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Uno spettro si aggira tra le visioni del futuro dell’umanità. A dire la verità, di spettri potremmo contarne diversi, ma se escludiamo le estrapolazioni in cui la civiltà umana si annienta in una catastrofe globale, il più ingombrante rimane senz’altro quello della futura scalata umana alla Nuova Frontiera.
Per noi vecchi arnesi cresciuti a pane e fantascienza, lo spazio è il convitato di pietra di ogni tentativo di proiezione dell’umanità nel futuro. Lo è anche a dispetto dell’evidenza di tutti gli ostacoli disseminati lungo il cammino verso le stelle, perché con ogni probabilità il mistero del cosmo è iscritto talmente a fondo nel nostro inconscio come specie da essere diventato un marchio a fuoco nel codice memetico del nostro immaginario. E lo è al punto da saltare fuori anche nelle visioni del futuro nominalmente concepite in antitesi con le spensierate avventure tecnologiche della prima fantascienza, quella ormai associata con la Golden Age: se da un lato la space opera non ha mai perso davvero vigore, attraversando le decadi sulla spinta di un motore inerziale che da Edmond Hamilton e Isaac Asimov è passato per la penna di Frank Herbert, Larry Niven, John Varley e C.J. Cherryh per arrivare fino a noi con Lois McMaster Bujold, Iain M. Banks, Vernor Vinge, e poi con Peter F. Hamilton, Alastair Reynolds e numerosi altri anche tra i frequentatori occasionali, è un dato di fatto che lo spazio è un ingrediente fondamentale nel world-building dello stesso cyberpunk (pensiamo alla Disneyland orbitale di Freeside o all’epilogo stesso di Neuromante, agli habitat spaziali della Matrice Spezzata o alle colonie extra-mondo di Blade Runner, tanto per citare i tre pilastri su cui l’immaginario del movimento degli Anni Ottanta ha preso forma), come lo erano stati la Luna, Marte e i satelliti dei giganti gassosi per Philip K. Dick e lo specchio delle contraddizioni terrestri allestito da Ursula K. Le Guin sui pianeti del suo Ecumene, o come lo sarebbero poi stati diversi sfondi del sistema solare per Kim Stanley Robinson, gli autori della cosiddetta fantascienza umanistica, Ian McDonald o gli aderenti alla Mundane SF.
Alla luce di questa scorribanda più veloce della luce, potremmo distillare l’essenza della fantascienza in una formula approssimativa, ma che ne riesce comunque a cogliere una delle caratteristiche più distintive emerse in un secolo di invenzioni, declinate sia nella dimensione della creatività più esplosiva che sul piano della critica più speculativa: vale a dire, che per l’umanità non c’è futuro senza spazio.
Da veterani di questo feeling di lunga data, noi appassionati di fantascienza siamo quindi particolarmente sensibili alle imprese spaziali vagheggiate, programmate o millantate dalla genia dei multimiliardari che da alcuni anni a questa parte inseguono il sogno dello sviluppo commerciale dello spazio. Ancor più di Jeff Bezos (di cui proprio durante la pandemia ha finito per insidiare il primato di uomo più ricco del mondo, secondo molti arrivando nel 2022 addirittura a surclassarlo) o di Richard Branson, che può vantare la costruzione del primo aeroporto spaziale, grazie alla sua sovra-esposizione mediatica è ormai Elon Musk a personificare l’imprenditore del futuro, provvisto di una visione e a capo di un impero economico capace di tentare la conquista della frontiera spaziale. Il più grande capolavoro di Musk è stato probabilmente quello di intestarsi un’immagine di outsider, come se un uomo fuori dalle logiche del mercato potesse arrivare ad accumulare la fortuna richiesta per diventare l’uomo più ricco del mondo – oppure, se è per quello, come se un uomo in grado di twittare 5mila volte in un anno potesse anche essere direttamente coinvolto in un’attività vagamente assimilabile al lavoro.
Questo gli ha permesso di far passare sempre sottotraccia le molteplici contraddizioni della visione imprenditoriale di cui si fa portatore: da una parte la proiezione verso un futuro migliore sbandierata a suon di tweet e interviste, dall’altra le conseguenze pratiche sulla vita degli abitanti di Boca Chica comportate dall’attività della sua Starbase in Texas e i dissidi professionali con i suoi collaboratori e dipendenti. Come emerge, nonostante i toni apologetici, dalla sua biografia scritta da Ashley Vance (Elon Musk: Tesla, SpaceX e la sfida per un futuro fantastico) e come riassumeva Nicolò Porceluzzi nel suo profilo redatto per Prismo, i dipendenti di Musk finiscono per essere utilizzati come munizioni, investiti strumentalmente di un ruolo solo nella logica di finalizzare uno scopo, dopodiché consumati e buttati via. Nello stesso articolo gli esempi si sprecano: dalla collaboratrice di lunga data licenziata per aver chiesto un aumento, alle conseguenze altrettanto estreme per i dipendenti che mancano una deadline o commettono un refuso in una e-mail importante.
Dopotutto ogni cosa per Musk sembra ridursi a un mezzo al servizio dei suoi obiettivi: che siano i dipendenti delle sue aziende o gli abitanti di un villaggio di pescatori che per caso si è venuto a trovare troppo vicino alla sua base operativa per i lanci spaziali. Perché dovremmo quindi sorprenderci se Musk ammette candidamente che il sacrificio da pagare per andare su Marte si misurerà in missioni fallite e vite umane perse? Perché dovremmo stupirci se Musk pianifica la conquista di Marte con un meccanismo di servitù debitoria che somiglia a una forma di schiavitù a esclusivo beneficio dei suoi sogni di colonizzazione spaziale?

Ma se la sorpresa non è giustificata, la generale mancanza di reazione da parte dell’opinione pubblica, di coloro che si fanno passare per intellettuali o – entriamo in modalità utopia estrema? – della politica, desta più di qualche perplessità. Le rare volte in cui Musk ha finito per sfiorare il discorso, come quando il governatore repubblicano Greg Abbot ha dichiarato la vicinanza (se non proprio l’appoggio) del suo nuovo partner in affari alle politiche sociali del Texas, nella scia delle polemiche seguite alle nuove restrizioni sull’aborto introdotte dallo stato nel settembre del 2021, per smarcarsi Musk non ha saputo fare di meglio che prodursi in una dichiarazione pilatesca (quella volta fu questa: “In general, I believe government should rarely impose its will upon the people, and, when doing so, should aspire to maximize their cumulative happiness. That said, I would prefer to stay out of politics“).
Allo stesso modo in cui siamo disposti a ignorare che la lotta al cambiamento climatico per le aziende di Musk è fondamentalmente un business, sembriamo capaci di passare su tutte le altre contraddizioni del personaggio. La vaghezza degli annunci, la cronica mancanza di dettagli a fronte di progetti talmente ambiziosi da richiedere una cura diabolica, per la prima volta sta però cominciando a far breccia in questa sorta di muro di omertà in cui si è trasformato il credito di fiducia incondizionata che siamo stati disposti a riconoscergli per tutto questo tempo: è notizia proprio degli ultimi giorni che il ritardo nei piani di lancio di Starship ha iniziato a produrre qualche perplessità tra i commentatori che s’interessano delle iniziative eloniane.
