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Ogni volta che muore uno scrittore con cui avverto una risonanza, o che in qualche modo ha avuto un’influenza sulla costruzione delle lenti attraverso cui osservo il mondo, non posso fare a meno che tornare alle sue pagine. A volte sono libri che ho già letto e a cui torno come si farebbe ritorno in una casa che abbiamo abitato per un po’, prima di partire per nuove destinazioni (non è così, in fondo, per tutti i libri che leggiamo, almeno i più belli?). Altre sono libri che mi prefiggevo da tempo di leggere ma che per un motivo o per l’altro (crediamo ci sia sempre tempo, per le cose importanti che necessitano di quel tempo) sono rimasti ad accumularsi sulle mensole della libreria. Era successo l’anno scorso con Valerio Evangelisti. Ed ero ancora immerso nelle sue pagine, quelle familiari intrise di un senso di claustrofobia di Cherudek e quelle crudeli e violente che leggevo per la prima volta di Veracruz, quando è arrivata la notizia della morte di Cormac McCarthy.

Cormac McCarthy Photograph © Beowulf Sheehan http://www.beowulfsheehan.com (via Literary Hub)

Adesso, leggere Sunset Limited potrebbe non essere stata la scelta migliore, mentre ero ancora intriso del mood di Cherudek e delle riflessioni di Mark Fisher, ma di sicuro ha amplificato quella risonanza, quel senso di sintonia con alcune considerazioni, sensazioni o convinzioni, che vanno montando da un po’, stratificandosi tra i miei pensieri, condizionando il mio modo di vivere e agire il mondo.

Il libro è un testo teatrale portato in scena per la prima volta nel 2006 a Chicago, e in seguito adattato anche per la televisione da Tommy Lee Jones, che lo ha interpretato con Samuel L. Jackson. Protagonisti sono due uomini con una vita di dolore e rabbia alle spalle, ma mentre il Nero ha trovato una via d’uscita da questa gabbia di oscurità (“Ho avuto quello che mi serviva invece di quello che volevo, e questa è grossomodo la più grande fortuna al mondo“, sostiene a pag. 100 dell’ultima edizione Einaudi del 2017, nella traduzione di Martina Testa), il Bianco continua a vivere in un “mondo buio“, in cui si sente in trappola.

Una mattina il Nero evita al Bianco di trasformarsi in un “pendolare terminale“, strappandolo dalle rotaie davanti al Sunset Limited in arrivo. Lo porta a casa sua, in uno squallido caseggiato popolato di tossici e crackomani, e inizia tra i due un lungo dialogo sui massimi sistemi: la vita, la morte, il destino dell’uomo, il senso del mondo. Una pagina prima, dopo una lunga insistenza da parte del Nero, il Bianco si era finalmente risolto a dichiarare il suo punto di vista:

Per me il mondo è fondamentalmente un campo di lavori forzati da cui ogni giorno si estraggono a sorte i detenuti – completamente innocenti – perché vengano giustiziati. Non è così che la vedo. E’ così che è. Esistono pareri diversi? Certo. Resistono a un esame approfondito? No.

Ma è un confronto che li porta a lambire un po’ tutto lo scibile umano, dalla musica di John Coltrane al metodo scientifico, dalla storia alla letteratura, diventando ben presto un esercizio olistico di critica, come in questo passaggio capace di coniugare fisica quantistica e narratologia:

BIANCO La Bibbia è piena di storie che devono servire da ammonimento. Anzi, ne è piena tutta la letteratura, se è per questo. Ci dicono di stare attenti. Attenti a cosa? A non prendere la strada sbagliata. Il sentiero sbagliato. Quante ne esistono, di strade sbagliate? Un numero infinito. E di strade giuste? Una sola. [pag. 57]

Il Bianco è un pessimista, un disilluso, e in diversi momenti sembra richiamare direttamente la lezione di Thomas Ligotti. Cormac McCarthy non compare nel lungo elenco di nomi e di titoli di cui il maestro delle tenebre fa menzione nelle sue interviste, ma giudicate un po’ voi davanti a una pagina come questa:

BIANCO Ok. Forse ha ragione. Va bene, ecco le notizie che ho da darle, reverendo. Io anelo all’oscurità. Io prego che arrivi la morte. La morte vera. Se pensassi che da morto incontrerei le persone che ho conosciuto in vita, non so cosa farei. Sarebbe la cosa più orrenda. Il colmo della disperazione. Se dovessi incontrare mia madre e ricominciare tutto daccapo, ma stavolta senza la prospettiva della morte a consolarmi… Be’, quello sarebbe l’incubo finale. Kafka coi controfiocchi.

NERO Cazzo, professore. Non vuoi rivedere tua mamma?

BIANCO No, per niente. Gliel’ho detto che si sarebbe arrabbiato. Io voglio che i morti restino morti. Per sempre. E voglio essere uno di loro. Sennonché, ovviamente non si può essere uno di loro, perché ciò che non esiste non può formare una comunità. Ecco: nessuna comunità. Mi si scalda il cuore soltanto all’idea. Silenzio. Buio. Solitudine. Pace. E tutto questo, nell’arco di un battito di ciglia.

NERO Cazzo, professore.

BIANCO Mi faccia finire. Io non considero il mio stato mentale una visione pessimistica del mondo. Io lo considero equivalente al mondo così com’è. L’evoluzione non potrà non condurre la vita intelligente alla consapevolezza di una certa cosa sopra tutte le altre, e questa cosa è la futilità. [pag. 109-110]

Ecco di cosa stiamo parlando, per intenderci. E ogni giorno di più ho la sensazione che la sofferenza sia davvero una costante ineluttabile, nelle nostre vite. Le cose possono andarci tanto bene da oltrepassare le nostre più rosee aspettative, eppure ci sarà sempre quel rumore di fondo a ricordarci che manca qualcosa, che qualcosa potrebbe andare meglio, che quella certa cosa poteva essere fatta meglio. Non è di insoddisfazione che sto parlando, ma proprio di vincoli, di oneri che ci opprimono, che ci schiacciano le spalle e il petto e ci impediscono di riempirci i polmoni di quell’ossigeno vitale di cui avremmo bisogno per dare sfogo alla nostra gioia. Nessuno è davvero libero, e nessuno, che se ne renda conto o meno, può trascendere la verità finale.

Perché, dopotutto, siamo tutti soli anche quando non siamo davvero soli: siamo soli con noi stessi davanti ai bilanci di natura personale, a quei piccoli check point con cui periodicamente sottoponiamo al vaglio ciò che abbiamo fatto e ciò che stiamo facendo, a quegli esami in cui ci misuriamo rispetto all’ideale che avevamo in mente quando abbiamo scelto di essere una determinata persona o fare una certa vita. Questo è qualcosa a cui non possiamo sfuggire, e non saranno le parole delle persone che abbiamo intorno, nemmeno le più vicine, a poter intercedere per noi con l’ultimo giudice a cui ognuno di noi si trova a rendere conto: sé stesso.

Possiamo nasconderci dietro alla facciata che ci siamo dati, dietro l’apparenza delle maschere che indossiamo ogni giorno, ma sotto è con questo che dobbiamo confrontarci. E sono qui che mi trastullo con queste riflessioni quando mi capita davanti questa visione di Hulk firmata da Mark Fielding:

Sembra un segnale dall’universo, no? Uno di quei messaggi che la realtà ti manda per metterti alla prova, per testare la tenuta delle tue convinzioni. Cosa dire, se non sposare ancora una volta le parole del Bianco di McCarthy, che qui entrano in risonanza con immagini di orrore cosmico in grado di richiamare addirittura H. P. Lovecraft:

La rabbia, di fatto, la provo solo nei giorni migliori. Ma in verità non me n’è rimasta molta. In verità le forme che vedo si sono andate pian piano svuotando. Non hanno più nessun contenuto. Sono soltanto figure. Un treno, un muro, un mondo. O un uomo. Una cosa che penzola con le sue espressioni insensate in mezzo a un vuoto ululante. Senza che ci sia alcun significato nella sua vita. Nelle sue parole. [pag. 112-113]

Un’inquietante presenza si annida dietro le pareti di un vecchio stabile alla periferia di una metropoli non meglio precisata. Una presenza sinistra e malvagia, che sembra nutrirsi del dolore degli inquilini, delle loro frustrazioni e paure, dei loro traumi, e che sempre più famelica non si accontenta di questo, ma richiede periodicamente un dazio da pagare in sacrifici umani. Come scopre Juri (Tristan Göbel), un sedicenne appena arrivato nel condominio al seguito di suo padre Jaschek Grundmann (Charly Hübner), che ne ha assunto l’incarico come custode manutentore, è una storia che va avanti dal 1979, l’anno in cui il condominio fu inaugurato. Time is a flat circle, direbbe Rustin Cohle, e in effetti il cerchio è un simbolo che ricorre anche lungo le otto puntate di questa miniserie tedesca, creata da Till Kleinert, Anna Stoeva e Thomas Stuber, diretta da quest’ultimo e co-prodotta da Sky Studios e Lago Film.

