Di Matthew Phipps Shiel abbiamo già scritto, a proposito del suo capolavoro di fantascienza post-apocalittica La nuvola purpurea. Sul Post Libri Ludovica Lugli ha esplorato un’ulteriore ramificazione della sua storia, che parte dall’incoronazione da parte di suo padre Matthew Dowdy Shiell, che volle così celebrare la nascita di un figlio maschio dopo tante femmine, e di scrittore in scrittore, attraverso un labirinto di testi molto postmoderno tenuto attualmente in vita da Javier Marías, arriva fino a noi: la storia del Regno di Redonda.
La Biblioteca del Futuro (Future Library, in norvegese Framtidsbiblioteket) nasce a Oslo da un progetto dell’artista scozzese Katie Paterson nel 2014. Da allora raccoglie ogni anno il manoscritto inedito di un autore o un’autrice internazionali destinato a essere custodito nella cosiddetta Silent Room per essere pubblicato solo nel 2114. In questi anni hanno preso parte all’iniziativa autori di prima grandezza come Margaret Atwood (Il racconto dell’ancella), Han Kang (Atti umani) e David Mitchell (Cloud Atlas), che all’inizio per la verità era scettico sulla valenza dell’operazione, ma poi ha dovuto ricredersi.
Il progetto si prefigge infatti di mettere in condizione gli autori di misurarsi con il pensiero a lungo termine, qualcosa che trascende le loro vite, e quelle dei lettori che avranno la possibilità di misurarsi con le loro opere: tutti gli autori che prenderanno parte alla Biblioteca prima della metà di questo secolo (e plausibilmente molti tra quelli che verranno anche dopo) scriveranno infatti lavori destinati a essere letti da generazioni nemmeno ancora nate al momento della stesura. Inoltre, i contributi che si aggiungeranno alla Biblioteca nel corso del tempo risentiranno inevitabilmente del mutare delle condizioni (politiche, sociali, economiche, culturali) in cui saranno scritti, attraversando un secolo intero di vita sulla Terra, e di sicuro il secolo più ricco di eventi, sconvolgimenti e ricadute tecnologiche tra tutti quelli trascorsi dalla comparsa di quel fenomeno che va sotto il nome di civiltà.
La Biblioteca del Futuro richiama un po’ anche l’intento della Long Now Foundation, che lavora su una scala temporale persino più ampia (10000 anni). L’idea, come scrive BBC Future, è ispirare le persone a superare le distrazioni momentanee e riflettere sulle responsabilità nei confronti delle generazioni che abiteranno il pianeta dopo di noi, promuovendo una prospettiva lungimirante sul futuro. Questo è il sito ufficiale della Future Library.
Trovo che, in un’epoca come la nostra, iniziative come queste dovrebbero fiorire un po’ dappertutto, finché non si sarà raggiunta una consapevolezza tale da poter dare per scontato che le nostre scelte nel presente possono avere una ricaduta a lungo termine, anche oltre l’orizzonte della nostra permanenza sulla Terra.
L’articolo che avevo annunciato è online da alcuni giorni su Quaderni d’Altri Tempi. È un pezzo a cui tengo molto e che allo stesso tempo avrei preferito non dover scrivere.
In questi giorni sto scrivendo un articolo su Valerio Evangelisti, che come sapete ci ha lasciati lo scorso 18 aprile. Mi sono così calato nuovamente nelle sue pagine, che in alcuni casi non rileggevo da vent’anni, tornando alle sue atmosfere notturne, fumose, oniriche e malate, e ho ritrovato la grandezza di un autore che, pur nel successo che ha avuto, avrebbe probabilmente meritato una visibilità maggiore in vita, del tipo per esempio giustamente riconosciuto ai giallisti della scuola italiana (Camilleri, Lucarelli, De Cataldo, Carofiglio). Ma Evangelisti non scriveva gialli ma fantascienza, e nonostante i romanzi storici e il resto della sua produzione di genere che mutuava gli schemi dell’avventura e del noir, ne ha portato le stigmate fino alla fine.