Sempre in veste di appassionati di fantascienza, avremmo dovuto forse accorgerci prima degli altri che Elon Musk era piuttosto distante dall’ingenuo prototipo del visionario capitalista spaziale celebrato, con il suo tipico slancio ottimistico, da Robert A. Heinlein, a partire dal D. D. Harriman protagonista di Requiem e L’uomo che vendette la Luna, pietre miliari degli Anni Quaranta. Nonostante Musk si sia dichiarato un fan di Iain M. Banks, nonostante tutto il citazionismo di facciata utile a costruirsi un alone da geek funzionale alla sua causa (peraltro, quale scelta migliore di David Bowie o della Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams per triggerare gli entusiasmi dei fan?), i bug che possiamo individuare nel suo programma per rendere la specie umana una civiltà multiplanetaria, come lui stesso ama chiamarla, dovrebbero già adesso insospettirci sui possibili esiti finali. Dal realismo capitalista di Mark Fisher, con Musk facciamo già due o tre passi avanti nel futuro e ci troviamo sbalzati nell’orizzonte di un transrealismo iperliberista: se non c’è alternativa ora al neoliberismo, come potremo rinunciare ai suoi protocolli operativi per piegare il futuro alla volontà della ragione? Tra le crepe che percorrono la superficie di questo sogno si affaccia un futuro che non può essere per tutti. Insomma, suo lo spazio, suo il futuro.
A meno che, e questo diventerà evidente sicuramente prima della fine del decennio, Elon Musk non si dimostri semplicemente un innocuo ciarlatano.
In ogni caso, parafrasando la sua ex-moglie, questo non è il mondo di Elon e noi non siamo lo Starman che lui ha piazzato alla guida di una Tesla Roadster prima di lanciarla nello spazio. Non dobbiamo viverci dentro per forza, se non lo vogliamo. Smettere subito con l’adorazione acritica della sua immagine sarebbe già un inizio, verso un diverso futuro ancora da esplorare.
Di cosa parliamo quando parliamo di cyberpunk? La risposta è molto meno scontata di quanto potrebbe sembrare a un approccio superficiale. Il cyberpunk letterario è stato spesso accusato di scarsa originalità, monotonia di fondo e, col tempo, conformismo a tutta una serie di elementi divenuti un po’ dei cliché: il mondo distopico dominato dalle multinazionali, gli hacker solitari in lotta contro il sistema, la vita di strada nei bassifondi delle megalopoli… e potremmo continuare. Ma se prendiamo in considerazione i due titoli che hanno contribuito maggiormente a plasmare la nuova sensibilità della fantascienza dagli anni ’80 in avanti, ci accorgiamo di tutta una serie di differenze anche abissali legate non a elementi di contorno, che tutto sommato sono anche abbastanza sovrapponibili (*) – come dimostrano anche le dichiarazioni di William Gibson sulla sua esperienza come spettatore in sala all’uscita di Blade Runner – ma su un elemento che per il cyberpunk è tutto fuorché accessorio: la tecnologia.
(*) E che così di contorno, come vedremo tra poco, comunque non sono.
La tecnologia in Neuromante
Partiamo da Neuromante, il manifesto letterario del cyberpunk. Uscito nel 1984, è ambientato secondo le stime di Gibson intorno al 2035 (sebbene l’arco della trilogia copra 16 anni e quindi questa datazione vada presa molto con le molle, potendo oscillare, diciamo, tra il 2025 e il 2040… ma tutto sommato ancora dietro l’angolo, a differenza di quanto dedotto invece da un lettore su Vice basandosi su altri elementi interni ai romanzi ma probabilmente più dovuti a sviste dell’autore che non riconducibili alle sue reali intenzioni) e dipinge una tecnologia ormai smaterializzata, micro- e nanometrica, pervasiva.
Nel mondo di Case e Molly, la tecnologia si è ormai integrata in maniera indistricabile con i corpi e la psiche degli utenti: il cyberspazio è un piano dell’esistenza complementare alla realtà fisica, con cui si compenetra in declinazioni che assumono di volta in volta le forme di un’internet ante litteram, della realtà virtuale o di una realtà aumentata, e che assolve al ruolo di vero e proprio ecosistema, con le sue nicchie e i suoi agenti (virus informatici, ICE, costrutti di personalità riconducibili al mind uploading, intelligenze artificiali…).
Case, Molly e gli altri abitanti del futuro come loro non esitano a modificare i propri corpi attraverso impianti prostetici che ne aumentano le facoltà e attivano un feedback con il cyberspazio: non sono più solo agenti, ma la loro psiche e il loro organismo diventa un target su cui la rete e altri agenti possono produrre effetti tangibili. La strada ha trovato il suo uso per la tecnologia uscita dai laboratori, per dirla con Gibson. Anzi, ha trovato mille modi per utilizzarla e piegarla alle necessità dei singoli operatori, attraverso tutto un mercato nero di tecnologie trafugate dai centri di ricerca delle multinazionali o dell’esercito e messe in circolazione da una rete di contrabbandieri, corrieri, rigattieri…
La tecnologia in Blade Runner
La visione della Trilogia dello Sprawl prende forma tra la fine degli anni ’70 e i primissimi ’80, e nel 1982 arriva nelle sale Blade Runner. Un film che si inserisce nel solco di quella visione cupa e pessimistica del futuro che negli stesi anni si andava definendo grazie a pellicole epocali come Mad Max di George Miller (1979) e 1997: Fuga da New York di John Carpenter (1981), o Alien dello stesso Ridley Scott (1979). Ma, con la notevole eccezione di quest’ultimo, i film che stavano ridefinendo l’immaginario del futuro erano prevalentemente accomunati da un basso tasso tecnologico: la tecnologia era o ridotta al puro elemento meccanico (le automobili di Mad Max con cui vivono in simbiosi i sopravvissuti dell’outback australiano) o a strumento di controllo (le bombe miniaturizzate iniettate a Plissken per convincerlo a esfiltrare il presidente dal carcere di massima sicurezza di Manhattan).
Lo stesso Alien non è che brilli sotto il profilo dell’estrapolazione tecnologica, ma se non altro, sullo sfondo di una civiltà che è stata comunque in grado di mettere in campo lo sforzo necessario a esplorare rotte spaziali al di fuori del sistema solare, presenta personaggi che sono androidi meccanici indistinguibili dagli esseri umani e computer che rasentano, per autorità anche se non proprio per flessibilità (e qui torniamo alle forme di controllo già citate sopra a proposito di 1997: Fuga da New York), lo status delle IA. Elementi che, con le dovute variazioni, caratterizzano anche Blade Runner, dove ritroviamo appunto una tecnologia pesante: gli avanzamenti nella biotecnologia hanno permesso lo sviluppo di replicanti, androidi biologici indistinguibili dagli esseri umani (anzi, più umani dell’umano), destinati all’impiego in teatri di guerra extra-mondo e a farsi carico di mansioni che richiedono forza e resistenza fisica. L’uso più soft contemplato per i Nexus-6, i replicanti di ultima generazione, è per i modelli femminili, adibiti alla prostituzione nei bordelli delle colonie, non proprio un esempio di visione futuristica sull’impiego del più sofisticato prodotto della tecnologia umana.
In Blade Runner, la tecnologia è sempre separata dai corpi e dalle menti dei suoi utilizzatori umani: l’intermediazione tecnologica nelle relazioni umane è ridotta al minimo, i telefoni sono ancora in cabine pubbliche, i computer quasi nemmeno si vedono e – tralasciando volutamente, per il momento, qualsiasi grande o piccola retcon operata da Blade Runner 2049 – la rete nemmeno esiste. La tecnologia non è bassa, ma è sostanzialmente hard e ha a che fare con la programmazione/manipolazione biologica dei corpi, confinata all’interno di questi (alcune decine o centinaia di migliaia di replicanti sparsi sulle colonie extra-mondo, e pochissimi fuggitivi clandestini sulla Terra), mentre il mondo di fuori è sostanzialmente la fucina di catastrofi ambientali in cui ci troviamo a vivere oggi, con un downgrade della tecnologia attuale a quella degli anni ’80.