Hausen, come spiega Hübner, è una parola che non sta per casa ma per abitare, e che qui assume diverse valenze, in relazione alle condizioni di vita degli abitanti del palazzo, uno spaccato della società con le sue gerarchie di potere, l’immutabilità dei ruoli, le logiche di sopraffazione e sottomissione declinate sia fuori che all’interno dello stesso nucleo familiare. Nel lugubre affresco che riunisce i residenti di questo squallido casermone, il registro del racconto spazia dal grottesco all’inquietante, senza risparmiare un tocco di Unheimlich che ripagherà i cultori delle visioni più estreme. La sintesi finale armonizza alla perfezione il discorso sociologico sul nostro tardo capitalismo, con l’emarginazione, le derive autoritarie, le dipendenze e la violenza che ne sono espressione, e suggestioni che richiamano, abbastanza sorprendentemente, l’orizzonte metafisico di un orrore cosmico normalmente appena sfiorabile, e qui invece ritratto in tutta la sua monumentale grandiosità.

Così, attraverso gli otto episodi – densissimi di riferimenti ma anche esigentissimi nei confronti dello spettatore, al quale sono richieste pazienza nella visione e attenzione ai dettagli, spesso annegati nella distesa di ombre che domina ogni inquadratura – si articola un percorso immaginifico che va di pari passo con quello salvifico di alcuni personaggi, tra cui il giovane e inizialmente insicuro Juri. Proprio quest’ultimo, grazie all’incontro con altre anime disastrate come la sua, tra cui un tetro spacciatore soprannominato Ninja (Béla Gabor Lenz) e la solitaria Loan (Andrea Guo), coinvolta in una relazione di cui lei stessa ignora i contorni con il suo insegnante di scacchi, finirà per acquisire gradualmente consapevolezza del segreto dell’edificio, e per primo comincerà a distinguere gli spettri del passato che perseguitano lui e suo padre dalle minacce ben più letali che albergano nelle viscere del palazzo, facendosi chiave di volta per la soluzione del mistero e il rito di purificazione e rinascita finale.

Hausen fotografa il disagio e le inquietudini dei personaggi con tonalità livide che si aprono a malapena la strada attraverso le tenebre che hanno preso il sopravvento sulle loro vite, esaltando la claustrofobia dei set ricreati con cura magistrale dalla scenografa Jenny Rösler in un ospedale abbandonato nella periferia nord di Berlino. Il condominio, che estremizza le patologie già intercettate da J. G. Ballard, richiama alla memoria le case di Suspiria e Inferno catalizzatrici di un male metaumano. Ma l’immaginario di Hausen non si ferma di fronte all’irrazionale che segnava anche il limite del cinema estetizzante di Dario Argento, ma anzi corteggia con insistenza e coraggio gli orrori innominabili, capaci di condurre alla follia per il solo fatto di essere contemplati o pensati, su cui si fonda una gloriosa tradizione del genere che possiamo far risalire a H. P. Lovecraft. Gli effetti speciali privilegiano poi l’approccio analogico che esalta i richiami, forse involontari ma certamente d’impatto, alle flesh interfaces già incontrate nella prima stagione di Stranger Things, così come anche la fisicità del fluido nero che trasuda dalle pareti del palazzo e gorgheggia intorno ai residenti, evocando gli spettri del passato con i suoi vapori mefitici. E al termine di una transizione psichedelica che non può non richiamare Kubrick e il suo 2001: Odissea nello Spazio regalano allo spettatore il più appagante, benché – o magari proprio perché – annunciato, dei finali.

Trasmesso in anteprima la scorsa primavera da Sky Atlantic e passato un po’ in sordina, Hausen è una visione obbligata per tutti gli amanti dell’horror, del weird e più in generale del fantastico fuori dagli schemi.

Un sole di gomma fu squassato, e tramontò; e un nulla nero-sangue si mise a far girare un sistema di cellule intrecciate con cellule intrecciate con cellule intrecciate dentro un unico stelo. E spaventosamente nitida, sullo sfondo di tenebra, una candida fonte zampillò.
Vladimir Nabokov, Fuoco pallido, traduzione di Franca Pece e Anna Raffetto per l’edizione italiana Adelphi (2002)

Finalmente la mia copia del balenottero è venuta a spiaggiarsi qui di fianco e quindi quale occasione migliore per parlarvi un po’ del mio racconto? Il senso del post, come avrete capito, è quanto di più autoreferenziale si possa immaginare. Se decidete di andare avanti, sapete cosa aspettarvi.

1. Riferimenti letterari

Come fa giustamente notare il curatore del volume Franco Forte (che ringrazio oltre che per aver messo in luce il modello, anche per avermi dato la possibilità di comparire ancora una volta in un libro con diverse autrici e autori per cui non ho mai fatto mistero di nutrire da lettore – e a volte anche, nel mio piccolo, da curatore – un apprezzamento incondizionato), sul mio racconto aleggia l’ombra di Sergio “Alan D.” Altieri. Alla fine i conti tornano, no?

Anche lui forse avrebbe usato per questo racconto l’etichetta sci-fi action, che non so se merito, però mi avrebbe fatto senz’altro piacere.

Accanto a lui, altri riferimenti al mio personale pantheon letterario che fanno capolino tra le pagine sono meno scontati per un racconto di fantascienza quale Al servizio di un oscuro potere è, e in particolare penso a H. P. Lovecraft, Thomas Ligotti e Breece D’J Pancake.

2. Suggestioni e ispirazioni

Lo spunto di partenza, la scintilla che ha innescato la suggestione da cui è scaturito il racconto, è una sequenza di fotogrammi di Bologna, una mattina presto d’inverno di due o tre anni fa. In superficie la città deserta, spazzata da un vento gelido che strappava pioggia ghiacciata a un cielo di marmo. Nel sottosuolo, il labirinto multi-livello della stazione dell’alta velocità, con le sue lunghe passerelle di vetro sospese sui binari e immerse in un’atmosfera ovattata, altrettanto rarefatta, e le voci dei passeggeri in attesa che si perdono in lontananza, soffocate dai volumi delle navate sotterranee.

La cordiale voce registrata del sistema di annunci sonori diffusi dagli altoparlanti è stata da ispirazione per Mezereth. Con la complicità di un umore appena più torvo del solito, non è stato difficile delineare invece il personaggio di Maksim Bogdanov. Il nome è un omaggio ad Aleksandr Bogdanov, sulla cui figura è incentrato Proletkult dei Wu Ming, ma anche ad Arkady Bogdanov, uno dei personaggi più intriganti della Trilogia Marziana di Kim Stanley Robinson.

Osservatorio ALMA, Cile.

3. Storie dentro storie dentro altre storie

Keira è antecedente a entrambi, essendo ormai anni che medito di raccontarne la storia. Una storia che inizia in una città devastata dalla guerra, subito dopo il crollo della civiltà, e si conclude a bordo di un’astronave interstellare che si lascia alle spalle un sistema solare irreversibilmente sconvolto. In mezzo ci sono un annuncio del SETI a lungo atteso, ma che forse mai avremmo voluto sentirci dare sul serio, e il Programma Majestic. Di tutto questo si fa menzione in Al servizio di un oscuro potere, che va così a coprire con una prima tessera il mosaico di una storia più ampia e più antica. Il resto, prima o poi, lo scriverò.

Dimenticavo. Il personaggio che fa da contraltare a Maksim nella ricerca di Keira per conto di Mezereth si chiama… Irene Adler. Ovviamente, non quella Irene Adler.

4. World-building

Nel mondo post-apocalittico in cui vivono Maksim e Irene Adler, la società e le sue strutture di potere sono state commissariate dalle intelligenze artificiali. Amorevoli, altruistiche IA come Mezereth hanno preso in custodia il genere umano per il bene della civiltà. E gli umani, per lo meno quelli sopravvissuti all’ultima guerra totale, sono stati incasellati, per il loro bene, in ruoli predefiniti in virtù della loro classificazione in sedici tipi psicologici, che riprende lo schema messo a punto dalle psicologhe Myers e Briggs, per altro madre (la seconda) e figlia (la prima), nel secondo dopoguerra (per scoprire il vostro tipo MBTI, potete sottoporvi a test più o meno accurati, anche on line se ne trovano di diversi, tra cui questo in italiano).

Nel racconto mi diverto a giocare, come si sarà capito poco sopra, con i rischi esistenziali di Nick Bostrom, provando ad azzardare una risoluzione “artificiale” del dilemma del prigioniero, che porta a pagare un prezzo alto ma accettabile per evitare la distruzione assicurata. Questo dilemma, nel racconto, è legato al paradosso di Fermi, e a una possibile spiegazione che è stata già affrontata con eccellenti risultati da autori come Stephen Baxter, Alastair Reynolds e Liu Cixin.

Credit: Babylon 5.

5. Altri mondi, altre storie

Il nome della città in cui si apre e finisce il racconto, al-Hastur, è una citazione abbastanza trasparente di Robert W. Chambers, i cui racconti del ciclo del Re in Giallo sono andati a costituire il nucleo di un universo letterario di rimandi e citazioni che si è avvalso nel corso del tempo dei contributi, tra gli altri, di H. P. Lovecraft, sublimando nell’immaginario popolare anche grazie al lavoro di Nic Pizzolatto sulla prima stagione di True Detective.

In effetti, con tutti questi link, sembra che non abbia dovuto fare altro che mettere un po’ di ordine nella cronologia del blog. Ma è stato un po’ più complessa di così.

