fine mi abbandonavo al richiamo della gravità e sprofondavo lentamente verso la liquida e densa oscurità sottostante, con un senso di angoscia e sconfitta che si prolungava fino ai limiti estremi che mi erano consentiti dall’apnea.

Le ricostruzioni che mi è capitato di leggere sul tragico incidente occorso lo scorso 9 aprile presso la centrale idroelettrica di Bargi hanno indirizzato i miei pensieri in una spirale discendente proprio nella direzione di quel ricordo d’infanzia e del mio incubo più vecchio. La descrizione dell’impianto, con i dieci livelli articolati intorno a un pozzo verticale che scende fino a 54 metri sotto il livello del lago di Suviana e il carroponte in superficie usato per movimentare i carichi pesanti, ha chiuso il cortocircuito, riproiettandomi nella dimensione angosciante di quella sequenza perduta e del mio incubo più antico.

Forse è la più vivida rappresentazione di ciò che nel diario del Professor Morgan P. Carter, riportato integralmente in appendice al romanzo, presento come l’Interliminale, riprendendo una definizione che avevo già usato sul blog qualche anno fa:

In fondo, tutto il mio lavoro scaturisce da un sogno. E in particolare l’Interliminale stesso, la teorizzazione della dimensione cognitiva zero, è frutto di mie ampie e approfondite riflessioni sulla teoria del sogno. Fin dai miei primi articoli per la Psychological Review non ho fatto altro che interrogarmi sulle proprietà che diamo solitamente per scontate, ma che finiscono per risultare caratterizzanti della dinamica del sogno comune alla nostra esperienza. Ricordo per esempio le lunghe e accurate riflessioni, e le altrettanto lunghe e ben più accese discussioni con i colleghi, sull’assenza quasi totale di tecnologia elettronica dagli scenari onirici.
In fondo, posso far risalire proprio a questo i presupposti teorici dell’Interliminale, con quello che arrivai a definire – senza molto seguito, lo ammetto – il mio personale principio di esclusione: “il sogno filtra tecnologie oltre un certo stadio di complessità”. C’è sicuramente un retaggio biologico-evolutivo, come sostenevano la maggior parte dei mie colleghi, essendo opinione diffusa che il sogno sia una funzione sviluppata per preparare il soggetto alle insidie della veglia, fin dal tempo in cui il soggetto era solito dormire su un albero o in una caverna e la sua veglia consisteva in un ciclo di tentativi di sopravvivenza ai predatori, alle incursioni delle tribù rivali e a tutta una serie di minacce architettate dalla natura matrigna. Ma a mio modo di vedere c’era anche altro, e continua a esserci: una sorta di meccanismo di autoprotezione del sonno, per impedire – o per lo meno limitare – il possibile sconfinamento in dimensioni oniriche di livello inferiore. Questa sorta di censura onirica agirebbe come un firewall psichico, impedendo ai soggetti di introdurre tecnologie sufficientemente evolute nel contesto del sogno da riuscire a manometterlo arrivando, di fatto, a sabotarlo.
Questo nella mia formulazione più accessibile e accademicamente spendibile su una pubblicazione in peer review. Ma esiste poi una formulazione più ristretta e audace che ha trovato posto solo nei miei appunti dell’epoca e non ha mai visto la luce del dibattito pubblico. Se la mia sia stata prudenza o una forma di tacito pudore, non saprei dirlo. Ne faccio menzione qui perché il pensiero dell’Interliminale non ha potuto non richiamare anche questi miei vecchi pensieri dalla fossa del tempo in cui li avevo sepolti.
Questa seconda formulazione si domanda se tecnologia e sogno non siano in effetti due espressioni della stessa funzione: un tentativo, con mezzi diversi, di evasione dalla realtà fisica. E se così fosse, la dimensione cognitiva zero che assume la forma dell’Interliminale, non potrebbe esercitare una forma di attrazione psico-gravitazionale, cercando di riportare ogni coscienza abbastanza evoluta da essersi in parte sganciata – diciamo anche: parzialmente affrancata – dalla sua risonanza, in perfetta sintonia con la sua frequenza fondamentale?

Echi e immagini che si rincorrono. Eventi e ricordi che s’insinuano nell’immaginazione e che dall’immaginario entrano in risonanza con la realtà. Una prova plastica della permeabilità tra le dimensioni. L’ennesima testimonianza che nell’universo ogni cosa è connessa.

Le immagini che accompagnano l’articolo sono state generate con Copilot | DALL·E 3.

Come capita alle persone che le realizzano, vale anche per le loro opere la massima di John Donne. E quindi, è certo, nessun libro è un’isola. Rilancio: nessuna storia è un’isola. E men che meno una storia di fantascienza, il genere più autoreferenziale e permeabile di tutti, in grado di prestarsi a una serie infinita di ibridazioni e contaminazioni, già predisposto per innesti di corpi solo apparentemente estranei.

Le visioni fantascientifiche permeano il nostro immaginario e, allo stesso tempo, ogni opera di fantascienza assimila ciò che può dal mondo esterno: che siano le inquietudini del reale (la paura del futuro, l’angoscia del presente, o – perché no? – la nostalgia di un futuro possibile, la mancanza di un presente perduto) o le suggestioni dell’immaginario. Ogni cosa è parte di tutto e, parafrasando Thomas Pynchon, tutto è connesso.

Ricordi proibiti è un romanzo in dialogo con molte opere che lo hanno preceduto o che nel corso del tempo, per via della lunga opera di riscrittura che lo ha interessato, gli si sono affiancate. Influssi, ascendenze e parallelismi che è pressoché impossibile tracciare univocamente in una mappa esaustiva, ma i cui echi sicuramente risuonano nella testa dei lettori più attenti. E quindi, siccome ogni libro conversa non solo con altri libri e altre opere d’ingegno, ma anche con i suoi lettori – e guai se così non fosse – un po’ per divertimento, un po’ anche in segno di omaggio e rispetto per chi ha letto, sta leggendo o leggerà il mio libro, ho voluto riunire in questi due mosaici che trovate qui di seguito un po’ di locandine e copertine di opere che lo hanno ispirato e in qualche modo hanno trasferito i loro geni nel DNA di Ricordi proibiti.

Voi ne avete altri da segnalare?