Blade Runner & Neuromancer: convergenze non accidentali
Per inciso, ricollegandoci a quanto dicevamo in apertura sulla sovrapponibilità degli elementi d’ambiente e le atmosfere, è interessante anche notare come Gibson e Scott condividessero una visione sostanzialmente comune su quella che l’autore di Neuromante definisce “la più caratteristica delle nostre tecnologie“: la città. Entrambi, Gibson sulla pagina scritta e Scott nei set di Blade Runner, compiono un’operazione che potrebbe apparire scontata (soprattutto a un europeo, sostiene Gibson): sovrapporre elementi del passato, del presente e del futuro nella rappresentazione delle città. In pratica: dare evidenza della stratificazione delle epoche attraverso il mélange architettonico che plasma l’estetica della città.
Ciò che Ridley Scott fa con Blade Runner, lo si ritrova nella stessa misura sia in Neuromante che nei precedenti racconti di Gibson: le strade delle loro città sono concentrati di archeologia urbana e per questo danno una misura incontestabile del tempo che è corso su quelle superfici e di ciò che è costato.
Blade Runner vs Neuromancer: dove saltano gli schemi
Tutto semplice, quindi? Forse no, perché il doppio finale di Blade Runner, con il problema della duplice interpretazione della natura di Deckard, complica significativamente lo schema fin qui delineato. A seconda delle letture che si vogliono dare al personaggio, il cacciatore di replicanti può essere un umano (chiave interpretativa prediletta dall’interprete del ruolo Harrison Ford) o un replicante lui stesso (lettura sostenuta a più riprese da Ridley Scott, almeno fino all’uscita nelle sale del sequel di Denis Villeneuve che invece opta per la versione di Ford).
Se Deckard è un umano, la sua fuga finale con Rachael assume le valenze metaforiche di un matrimonio tra la sfera umana e quella artificiale, una sorta di romantica conciliazione tra la natura e la tecnologia. Poco plausibile forse, sicuramente suggestiva, estrinsecata in particolare nella sequenza dell’auto che attraversa i boschi a nord di Los Angeles sulle note incalzanti della leggendaria colonna sonora di Vangelis. Si tratta del finale voluto dallo sceneggiatore Hampton Fancher e realizzato da Scott su input della produzione “riciclando” le sequenze girate per Shining scartate da Stanley Kubrick.
Se Deckard al contrario è un replicante, la sua scoperta finale (molto in linea con la sensibilità di Philip K. Dick benché non fedele alla lettera al romanzo), suggellata dalla chiusura delle porte dell’ascensore scelta come final cut dal regista, diventa l’agnizione lacerante dell’incompatibilità della propria esistenza con la natura, l’anamnesi sul proprio essere – esattamente come i replicanti a cui il cacciatore ha finora dato la caccia – una contraddizione in atto, la prova «vivente» che la realtà ha ormai raggiunto un livello di falsificazione da cui è impossibile tornare indietro: non sono solo i ricordi a essere contraffatti, ma l’effetto si estende inevitabilmente alla percezione stessa della realtà. La natura è destinata a scomparire, sostituita da repliche che si credono originali e reali. Le superiori capacità mimetiche dei simulacri renderanno infine vano qualsiasi tentativo di resistenza.
La versione di Ford (e di Fancher) chiude in qualche modo un cortocircuito con la visione tecnologica di Neuromante, dove la sintesi tra organico e sintetico viene subita ma a cui non ci si sforza di resistere, cercando piuttosto di piegarla alle esigenze dei protagonisti: sotto questa luce, Blade Runner prospetta un’accettazione perfino ottimistica di questa sintesi, facendo quindi un ulteriore passo avanti.
La versione di Scott (e di Dick), invece, stabilisce che non c’è ragione di sposare ciò che è fuori con ciò che è dentro, l’organico e l’inorganico. Semplicemente, l’inorganico, l’artificiale, il sintetico, il simulacro, ormai più umano dell’umano, è destinato a soppiantare l’organico, il naturale, l’originale. Non c’è scampo, non esiste via di fuga, la partita è segnata.
Siamo sotto scacco, a una mossa di distanza dallo scacco matto. Solo che non ce ne siamo ancora resi conto.
L’idea che gli Stati Uniti d’America potessero sfaldarsi in una costellazione di entità indipendenti sembrava fino a solo pochi anni fa un pretesto per uno scenario distopico di fantascienza a buon mercato. Non solo la più potente, ma per la forza del suo impatto sull’immaginario comune e per la sua influenza sulla percezione delle persone, sui cittadini dei posti più remoti della Terra, anche la più grande nazione al mondo, un paese in cui tutti vorrebbero (o avrebbero voluto) vivere. Il cuore dell’Impero, a cui noi che abbiamo avuto la fortuna/sfortuna di nascere in una delle sue province d’oltremare potevamo guardare solo con invidia e ammirazione. Un posto da cui dipendono mode e stili di vita, in cui tutto viene deciso, dove si forgia l’idea stessa di futuro. Ecco, almeno quest’ultima parte era per la verità venuta già un po’ meno durante la doppia Amministrazione Bush, ma nemmeno in quei difficili anni di dura guerra al terrorismo era mai venuta meno la convinzione che un paese così, benché diviso e ferito, sarebbe stato per sempre.
Solo nelle storie di fantascienza degli anni ’70 (il discusso Dr. Adder di K. W. Jeter e in parte anche il successivo Noir, il racconto d’esordio di William Gibson Frammenti di una rosa olografica) o in piccole produzioni molto decentrate rispetto alla produzione mainstream (il film per la televisione La seconda guerra civile americana di Joe Dante) poteva capitare di imbattersi in scenari fantapolitici in cui gli USA si erano disuniti in un arcipelago di stati ostili all’autorità centrale, e più o meno impegnati in uno schema di rivalità reciproche sulla falsariga dell’Italia pre-risorgimentale. Se si trascurano le ucronie in cui gli Stati Confederati sono usciti vincitori o in qualche modo sono sopravvissuti alla guerra di secessione, casi concreti se ne contavano anche prima, ma tutti in qualche modo riconducibili a un qualche tipo di catastrofe (spesso connessa al tragico epilogo di una guerra nucleare) da cui emergeva un nuovo ordine in grado di mettere insieme una parvenza di governo sulle rovine del passato (penso ai classici degli anni ’60 Un cantico per Leibowitz di Walter M. Miller o a Davy, l’eretico di Edgar Pangborn).
Molti esempi sono ripresi dal sempre enciclopedico Paul Di Filippo in questo suo excursus sui futuri frammentati della fantascienza, e qualcosa avevo messo insieme anch’io in questo vecchio pezzo sulla fine del mondo. Ma credo proprio – anche se potrei sbagliare – che sia solo con i primi vagiti del cyberpunk che, sul modello della più grandiosa e inquietante delle storie alternative, quella immaginata da Philip K. Dick per La svastica sul sole, cominciano a prendere forma scenari meno granitici, che si confrontano con la prospettiva di un’America frammentata, balcanizzata dalle spinte centrifughe delle stesse entità a livello statale che la compongono. Non più una federazione, ma un continente in perenne stato di guerra intestina, bruciato da un fuoco in grado di incendiare il mondo.