Nella descrizione di al-Hastur come di una città mausoleo, uno spettrale sepolcro imbiancato, riverberano le sensazioni di Cuore di tenebra di Joseph Conrad, in cui si ritrova una descrizione di Bruxelles che gli permette di materializzare una critica all’imperialismo colonialista europeo (“Mi ritrovai nella città sepolcrale risentito alla vista di individui che si affrettavano nelle strade per sgraffignare un po’ di denaro l’uno all’altro, […] per sognare i loro sogni sciocchi e insignificanti. Calpestavano i miei pensieri. Erano intrusi e la conoscenza che avevano della vita mi appariva un’irritante finzione, perché mi sentivo così sicuro che non potessero certo sapere le cose che sapevo io“).

Ho aggiunto il prefisso al un po’ per un tocco di esotismo, un po’ per caricarlo di un vezzo demoniaco, e poi perché mi sono detto: con tutti questi riferimenti, perché non citare anche Jack Vance?

Credit: Carcosa, by Irrealist.

6. E il titolo?

Ok, adesso l’ultima e poi evito di importunarvi oltre. Il titolo, vi starete chiedendo, o forse no, ma ormai avrete capito che ho comunque intenzione di dirvelo.

Al servizio di uno strano potere è il titolo, preso in prestito da uno dei suoi racconti, di un’antologia di Samuel R. Delany pubblicata in Italia in un numero monografico di Robot (il 35, per l’esattezza, nel febbraio del 1979). Robot è la mia rivista preferita, Delany è uno degli autori di cui non potrei fare a meno (e tra i primi che citerei se mi venisse chiesto il nome di uno scrittore che tutti dovrebbero conoscere) e questa antologia è uno scrigno di pietre preziose (così parafrasiamo pure il suo titolo più bello).

Al servizio di un oscuro potere esiste anche grazie a Robot e a Delany. Ed è un’influenza che va al di là del titolo, ma che il titolo mette da subito in chiaro.

Buona lettura!

Per me, leggere un racconto dell’orrore dovrebbe somigliare molto a sognare, e più simile a un sogno è un racconto, più mi colpisce. Non sono il primo a dire che l’incubo, non il giornale del mattino, è il modello ideale per la narrativa horror. Persino l’elemento soprannaturale è sacrificabile. Tuttavia, quello che rimane cruciale è la sensazione del soprannaturale, la sensazione di qualcosa di tremendo e meraviglioso che va oltre ogni analisi, una sensazione che potrebbe benissimo essere ispirata da qualcosa che di solito consideriamo «normale», come la pazzia o la morte (Poe lo fa con risultati incredibili, specialmente nel Cuore rivelatore, dove sfrutta una semplice vignetta raccapricciante per evocare tutta la potenziale singolarità, il mistero, l’orrore spirituale della morte e della pazzia). E il senso del soprannaturale è qualcosa che nasce dal confronto tra il lettore e il racconto, non da una divisione tra reale e irreale interna al racconto stesso. Naturalmente, avere livelli diversi di realtà narrativa è utile e va bene, ma non per forza è una fonte di orrore. Una volta che sei intrappolato in un incubo – intendo un incubo come si deve – nessuno deve venire a chiederti di sospendere l’incredulità riguardo all’orrore che sta per travolgerti. Per Lovecraft, la violazione delle leggi di natura era il concetto più terribile della mente umana, ma in un racconto del soprannaturale una violazione di questo tipo potrebbe altrettanto facilmente liberarci dal terrore, a seconda di chi la sta praticando e perché (cito le potenze benevole degli Arcieri di Machen). Persino Lovecraft era irritato dal giogo del tempo e sognava di esserne libero, ma le possibilità che ne derivano non sono una scampagnata, nel suo L’ombra venuta dal tempo. Il significato di un evento dipende dalla coloritura emotiva che gli danno i partecipanti o gli spettatori, o da come l’evento è vissuto o ritratto. La letteratura è piena di esempi in cui un’«intrusione» soprannaturale nella realtà quotidiana non porta scompiglio e non disturba. Tutto dipende da come lo scrittore presenta il materiale e da come il lettore lo percepisce. La sensazione dell’orrore deriva dalla doppia natura di un fenomeno che al tempo stesso è straordinario e minaccioso in una maniera molto particolare. Da qui l’ampia varietà di forme che l’orrore assume nella narrativa, dai nani malefici di Machen agli dèi ciclopici di Lovecraft. È tutto estremamente soggettivo. Il punto di vista, in narrativa o nella vita, è tutto. Messo nella giusta prospettiva, il caos universale potrebbe essere un gran bello spasso. E, dopo tutto, esiste gente che crede sinceramente nel soprannaturale senza perdere le rotelle. Quindi: l’orrore non è questione di metafisica ma di emozione. Per questo l’atmosfera è così importante: è il segnale e il generatore del senso; può riempire di emozione un evento oggettivamente neutrale.

Tratto da Thomas Ligotti. Nato nella paura, a cura di Matt Cardin
(Il Saggiatore, 2019 – traduzione di Luca Fusari, pagg. 25-26)

Il più grande sogno della letteratura del soprannaturale è rappresentare con il massimo grado di intensità l’immagine dell’universo come una sorta di incubo incantatore.

Su Quaderni d’Altri Tempi recensisco la raccolta delle interviste a Thomas Ligotti selezionate da Matt Cardin: Nato nella paura.

Siamo entrati da alcune settimane in quel mood un po’ nostalgico che fin dalle estati della nostra giovinezza si accompagna alla fine delle esperienze in cui abbiamo a lungo investito in termini emotivi. Non è una questione facilmente riducibile in termini quantitativi: per quanto possano sembrare tante in termini assoluti, una ottantina di ore spese a guardare una serie TV o una saga cinematografica finiscono per essere molto diluite quando vengono spalmate su un arco temporale di una decina di anni, ma questo non ne riduce affatto l’impatto qualitativo, perché tra un episodio e il successivo, tra una stagione o una fase e quella che ci aspetta, abbiamo speso una quantità non facilmente misurabile di tempo a farci domande e a parlarne con altri appassionati (o potenziali appassionati tra cui fare proseliti), che ha inevitabilmente contribuito ad aumentare le nostre aspettative e con esse il nostro investimento in quel particolare universo narrativo.

Il nostro mood mentre la fine si avvicina… [Lyanna Mormont (Bella Ramsey) in Game of Thrones, courtesy of HBO]

Dopotutto, non credo che sia un’esagerazione affermare che siamo le storie di cui ci nutriamo. Quindi, mentre portiamo avanti la discussione sulle conclusioni di quelli che sono probabilmente i due fenomeni culturali di proporzioni più vaste di quest’ultimo decennio, mi sono inevitabilmente ritrovato a riflettere sui momenti tristemente noti come finali. Sia su Game of Thrones che sul Marvel Cinematic Universe si è ineluttabilmente pronunciato Emanuele Manco, tra i maggiori esperti italiani di entrambi, e sebbene condivida il suo giudizio solo in parte (e più sul primo che sul secondo) vi rimando alle sue disamine dell’episodio 3 dell’ottava stagione di Game of Thrones e di Avengers: Endgame senza dilungarmi oltre. In ogni caso sono stati dei bei viaggi e, come per tutti i viaggi, forse non è così importante quello che troviamo alla fine rispetto a tutto quello che abbiamo avuto modo di apprezzare e imparare nel frattempo, anche (e forse soprattutto) su noi stessi.

Il nostro mood quando una storia finisce… [Marvel Studios’ AVENGERS: ENDGAME: Rocket (voiced by Bradley Cooper) and Nebula (Karen Gillan). Photo: Film Frame ©Marvel Studios 2019]

Però prendendo spunto da questa stagione di grandi e attesi finali, più o meno epici, più o meno riusciti, ho pensato di proporvi una lista, ispirata anche da questo montaggio di CineFix, e quindi, fatta questa doverosa premessa per scaldare i motori, eccoci a parlare di cinque finali su cui ancora oggi, a distanza di anni e in alcuni casi di decenni, continuiamo ancora a parlare, su cui continuiamo a fare ipotesi, costruire castelli teorici e alimentare un dibattito che contribuisce a prolungare la vita delle opere stesse ben oltre i confini temporali della loro fruizione (il che è un po’ la missione di ogni fandom che si rispetti). Sentitevi liberi di aggiungere le vostre considerazioni (e altre graditissime segnalazioni) nei commenti.

E adesso partiamo.

5. 2001: Odissea nello spazio (regia Stanley Kubrick, tratto da un racconto di Arthur C. Clarke, 1968)

Il film che ha consacrato la dimensione leggendaria di un regista già di culto come Stanley Kubrick. L’astronauta David Bowman (Keir Dullea) raggiunge l’orbita di Giove, destinazione della missione Discovery di cui è l’unico membro sopravvissuto, oltrepassa la soglia del monolito che è l’obiettivo della spedizione e si ritrova a esplorare una dimensione interiore, uno spazio psichico e psichedelico. Negli anni della New Wave (il seminale articolo di J. G. Ballard Which Way to Inner Space? apparve sulla rivista New Worlds nel 1962), ecco la prima e più incisiva rappresentazione visiva della rivoluzione concettuale che stava vivendo l’immaginario non solo di genere, proprio mentre l’uomo si apprestava a sbarcare sulla Luna e davvero il futuro era lì a portata di mano. Proprio come Ballard, anche Kubrick e, abbastanza sorprendentemente, il veterano Clarke suggeriscono che le vere frontiere dell’esplorazione non ci attendono lì fuori, ma sono sepolte dentro di noi, e l’ignoto spazio profondo non fa che avvicinarci a questo inner space, sbattendoci in faccia la sua intrinseca inconoscibilità. Se non conosciamo bene noi stessi (chi siamo? da dove veniamo?) come possiamo pretendere di capire ciò che ci attende alla fine del cammino (dove stiamo volando?)? Cosa è diventato Bowman, alla fine del suo viaggio oltre l’infinito? Quali implicazioni avrà la sua metamorfosi per il futuro della Terra e dell’umanità? Per affinità e assonanze, aggiungiamo non solo per dovere di cronaca che questa menzione non può che tirarsi dietro, come spesso accade quando si cita Kubrick in ambito sci-fi, anche Andrej Tarkovskij e i suoi altrettanto fondamentali Solaris (1972, tratto dal romanzo omonimo di Stanisław Lem) e Stalker (1979, tratto dal romanzo dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij Picnic sul ciglio della strada).