Castello Aselmeyer, opera dell’architetto, ingegnere e utopista Lamont Young (foto da Napoli Turistica).

Cieli maestosi e impassibili dominano le conversioni di scenario, questi fulminei spostamenti nei territori mnemonici del Commissario. Istantanee accelerate come in un documentario incentrato sulla persistenza di certe situazioni ambientali, oppure in una sequenza di raccordo in qualche misconosciuto kino d’avanguardia. Cieli, nubi e orizzonti sono i mattoni del microcosmo psichico in cui lui ora si trova a vagare. E vede solo una mescolanza di istantanee ad alta risoluzione, un mosaico virtuale di esperienze vissute:
a. il cielo sopra il Distretto Corporativo, ingombro di nubi minacciose di pioggia, mentre sulla facciata dell’AKS Building la geisha della Neurozine ammicca, ingolla la sua dose di neurochimica compressa e invita lo spettatore della strada a imitarla;
b. il cielo dietro il Vesuvio, sudario pietoso disteso sulle ferite del cadavere squassato della Montagna;
c. il cielo sul porto, dello stesso colore del volto di un morto, saturo dei prodotti di scarto della raffinazione del petrolio (dall’ultima raffineria ancora in attività di tutta la penisola, reliquia di un’epoca obsoleta, monumento alla grandezza della Compagnia, che rivendica così la propria appartenenza alla schiera dei leviatani che controllano il sangue nero del mondo);
d. il cielo sopra Castel Sant’Elmo, una distesa placida e ingannevole di mercurio ribollente, pronto a riversare sulla città le sue lacrime ustionanti;
e. l’illusione di un cielo di tarda estate sui Campi Flegrei, che sembra infine promettere, dopo la canicola, il ristoro dell’autunno;
f. il cielo su Castel dell’Ovo e sull’isolotto di Megaride, dov’era venuta a morire Partenope, rifiutata da Ulisse, e dov’era stato confinato nel 476 Romolo Augustolo, l’ultimo imperatore romano d’Occidente, in seguito alla sua deposizione da parte di Odoacre;
g. il cielo sopra il Rione Venezia, che si riflette nelle acque dei suoi canali, generando l’effetto scenico di una città lagunare sospesa nel cielo;
h. il cielo sopra il Limbo, che non serba pietà per i vinti che vivono tra le macerie delle città dei morti, nei vuoti e nei labirinti disseminati per la Cintura e alle sue propaggini.
E le tessere del mosaico sono disposte talmente bene da donare l’impressione fugace di un dipinto surrealista, una composizione impossibile che supera il filtro critico del giudizio sensoriale. Finché non si dissolve nell’intimità di un appartamento di Chiaia e la vista che si contempla dalle finestre ogivali è l’affaccio che si potrebbe godere dalle stanze di Castello Aselmeyer, domicilio del Commissario, salvo che il Rione Venezia è stato cancellato dal panorama e Posillipo si affaccia nelle acque libere del Golfo.

Frammenti del transfert. Da Ricordi proibiti (Delos Digital, 2024).

Image Credit: Zdzisław Beksiński.

Sorgeva da tutte le cose del mondo. Dalle pagine ingiallite dei libri, dalle illustrazioni delle copertine, dalle decalcomanie 3D che campeggiavano sulle custodie degli HVD e degli olomemo, dai soprammobili scheggiati, mutilati e danneggiati da cadute dimenticate nel tempo, dalle pareti silenziose a cui avrebbero giovato una o due mani di pittura fresca, dalle riproduzioni di Paul Delvaux e Edward Hopper regalategli da Sara che lo fissavano dalle cornici appese alle pareti, dalle vecchie fotografie scolorite che spuntavano qui e là su mensole e ripiani. Pioveva dal cielo e scorreva lungo i cavi della rete elettrica, echeggiava nelle condotte dell’acqua e nelle vecchie tubature del gas. Danzava selvaggia nei canali di comunicazione, fluiva sui sentieri crittografati dell’etere.
Una musica aliena. Era dovunque: vibrava nel silenzio allo stesso modo in cui le fluttuazioni quantistiche agitavano il vuoto.
Nel sonno, mentre l’attività delle onde Theta scivolava progressivamente verso il limite dei 4 Hertz, oltre la soglia del sonno profondo, l’induttore-delta registrava nel ronzio neurale di fondo una serie di picchi improvvisi. Il dispositivo, una scatoletta cablata con il logo della REM Corporation, era il suo “sonnifero”, il suo nume ipnagogico. Le direttive registrate lungo le righe di codice dell’holoware contenevano tutto il necessario per guidarlo nella sua discesa nei sotterranei dell’anima, in ricognizione nel mondo dei morti. L’induttore-delta era il suo psicopompo. Come Mercurio nell’antica mitologia greco-romana, lo avrebbe condotto sul sentiero a caccia degli echi perduti dei segreti di qualcun altro.
Era questo, in fondo, il suo lavoro: ladro di ricordi, profanatore di segreti; frugacervelli, psicosbirro, scanner; mangiatore di morte.
Stava vagando lungo le strade abbandonate di un inconscio straniero. Avanzava in un crepuscolo eterno, tra i palazzi deserti di un villaggio pre-rinascimentale dalla geometria utopica. Scrutava gli occhi ciechi di stanze disabitate, ascoltava la voce spettrale di portici immobili. I suoi passi si succedevano sul suolo sconnesso: lastre di pietra sagomate in forme irregolari erano l’unica concessione al caso in un panorama dominato dall’ordine e dal rigore. Non c’era vento, né altre potenziali forze di disturbo. Ogni cosa era immobile e sembrava che il quadro potesse sopravvivere in quella quiete assoluta per il resto del tempo, fino alla fine del mondo.
Quando giunse nella piccola piazza centrale, la luna era una palla enorme butterata di crateri ciclopici, sospesa a qualche metro da terra, allo zenit nel profondo cielo azzurro, in un sovvertimento del senso comune che suggeriva la presenza di una matematica non-euclidea. Sovrastava un pozzo di pietra. Oltre la piazza, il parapetto della terrazza si apriva sullo scenario di una valle adagiata nelle ombre della sera. I declivi delle colline erano tanto ripidi da degenerare in calanchi. Sul fondovalle, il fiume era un serpente d’acqua che si snodava stanco e incerto, mentre piccole schegge di luce si accendevano sulle increspature della sua superficie.
Briganti si sporse sul bordo del pozzo sormontato dalla luna, apprestandosi a scrutare nell’oscurità, quando una nuova ondata di musica lo raggiunse. E, con quella, le voci.
Novembre è il mese dei morti, dicevano.
Lo ripetevano, intonandolo come un mantra o una solenne litania.
Novembre è il mese dei morti
Sulla melodia di fondo dell’universo, si alzavano canti remoti. Intessevano la colonna sonora ideale per il tuffo che Briganti si accingeva a spiccare verso gli abissi, assorbendo una memoria che gli era estranea.
Novembre è il mese dei morti.