Dallo scorso 6 gennaio 2021 e dal tragico assalto a Capitol Hill, è uno scenario più attuale che mai. Da osservatore remoto delle vicende americane, non mi sembra che un anno di presidenza Biden abbia potuto curare le ferite di quattro anni di trumpismo rampante, né a spazzare via le bugie sparse a piene mani dalla propaganda repubblicana negli ultimi quattordici mesi, e un editoriale del New York Times addita ora la minaccia di una spada di Damocle sospesa sulla testa della democrazia americana, che da un anno vive di fatto in un 6 gennaio permanente. È notte fonda e probabilmente questo senso di precarietà ha già scavato a fondo dentro di noi, come un fiume carsico nelle viscere del nostro immaginario di cui lo sguardo compassionevole verso il passato è solo l’ennesimo sintomo, in un lento processo durato anni che ha gradualmente, progressivamente e inesorabilmente eroso la nostra capacità di guardare al domani, saldandosi con le dinamiche di cui scrivevo a proposito della nostalgia del futuro.
Immaginate un futuro in cui l’80% della popolazione mondiale è stato cancellato e i sopravvissuti vivono asserragliati in città che alternano distretti turistici concepiti alla stregua di un parco divertimenti (a Londra il Cheapside è stato riportato all’epoca vittoriana) e gated community sottoposte a una rigida sorveglianza per garantire la sicurezza dei loro abitanti. In questo futuro la tecnologia ha talmente stravolto le abitudini e lo stile di vita da spingere l’umanità oltre la frontiera del postumano e l’economia è nelle mani di sciacalli senza scrupoli, al cui cospetto perfino i cleptocrati della mafia russa (klepts, per usare uno dei neologismi cari all’autore) finiscono per sembrare degli onesti uomini d’affari.
E immaginate poi un altro futuro, un paio di secoli precedente a quello e un decennio al massimo davanti a noi, in cui l’America continua a essere impegnata su diversi fronti di guerra esterni, a cui i giovani senza prospettive della provincia profonda offrono un continuo ricambio di reclute, dove larghe fette del paese sono di proprietà delle multinazionali (ma non i tech titans che tutti immagineremmo, quanto colossi a bassa intensità tecnologica come la catena di supermercati Hefty Mart, ricalcata piuttosto su Walmart), se non dei trafficanti di droga, ovviamente con la complicità dei funzionari del DHS che fanno affari con loro. Questo futuro, che si distingue dal nostro solo per la diffusione delle stampe 3D e per l’adozione di innesti neurali per potenziare i riflessi dei soldati in programmi militari sperimentali, potrebbe essere una sorta di terzo mondo rispetto al futuro remoto della Londra postumana.
A separare le due epoche c’è stato il Jackpot, che come apprendiamo dopo quasi 350 pagine è un «evento antropico», ovvero provocato dagli esseri umani, “che avevano causato il problema senza averne l’intenzione e senza capire cosa stavano facendo”. Il cambiamento climatico era stato solo l’inizio, poi le cose erano andate sempre peggio, coinvolgendo l’estinzione di specie animali vitali per l’ecosistema e la diffusione di epidemie sempre sul punto di trasformarsi in grandi pandemie. Ma mentre la curva demografica veniva affossata, la tecnologia aveva vissuto un nuovo rinascimento, con l’invenzione di nuovi farmaci, la maturazione delle nanotecnologie, l’ideazione di cibo sintetico e, non ultima, l’ascesa di un nuovo costoso passatempo basato sul viaggio nel tempo.
Dilungarsi sulla trama di The Peripheral di William Gibson, romanzo del 2014 arrivato da noi con il titolo di Inverso nella traduzione – a tratti distratta, per non dire svogliata – di Daniele Brolli, è pressoché inutile. Anche se stavolta il Nostro ci concede il piacere adrenalinico di scene dall’azione concitata che per molti versi sembrano riportarci alle origini, e in particolare a quello spartiacque che la trilogia dello Sprawl rappresentò per la fantascienza, l’alienità del futuro post-Jackpot e gli effetti che i suoi «entusiasti del continuum» sono in grado di determinare nel futuro dissestato che porterà al tracollo della società sono talmente estremi da richiedere al lettore uno sforzo aggiuntivo di decodifica, per non parlare di un vero e proprio atto di fede. In fondo, è il patto che Gibson chiede sempre al lettore: lasciarsi condurre a spasso alla scoperta di invenzioni ora astruse, ora bizzarre, ora semplicemente inconcepibili per un lettore provvisto di un minimo di buon senso, riuscendo in cambio ogni volta a ripagarlo per la pazienza. Tra le trovate più degne di nota, stavolta possiamo annoverare sicuramente i neurorganici, le periferiche del titolo originale, usate per trasmettere a distanza la propria coscienza in corpi bioingegnerizzati allo scopo, oppure le Michikoidi, bambole robot con impianti militari che riscuotono un ideale credito di riconoscenza dalle bambole assassine di Ghost in the Shell, coniando un neologismo che invece fa il verso alla spietata critica Michiko Kakutani, già affilatissima penna del New York Times.
I capitoli si susseguono brevi, ricalcando anche qui lo il montaggio incrociato seguito in Giù nel cyberspazio (1986) o Monna Lisa Cyberpunk (1988), ma poi ripreso anche nella successiva trilogia del Ponte, e la scelta ha una sua ragion d’essere dal momento che ci permette di seguire il dipanarsi dell’intrigo dal doppio punto di vista dei protagonisti che vivono nelle due epoche: Flynne, la ragazza della frazione, e Wilf Netherton, il suo committente dal futuro post-Jackpot. La soluzione si rivela però anche uno dei limiti del libro, costringendo l’autore, man mano che avanza nella storia, a dedicare la prima parte di ciascun capitolo a un riassunto di quanto accaduto nel frattempo senza venire percepito dal protagonista del capitolo precedente, con una conseguente perdita di immediatezza per il lettore. Sarà interessante vedere come questa alternanza dei punti di vista sarà gestita nella serie TV messa in produzione da Amazon e affidata ai produttori di Westworld Lisa Joy e Jonathan Nolan.
Nelle dinamiche e nel titolo scelto per l’edizione italiana, sembra curiosamente di cogliere qualche risonanza con Tenet: anche in The Peripheral come nel capolavoro di Christopher Nolan abbiamo un futuro che dichiara guerra al passato, portando alle estreme conseguenze la logica predatoria del capitalismo. La componente politica è particolarmente accentuata nel romanzo di Gibson, che comunque si discosta completamente da qualunque cosa si sia vista fin qui (e quindi anche nell’innovativo Tenet) nelle dinamiche del viaggio nel tempo: al di là della strana coincidenza del titolo italiano, infatti, le due storie hanno ben poco in comune. The Peripheral mette in scena un viaggio nel tempo che è in sostanza basato solo su un trasferimento di informazioni, comunque sufficiente a determinare effetti anche su scala macroscopica, come per esempio la scalata a compagnie del passato o l’interferenza con l’economia dell’epoca. Di fatto, quello che fanno i manipolatori di mondi del futuro non è altro che traferire il colonialismo imperialista dallo spazio al tempo.