4. Blade Runner (regia di Ridley Scott, tratto dal romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep? di Philip K. Dick, 1982)

Più umano dell’umano, è lo slogan che demarca il target delle nuove linee di replicanti messi a punto dalla Tyrell Corporation per assistere il programma coloniale extra-mondo. E i Nexus 6 in fuga dalle colonie spaziali, sbarcati sulla Terra per ottenere un prolungamento delle loro vite artificialmente limitate a una durata di soli quattro anni, sono davvero indistinguibili dagli esseri umani di cui sono la copia, se non per il fatto di vantare una resistenza e una forza fisica perfino superiori. Il cacciatore di taglie Rick Deckard (Harrison Ford), richiamato in servizio dall’LAPD per un’ultima missione, riuscirà fortunosamente ad avere la meglio e portare a casa la pelle, anche grazie al provvidenziale ripensamento del leader dei replicanti ribelli Roy Batty (Rutger Hauer). Tornato a casa, deciderà di lasciare la città con l’ultimo replicante, un esemplare fuori serie che lo stesso creatore non ha esitato a definire “speciale” (Rachael Rosen, interpretata da Sean Young). Alla fine gli interrogativi lasciati aperti dalla pellicola, anche per via di un refuso di sceneggiatura (che menziona sei replicanti ribelli, mentre quelli effettivamente presenti o citati nel prosieguo della pellicola sono solo cinque) e poi attraverso i successivi editing di Ridley Scott (con montaggi alternativi che hanno incluso nuove scene, rimosso il finale e la voce fuori campo e apportato altri aggiustamenti minori), vertono tanto sulla figura del cacciatore di taglie (Deckard stesso è un umano o il replicante mancante?) quanto dell’androide che porta in salvo (cos’è che rende davvero speciale Rachael?). Dopo la vasta letteratura di seguiti ufficiali partoriti da K. W. Jeter, a entrambi gli interrogativi prova a dare una risposta con esiti decisamente più convincenti il sequel cinematografico diretto da Denis Villeneuve nel 2017, Blade Runner 2049, che tuttavia lascia aperti ulteriori spazi di indagine e di speculazioni sulle colonie extra-mondo e sul vero ruolo dei replicanti nei piani del magnate Niander Wallace (Jared Leto).

3. C’era una volta in America (regia di Sergio Leone, tratto dal romanzo The Hoods di Harry Grey, 1984)

Un film su cui si sono spese forse altrettante pagine di congetture da rivaleggiare con 2001. L’ultima impresa di Sergio Leone, a cui richiese uno sforzo produttivo durato tredici anni (e dieci mesi di riprese in USA, Canada, Francia e Italia) e che pose di fatto fine alla sua carriera. Allo stesso tempo, è il coronamento dell’opera di un autore straordinario, forse unico nel panorama della cultura italiana del ‘900 per l’influenza che è stato in grado di esercitare sulla cinematografia mondiale (e non solo nel western o nel cinema stesso: pensiamo anche alla fantascienza e ai debiti letterari riconosciuti da autori del calibro di William Gibson), la migliore conclusione possibile per la seconda trilogia di Leone (dopo quella del dollaro, quella del tempo). Un omaggio anche all’immaginario americano, con gli Stati Uniti rappresentati per quel generatore di miti che in effetti sono stati, il motore dell’immaginario del ‘900.  “Una sfilata di fantasmi nello spazio incantato della memoria”, come ha scritto Morando Morandini nel suo Dizionario, ma anche “un sogno di sogni”, in cui “la memoria del singolo tende a dissolversi in quella di un intero paese” (come ha scritto invece Gian Piero Brunetta nel suo Cent’anni di cinema italiano). E un noir su cui, disorientati dal sofisticato meccanismo narrativo che combina caoticamente analessi e prolessi, non siamo ancora stati capaci di decidere se la storia che stiamo guardando sia frutto di una rievocazione o di una proiezione immaginaria. Ma alla fine, è davvero così importante sapere se Noodles (Robert De Niro) vivrà (ha vissuto) o no quei famosi trentacinque anni che gli sono stati rubati dal suo socio di un tempo Max (James Woods)? In che modo un furto di tempo e di vita può risultare diverso dall’altro? I fumi dell’oppio non aiutano a fare chiarezza, ma continuano ad alimentare l’incanto di una pellicola che c’incolla allo schermo con la densità stilistica compressa in ogni singolo fotogramma.

2. Inception (scritto e diretto da Christopher Nolan, 2010)

Da un sogno di sogni a un altro, Inception è il film che probabilmente ha alimentato le discussioni più lunghe in quest’ultimo decennio, generando una quantità di infografiche esplicative che hanno cercato di districarne l’intreccio (forse l’unico film a poter rivaleggiare in questo con Primer di Shane Carruth). Tra il secondo e il terzo capitolo della trilogia dedicata al Cavaliere Oscuro, Christopher Nolan torna a coltivare il suo amore per le architetture narrative sofisticate e chiude il decennio della sua consacrazione autoriale così come lo aveva iniziato nel 2000 con Memento. Il film è un sogno ricorsivo che deve molto anche alla letteratura di fantascienza (non ultimo Roger Zelazny), ma con quel tocco personale che rende inconfondibili i film del regista londinese. Dominic Cobb (Leonardo Di Caprio) è un ladro psichico capace di estrarre segreti preziosi dalla mente dei suoi bersagli, ma un giorno viene arruolato da Mr. Saito (Ken Watanabe) per tentare un’operazione inedita: innestare un’idea nella testa dell’erede dell’impero finanziario con cui è in competizione. Per portare a termine l’impresa, Cobb progetta un meccanismo di sogni condivisi annidati a più livelli di profondità e arruola una squadra di professionisti, ma la missione lo pone davanti a ostacoli sempre maggiori, non ultimo l’interferenza del ricordo della defunta moglie Mal (Marion Cotillard). L’unico modo che hanno i sognatori per distinguere tra la realtà e il sogno è affidandosi a un totem, che nel caso di Cobb è una trottola metallica: in un sogno, non essendo soggetta alle leggi fisiche della gravità, contrariamente a quanto accade nel mondo reale la trottola è destinata a girare all’infinito. Quando alla fine Cobb riesce a tornare dai suoi figli, ricompensa per la buona riuscita dell’incarico, vuole avere la certezza che non sia ancora intrappolato nel limbo in cui è dovuto addentrarsi per salvare Mr. Saito, ma quando abbraccia i bambini la trottola sta ancora girando. Cobb si è davvero svegliato dal sogno o è ancora intrappolato nel limbo?

1. True Detective (ideato da Nic Pizzolatto, 3 stagioni, 2014 – in produzione)

Serie antologica della HBO, True Detective ha esordito nel 2014 con una stagione memorabile che si è indelebilmente impressa nella nostra memoria di spettatori grazie alle interpretazioni di Matthew McConaughey e Woody Harrelson e a una scrittura fortemente debitrice delle suggestioni horror e delle vertigini cosmiche dei maestri del weird, da Robert W. Chambers e H. P. Lovecraft fino a Thomas Ligotti. Una seconda stagione un po’ sottotono e incapace di tener fede alle altissime aspettative sembrava averla condannata al limbo delle produzioni cinetelevisive, ma nel 2018 una terza stagione (forte delle interpretazioni di Mahershala Ali, Stephen Dorff e Carmen Ejogo) si è dimostrata capace di rinverdire i fasti degli esordi (ne abbiamo parlato diffusamente anche su queste pagine). Come la prima stagione, anche quest’ultima ha uno dei suoi punti di forza nell’atteso twist finale e in entrambi i casi le implicazioni sottese alle scelte di sceneggiatura e regia hanno innescato una ridda di ipotesi e suggestioni. Cosa vede davvero Rustin Cohle pugnalato a morte dal Re Giallo? E Wayne “Purple” Hays riconosce o no Julie Purcell nella madre a cui riesce a risalire dopo decenni di indagini e solo ora che le sue facoltà cognitive sono irrimediabilmente compromesse dall’Alzheimer? Cos’è la giungla in cui si ritrova a vagare nella notte, come ai tempi delle sue missioni in Vietnam come recog? Un finale in grado di richiamare altri grandi classici della recente serialità televisiva, non ultimo la popolare Life on Mars prodotta dalla BBC, i cui enigmi sono poi stati sciolti nella successiva Ashes to Ashes.