Briganti si appresta a rivivere nel transfert i ricordi del Commissario, in questo brano estratto da Ricordi proibiti (Delos Digital, 2024).

Immagine elaborata con Copilot | DALL·E 3.

Non avrebbe mai pensato di poter vedere, un giorno, il corpo inerte del Commissario disteso sul tavolo di un obitorio.
In qualche modo, attenendosi ai certosini dettami di una pratica nota solo a una ristretta cerchia di esperti di medicina legale, Doc e i suoi assistenti erano riusciti a ricomporre il volto del cadavere in un’espressione che, se non poteva dirsi di serenità, quantomeno rasentava la pacifica accettazione della fine. La maschera che aveva deformato i lineamenti del Commissario – come l’aveva intravista Briganti mentre gli uomini della Scientifica rimuovevano il corpo dalla scena del crimine – non era scomparsa. Ma un lavoro minimo di cosmesi avrebbe nascosto del tutto le ferite sugli occhi, sulle labbra e sulle guance. Il trattamento avrebbe reso il cadavere uno spettacolo accettabile nella teoria funeraria di una camera ardente. Ma adesso, nel seminterrato che era territorio di Lanzi, la vista di quel volto così dissonante richiamò alla mente di Briganti una icona clownesca, un saltimbanco scampato all’olocausto mnemonico della sua infanzia.
Occhi tristi e smorfia sorridente intessevano l’espressione contraddittoria di qualche enigmatico Pulcinella d’avanguardia. Un misto di felicità e sofferenza, di sconforto ed esultanza, conviveva nella maschera, in rottura con la comune accettazione della polarità delle rispettive nature.
Briganti sbatté le palpebre nel vuoto, in un mondo di soli odori. Disinfettanti e composti chimici per i quali non trovava un nome dominavano lo spettro della sua percezione. La parte più antica del suo cervello, quella risalente allo stadio rettile dell’albero evolutivo, decodificò l’informazione olfattiva in una frazione di secondo e lanciò un segnale modulato in frequenza alla superficie continentale del sistema limbico, la struttura caratteristica dei mammiferi che, tra le altre cose, è la sede dell’istinto. Qui il segnale emerse in forma cosciente e Briganti ricordò di trovarsi nel laboratorio di Lanzi.
Quello che restava era davanti a lui: un organismo immobile abbandonato al flusso entropico della decomposizione, che non serbava più alcuna traccia delle doti d’intelletto che ne avevano animato la mente.
Un corpo spento, nel gergo impietoso dei necromanti.
Il Commissario era regredito a uno stadio base, al rango di materia di indagine. Buono, al limite, per gli incubi di un bambino.
Nel silenzio statico del seminterrato, rotto appena dal ronzio dell’impianto di climatizzazione, Briganti s’inerpicò sulla salita della concentrazione. Cacciò da una tasca il suo astuccio argentato e lo posò su un ripiano, accanto a uno dei terminali olografici che attrezzavano il laboratorio. Quindi si tolse l’impermeabile e sganciò la fondina ad armacollo. Dopo aver posato la Typhoon e la sua custodia di cuoio sulla scrivania, passò alla cravatta. Infine si sbottonò il colletto della camicia e si rimboccò le maniche fino ai gomiti. Ogni sua mossa era parte di un rituale studiato in ogni dettaglio e ripetuto allo sfinimento, decine di volte.

Un estratto procedurale da Ricordi proibiti (Delos Digital, 2024).

Immagine elaborata con Copilot | DALL·E 3.

Anche Resurgam era attraversata, come ogni comunità umana, da un gradiente di ricchezza che calamitava i pezzi grossi in prossimità del fulcro di potere. E sulla Stazione, questo centro era la Cattedrale.
La residenza dell’amico di Ayesha si trovava a ridosso dei quartieri altolocati, al secondo livello della Stazione, e sovrastava la galleria di uscita del Penrose Express. Era una posizione privilegiata, come ci si sarebbe aspettati da un boss. La porta era preceduta da un vestibolo ornato di piante in fiore: ibridi artificiali, che Triton non aveva mai visto prima.
Ayesha non usò il riconoscimento genetico della porta. Si fece annunciare attraverso i circuiti della domotica e attesero alcuni secondi perché una ragazza si presentasse alla porta. Capelli neri raccolti in una coda dietro la nuca, occhi intelligenti ed espressione composta. La ragazza tradì un sentimento di complicità che al segugio non sfuggì, come se avesse riconosciuto Ayesha all’istante, sebbene la presenza di Triton la obbligasse ad attenersi a un severo distacco professionale.
– In cosa posso esservi utile?
– Devo vedere Paul de la Roya – disse Ayesha, in tono formale.
La ragazza sulla soglia cedette il passo e li lasciò entrare senza opporre resistenze. A giudicare dall’ingresso, l’appartamento doveva essere vasto e lussuoso. Lo pervadeva una luce bassa, azzurrognola, ricreando un’atmosfera cavernosa. Alle porte e nelle pareti erano incastonati riquadri geometrici in vetri colorati, disposti in composizioni raffinate che richiamavano l’antica estetica terrestre di stampo Art Déco. Una fluttuazione attraversava l’aria, come se la luce sgorgasse da profondità liquide. Le vetrate panoramiche si affacciavano sul primo tratto della ferrovia orbitale.
Dei passi, in fondo alla sala, anticiparono la comparsa di una figura longilinea. Quando il volto di de la Roya emerse dall’ombra, Triton ne incrociò gli occhi e si sentì precipitare in un baratro di ricordi…
Aveva cavalcato onde gravitazionali sul margine di Niger, con occhi come quelli. Aveva spinto la sua freccia a velocità semi-relativistiche e sperimentato l’ebbrezza della discesa e della risalita, in compagnia di quello sguardo. Ed erano sopravvissuti alle innumerevoli insidie di un oceano quantistico ribollente, nell’ergosfera.
Un nome, dal fondo del baratro: Rosario Espinoza. La Rosa Spinata, come l’aveva chiamata una volta Billy Holotropic Long, il più grande tra tutti i discesisti che erano passati da Resurgam, il cui ultimo volo era stato un suicidio nelle spire della nigredo, oltre l’orizzonte degli eventi. Per tutti gli altri, semplicemente “la Bruja”.
Maman Rosario – disse Triton e subito un numero prese forma nella sua testa.
Fu come se una nuova onda travolgesse le sue funzioni psichiche, annichilendo le facoltà di discernimento e individuazione che erano i pilastri della psiconautica. In quegli occhi c’era molta più storia che negli archivi-dati di Resurgam. C’erano vita, passioni, fallimenti, delusioni, crolli e rinascite. C’erano tutte le vette e le valli degli stati d’animo che si possono avvicendare lungo la curva dell’esistenza. E il panorama su cui si affacciavano quegli occhi celebrava la grandezza della memoria in opposizione al baratro dell’oblio.
Rotta 992, pensò Triton. E lo pensò con la voce di Lone.
La 992 punta dritta nell’ergosfera, aveva detto Ayesha.
Vai tranquilla, ragazza…
Il mondo intorno a Triton/Lone vorticò, troppo velocemente – questa volta – per poterne recuperare il dominio. Lo psiconauta crollò sotto il peso di una crisi epilettica.