Ci sarebbe tanto da scrivere su questo libro, e non escludo di farlo un giorno. Intanto, mi piace constatare un’ulteriore interessante punto di contatto con «la Macchina di Whiterose» vista in Mr. Robot. E così è davvero come se, una volta ancora, Gibson andasse a riannodare i fili con tutto l’immaginario scaturito dalla mitopoiesi cyberpunk di cui il suo Neuromante è stato nel 1984 epicentro e punto d’origine. Questo The Peripheral, seguito nel 2020 da The Agency con il ritorno di Wilf Netherton, va a costituire il primo volume della sua quarta trilogia, del cui capitolo finale ha già anticipato (e poi smentito) il titolo, che avrebbe dovuto essere The Jackpot. Comunque si svilupperà la serie, possiamo comunque già dire di essere davanti alla sua prova migliore almeno dai tempi di Pattern Recognition.
Ricordo di avervi già parlato della mia valle, ma la lettura di questo pezzo direttamente dall’Antro Atomico del Dr. Manhattan mi ha ricordato di non avervene mai parlato nei termini che avrei sempre voluto. Nell’articolo citato, viene coniata una felice espressione che riflette ciò a cui penso il novanta per cento delle volte (forse più) delle volte che con la mente torno indietro agli anni ’90: per il Doc Manhattan è l’extaterritorialità della nostalgia, per me è – con parole che credo di aver rubato a un vecchio articolo dell’indimenticato Giuseppe Lippi – la cosiddetta nostalgia del futuro.
Negli anni ’90 la realtà sembrava attraversata da un ronzio elettrico che poteva preannunciare qualsiasi cosa, e in effetti nei venti anni successivi le abbiamo viste quasi tutte: dagli attacchi terroristici al cuore dell’impero Stars and Stripes all’esplosione di una pandemia come prima ci era capitato di leggere solo nei libri di fantascienza (ops… mi tocca autolinkarmi di nuovo). Il mondo era su un punto di discontinuità come raramente gli era capitato prima di trovarsi: potevamo imboccare tante strade diverse, sull’onda delle ricadute tecnologiche che cominciavano ad accelerare in maniera sensibile la nostra rincorsa al futuro.
E io dov’ero? Beh, io attraversavo il decennio con passo veloce, cercando di dribblare la vita nei suoi anni migliori, nella convinzione che gli amici e i compagni di strada di quegli anni sarebbero stati lì per sempre e che io sarei stato a mia volta sempre lì per loro, incapace di decidere cosa fare da grande ma così entusiasta del futuro da divorarlo su vecchi tascabili fuori commercio che riportavano storie scritte in un passato ormai anche molto distante come per esempio quello da cui mi parlava la voce di Philip K. Dick, ma anche quello che mi sembrava il futuro da cui scriveva del mio presente William Gibson. Perché, anche se Neuromante aveva più di dieci anni quando lo lessi la prima volta, sentivo che funzionava come un reportage in presa diretta dal mondo in cui sarei potuto finire catapultato da un momento all’altro, e intanto guardavo i pomeriggi correre fuori dalla finestra su una valle che ormai, quando va bene, rivedo dal vivo quattro o cinque volte all’anno.
Dopo la scuola leggevo – o, più spesso, rileggevo – Nathan Never e dietro ai miei occhi le montagne che racchiudono l’Alta Valle del Sele si trasformavano in arcologie e grattacieli, immensi habitat urbani che trasfiguravano lo Sprawl di cui leggevo sui libri e le megalopoli che incontravo nei fumetti o sul nastro consumato di una VHS su cui avevo registrato nel 1996 una replica notturna di Blade Runner (con tanto di Tg Notte all’intervallo) e che da allora, se non ero impegnato a riguardarla per l’ennesima volta, era perché l’avevo prestata per l’ennesima volta a qualche amico o compagno di scuola.
Il futuro era lì, a un passo da noi, e sapevamo tutti che stava affilando le lame con cui ci avrebbe dato il benvenuto. Lo vedevamo arrivare, lo aspettavamo, perfino, eravamo pronti ad affrontarlo corpo a corpo se necessario. Fa una certa impressione pensare che da allora è passato quasi il doppio del tempo che all’epoca ci separava dall’uscita di Blade Runner, che tutti riconoscevamo come un capolavoro ma nessuno di noi osava immaginare che avrebbe saputo descrivere in maniera così pervasiva, accurata ed efficace il futuro che si andava componendo sotto i nostri occhi.
Eravamo troppo intenti a rincorrere il futuro, a gettarci nelle sue bracci, per vederlo arrivare alle nostre spalle, a fauci spalancate, come effettivamente è poi successo. Ma da allora, da quei pomeriggi di autunno, inverno, primavera o estate passati a intervallare i libri di scuola con letture meno ortodosse, cercando il senso delle cose tra le parole degli autori che avrebbero plasmato il mio senso del futuro e il mio immaginario, mentre le stagioni si alternavano sul cielo della valle trascolorandola e cambiando forma e inclinazione alle ombre, il ricordo dei giorni perduti si mischia inestricabilmente a quello del mio apprendistato fantascientifico. Ed è così che, in preda a un riflusso di nostalgia del futuro, ogni volta ripenso alla mia valle, e a com’era cyberpunk sotto il cielo di una televisione sintonizzata su un canale morto.
Che il 2021 si preannunciasse come un annus mirabilis per l’immaginario fantascientifico e per quello cyberpunk in particolare lo avevamo anticipato mentre eravamo ancora agli albori, nella scia dell’uscita di Cyberpunk 2077, in piena marea montante di una serie di iniziative editoriali che potrebbero configurare quello che mi ero arrischiato a definire un nuovo rinascimento cyberpunk, per proseguire poi al cinema con Dune e il ritorno di Matrix (e mettiamoci anche l’imminente Spider-Man: No Way Home), e in streaming con il nuovo buco dell’acqua (il secondo di una certa entità dopo il flop dell’attesissimo Altered Carbon) rappresentato dal tentativo – per fortuna effimero – di dare una seconda vita live action a una pietra miliare che non ne aveva certo bisogno come Cowboy Bebop (forse ne parleremo, ma forse anche no).
L’anno è proseguito tra celebrazioni e anniversari, alcuni passati quasi del tutto inosservati, come i quarant’anni dall’uscita del racconto Johnny Mnemonico di William Gibson, che avrebbe posato la prima pietra nel castello di ghiaccio nero del cyberspazio, una fortezza attorno a cui, tra alti e bassi, corsi e ricorsi, si sono concentrate le forze dell’immaginario dei decenni successivi, proiettando la sua ombra fino a noi. Noi ne abbiamo parlato su Quaderni d’Altri Tempi, ripercorrendo anche la genesi del racconto e tracciando un parallelo con la sua trasposizione cinematografica, che se non altro ebbe il grosso merito di lanciare Keanu Reeves come icona fantascientifica.
A non passare sottotono è stato invece l’altra grande ricorrenza di quest’anno. Il 2021 ha visto compiere quarant’anni anche a un’altra delle colonne portanti della nuova fantascienza distopica degli anni ’80 e anche in questo caso ne abbiamo scritto sulle pagine di Quaderni: riguardare a distanza di anni 1997: Fuga da New York per scriverne è servito anche a constatare la grandezza del capolavoro di John Carpenter, un film che non è invecchiato minimamente nel suo ritratto di un potere sordo e corrotto e di un mondo dominato da un individualismo sfrenato, in cui l’incontro con il prossimo può servire al massimo a instaurare brevi alleanze in un’ottica di utilitarismo tribale, e nel caso peggiore a cercare di trasformarlo nella propria cena – in senso letterale.