Raccogliendo materiale per l’articolo, mi sono imbattuto in questa video-intervista realizzata da Selene Verri e rilanciata pochi giorni dopo la scomparsa di Evangelisti da Silvio Sosio su Fantascienza.com. Nel video, della durata di mezz’ora, Evangelisti dialoga con un altro gigante della fantascienza italiana che ci ha lasciati troppo presto, Giuseppe Lippi, mente enciclopedica, saggista brillante, traduttore e all’occorrenza anche autore (stupendo il suo racconto Il lago d’inferno, incluso nello storico numero 1500 di Urania, Tutta un’altra cosa), e per trent’anni curatore di Urania, la collana di fantascienza più longeva al mondo. In occasione del ventesimo anniversario della sua nomina a curatore avevo avuto il piacere di intervistarlo per il blog della collana, che a quel tempo curavo, e vi rimando al link per recuperare le sue illuminanti parole. Qui sotto invece potete ascoltarlo dialogare con Evangelisti, con uno spunto di riflessione praticamente a ogni frase da loro pronunciata.
Rivedere questa chiacchierata nell’intervista di Selene fa adesso uno strano effetto. Di persona, conoscevo sicuramente meglio Giuseppe, con cui avevamo lavorato a un paio di libri, oltre all’intensa frequentazione ai tempi del blog, e da cui anche nella divergenza delle opinioni c’era sempre da imparare qualcosa: nei contenuti e negli atteggiamenti, aspetti che si potrebbero ricondurre all’essenza della professionalità, merce purtroppo sempre più rara. Conoscevo un po’ meno Valerio, che tuttavia non mi aveva mai negato una risposta a un’e-mail, una prefazione o uno strillo di copertina, esperienza che qualsiasi appassionato, lettore o scrittore abbia provato negli anni a contattarlo o coinvolgerlo in qualche progetto non potrà che confermare. Avevamo anche condiviso alcune antologie, e altre avremmo potuto farne se i suoi impegni e la salute non gli avessero imposto negli ultimi anni di ridurre i fuori programma. Sentirli parlare di fantascienza (e non solo) con la loro verve e competenza, con quella lucidità e profondità che li contraddistingueva, è qualcosa che sarà solo in parte compensato dalle loro opere, benché monumentali.
Con la loro dipartita da questa terra, abbiamo perso altri due giganti sulle cui spalle potevamo arrampicarci per scrutare tra le nebbie del futuro.
«Attento a ciò che desideri, Parker!» è il letterale ma tardivo ammonimento che Doctor Strange rivolge al nostro amichevole Uomo Ragno di quartiere dopo averlo malauguratamente assecondato in un disperato tentativo di cancellare la memoria del mondo. Ma facciamo un passo indietro e procediamo con ordine. Prima, però, un allarme spoiler grande come l’Empire State Building: tutto quello che si dirà d’ora in avanti presuppone non solo che abbiate già visto Spider-Man: No Way Home, ma anche ‒ almeno ‒ tutte le puntate cinematografiche precedenti. Teste di tela avvisate…
Spider-Man: No Way Home (2021) è il terzo film monografico dedicato dal sodalizio Marvel Studios / Columbia Pictures alle avventure del nostro amichevole Uomo Ragno di quartiere nato nel 1962 dalla penna di Stan Lee e dalle matite di Steve Dikto, dopo Spider-Man: Homecoming (2017) e Spider-Man: Far from Home (2019), tutti e tre diretti da Jon Watts, con Chris McKenna (già tra gli artefici dei copioni di LEGO Batman – Il film e Ant-Man and the Wasp) a dare continuità a un pool di sceneggiatori sempre diversi e Tom Holland a vestire la tuta del supereroe del Queens. Il film inizia proprio dove Spider-Man: Far from Home si concludeva, con la sconcertante rivelazione dell’identità di Spidey compiuta in mondovisione (come si diceva un tempo) dal più falso degli antagonisti dell’MCU, il Mysterio di Jake Gyllenhaal, spalleggiato dal più fedele denigratore dei supereroi di sempre, l’inde-fesso J. Jonah Jameson di J.K. Simmons, che qui torna dopo dodici anni nei panni di un giornalista che scopriremo essere una versione alternativa del direttore del Daily Bugle.