Brano estratto da Vanishing Point, in edicola con l’Urania Jumbo n. 54 ancora per tutto il mese di aprile.

Image Credit: Blade Runner (1997 video game)

E adesso il Commissario giaceva immobile ai suoi piedi, il volto incrostato di sangue e di fango come la sua inconfondibile divisa d’ordinanza, un completo di foggia severa, quasi militare. Il kipple strisciava intorno al suo corpo in grigie volute cariche di cenere a ghermirne le membra.
Duecento metri più in là, all’estremità opposta della spianata, dalla distesa di macerie e detriti del Limbo emergeva la mole pesante e tetra della Fornace.
La vista del luogo, diversamente da quanto lui stesso si sarebbe aspettato, non respinse Briganti, né lo sprofondò nel turbine di dolore che continuava a rimestare i suoi ricordi. Il tenente restò immobile al cospetto della struttura, più imponente di quanto ricordasse. La Fornace era formata da un blocco centrale di tre navate alte tre piani, che culminavano in un tetto spiovente, la classica fabbrica costruita nel cuore dell’era industriale e scampata per miracolo ai bombardamenti, alle crisi, ai terremoti e alle eruzioni, per trasformarsi in una triste reliquia di archeologia urbana. I mattoni rossi delle pareti si erano consumati e ingrigiti. La malta era diventata nera per l’usura degli agenti atmosferici e dei vapori vulcanici. Le arcate delle finestre collassate erano orbite nere, delimitate dagli artigli di lastre di vetro. Tre ciminiere si protendevano fiere ma spettrali dal lato corto opposto all’entrata principale, vedette spettrali contro il cielo grigio della Cintura, in attesa dell’alba.
Briganti vide ombre muoversi nel chiarore attenuato e polveroso che filtrava dalle aperture. Ombre lunghe, come di monaci incappucciati o dottori della peste, che emergevano dai corridoi bui dei suoi incubi peggiori e scivolavano fuori dalla vista dietro i bordi delle alte finestre ad arco. Le ginocchia arrugginite e paralizzate, proprio come due anni e mezzo prima, quando era rimasto impietrito davanti al corpo esanime di Simona, il pensiero incapace di rimettersi in moto. Il flash di un volto un tempo familiare, ormai privo di vita e di espressione, gli attraversò la mente con la facilità di una lama incandescente. Anche il dolore fu lo stesso.
– Tutto bene, signore?
La voce di un tecnico della Scientifica lo richiamò nel mondo dei vivi.

Primo contatto con il kipple di dickiana memoria, in Ricordi proibiti (Delos Digital, 2024).

Image Credit: NASA.

Un cielo di liquido metallo incombe sulla distesa di rovine entropiche affastellate intorno al Golfo. Il diluvio è cessato – ci scusiamo per l’interruzione. Nuvole grigie galleggiano dense di molecole nocive sopra le luci alogene della città: un arcobaleno indistinto che degrada rapidamente nel piombo fluido e verso la liscia pietra fluviale.
Prospettiva dall’alto di Posillipo, attraverso le fronde dei platani e dei pini marittimi, tra i rami cullati dal vento dei salici trattati geneticamente. Treni che arrivano in stazione, treni che partono. Convogli della metropolitana che scivolano tra i palazzi, sprofondando nei loro cunicoli sotterranei e riemergendo in superficie, dentro e fuori da stazioni costruite secondo gli schemi di astronavi perdute. Le insegne luminose, la danza degli ologrammi sui tetti dei palazzi, i grattacieli ricombinanti del Distretto Corporativo, i fanali delle auto in processione agonizzante lungo le sopraelevate, fiotti di fumi venefici dai comignoli degli altoforni e delle ultime raffinerie petrolchimiche ancora attive nella zona del porto.
La funzione di Hubbert era stata ingannata a lungo, ma verso la metà degli anni Venti il mercato aveva scoperto il bluff. L’instabilità economica che era seguita aveva spalancato le porte alla crisi economica, sprofondando poi nel baratro della catastrofe bellica: i conflitti su scala regionale si erano saldati con le contese commerciali sui giacimenti strategici di petrolio e gas e con il controllo delle riserve idriche del blocco eurasiatico, originando un unico fronte di guerra globale, una faglia sismica che aveva investito il pianeta ancora in lenta ripresa dopo gli anni della sindrome di Wuhan.
La delocalizzazione era stata invertita e nel riassetto della capacità operativa dell’Europa Meridionale Napoli era stata favorita dalla sua centralità, calamitando gli asset strategici degli operatori nazionali e transnazionali. Subito dopo la fine della guerra, il conglomerato Atlantis Kombinat Systems aveva stabilito in città la sua base operativa per l’area mediterranea, pompando nelle vene del tessuto socioeconomico liquidità preziosa per il Secondo Risanamento.
Era stato solo l’ultimo sussulto, prima che la frenesia iperliberista s’innamorasse delle promesse della Singolarità, in un’ubriacatura di tecnocrazia che aveva impresso un saliscendi emozionale alla curva dello sviluppo delle principali economie mondiali. L’Unione Europea non aveva fatto eccezione e Napoli, insieme alle altre zone economiche speciali istituite nelle regioni depresse del continente, ormai tutte indifferentemente incapaci di reggere i tassi di crescita necessari ad assicurare il ritorno atteso dei fondi che vi avevano riversato capitali a pioggia, era stata oggetto di pesanti disinvestimenti in quasi tutti i settori industriali, finendo per imboccare nuovamente la strada del declino.
Adesso, Napoli richiama alla mente l’immagine tragica di una nobile decaduta. Una cortigiana di classe, ferita ma in qualche modo sopravvissuta, che veglia sul corpo del gigante abbattuto, riverso sulla riva del mare. Le luci delle autostrade tracciano nella sera le bordature delle sue costose vesti di seta lacere e macchiate di sangue, brandelli di tessuto urbano dimenticati sulla pietra lavica delle colline sepolte sotto le macerie di strati meta-geologici di abusivismo sfrenato.