Stanno facendo molto discutere le dichiarazioni rilasciate dallo scrittore inglese Ian McEwan in occasione del lancio del suo ultimo romanzo Machines Like Me, che si presenta come un’ucronia incentrata sulla riscrittura del rapporto dell’uomo con la tecnologia. Come fa notare Sarah Ditum nel suo ottimo articolo apparso sul Guardian, McEwan ci ha tenuto a rimarcare la distanza del suo lavoro dalla fantascienza, “tracciando un confine invalicabile tra la literary fiction e il genere e posizionandosi fermamente dal lato rispettabile della linea”. Un atteggiamento che la giornalista non esita a definire snobismo e a regolare con una semplice controprova: è sufficiente infatti citare anche solo un autore di genere per fornire a McEwan un esempio più che sufficiente di approccio della fantascienza a scenari di storia alternativa e temi come l’esplorazione dei confini non-umani della coscienza.

Per la cronaca, l’esempio citato è Philip K. Dick, ma possiamo ritrovare esiti analoghi in una miriade di altri autori, da William Gibson e Bruce Sterling a Kim Stanley Robinson, da Neal Stephenson a Charles Stross, da Ted Chiang ad Aliette De Bodard. E sono tutti autori ben presenti sul mercato editoriale anglofono (e per fortuna anche nel nostro, anche se in misura inevitabilmente più circoscritta e con un certo ritardo), quindi difficili da trascurare in un giudizio tanto lapidario, a meno di non tradire la propria fiera ignoranza o una malafede senza vergogna. Come si dice in questi casi, tertium non datur… e delle due l’una.

Roger Luckhurst, professore di letteratura moderna e contemporanea all’Università di Londra e curatore di una storia letteraria della fantascienza, ascoltato sulla questione non ha esitato a individuare nel successo della letteratura gotica tra il XVIII e il XIX secolo le radici dell’odierno disprezzo per la fantascienza: mentre Ann Radcliffe vendeva migliaia di copie con i suoi romanzi, la sua produzione veniva bollata come pessima spazzatura dagli strenui difensori della rispettabilità letteraria, per lo più indispettiti dal non guadagnare tanto quanto lei. E la storia prosegue con Mary Shelley e ovviamente con Edgar Allan Poe, H. G. Wells e Jules Verne, e con il successo postumo di H. P. Lovecraft, con i bestseller di Frank Herbert e Isaac Asimov e, nei generi contigui, di J. R. R. Tolkien, Stephen King, Terry Pratchett o George R. R. Martin.

D’altro canto, se è vero che questo atteggiamento di sufficienza non coinvolge indiscriminatamente tutti gli autori forti di uno status letterario, è altrettanto vero che nel corso del tempo possiamo annoverare una lista crescente di nomi che continuano a inciampare nel vecchio pregiudizio, dai casi più eclatanti di Vladimir Nabokov e Margaret Atwood (che poi in parte è tornata sui suoi passi) ai più recenti, con il premio Nobel Kazuo Ishiguro e appunto McEwan, che siamo sicuri non rimarrà a lungo l’ultimo della sequenza. Molti di loro si sono ritrovati a scrivere fantascienza magari “a loro insaputa” ed è comunque fuori discussione, come per altro faceva notare già questo articolo di Derek Zoo, che questa inconsapevolezza nelle mani degli scrittori più dotati possa tramutarsi in una riserva di originalità per lo stesso immaginario di genere. Ma i giudizi lapidari espressi sulla fantascienza ci dicono forse molto più sulla scarsa conoscenza di questi autori verso il loro stesso pubblico, di quanto non ci dicano rispetto alla loro “ignoranza” sul genere: i confini contrassegnati con le etichette funzionano molto meglio sugli scaffali delle librerie che nei gusti dei lettori, e non di rado capita che i lettori dei suddetti autori si trovino già a essere lettori, più o meno consapevoli, di fantasy e fantascienza, e in definitiva appassionati alle opere dei realisti di una realtà più grande.

Siccome le cose non capitano mai per caso, non mi sono sorpreso di imbattermi stamattina in una vecchia lista di Taste of Cinema dedicata ai 20 film più complessi della storia. Un elenco in una certa misura arbitrario, come sempre quando si compilano liste di questo tipo, ma tutto sommato sintomatico: il 70% dei titoli sono infatti chiaramente identificabili come fantascienza e già così sarebbe una percentuale schiacciante, che tuttavia diventa ancora più larga se si considera che molte delle rimanenti pellicole sono comunque riconducibili ai codici del fantastico. Questo chiude il cerchio con quanto viene spesso rimproverato alla fantascienza, anche dagli stessi appassionati affezionati a un’idea statica del genere (ne abbiamo già parlato in altre occasioni), legati a una concezione granitica e anti-evoluzionistica, e che per questo mi divertirò a chiamare i creazionisti della fantascienza: un’etichetta, a ben guardare, che si attaglia tanto a quei lettori, spesso non proprio numerosi ma comunque molto rumorosi, che disprezzano e sminuiscono i più innovativi tra gli esiti recenti della letteratura di idee, spesso proprio in ragione della loro eccessiva complessità; quanto a quegli autori che pretendono di rimarcare la propria originalità prendendo le distanze dal genere, e così facendo finiscono irrimediabilmente per scoprire e riscoprire l’acqua calda.

Volendo estremizzare, se la complessità è una delle prerogative della fantascienza, una delle frecce che l’arco del genere può decidere di volta in volta di incoccare, rinunciando per principio a questa possibilità si sta ancora sfruttando la fantascienza al massimo delle proprie potenzialità? E quanto è facile cogliere la complessità di un tema consolidato nella letteratura di genere potendo “vantare” di non averne mai letto una sola pagina?

Ci stiamo avvicinando al finale di questa terza stagione di True Detective, di cui abbiamo già parlato in un paio di occasioni (più esattamente qui e qui), e quindi quale momento migliore per tirare le somme in attesa che i fili di una trama sempre più ingarbugliata vengano sciolti? Ripartendo dai post precedenti, possiamo innanzitutto scrivere che le tracce di weird disseminate nelle prime tre puntate, con i richiami alle terribili cosmogonie di H. P. Lovecraft e, indirettamente, di Robert W. Chambers, si sono finora rivelate come poco più che specchietti per le allodole, alimentando una ridda di speculazioni (comprese le mie) il cui clamore si è andato stemperando puntata dopo puntata.

Con questo, non voglio certo dire che Nic Pizzolatto abbia ricondotto la storia nei binari di un’apparente convenzionalità, perché non è così. In fondo, anche la seconda stagione si ritagliava i suoi momenti di derive surreali, soprattutto – proprio – nel suo episodio finale, senza tuttavia riuscire davvero a tener fede alle aspettative, altissime dopo una prima stagione che di fatto ha segnato uno spartiacque nella moderna serialità televisiva.

Apro e chiudo una parentesi: non è che la seconda stagione non mi sia del tutto piaciuta, credo abbia avuto dei momenti davvero buoni, come per esempio il primo episodio, con un titolo dai chiari echi burroughsiani (The Western Book of the Dead) e due degli episodi centrali (Other Lives e Church in Ruins, rispettivamente quinto e sesto) capaci di regalare più di qualche brivido agli amanti della suspense; il problema è che le premesse, un mystery ambientato nel sistema dei trasporti della California del sud che presto rivelava una serie tale di connessioni da approdare a una cospirazione più vasta di una semplice manovra speculativa, venivano poi messe da parte, anche a causa della moltiplicazione di filoni narrativi e sottotrame, sacrificando le potenzialità della trama e dell’intreccio (in una parola sola, della storia) alle aspirazioni dei personaggi (che con alcune rare eccezioni si dimostravano tutti sprovvisti di un’agenda o anche solo di uno spessore tali da giustificare l’attaccamento o l’empatia dello spettatore). Nel finale era evidente lo sforzo di un colpo di reni, che tuttavia non riusciva a rimettere in carreggiata uno show ormai alla deriva, che aveva perso nel frattempo tutti i richiami alla sontuosa tradizione della crime fiction californiana, che abbraccia – non dimentichiamolo – nomi del calibro di Raymond Chandler, Dashiell Hammett e James Ellroy (giungendo fino a Don Winslow).

Questa deriva sembra fortunatamente scongiurata nella terza stagione: il ritorno alla formula collaudata della prima serie, con la sua alternanza di piani temporali, la destrutturazione dell’indagine che allestisce anche narrativamente il rompicapo di una verità da ricostruire, la rappresentazione di un mosaico da ricomporre a partire dalle singole tessere sparpagliate sul pavimento della memoria, permettono a Pizzolatto di giocare su un terreno conosciuto e sicuro. Al punto che anche le occasionali incursioni nello spazio onirico e nei territori del soprannaturale, pur con picchi da brivido, sono sembrate funzionali a quell’espediente narrativo, portando in scena i fantasmi del passato che tornano a perseguitare i protagonisti.

La testa di Wayne Hays (Mahershala Ali) è una casa infestata, l’ossessione per il caso Purcell che ha condizionato tutta la sua esistenza non lo ha mai lasciato davvero, nemmeno ora che l’Alzheimer insidia le sue ultime certezze, anni dopo le apparenti soluzioni di comodo e la scomparsa della moglie (Carmen Ejogo), che pure era riuscita a penetrare la cortina di fumo che avvolgeva la scomparsa dei due bambini meglio di lui e del collega Roland West (Stephen Dorff). Quello che finora lascia appagati è comunque l’impressione di aver assistito, come nel caso della prima serie, a una storia che ci stava raccontando in realtà tutt’altro, facendoci credere di essere a fuoco su una cosa (la scomparsa misteriosa e inspiegabile di due bambini in una zona rurale dell’Arkansas) mentre parlava di quell’altra cosa (i rapporti di forza, la lotta di classe, la speculazione del capitalismo ai danni delle fasce più deboli della società).