In quarant’anni, siamo sempre lì, sull’orlo dell’abisso. Solo un po’ più incoscienti e pronti a spiccare il salto nel vuoto che ci separa dal grande destino che aspetta tutti noi. Non è vero, Plissken?
Nel luglio 1993, nell’edicola del mio quartiere, m’imbattei in una copertina plastificata che mesmerizzò la mia mente di dodicenne. Il titolo dell’albo recitava Almanacco della Fantascienza 1993 e nelle sue pagine, che divorai nello spazio di un pomeriggio e una serata, scoprii tra le altre cose un personaggio Bonelli che da allora avrei seguito fedelmente almeno per i successivi quindici anni (recuperando peraltro tutti gli arretrati, in un’epoca ormai preistorica in cui il servizio arretrati era un’esperienza a metà strada tra ludopatia e religione), una panoramica delle uscite librarie e cinematografiche dell’ultimo anno (con incursioni nei fumetti e nei videogame) e, soprattutto, in un dossier di Mauro Boselli sul cyberpunk.
Cosa fosse la fantascienza, lo sapevo già, nel mio piccolo di fan formatosi più che altro con i film tramessi in prima e seconda serata dalle reti commerciali e locali (in un’epoca che, fortunatamente, non conosceva gli attuali vincoli di programmazione che hanno devastato il palinsesto della televisione generalista), ma con qualche sporadica lettura alle spalle. Il cyberpunk, invece, non lo avevo mai sentito prima, ma l’accostamento con un film che già adoravo (Blade Runner), l’estetica delineata nelle illustrazioni che accompagnavano l’articolo e le caratteristiche tracciate in maniere sintetica ma efficace da Boselli, mi dischiusero un mondo. Ritrovai gli stessi ingredienti che mi avevano così affascinato nella storia a fumetti contenuta nel volumetto, che era stata la prima cosa su cui mi ero fiondato appena tornato a casa: un piccolo gioiello, sceneggiato da Bepi Vigna e disegnato con il tratto che mi sarebbe diventato familiare del grandissimo Roberto De Angelis, dal titolo Vendetta Yakuza.
Qualche anno più tardi, quando avrei finalmente messo le mani su una copia di La notte che bruciammo Chrome, dopo averlo a lungo cercato nelle librerie di provincia all’epoca ovviamente sprovviste di un accesso diretto ai cataloghi dei distributori, avrei ritrovato tra le pagine di William Gibson (in particolare il racconto che dà il titolo all’antologia e Johnny Mnemonico) le atmosfere, i personaggi, le tecnologie e le dinamiche che mi avevano affascinato in quella storia, senza che da allora questo mi abbia comunque rovinato le successive riletture. Dentro c’era anche altro: Johnny Mnemonic sarebbe uscito al cinema solo un paio di anni dopo e per Matrix avremmo dovuto attendere la fine del decennio, così in quegli anni l’immaginario cinematografico del cyberspazio era fortemente debitore di altri titoli oggi semi-dimenticati (Tron e Il tagliaerbe), e Nathan Never in fondo era ispirato fin dall’impermeabile alla figura di Deckard, il cacciatore di replicanti di Ridley Scott.
Alcuni anni più tardi (tra il 1997 e il 1998), tra le pagine di una rivista trovai un’offerta 2×1 dell’Editrice Nord: avrei potuto acquistare due volumi della collana Grandi Opere pagandone una sola. Compilai il coupon, lo spedii e due settimane più tardi ricevetti in contrassegno un pacco con dentro due volumoni, I mondi del possibile e Cyberpunk, entrambi curati da Piergiorgio Nicolazzini, e il mio primo numero del Cosmo SF, più tardi noto come Nord News, erede (avrei scoperto più tardi) del glorioso Cosmo Informatore. In anni in cui la rete muoveva i primi passi, quello era per gli appassionati la principale fonte di approvvigionamento di notizie sul fandom e sul settore, non solo relativamente alle uscite editoriali della casa editrice di Gianfranco Viviani.
Divorai i 28 racconti contenuti in Cyberpunk e i saggi che lo completavano nel corso dell’estate di quell’anno, e mi misi alla ricerca dei titoli citati nelle accurate bibliografie che lo accompagnavano. Così risalii nei mesi successivi agli altri titoli pubblicati dall’Editrice Nord, in particolare gli imprescindibili Neuromante e La matrice spezzata, e poi, poco a poco, a quasi tutto Philip K. Dick, a cominciare da Cacciatore di androidi e La svastica sul sole (com’erano conosciuti allora Ma gli androidi sognano pecore elettriche? e L’uomo nell’alto castello), ma non solo. Perché prima la stella di Dick e poi le informazioni raccolte in Cosmo SF mi avrebbero guidato nelle mie successive, un po’ più strutturate e via via più consapevoli esplorazioni della fantascienza.
Insomma, per me il cyberpunk è stato la porta di accesso al genere, e da allora non ho ancora smesso di leggere né l’uno né l’altro. Da Gibson sarei poi passato a Dashiell Hammett, a Thomas Pynchon, a William S. Burroughs e a Don DeLillo. E leggendo loro mi sarei trovato a percorrere piste piuttosto caotiche nella letteratura nordamericana del Novecento, ma non solo. E benché non sia più un lettore assiduo, mi capita ancora di comprare di anno in anno diversi albi di Nathan Never, e di numerose altre serie Bonelli. Perché una cosa che mi ha insegnato il cyberpunk è che i confini sono costruzioni artificiali, non meno di quanto lo siano le etichette. Ma se queste ultime hanno a volte una loro utilità generale, gli steccati finiscono sempre per affamare entrambe le parti che separano, per quanto una delle due possa essere convinta della loro benefica necessità.
Per questo ho approfittato della recente uscita negli Oscar Draghi di un tomo annunciato come l’antologia assoluta del filone e a sua volta intitolato Cyberpunk, che con i citati Neuromante, La matrice spezzata e Mirrorhades include anche – sebbene molto arbitrariamente – Snow Crash di Neal Stephenson, arrivato in concomitanza con lo sbarco su Amazon Prime dell’ultima stagione di Mr. Robot, per rimettere insieme un po’ di idee. Che per il momento trovate in un articolo/mappa su Quaderni d’Altri Tempi, ma che mi riprometto di ampliare per percorrere fino in fondo i sentieri che ho potuto solo abbozzare sulla mappa.
La mappa non è il territorio e mai lo sarà. Ma forse mi aiuterà a replicare in una scatola il fascino della scoperta che non mi ha mai tradito lungo quei percorsi.
Dieci anni fa, scrissi quasi di getto un racconto che a oggi rimane il racconto a cui resto più legato. Senza far torto a tutti gli altri, che ovviamente continuano a occupare un posto particolare tra i miei affetti e i miei ricordi, Cenere alla cenere è probabilmente il racconto in cui sono riuscito a fare meglio ciò che mi prefiggevo mentre scrivevo: calare l’universale nel particolare, affondare lo sguardo nelle nebbie del tempo (per citare il mio socio Lanfranco Fabriani), laddove la cronaca esplode senza senso e offusca qualsiasi possibile recupero della verità. Ma forse il motivo per cui continuo a essere così affezionato a questo racconto è il lavoro che c’è stato dietro: il contributo di decine di amici che mi hanno aiutato a ricostruire l’Italia di quei giorni grazie ai loro ricordi, alle loro sensazioni, alla loro dedizione per una causa che in fondo ognuno sente un po’ propria – quella di trovare un senso alle cose, anche se le cose non sempre si prestano a essere decifrate. E quei giorni non sono nient’altro che i giorni che portarono al 2 agosto 1980, di cui sta per giungere il quarantesimo anniversario, senza che molta chiarezza sia arrivata a dissipare le nebbie e i fumi, le ombre e le tenebre di quell’epoca oscura.