Excursus storico-geografico in questo estratto di Ricordi proibiti (Delos Digital, 2024).

Il dolore ha ormai oscurato ogni ricordo. Il dolore continua a eclissare la percezione. Ancora, sempre e solo dolore che urla dentro di lui come un’onda che viene a schiantarsi contro la scogliera, con il furore cieco di una bestia ferita, una belva presa in trappola che, sebbene si veda spacciata, non può rassegnarsi a chiudere gli occhi e aspettare il colpo di grazia. L’istinto acceca la razionalità e anche l’animale che è in lui ringhia, ruggisce, latra e digrigna i denti, pur sapendo che la messinscena non servirà a niente. Il passato non può essere cambiato.
Ci sono ricordi che ci rendono schiavi, aveva detto Samedi. Era vero, Briganti lo aveva imparato sulla sua pelle. Perché, dopotutto, l’umanità è un paradosso, la coscienza umana stessa è un’anomalia: nella sua capacità di concepire eccezioni, nei suoi slanci prometeici, rimane pur sempre condizionata dalla sua finitudine. In fin dei conti, l’umanità racchiude nei suoi vincoli la negazione stessa delle vette più alte a cui si ritrova ad aspirare. Alla fine, tutto si può ridurre a quest’unica verità. L’uomo è prigioniero del tempo. E la consapevolezza di questo limite è la causa della sua dannazione. Una dannazione ineluttabile, senza possibilità di riscatto.

Echi di True Detective in questo estratto di Ricordi proibiti (Delos Digital, 2024).

Immagine elaborata con Copilot | DALL·E 3.

…molti libri di testo dicono che una lingua è un meccanismo per l’espressione dei pensieri. Ma la lingua stessa è pensiero. Il pensiero costituisce l’informazione e la forma che essa si sceglie. La forma concretizza una lingua, e la forma di Babel-17 è… sorprendente.

Babel-17 – Samuel R. Delany

Vennero a prelevarlo nei suoi alloggi, ma lui ormai era partito. La luce esterna li colse impreparati e si confuse con l’allarme dei firewall, che innescò all’istante i loro wareWolves. Una scarica di neurotrasmettitori e i muscoli dei tre agenti si irrigidirono. Gli info-lupi da guardia codificati in difesa dell’integrità delle loro routine neurali li inchiodarono sulla soglia, mentre si accertavano dell’entità della minaccia.
Immagini ipnagogiche ristagnavano intorno agli uomini in divisa da microgravità e alla donna con i gradi di commissario della NERVE. Frammenti di scene interrotte, periodi perduti di un testo difficile da ricomporre. Nient’altro.
Uno scherzo, come sarebbe stato lecito aspettarsi dal loro obiettivo…
– Figlio di…
La donna fulminò con lo sguardo il sottoposto, poi si disinteressò di lui. C’era una ragazza seduta al centro della stanza, ma lo sguardo del commissario la superò e precipitò nello scenario che si schiudeva intorno a Resurgam.
La Stazione stava transitando pochi gradi sopra l’eclittica del Gorgo e la sua inclinazione forniva un punto di vista privilegiato sul tormento cosmico di Scylla, vampirizzata dalla sua invisibile Cariddi. Le fauci quantistiche del mostro divoravano il plasma incandescente con tranquillità, al riparo dietro la baluginante curvatura ottica della lente gravitazionale. Il transpex della parete panoramica era stato polarizzato per filtrare le frequenze più alte dello spettro, così una luce soffusa penetrava nel locale, spargendo i toni ambrati di un tramonto improbabile.
Gli occhi si fissarono tutti sull’abisso, là fuori. Nella scala delle priorità, la curiosità per l’apocalisse gravitazionale in corso aveva guadagnato il loro interesse: era la fine di tutte le cose, impossibile guardare con occhi diversi all’entità annidata in fondo al Gorgo. Nessuno ci sarebbe più riuscito, comunque, dopo che il mostro aveva tradito la sua instabilità, rivelandosi meno prevedibile del loro peggiore incubo. Mentre gli agenti di sicurezza completavano le loro verifiche subliminali, gli sguardi e i dubbi dei presenti si rincorrevano laggiù, nel profondo, incapaci di resistere all’attesa di un nuovo cataclisma. Solo i rapporti dei sistemi di difesa neuronica li richiamarono al momento contingente di quell’ultima stanza sospesa sull’orlo del baratro.
I wareWolves confermavano che si era trattato di un falso allarme: il contagio semantico aveva ormai quasi completato la sua parabola infettiva, dissipando il grosso del potenziale degenerativo. Gli agenti antivirali tornarono in stato idle, la procedura di emergenza rientrò sotto la soglia di guardia.
Il virus disgregante era ormai inerte, ma prima di spegnersi aveva aggredito tutto ciò che poteva compromettere e questo avrebbe reso cruciale il ruolo del segugio…
– Dov’è lui? – Le parole della donna risuonarono remote nella desolazione dello scenario. Gli uomini al suo seguito non fecero una piega nelle tute grigie dal taglio marziale. Su di esse, il marchio della NERVE dispiegava i suoi ideogrammi come petali d’acciaio.
La ragazza rimase china nella penombra. Contorta in una posa grottesca nella microgravità di Resurgam, le vertebre che tendevano la maglia di tessuto acaro-repellente, si stava cullando in un abbraccio invisibile e somigliava a un’antica bambola scordata. Un giocattolo a orologeria, dimenticato dopo un gioco che aveva presto lasciato campo libero alla noia.
– Dov’è andato? – insistette l’ufficiale della NERVE. Luce gelida nei suoi occhi, tanto fredda da bucare la gamma dell’infrarosso.
– Da qualche parte, là fuori – si risolse a rispondere la ragazza. I suoi lunghi capelli corvini riflettevano la luminescenza olografica di un modello planetario del sistema di Scylla/Niger. La Cintura, Klapeyron IV e Hybor e le loro lune, gli altri pianeti, vorticavano tutti nella solennità della loro danza cosmica in miniatura davanti a lei. I suoi occhi, fin dall’arrivo dei mastini della NERVE, non si erano scollati dalla proiezione.
Il silenzio si fece sepolcrale e carico di presagi sinistri per il terzetto d’intrusi, calati in quello scenario di sconfortante abbandono. L’appartamento era stato svuotato in fretta e furia, probabilmente non dall’uomo che lo aveva occupato negli ultimi sette anni-Terra. Malgrado l’azione disgregante del virus, nella scia della sua partenza sopravviveva l’eco di ricordi fuori dal tempo. Il tocco degli angeli del sogno dell’inquilino ristagnava nei ricettori passivi, penetrato in profondità negli strati nanotubolari di carbonio dell’habitat, come un’ombra psichica difficile da estirpare.
Ci avrebbe pensato il segugio.
– Se n’è andato – riprese la ragazza, come se stesse concludendo una sua linea di pensiero privata. – Per sempre.