Gli Ozark stessi, che fanno da sfondo a questa storia, assumono un rilievo simbolico: avremmo potuto essere nella Rust Belt o in un qualsiasi posto del sud, ma la scelta ci riporta al cuore di tenebra degli Stati Uniti, trascendendo la specificità locale per assumere una vocazione più universale, soprattutto negli anni del risentimento che ci ritroviamo nostro malgrado a vivere.

Particolarmente rappresentativo a questo riguardo è uno scambio tra i due detective nel sesto episodio (Hunters in the Dark):

Roland West: «È assurdo, vero? Come è morta velocemente questa città?»

Wayne Hays: «Non è morta. È stata assassinata.»

Una lezione che viene ribadita da Wayne poco più avanti, nel corso della sua intervista a una giornalista che sta cercando di fare chiarezza sugli aspetti più oscuri delle indagini di venticinque anni prima.

«… le considerazioni che ti fa fare questo lavoro sono terribili. […] Ma queste sono solo congetture, che conducono a quelle che definiamo proiezioni. Distorcono ciò che vedi e offuscano la verità.»

Vedremo domani sera (stanotte i più fortunati o coraggiosi di noi) quanto ci siamo lasciati distrarre, lasciando che la verità che avevamo sotto gli occhi venisse offuscata da qualcuno, per i suoi biechi scopi.

Il destino di Frankenstein nel romanzo originale era una degna punizione del suo crimine? E la vita della sua creatura si poteva rendere ancora più tormentosa? Si potrebbe convenire che il dolore inflitto dalla giovane Mary Shelley all’uno e all’altro possa bastare. Ma a volte i lettori di storie dell’orrore non sono sazi delle tragiche agonie offerte alla loro approvazione. E se tra essi c’è un autore dell’orrore, la posta in gioco può raggiungere le vette dei torvi cieli gotici. Ciò non avviene per puro amore di sadismo, il dare alla vite un altro giro per il piacere di strappare nuove urla ai torturati. Si compie – è stato compiuto – a mo’ di autoflagellazione vicaria, brutalissimo schiocco di frusta che colpisce alla schiena i personaggi di fantasia e distrae l’autore dai colpi che la vita reale infligge a lui in uno specifico momento dell’esistenza.

Thomas Ligotti, dalla Prefazione a La straziante resurrezione di Victor Frankenstein

Tra gli autori che hanno saputo plasmare le frontiere della letteratura dell’orrore, modificandone la percezione e la considerazione presso lettori e studiosi, un posto di rilievo è occupato da questo schivo e ormai leggendario scrittore di Detroit. Quello che prima di lui era riuscito con la narrativa di genere a H. P. Lovecraft, di cui in qualche modo raccoglie il testimone, Ligotti ha saputo riproporlo a partire dagli anni ’80 con i suoi racconti, che da qualche anno l’attenzione di case editrici come Elara e Il Saggiatore sta facendo conoscere anche ai lettori italiani.

Per un’introduzione alla sua figura e opera non posso che rimandare all’eccellente profilo tracciato da Andrea Bonazzi, tra i primi in Italia a occuparsi di Ligotti e suo massimo conoscitore.

Tutt’altro che popolare, Ligotti propone una letteratura weird estremamente ambiziosa, coerente con una poetica antiumana di cui in molti (scrittori e sceneggiatori, ma non solo) hanno finito per nutrirsi, e la sua parabola è analoga a quella descritta da Philip K. Dick nella fantascienza, se non fosse per la non irrilevante differenza che Ligotti è diventato un oggetto di culto ancora da vivo e in attività.

Il Saggiatore ha recentemente dato alle stampe l’edizione italiana di questo affascinante libello, impreziosito dalle meravigliose opere d’arte di Harry O. Morris e rivolto ai seguaci del suo culto. Oggi ne parlo su Quaderni d’Altri Tempi.

John Martin, The Last Man (1849). Walker Art Gallery.

“Se ciò fosse vero, bisognerebbe dedurre che la semplice presenza dell’uomo esercita un certo effetto mesmerizzante sulla turbolenza della Natura e che uno dei risultati della sua assenza sia stato oggi quello di togliere ogni freno. Credo che, entro cinquant’anni, le forze della terra si scateneranno definitivamente, e questo pianeta sarà infine annoverato tra le palestre dell’Inferno. La nostra casa assisterà a sconvolgimenti immensi come quelli osservati su Giove”.

“Un prezioso reperto archeologico del primo Antropocene”. Probabilmente non esistono parole più appropriate ed efficaci di quelle usate da Roberto Paura nella sua densa prefazione per descrivere questo elegante volume di Matthew Phipps Shiel, riproposto da D Editore nella collana Strade Maestre, curata da Valerio Valentini e dedicata alla riscoperta dei classici “che hanno dato forma al nostro tempo”. Scritto all’alba del XX secolo, in piena febbre artica (sei le spedizioni fallite al Polo Nord tra il 1893 e il 1900), La nuvola purpurea (1901) è impregnato del gusto decadente della sua epoca e della lezione di un maestro come Edgar Allan Poe, che già aveva ispirato a Shiel il personaggio del principe Zaleski, protagonista di un ciclo di racconti di successo scritti negli anni immediatamente precedenti all’uscita di questo romanzo, e che su queste pagine incombe con l’ombra lunga della sua Storia di Arthur Gordon Pym (1838). Se in quest’ultimo erano i ghiacci dell’Antartide a fare da sfondo alle peripezie del protagonista, La nuvola purpurea fa delle distese artiche il suo portale di ingresso all’inesorabile e progressivo abbandono di Adam Jeffson alle spire della follia.

Karl Brullov, The Last Day of Pompeii (1833).

[Continua a leggere su Quaderni d’Altri Tempi.]

True Detective è tornato e la terza stagione si annuncia dai primi due episodi ricca almeno di punti di contatto con la prima, di cui tutti serbiamo un ricordo indelebile. Gli indizi disseminati sono diversi. Per esempio, nei boschi che circondano West Finger, l’immaginaria cittadina nella contea di Washington che fa da sfondo alla scomparsa di due bambini di dodici e dieci anni, vengono rinvenute delle bambole di paglia dalle fattezze di sposa che ricordano le trappole per uccelli che marchiavano il passaggio del Re Giallo della prima serie. Stessa simbologia occulta, come viene fatto notare a un certo punto da un personaggio menzionando esplicitamente lo scandalo della contea di Franklin:

Sapevi che nelle zone circostanti sono state scoperte cerchie di pedofili con una organizzazione su larga scala, collegate a personalità influenti? Eri a conoscenza dello scandalo Franklin? È stato ipotizzato che le bambole di paglia siano il marchio di un gruppo di pedofili, come la spirale spezzata.

Ma non è tutto. Come mi faceva notare Andrea Bonazzi a ridosso della prima visione, nella cameretta di uno dei due bambini scomparsi i detective incaricati del caso Wayne Hays (Mahershala Ali) e Roland West (Stephen Dorff), entrambi veterani del Vietnam (dove il primo era soprannominato Purple Hays, suppongo in riferimento alla celebre Purple Haze di Jimi Hendrix), scoprono un volume dal titolo piuttosto significativo per un appassionato di letteratura fantastica, specie se declinata secondo le coordinate weird care a un certo H. P. Lovecraft.

Le Foreste di Leng. Nella geografia di Lovecraft, il “gelido altopiano di Leng” fa la sua prima apparizione nel racconto del 1920 Celephaïs, dove viene presentato come la dimora del “grande sacerdote che non bisogna descrivere, colui che porta una maschera di seta gialla e vive da solo in un monastero di pietra preistorico” (nell’impareggiabile traduzione di Giuseppe Lippi, da Tutti i racconti). Due anni più tardi, nel racconto Il segugio, i protagonisti s’imbattono in “un amuleto esotico e dal disegno bizzarro” che riproduce le fattezze stilizzate di “un cane alato che sta per spiccare il balzo, o forse una sfinge dalla faccia canina, […] ricavato con squisita arte orientale da un frammento di giada verde“. Alla base del manufatto, “come il marchio dell’artista, un teschio molto particolare“, in cui riconoscono “lo spaventoso simbolo spirituale dei divoratori di cadaveri, il cui culto è praticato in Asia centrale, sull’altopiano di Leng“.

L’effigie non può non richiamare tutta la simbologia delle spirali spezzate (“crooked spirals“) che ricorre nella prima stagione, e che come abbiamo visto sopra viene esplicitamente richiamata nella terza.

Allo stesso modo in cui Leng non può non evocare Carcosa, la figura del grande sacerdote (“high-priest“) sembra trasporre l’ombra del Re Giallo che incombeva sulle indagini di Rust Cohle (Matthew McConaughey) e Marty Hart (Woody Harrelson) e i due adulti vestiti da fantasmi di cui in un altro passaggio della seconda puntata di questa nuova stagione si parla potrebbero essere i suoi emissari. Per approfondire questi aspetti, rimando a una pagina Reddit ricca di riflessioni interessanti. Una più di tutte: quando fa la sua apparizione ne La ricerca onirica dello sconosciuto Kadath (1926-27), il protagonista Randolph Carter, alter ego di Lovecraft, a un certo punto giunge “nel più spaventoso e leggendario di tutti i luoghi, il monastero preistorico dove vive da solo il sacerdote che non bisogna descrivere, colui che indossa la maschera di seta gialla e prega gli Altri Dei e il caos strisciante Nyarlathotep“. E Nyarlathotep, non serve ricordarlo, è la miglior rappresentazione del caos che irrompe nella quotidianità, ghermendo gli sventurati che gli capitano a tiro per trascinarli negli abissi della follia.