Linko anche il making of ospitato da Delos in occasione della ristampa del racconto su Robot, perché credo che mai come in questo caso sia importante tanto quanto il racconto.
Nei giorni scorsi è poi uscito il nuovo numero di Futuri. (disponibile anche in PDF). Sono trascorsi quasi sei anni dal primo numero della rivista dell’Italian Institute for the Future, sulle cui pagine uscivo con un racconto di stampo postumanista. Roberto Paura, direttore della testata nonché fondatore e presidente dell’istituto, ha voluto ospitare un mio nuovo racconto, che al momento rappresenta anche l’ultima cosa che abbia scritto: un racconto su un’Italia del sud (Bassitalia, again) prossima ventura, in un entroterra sconvolto dai cambiamenti climatici e svuotato da successive ondate di profughi ambientali, alle prese con space junk, IA, indentured system e intrighi geopolitici. S’intitola La sindrome di Kessler, ha un forte debito di riconoscenza “formale” verso Frammenti di una rosa olografica di William Gibson e contiene più o meno tutto quello che volevo metterci dentro mentre lo scrivevo.
Se le storie di ieri sono ciò di cui si nutrono i racconti di domani, in entrambi questi casi lo sguardo di domani scruta tra le pieghe del presente. Buone letture!
A Chiba aveva visto svanire in due mesi di consulti e di esami i suoi nuovi yen. Gli esperti delle cliniche clandestine, la sua ultima speranza, avevano ammirato la maestria con cui l’avevano menomato, poi avevano scosso lentamente la testa.
Adesso dormiva negli alberghi bara più economici, quelli vicini al porto, alla luce dei riflettori alogeni che rischiaravano i moli tutta la notte come fossero enormi palcoscenici, là dove non si potevano vedere le luci di Tokyo a causa del bagliore del cielo televisivo, neppure il torreggiante ologramma della Fuji Electric Company, e la baia di Tokyo era una nera distesa in cui i gabbiani volteggiavano sopra masse di bianco polistirolo espanso alla deriva. Dietro al porto iniziava la città, le cupole delle fabbriche dominate dagli enormi cubi delle arcologie delle multinazionali. Il porto e la città erano separati da una stretta linea di confine fatta di strade più vecchie, un’area che non aveva un nome ufficiale. Night City, con Ninsei nel suo cuore. Durante il giorno i bar di Ninsei erano chiusi e anonimi, i neon spenti, gli ologrammi inerti, in attesa sotto il velenoso cielo argento.
Tratto da Neuromante, William Gibson
(Mondadori, 2011 – traduzione di Giampaolo Cossato e Sandro Sandrelli, pagg. 8-9)
In questa galleria di Stefano Gardel, fotografo italiano basato in Svizzera, l’immaginario distopico e le atmosfere cyberpunk di film come Blade Runner e Akira rivivono negli scatti notturni presi per le strade di Tokyo e Osaka. L’abbinamento con le parole di Gibson è inevitabile.
Nostalgia di un futuro già passato.
Altre magnifiche composizioni (incluse le gallerie Dystopia, Electric Lines, Looming Kowloon e Pervading Darkess) sul suo sito.
Sul nuovo numero di Delos Science Fiction, fresca vincitrice del Premio Italia per la migliore rivista fantastica, Carmine Treanni mi ha coinvolto in un’intervista incentrata su uno dei temi di maggiore attualità di questi anni, tra immaginario di genere e tentativi fallaci di estrapolazione, cercando di fornire anche uno spaccato degli esiti più rappresentativi prodotti in seno alla letteratura di fantascienza.
Per introdurre il tema fantascienza e intelligenza artificiale, vorrei che mi indicassi tre rappresentazioni di IA nella science fiction, rispettivamente nella letteratura, nel cinema e nelle serie TV. Quelle che a te sembrano le più interessanti e mi motivassi la scelta.
a scelta letteraria è dettata da ragioni affettive, ma credo che sia anche piuttosto obbligata: Invernomuto, l’IA manipolatrice dagli obiettivi imperscrutabili che recluta Case nel romanzo che fa da spartiacque nella storia della fantascienza. È da qui che buona parte della SF scritta dopo il 1984 scaturisce: sto parlando ovviamente di Neuromante di William Gibson. In ambito cinematografico c’è l’imbarazzo della scelta: da HAL 9000 a Skynet, fino ovviamente a Matrix, A. I. – Intelligenza Artificiale e Interstellar, pensando solo ai titoli più riusciti, ma forse il regista per cui l’IA ha finito per rappresentare una vera e propria ossessione è Ridley Scott, che dal 1979 con MOTHER e Ash (le due IA imbarcate sulla Nostromo di Alien) fino al 2017 con David 8 e Walter (le IA gemelle della Weyland Corporation in Alien: Covenant) ha di fatto scoccato una freccia che attraversa tutta la storia della fantascienza recente. Per questo la mia scelta è un po’ borderline, sicuramente meno canonica e scontata che per le IA letterarie: penso ai replicanti di Blade Runner, non solo superiori agli umani per facoltà intellettive, ma addirittura in grado di sviluppare comportamenti non previsti nella loro programmazione biologica e cognitiva. Infine, tra le serie TV, non posso fare a meno di pensare ai cylon di Battlestar Galactica, non la serie originale di Glen A. Larson, ma la nuova serie di Sci Fi Channel prodotta da Ronald D. Moore, che carica il conflitto tra umani e macchine di significati metaforici, sfumature psicologiche e in definitiva complessità, del tutto assenti nella serie degli anni ’70. Personalmente, credo che l’influenza di BSG sul modo in cui oggi pensiamo alle IA sia stato almeno all’altezza di tutti i migliori predecessori, da 2001: Odissea nello Spazio in poi, e non è male per una serie nata come un prodotto di nicchia.
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Nella rinnovata sezione dedicata alla narrativa del Club GHoST, Luca Bonatesta ha scelto di ripubblicare uno dei miei primissimi racconti, uscito sull’ormai introvabile Revenant, l’antologia con cui di fatto ho esordito. Benché siano passati quasi quindici anni da quando l’ho scritto, quando Luca mi ha chiesto un racconto già edito Red Dust è stato uno dei primi titoli che mi è venuto in mente, e quello su cui poi ho lavorato per ripulirlo dalla patina del tempo. Si tratta di un racconto di ambientazione marziana, sullo sfondo di una guerra planetaria. Ed è un racconto cyberpunk e, se vogliamo, protoconnettivista, che si configura un po’ come un ritorno a casa, visto che ho pubblicato il mio primissimo racconto (Notturno n. 23) proprio sulle pagine di questa pionieristica rivista on-line.
Non avendo io all’epoca letto né le storie marziane di Kim Stanley Robinson né quelle di Ian McDonald, scaturisce da un immaginario quasi vergine, benché non del tutto incontaminato. Oltre all’inesorabile William Gibson (che però non mi risulta abbia mai scritto nulla di ambientazione marziana), l’ombra dei fantasmi marziani di John Carpenter si staglia sullo sfondo della vicenda, così come anche alcune rappresentazioni di Philip K. Dick e K. W. Jeter delle colonie marziane. Se vi piace, o anche se non vi piace, e ne volete parlare, sapete dove trovarmi.