Vanishing Point.

Il resto su Urania Jumbo n. 54, per tutto il mese di aprile in edicola.

Singapore (Louis KWOK / AFP)

Quella mattina il sole era sorto eclissato. Eclissi anulare, la chiamavano gli astronomi, ma a Napoli non c’era stato verso di godersi il fenomeno. Per quel giorno, il Regista Celeste si era conservato un altro tipo di spettacolo. Forse, alla fine, il diluvio universale era davvero arrivato: dopo tante prove tecniche di distruzione – attraverso il fuoco del Vesuvio e dei Campi Flegrei, le detonazioni delle testate nucleari tattiche e delle bombe sporche, la piaga della cenere viva che ne era seguita, l’allagamento delle zone costiere un po’ in ogni parte del mondo – sulle rive del Golfo la condanna terminale aveva preso la forma di un nubifragio che proseguiva ininterrottamente da tre giorni e tre notti, quasi a voler lavare con l’acqua tutte le colpe che gli uomini avevano accumulato nel corso dei secoli.
– Era così pure nel ‘19. – Il vecchio barbone sbronzo agitò la bottiglia di distillato cinese da discount. Doveva averla prelevata direttamente dalla riserva d’annata di un drugstore notturno.
– E nel ‘25. – L’altro vagabondo di fronte a lui tossì, spargendo nell’aria un’invisibile nube etilica.
– Già. Prima che il vulcano saltasse per aria…
– Prima che il mondo intero saltasse per aria, vorrai dire!
Vincenzo Briganti passò oltre, lasciandosi le loro amenità alcoliche alle spalle.
Gocce di pioggia calda gli bagnavano i capelli e la fronte. Le insegne al neon si specchiavano nelle pozzanghere ai bordi della strada, un triste caleidoscopio di luci in quella liquida fine del mondo. Forse un effetto scenografico escogitato dagli studios dell’Altissimo a beneficio dell’ultimo spettacolo.

L’incipit di Ricordi proibiti, oltre che d’attualità, è anche un omaggio alla Trilogia di Eclipse (ovvero A Song Called Youth) di John Shirley, pietra miliare del cyberpunk e della fantascienza degli anni ’80.

Metà del XXI secolo. La curva dello sviluppo tecnologico ha subìto una cabrata. Nanotecnologie, bioingegneria, calcolo quantistico e intelligenza artificiale hanno concorso all’accelerazione.
È un cambio di paradigma che investe ogni campo della società. L’incalzante ricambio generazionale delle tecnologie stravolge la percezione della realtà. Dal mutamento emergono nuove prospettive: gli orizzonti dell’uomo si dilatano. I cambiamenti si succedono a distanza sempre più ravvicinata.
Questa è una storia raccolta dalle voci dei morti. In presa diretta dai Tempi Che Corrono.
Dopo la Singolarità.

2049 Viene fondata la prima Sezione Investigativa Speciale di Polizia Psicografica in Europa. Sotto la direzione di Salvatore Di Cesare, viene costituita a Napoli la Sezione IX, sottoposta a coordinamento congiunto tra la World Police Organization e la Direzione Centrale Anticrimine. I suoi agenti vengono equipaggiati con innesti cibernetici e addestrati per estrarre, riconoscere e interpretare le ultime memorie dei cadaveri in casi di crimini violenti.

2053 Dopo due anni di addestramento, Vincenzo Briganti viene confermato nel ruolo di agente psicografico ed entra nei ranghi della Sezione IX.

2057 Il corpo di Simona Di Cesare, figlia del direttore della Sezione IX, viene rinvenuto in un rudere abbandonato nel Limbo, la terra di nessuno che si estende a nord e a ovest di Napoli. Simona era alle prese con un’indagine per la quale aveva chiesto aiuto a Briganti. I suoi assassini le cancellano i ricordi vanificando qualsiasi tentativo di recupero da parte degli agenti psicografici.

2059 Salvatore Di Cesare viene trovato senza vita nello stesso luogo. Briganti viene chiamato a fare luce su una vicenda che affonda indietro nel tempo, riallacciandosi all’omicidio rimasto irrisolto di Simona.

La Sezione Investigativa Speciale di Polizia Psicografica dispone della tecnologia per interrogare i morti. Ma sarà sufficiente per scoprire chi ha ucciso il suo stesso comandante? Ricordi proibiti è il resoconto di questa indagine, che si districa tra il passato e il futuro, e forse anche su diversi piani alternativi del presente.