È presto per dire se come la prima stagione anche questa virerà verso gli orizzonti soprannaturali dell’orrore cosmico, ma intanto due puntate sono sufficienti per individuare almeno tre possibili sovrapposizioni con lo schema narrativo delle indagini di Cohle e Hart che nel 2014 imposero True Detective come la serie rivelazione della stagione:

  1. prima di tutto, l’ambientazione nella provincia profonda, con il recupero delle atmosfere tipiche del Southern Gothic (lì era la Luisiana dei bayou, qui siamo nell’altopiano di Ozark, nell’Arkansas nordoccidentale) in contrapposizione alla California metropolitana che faceva da sfondo alla seconda stagione;
  2. in seconda battuta, la struttura temporale: l’intreccio ancora una volta si snoda in tre diversi momenti storici: nel 1980, con la scomparsa dei due bambini che mette in moto il meccanismo narrativo; nel 1990, con un tentativo di riapertura del caso; nel 2015, con lo sforzo di riannodare i fili del passato sul filo della memoria (mentre Hays comincia a fare i conti con la perdita irreversibile dei suoi ricordi);
  3. e poi, con la coppia di investigatori diversi come il giorno e la notte, chiamati a mettere insieme i rispettivi punti di forza (acume e ostinazione) contro le macchinazioni politiche dei loro superiori per venire a capo del caso.

Senza dubbio per Nic Pizzolatto è un ritorno a una formula di successo. E in attesa di vedere se il pessimismo che pervade la visione del mondo di Hays e West si tradurrà in qualcosa di più weird, possiamo anticipare che un ulteriore sicuro punto di contatto tra la prima e la terza stagione è il ruolo che i personaggi attribuiscono al sogno, centrale in tutto Lovecraft e in particolare proprio nella ricerca onirica di Carter. Se nella prima stagione Cohle confidava al collega: «I don’t sleep. I just dream», qui il padre dei due bambini scomparsi, Tom Purcell (Scoot McNairy), chiede agli investigatori: «Are we going to find Julie or what? ‘Cause I can’t live through this man. Neither of us can. If we’re not going to find her I just need to know now. I can’t go to sleep. And I can’t wake up.»

Più ancora di quanto non sia stato il Vietnam, il caso Purcell diventa il nuovo spartiacque nella vita di Purple Hays, ma anche di tutte le persone che ha intorno. Ci sarà un prima e un dopo la scomparsa dei due bambini, e niente sarà più lo stesso. Prendendo in prestito le parole di Thomas Ligotti:

Nell’universo religioso, l’inferno si sostanzia come luogo destinato agli altri, non come il destino riservato a coloro che l’hanno inventato. Ma in senso figurato, ciascuno di noi è condannato a inventare il proprio inferno. E dopo aver preso residenza in un pozzo, cerchiamo compagni con i quali dolerci: soci nel dolore, nostri pari condannati per i medesimi errori o abbagli, che siano intenzionali o meno.

 

Barry Rourke gli aveva detto, una volta, che la degradazione di memoria era un effetto secondario del ritrovarsi esposti all’Oscurità. Mentre si aggirava nei boschi, lacero e traumatizzato, Don poté figurarsi che l’amnesia lacunare fosse in pari misura un meccanismo di autoconservazione. La sua coscienza aveva valutato la minaccia posta da tali affronti alla sua sanità mentale, e poi deciso di abbassare le luci e appendere il cartello con scritto FUORI SERVIZIO.

La cerimonia (The Croning, 2012) è il primo romanzo di Laird Barron, riconosciuto come uno dei migliori autori horror e weird contemporanei, ed è l’opera con cui fa anche il suo esordio in Italia, grazie alle encomiabili Edizioni Hypnos. È un libro che risplende di luce oscura, omaggiando i classici del genere, da Hodgson a Lovecraft passando forse anche da Ligotti, senza mai scadere nella sterile imitazione, anzi con una vitalità terrificante. In queste pagine ipnotiche il weird sconfina nel noir e nella fantascienza, mentre Barron segue l’ottuagenario geologo Donald Miller sulle tracce di un culto antico e terribile, che scoprirà affondare radici profonde ben più vicino a lui di quanto abbia mai osato temere. E incontriamo passaggi folgoranti (nonché familiari a chi ha una certa confidenza con il Solitario di Providence) come questo riportato qui sopra.

È il mio umile consiglio di lettura per questo giorno in cui le ombre sembrano farsi più lunghe e a volte anche animarsi di una volontà che non dovrebbero avere. Un’ottima, inquietante, suggestiva, preparazione a Halloween o, se preferite, a Samhain. Buona festa a tutti.

Illustrazione di Dalton Rose.

Il viaggio onirico di Randolph Carter alla ricerca del misterioso Kadath, l’inaccessibile dimora dei Grandi Dèi della Terra che svetta sulle gelide lande di Inganok immerse nel crepuscolo, è un’avventura impareggiabile ed emozionante che si compie sotto il segno delle stelle. Ad aprire la novella di Howard Phillips Lovecraft The Dream-Quest of Unknown Kadath (scritta tra l’autunno del 1926 e il gennaio 1927, mai pubblicata in vita e tra le più suggestive del Solitario di Providence) subito dopo la visione della meravigliosa città del tramonto, che per tre volte apparve in sogno al dormiente e per tre volte gli fuggì, è infatti il richiamo a Fomalhaut e Aldebaran, mondi remoti nello spazio e nel tempo che come il Sole ospitano aliene Terre dei Sogni.

Fomalhaut_ring_hst_2004Fomalhaut “funge da faro per chi si inoltra negli oceani dell’incubo”, come scrive Massimo Berruti nel suo fantastico Dizionarietto dei luoghi e della nomenclatura lovecraftiana che completa Il Guardiano dei Sogni, il volume a cura di Gianfranco de Turris che raccoglie tutte le avventure di Randolph Carter, impreziosito da un apparato critico di tutto rispetto. E sorprende vedere come l’anello di polveri osservato da Hubble – probabilmente una nube protoplanetaria di gas che si estende intorno alla “bocca della balena” (il significato letterale del suo nome in arabo), in una fascia compresa tra 133 e 158 unità astronomiche, certamente ignota a Lovecraft – le conferisca un aspetto inquietantemente tolkeniano. Fomalhaut dista da noi 25 anni-luce, si presume che sia giovanissima (440 milioni di anni, contro i 4,57 miliardi di anni stimati per il nostro Sole), e ha una massa pari a 2 masse solari, una luminosità 17 volte maggiore e un diametro maggiore di un fattore 1,8.

Aldebaran è invece una gigante arancione con un diametroAldebaran in continua crescita per via del suo ciclo vitale di espansione. È già arrivata a 44 volte il diametro del Sole, del quale è 1,7 volte più massiva e 518 volte più luminosa. E’ una stella doppia che illumina la costellazione del Toro. Dista 65 anni luce dalla Terra, ma nessun abisso – per quanto profondo – potrebbe metterci al riparo dal suo influsso ostile, che echeggia nelle “oscure regioni oniriche” che da essa si dipartono.

La fine del viaggio onirico di Carter si compie sotto lo sguardo di altri due astri: Antares, che rivaleggia nel cielo notturno con lo splendore vermiglio del pianeta Marte, e la gelida Vega.

Antares-combined-noise2Antares è una supergigante rossa, vista dagli antichi come il cuore dello Scorpione: è un titano celeste, il cui diametro è 883 volte più grande del Sole, di cui è 57.500 volte più splendente e almeno 12 volte più pesante. Randolph Carter ammirava la sua luce vecchia di quasi 6 secoli dalla finestra della sua abitazione sulla Beacon Hill di Boston.

Più vicina fisicamente e altrettanto cara a Carter è Vega, la stella alfa della Lira. La sua parabola celeste raggiunge il culmine d’estate, quando alle nostre latitudini arriva a sfiorare lo zenith. Per la precessione degli equinoziVega_Spitzer connessa al moto dell’asse terrestre, 12.000 anni prima di Cristo Vega era la stella polare dei nostri antenati e tra circa 14.000 anni tornerà ad esserlo per i discendenti dell’umanità che resteranno sul pianeta. 2,1 volte più pesante del Sole, 2,81 volte più grande in diametro, 40 volte più luminosa, è giovane quasi quanto Fomalhaut. Con l’inganno Nyarlathotep, il Caos Strisciante messaggero degli Altri Dèi, vi indirizza il volo dell’ippocefalo shantak sul cui dorso viaggia Carter, all’assalto del Monte Kadath in testa al suo esercito imbelle di ghoul e magri-notturni, ma dopo circa due ore di viaggio Carter approda finalmente sulla terrazza dell’agognata città del tramonto, dove trova ad attenderlo i Grandi Dèi e il suo futuro. Emerso da un passato perduto e finalmente riconquistato.