Buona lettura!
Risonanze.
Cyberspazio: un’allucinazione vissuta consensualmente ogni giorno da miliardi di operatori legali, in ogni nazione, da bambini a cui vengono insegnati i concetti matematici… Una rappresentazione grafica di dati ricavati dai banchi di ogni computer del sistema umano. Impensabile complessità. Linee di luce allineate nel non-spazio della mente, ammassi e costellazioni di dati. Come le luci di una città, che si allontanano.
Cyberspace. A consensual hallucination experienced daily by billions of legitimate operators, in every nation, by children being taught mathematical concepts… A graphic representation of data abstracted from banks of every computer in the human system. Unthinkable complexity. Lines of light ranged in the nonspace of the mind, clusters and constellations of data. Like city lights, receding…
William Gibson, Neuromante (1984)
La musica alla radio è un sogno febbrile condiviso, un’allucinazione collettiva, un segreto spifferato a milioni di persone, una voce che sussurra all’orecchio del Paese intero. Se è dirompente, sovverte il messaggio trasmesso tutti i giorni dalle autorità costituite, dalle agenzie pubblicitarie, dai mezzi di comunicazione di massa, dalle società di informazione e più in generale dai custodi dello status quo, abituati come sono a intorpidirci la mente, anestetizzarci l’anima e mortificare ogni traccia di vitalità.
Music on the radio is a shared fever dream, a collective hallucination, a secret amongst millions and a whisper in the whole country‘s ear. When the music is great, a natural subversion of the controlled message broadcast daily by the powers that be, advertising agencies, mainstream media outlets, news organizations and the general mind-numbing, soul-freezing, life-denying keepers of the status quo takes place.
Bruce Springsteen, Born to Run (2016)
Stanno facendo molto discutere le dichiarazioni rilasciate dallo scrittore inglese Ian McEwan in occasione del lancio del suo ultimo romanzo Machines Like Me, che si presenta come un’ucronia incentrata sulla riscrittura del rapporto dell’uomo con la tecnologia. Come fa notare Sarah Ditum nel suo ottimo articolo apparso sul Guardian, McEwan ci ha tenuto a rimarcare la distanza del suo lavoro dalla fantascienza, “tracciando un confine invalicabile tra la literary fiction e il genere e posizionandosi fermamente dal lato rispettabile della linea”. Un atteggiamento che la giornalista non esita a definire snobismo e a regolare con una semplice controprova: è sufficiente infatti citare anche solo un autore di genere per fornire a McEwan un esempio più che sufficiente di approccio della fantascienza a scenari di storia alternativa e temi come l’esplorazione dei confini non-umani della coscienza.
Per la cronaca, l’esempio citato è Philip K. Dick, ma possiamo ritrovare esiti analoghi in una miriade di altri autori, da William Gibson e Bruce Sterling a Kim Stanley Robinson, da Neal Stephenson a Charles Stross, da Ted Chiang ad Aliette De Bodard. E sono tutti autori ben presenti sul mercato editoriale anglofono (e per fortuna anche nel nostro, anche se in misura inevitabilmente più circoscritta e con un certo ritardo), quindi difficili da trascurare in un giudizio tanto lapidario, a meno di non tradire la propria fiera ignoranza o una malafede senza vergogna. Come si dice in questi casi, tertium non datur… e delle due l’una.
Roger Luckhurst, professore di letteratura moderna e contemporanea all’Università di Londra e curatore di una storia letteraria della fantascienza, ascoltato sulla questione non ha esitato a individuare nel successo della letteratura gotica tra il XVIII e il XIX secolo le radici dell’odierno disprezzo per la fantascienza: mentre Ann Radcliffe vendeva migliaia di copie con i suoi romanzi, la sua produzione veniva bollata come pessima spazzatura dagli strenui difensori della rispettabilità letteraria, per lo più indispettiti dal non guadagnare tanto quanto lei. E la storia prosegue con Mary Shelley e ovviamente con Edgar Allan Poe, H. G. Wells e Jules Verne, e con il successo postumo di H. P. Lovecraft, con i bestseller di Frank Herbert e Isaac Asimov e, nei generi contigui, di J. R. R. Tolkien, Stephen King, Terry Pratchett o George R. R. Martin.
D’altro canto, se è vero che questo atteggiamento di sufficienza non coinvolge indiscriminatamente tutti gli autori forti di uno status letterario, è altrettanto vero che nel corso del tempo possiamo annoverare una lista crescente di nomi che continuano a inciampare nel vecchio pregiudizio, dai casi più eclatanti di Vladimir Nabokov e Margaret Atwood (che poi in parte è tornata sui suoi passi) ai più recenti, con il premio Nobel Kazuo Ishiguro e appunto McEwan, che siamo sicuri non rimarrà a lungo l’ultimo della sequenza. Molti di loro si sono ritrovati a scrivere fantascienza magari “a loro insaputa” ed è comunque fuori discussione, come per altro faceva notare già questo articolo di Derek Zoo, che questa inconsapevolezza nelle mani degli scrittori più dotati possa tramutarsi in una riserva di originalità per lo stesso immaginario di genere. Ma i giudizi lapidari espressi sulla fantascienza ci dicono forse molto più sulla scarsa conoscenza di questi autori verso il loro stesso pubblico, di quanto non ci dicano rispetto alla loro “ignoranza” sul genere: i confini contrassegnati con le etichette funzionano molto meglio sugli scaffali delle librerie che nei gusti dei lettori, e non di rado capita che i lettori dei suddetti autori si trovino già a essere lettori, più o meno consapevoli, di fantasy e fantascienza, e in definitiva appassionati alle opere dei realisti di una realtà più grande.
Siccome le cose non capitano mai per caso, non mi sono sorpreso di imbattermi stamattina in una vecchia lista di Taste of Cinema dedicata ai 20 film più complessi della storia. Un elenco in una certa misura arbitrario, come sempre quando si compilano liste di questo tipo, ma tutto sommato sintomatico: il 70% dei titoli sono infatti chiaramente identificabili come fantascienza e già così sarebbe una percentuale schiacciante, che tuttavia diventa ancora più larga se si considera che molte delle rimanenti pellicole sono comunque riconducibili ai codici del fantastico. Questo chiude il cerchio con quanto viene spesso rimproverato alla fantascienza, anche dagli stessi appassionati affezionati a un’idea statica del genere (ne abbiamo già parlato in altre occasioni), legati a una concezione granitica e anti-evoluzionistica, e che per questo mi divertirò a chiamare i creazionisti della fantascienza: un’etichetta, a ben guardare, che si attaglia tanto a quei lettori, spesso non proprio numerosi ma comunque molto rumorosi, che disprezzano e sminuiscono i più innovativi tra gli esiti recenti della letteratura di idee, spesso proprio in ragione della loro eccessiva complessità; quanto a quegli autori che pretendono di rimarcare la propria originalità prendendo le distanze dal genere, e così facendo finiscono irrimediabilmente per scoprire e riscoprire l’acqua calda.
Volendo estremizzare, se la complessità è una delle prerogative della fantascienza, una delle frecce che l’arco del genere può decidere di volta in volta di incoccare, rinunciando per principio a questa possibilità si sta ancora sfruttando la fantascienza al massimo delle proprie potenzialità? E quanto è facile cogliere la complessità di un tema consolidato nella letteratura di genere potendo “vantare” di non averne mai letto una sola pagina?
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