Disponibile da oggi in e-book e presto in cartaceo.

Da domani, Ricordi proibiti sarà disponibile su tutti i bookstore, facilmente raggiungibili a seconda delle vostre preferenze dalla pagina dell’editore, e mi preme con l’occasione ringraziare ancora una volta Delos Digital e Silvio Sosio per averlo scelto per la collana Odissea Fantascienza, pazientando a lungo per assecondare i miei tempi di riscrittura.

Ricordi proibiti segna il ritorno in circolazione di Sezione π², il romanzo con cui nel sempre più lontano 2006 mi sono aggiudicato il Premio Urania (spuntandola, non mi stancherò mai di ricordarlo, su una shortlist di ottimi romanzi, molti dei quali avrebbero fortunatamente visto la luce in seguito: due, curiosamente scritti a quattro mani, poi riuniti in un fantastico Millemondi nel 2010, e un terzo a firma di Alberto Cola, che con un’opera diversa si sarebbe portato a casa il Premio Urania nel 2009). Scelto da Sergio Altieri e Giuseppe Lippi, all’epoca rispettivamente editor delle collane Mondadori per il mass market e curatore di Urania, il romanzo si andò a inserire in un filone di opere contaminate che si proponevano di mescolare generi (soprattutto noir, thriller e fantascienza, ma anche horror, spy story, e chi più ne ha più ne metta) e registri diversi (in questo, il mio tentativo voleva spingere al massimo la vena postmoderna del cyberpunk). Un sentiero che alcuni scrittori del periodo, incluso il sottoscritto, provarono a battere approfittando dell’interesse e dell’attenzione prestati appunto da Altieri a questo tipo di soluzioni sperimentali: non andò benissimo, e fummo per un po’ tra quelli che volevano uccidere la fantascienza (ma questa è un’altra storia che prescinde dai meriti e dai demeriti e che ognuno può raccontare per come l’ha vissuta).

Quindi, tornando a noi, Ricordi proibiti non è una riedizione di Sezione π² in senso stretto: la riscrittura mi ha impegnato per ben più tempo di quanto ne abbia richiesto la stesura della prima versione, e ha finito per cambiare almeno i due terzi dell’esistente e aggiungere un ulteriore 25% di pagine da zero. A conti fatti possiamo dire che Ricordi proibiti è un romanzo completamente diverso da Sezione π²: ne conserva senz’altro l’ispirazione e ne ripercorre la trama, ma rimodulandola su un intreccio più ricco e che a tratti si discosta anche significativamente dall’originale.

Questo post è dunque per i lettori che, nel dubbio, volessero decidere se valga la pena rileggerlo, più che per quelli che lo rileggeranno per la prima volta (a costoro sarà dedicato un post ad hoc).

Personaggi

Cominciando dai personaggi, insieme ad alcune variazioni non così eclatanti nella caratterizzazione dei protagonisti, vale la pena segnalare che il cast si è leggermente ampliato. Alcuni personaggi che prima giocavano un ruolo piuttosto marginale hanno rivendicato uno spazio maggiore (da cui buona parte di quel 25% o giù di lì di pagine aggiuntive, ma su cui torneremo più avanti). Altri, invece, sono stati introdotti ex-novo: è il caso di Simona Di Cesare, figlia del Commissario Salvatore Di Cesare, sul cui omicidio s’incentrano le indagini di Vincenzo Briganti e Corrado Virgili detto Guzza, che finisce per giocare un ruolo cruciale nella storia attestandosi come un motore immobile di dantesca memoria; ma anche di altre figure secondarie, che ho trovato utile e anzi necessario introdurre per delineare con maggiore profondità il mondo in cui si svolge la storia e le trame che s’intrecciano dietro le quinte.

Ambientazione

Il lettore che avesse già avuto modo di misurarsi con Briganti e la sua prima indagine dopo la decapitazione della Sezione Investigativa Speciale di Polizia Psicografica noterà inoltre molte differenze nella caratterizzazione dei luoghi in cui si svolge la storia. In Ricordi proibiti, Napoli è molto più presente di quanto non fosse in Sezione π², tanto con i suoi luoghi reali (da Montecalvario a Chiaia, da Bagnoli al Vomero) e i suoi paraggi (fino ad arrivare agli scavi archeologici di Cuma, che offrono un nuovo sfondo al climax finale), quanto con la sua topografia reinventata allo scopo: il lettore forse ricorderà il Kipple, che qui si arricchisce anche di nuove e più specifiche denominazioni (Limbo, Vastaturo, Labirinto) a seconda di chi ne parla e da dove lo si guardi; ma si sorprenderà forse di scoprire anche luoghi che non erano prima menzionati, come per esempio un arcipelago artificiale costruito nelle acque antistanti Posillipo sul modello di una piccola Venezia, riprendendo un progetto visionario di Lamont Young.

Background

Rimanendo sul world-building, anche i presupposti storici vengono in parte arricchiti, in parte stravolti. Le novità: le fascinazioni escatologiche, teologiche e per certi versi anche proto-millenariste riconducibili alla figura di Gioacchino da Fiore si sostituiscono a tutto il subplot originariamente imperniato sulle trame della Cabala di San Tommaso, che non avevo mai trovato particolarmente convincenti soprattutto perché sfruttate in maniera troppo sfacciatamente pretestuosa per le mie finalità narrative. Con Gioacchino da Fiore ho trovato invece una quadra, riuscendo sia a mantenere le suggestioni esoteriche che mi stava a cuore conservare in questa nuova versione del romanzo, sia ad aggiungere nuovi elementi organici allo sviluppo della storia, nonché una possibile chiave di lettura per lo scioglimento della vicenda – nonché ulteriori, se mai ve ne fosse bisogno, rimandi danteschi.