L’ultimo Godzilla ha innescato nella mia testa una catena di associazioni, riportando a galla delle riflessioni che facevo un po’ di tempo fa. Il film si fa apprezzare, soprattutto nella seconda parte con l’accelerazione impressa dallo scontro tra i super-protagonisti della pellicola: il nostro caro vecchio lucertolone atomico eponimo, tornato alle fattezze vintage del kaijū di Ishiro Honda dopo la sterzata giurassica del monster design di Roland Emmerich, e la coppia di M.U.T.O. che ha scelto la Baia di San Francisco per nidificare e proliferare. Catastrofi a tutto spiano, scontri epici e un paio di situazioni davvero perturbanti sono gestite con mano sicura dal giovane regista inglese Gareth Edwards. Pur nella sua continuità con la mitologia della Toho, ho l’impressione che il film sviluppi – con tutte le conseguenze e possibilità di un budget da 160 milioni di dollari – il discorso intrapreso nella sua opera d’esordio, il sorprendente Monsters (2010), costato 300 volte meno. Ed è questo il punto che mi interessa affrontare.

Godzilla_2014

Ovvio che l’impegno produttivo che ha coinvolto Legendary Pictures e Warner Bros. si porti dietro un corredo di condizioni e vincoli a cui è impossibile sottrarsi. Eppure Godzilla tradisce un’autorialità proprio nel suo rapporto con i modelli: il lavoro precedente di Edwards, ma anche altri monster movie recenti come The Mist (2007) e Cloverfield (2008). Insieme, questi film sembrano farsi promotori, ciascuno con sfumature diverse e con le proprie peculiarità, di una riscoperta dell’essenza più antica dell’orrore. Il cinema ci ha abituati a una visione prevalentemente antropocentrica: l’orrore che irrompe nella vita dei protagonisti viene in qualche modo sempre calato in una dimensione umana, di cui acquisisce connotazioni e attributi. Senza allontanarci troppo, pensiamo anche a King Kong, che nelle sue molteplici interpretazioni (inclusa la rilettura di Peter Jackson del 2005) ha assunto via via caratteristiche più umane, narrativamente veicolate dall’impossibile storia d’amore con la preda di turno. Allo stesso approccio possiamo ricondurre lo stesso Pacific Rim di Guillermo Del Toro (2013), in cui addirittura l’umanità si dota di giganteschi robot dalle fattezze antropomorfe (gli Jaeger) per contrastare l’inesorabile minaccia dei kaijū fuoriusciti da un portale sul fondo del Pacifico.

The_Mist_2007

È il kinghiano The Mist a segnare un primo punto di rottura. È vero, per la quasi totalità della pellicola abbiamo lo scontro tra la comunità assediata che degenera sempre più lungo la spirale della paranoia e della follia e le creature misteriose (aliene? sovrannaturali?) che hanno invaso il mondo. Ma nell’incontro con la Creatura che li spinge alla decisione estrema, che rende amarissimo un finale che non avrebbe potuto essere più nero, i protagonisti riconoscono un ordine superiore: nessuna connotazione religiosa, come la lettura salvifica già tentata dai sopravvissuti da cui si sono allontanati; solo l’ammissione della minutezza dell’uomo di fronte alle forze espresse da una natura a cui è stato puro delirio ambire di imporre le proprie leggi.

In Cloverfield accade qualcosa di simile e al contempo diverso. Innanzitutto lo stile di regia scelto da Matt Reeves e J.J. Abrams per raccontare la storia – una ripresa diretta in stile Blair Witch Project – amplifica i canali di immedesimazione dello spettatore nelle vicende che coinvolgono i personaggi, in lotta contro l’ignoto per sopravvivere in una New York trasformatasi nella periferia dell’inferno. Ma soprattutto ciò contro cui devono battersi non è il mostro che imperversa sulle strade sprofondate nelle spire di una notte senza termine, ma l’ecosistema che si accompagna al mostro marino. Nello scontro con i suoi parassiti si compie il ricollocamento dell’uomo nella catena alimentare: veniamo riassorbiti nella lotta spietata che muove una natura sempre più vendicativa. Come già accaduto tra le nebbie di Stephen King e Frank Darabont, la legge che siamo costretti a riscoprire è quella antica dell’homo homini lupus.

Monsters_2010

Ma forse è in Monsters che questa visione raggiunge il suo culmine. L’ecosistema alieno prosperato in Centro-America, e da qui irrotto oltre il confine a violare l’integrità del territorio americano, esprime l’apoteosi di questa metafora. L’uomo in balia di una natura incomprensibile, che si rivela letale mai in maniera intenzionale ma sempre per qualche errore di valutazione commesso dall’umanità stessa. L’uomo che è costretto a riscoprirsi straniero a casa sua, alieno sul suo stesso pianeta, in lotta ancora una volta contro l’estinzione. L’immagine più efficace resta quella del corteggiamento delle due gigantesche creature, del tutto incuranti degli umani nei paraggi. Un’immagine che risalta con violenza in contrapposizione all’unica reazione che gli umani e le loro istituzioni (nel caso in questione, le forze armate) sono in grado di opporre all’ignoto che sfugge alla loro comprensione. L’intuizione stilistica di Edwards di montare l’offensiva in apertura e in maniera speculare ma cronologicamente ribaltata la surreale bellezza del corteggiamento alieno nel finale, può essere letta come una scelta organica e funzionale a dipingere il nuovo ordine delle cose con cui ci tocca fare i conti.

Godzilla prosegue su questa strada, simile fin dalla locandina al Colosso di Francisco Goya. Gojira non è qui per noi. A svegliarlo dal suo sonno abissale sono state delle creature che appartengono al suo stesso ordine e ne minacciano il predominio sulla Terra, mettendo in discussione il suo ruolo di predatore alfa. Noi esseri umani, tutt’al più, siamo le vittime collaterali della caccia. Questo è quanto. E sì, qualora ve lo stiate chiedendo, quella che si staglia all’orizzonte, emergendo dalla linea dell’oceano in tempesta, è proprio l’ombra maestosa di H.P. Lovecraft contornato dal suo pantheon:

Penso che la cosa più misericordiosa al mondo sia l’incapacità della mente umana di mettere in relazione i suoi molti contenuti. Viviamo su una placida isola d’ignoranza in mezzo a neri mari d’infinito e non era previsto che ce ne spingessimo troppo lontano. Le scienze, che finora hanno proseguito ognuna per la sua strada, non ci hanno arrecato troppo danno: ma la ricomposizione del quadro d’insieme ci aprirà, un giorno, visioni così terrificanti della realtà e del posto che noi occupiamo in essa, che o impazziremo per la rivelazione o fuggiremo dalla luce mortale nella pace e nella sicurezza di una nuova età oscura.

Il richiamo di Cthulhu (1926)

Non le risultava che nei sogni la gente si portasse dietro il cellulare.

La frase è di Cristiana Astori, tratta dal suo bel libro Tutto quel nero, e racchiude un fondo di verità e un dubbio non banale. Come mai i nostri sogni sono generalmente a basso contenuto di tecnologia? Non ricordo un solo sogno in cui la tecnologia giocasse un ruolo sia pure marginale: che mi risulti, non sono mai inciampato non solo in un cellulare, ma neanche in internet o se è per questo un walkman o un lettore mp3.

Vero, mi è capitato di sognare qualcosa di simile a una realtà aumentata, ma forse quella visualizzazione aveva più tratti in comune con le dinamiche irrazionali del sogno, rispetto all’elettronica di consumo di cui non possiamo fare a meno nella nostra vita di tutti i giorni. Sarebbe interessante capire se si tratti di una sorta di censura onirica (in fondo non sarebbe bello poter sostenere coi fatti una formulazione del tipo: “il sonno filtra tecnologie oltre un certo stadio di complessità“?), o se piuttosto non sia una conseguenza della maturazione dei circuiti del sogno, che immagino riflettano l’esperienza acquisita durante la nostra infanzia e consolidata nell’adolescenza.

Nel primo caso, una sorta di firewall psichico precluderebbe l’accesso ai territori del sogno a device troppo sofisticati.

Nel secondo, invece, potremmo forse dedurre che i nostri sogni si svolgono in una sorta di universo parallelo, un ipnoverso istanziato da qualche parte nei primissimi anni di vita (non appena il nostro sistema nervoso diventa capace di elaborare e ritenere informazione ambientale), a cui ogni volta accederemmo sognando. Saremmo incapaci di accorgerci della continuità dell’esperienza in quanto ogni nuovo sogno sarebbe come ogni nuova partita giocata sulla stessa consolle (il nostro cervello) allo stesso gioco (il nostro personale ipnoverso). Ma a volte potrebbe capitare di indovinare la combinazione di tasti necessaria per salvare una partita, e la volta successiva di azzeccare quella necessaria per richiamare quel salvataggio, per cui il sogno #2 potrebbe portare avanti la trama del sogno #1. Una concatenazione di eventi fortunati potrebbe consentire alla trama di evolversi, fino a una soluzione.

escher_relativity

escher_relativity (Photo credit: williamcromar)

Elucubrazioni astruse. Forse occorre esercitarsi un po’ di più con la disciplina del sogno lucido, per poter approfondire il tema. E magari trarne un buon pezzo di narrativa. Se avete suggerimenti, anche di lettura, a riguardo, naturalmente sono benvenuti.

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Vivere anche il quotidiano nei termini più lontani. -- Italo Calvino, 1968

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Mi chiamo Giovanni De Matteo, per gli amici X. Nel 2004 sono stato tra gli iniziatori del connettivismo. Leggo e guardo quel che posso, e se riesco poi ne scrivo. Mi occupo soprattutto di fantascienza e generi contigui. Mi piace sondare il futuro attraverso le lenti della scienza e della tecnologia.
Il mio ultimo romanzo è Karma City Blues.

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