Strettamente connessa all’influenza gioachimita e florense, è inoltre la figura di Morgan Carter, il discusso psicologo a cui si devono le principali intuizioni che nel romanzo portano alla definizione della psicografia. La sua storia ha rivendicato uno spazio maggiore rispetto ai brevi accenni che ne venivano dati in Sezione π², e viene ulteriormente approfondita in un’appendice dedicata che riprende – udite, udite! – il suo misterioso diario in versione integrale (da cui, ecco svelato il mistero, buona parte di quel 25% di pagine aggiuntive di cui dicevo). Una storia nella storia, a tutti gli effetti. Ma anche una storia che fa da ponte tra il nostro mondo e l’universo di Briganti, trasformandolo in un’evoluzione futura di quella che tecnicamente sarebbe un’ucronia – storie, dentro storie, dentro altre storie…

Ulteriori dettagli si aggiungono sul conto della dottoressa Irina Pavlovna Nowotny e del Commissario stesso, ma anche su Briganti e i suoi primi anni alla Sezione Investigativa Speciale… che, per la cronaca, non si chiama più Sezione π², bensì Sezione IX – un arrotondamento burocratico imposto da una necessaria cura di dimagrimento (tutte quelle lettere greche sui documenti ufficiali mandavano al manicomio le IA del Ministero, ma sono state mantenute nel corredo dei necromanti).

Altre sottotrame

Le sottotrame menzionate non sono le uniche attraverso le quali ho provato a scavare nella terza dimensione dell’universo di Briganti e soci. Ce ne sono altre, a coinvolgere la AKS Corporation (il modo in cui ho ribattezzato quella che era la Ksenja Systems) e le figure politiche vecchie e nuove coinvolte nelle indagini, come anche lo stesso Briganti e i suoi trascorsi, e basterebbero queste per fare di Ricordi proibiti un libro totalmente diverso da Sezione π². Ma siccome da Sezione π² sono trascorsi la bellezza di 17 anni, non ho saputo fare di meglio che rivedere nello stile e nella scrittura anche quel centinaio di pagine che sostanzialmente continuano a raccontare gli stessi accadimenti che conoscevate dalla precedente lettura.

Perché se Sezione π² era il meglio che potevo scrivere nella spensierata vanità dei miei venticinque anni, mi piace credere che Ricordi proibiti non potesse essere meno del meglio che ho da offrirvi nella piena maturità dei miei quarantatré. Ma la verità, in fondo, chi mi conosce un po’ sa già che è un’altra: Ricordi proibiti potrà piacere o meno ai lettori, anche a quelli che già avevano apprezzato Sezione π², ma non poteva uscire senza soddisfare prima di tutto chi lo ha scritto, che è un insoddisfatto cronico per sua natura. E questa, dopotutto, credo che sia anche la migliore garanzia a tutela di chi eventualmente vorrà investire ore preziose cimentandosi di nuovo nella lettura.

Ad aprile, torna anche Vanishing Point, secondo capitolo delle mie programmate, e mai completate, Cronache del Gorgo. Siccome sono passati 13 anni dalla sua ultima apparizione, vale la pena riprendere il filo. E dunque… dove eravamo rimasti?

Immagine elaborata con Copilot | DALL·E 3.

Tutto comincia con Orizzonte degli eventi, racconto pubblicato inizialmente sulle pagine della rivista telematica di fantascienza Continuum, fondata e curata da Roberto Furlani, e poi riproposto nell’antologia di racconti connettivisti Frammenti di una rosa quantica, curata da Lukha B. Kremo per Kipple Officina Libraria (2008). Era in quelle pagine che veniva introdottto l’ecosistema orbitale di Resurgam, un remoto avamposto della civiltà umana situato ai confini della galassia. In questo futuro, un network interstellare consente di superare le enormi distanze siderali attraverso dei portali quantistici, ma la rete non può arrivare dappertutto, sia per limiti fisici intrinseci che per ragioni che potremmo definire politiche, così ai suoi margini fioriscono delle comunità autonome, pressoché isolate, in grado di evolversi lontano dall’influenza della Trascendenza (come si è «umilmente» ribattezzata l’umanità del futuro).

Resurgam è uno di questi posti, la cui economia si trova a essere incentrata sullo sfruttamento energetico del buco nero intorno a cui orbita e sul recupero dei reperti archeologici di un’antica civiltà aliena estinta, che ha lasciato solo enigmatiche vestigia sugli asteroidi e i pianeti del sistema di Scylla-Niger. È in questo sottobosco postumano che si muovevano Jerry Lone, Ayesha e la Bruja, la più esperta tra i recuperanti ancora in circolazione. Ed è lì che li avevamo lasciati, in seguito al recupero di un sistema di navigazione che prometteva di stravolgere le conoscenze dell’umanità e le loro vite…

Molte cose sono cambiate nel frattempo, come scopriranno i lettori tornando alle pagine di Vanishing Point. Per cominciare, Jerry Lone è svanito nel nulla, gran parte dei recuperanti della sua banda hanno finito per dedicarsi ad altre imprese, ma Ayesha è ancora lì, alla disperata ricerca delle ultime tracce lasciate dal suo compagno, convinta che qualcosa possa essergli successo proprio a causa della sua straordinaria scoperta. Ed è a questo punto che approda a Resurgam anche un’emissaria della Trascendenza, nonché di una delle più spietate organizzazioni al suo servizio, la NERVE, portandosi dietro uno psiconauta arruolato per aiutarla a ritrovare il manufatto alieno scomparso insieme al recuperante…

Come Orizzonte degli eventi (che per chi volesse può essere recuperato in versione integrale su su questo blog), anche Vanishing Point è una storia che deve molto a Samuel R. Delany, M. John Harrison, Greg Egan e Alastair Reynolds, e sono felice che venga riproposta proprio in appendice a un romanzo del grande maestro britannico della new space opera: la novella è infatti pubblicata in appendice all’Urania Jumbo n. 54, che presenta ai lettori italiani il romanzo del 2022 Eversion con il titolo di Il ritorno della Demetra.

Enjoy! (E magari fatemi sapere cosa ve ne è sembrato…)

Immagine elaborata con Copilot | DALL·E 3.

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Vivere anche il quotidiano nei termini più lontani. -- Italo Calvino, 1968

Neppure di fronte all'Apocalisse. Nessun compromesso. -- Rorschach (Alan Moore, Watchmen)

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Mi chiamo Giovanni De Matteo, per gli amici X. Nel 2004 sono stato tra gli iniziatori del connettivismo. Leggo e guardo quel che posso, e se riesco poi ne scrivo. Mi occupo soprattutto di fantascienza e generi contigui. Mi piace sondare il futuro attraverso le lenti della scienza e della tecnologia.
Il mio ultimo romanzo è Karma City Blues.

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