La spirale degli eventi innescati dalla rivelazione della sua vera identità comporta l’esclusione dall’MIT di Peter e dei suoi amici, l’inseparabile Ned Leeds (Jacob Batalon) e MJ (Zendaya), il che spinge Peter a rivolgersi a Strange (Benedict Cumberbatch) per tentare un incantesimo che possa rimuovere dalla memoria dell’umanità il ricordo della vera identità di Spider-Man. Contro i consigli di Wong (Benedict Wong), Strange accetta di aiutarlo, ma mentre sta lanciando il suo delicatissimo incantesimo, una serie di ripensamenti di Peter finisce per destabilizzarlo e produrre un effetto collaterale imprevisto ma per niente trascurabile.
Non si scherza con il Multiverso
Nella New York del nostro Peter si manifestano all’improvviso una serie di antagonisti incontrati nelle precedenti incarnazioni cinematografiche dell’Uomo Ragno. Ed ecco così riapparire Otto Octavius / Doctor Octopus che semina scompiglio sulla tangenziale con i suoi tentacoli controllati da un’intelligenza artificiale maligna (Alfred Molina, da Spider-Man 2, 2004), seguito a ruota da Norman Osborn nella sua armatura cibernetica da Green Goblin (Willem Dafoe, da Spider-Man, 2002), e così via: Thomas Haden Church riprende il ruolo dell’Uomo Sabbia visto in Spider-Man 3 (2007) prestando la voce alle animazioni in CGI e ai frame ripresi dal girato di Raimi, idem per Rhys Ifans con Lizard (da The Amazing Spider-Man, 2012); mentre Jamie Foxx torna in carne e ossa da The Amazing Spider-Man 2 – Il potere di Electro (2014) a lanciare fulmini e saette.
Insomma, se Spider-Man 3 o The Dark Knight vi erano sembrati eccessivi e ingestibili per il sovraffollamento di supercattivi, Spider-Man: No Way Home è a tutti gli effetti l’Avengers: Endgame dei villain. Sarà difficile battere il primato del numero di antagonisti di un unico supereroe riuniti in un solo film, ma siamo certi che la Marvel stia già pensando a come polverizzare il record. Sta di fatto che prima dell’ultimo Spider-Man, mai si era vista una simile concentrazione di supervillain in un’unica pellicola.
A renderlo possibile, certo, è anche l’escamotage del multiverso. La perturbazione introdotta da Strange nel suo incantesimo ha fratturato il continuum e richiamato a New York gli avversari di tutti (tutti davvero, anche se i più attenti tra quanti ancora non hanno visto il film ‒ pochi, certamente ‒ staranno già facendo i conti) gli Spider-Man cinematografici visti fin qui. Ma per fortuna di Tom Holland, i supercattivi non sono gli unici ad essere precipitati nel suo universo. Insieme ai villain, sono arrivati infatti anche gli arrampicamuri che avevamo imparato a conoscere mentre lui passava dalla materna alle elementari e poi completava il liceo: proprio loro, signore e signori, Tobey Maguire e Andrew Garfield.
L’Uomo Ragno di cui tutti avevano bisogno
Se lo Spider-Man di Sam Raimi (2002-2007) era quello che aveva beneficiato delle storie migliori, raccogliendo i risultati che avrebbero convinto gli studios a investire capitali senza precedenti nei cinecomic (termine su cui ci sarebbe da aprire una lunga parentesi), mentre l’Amazing Spider-Man di Marc Webb (2012-2014) aveva goduto dell’interpretazione forse migliore del personaggio, grazie alla memorabile prova d’attore di Andrew Garfield, lo Spider-Man di Jon Watts e Tom Holland finora era stato semplicemente quello con i costumi migliori (per gentile concessione della Stark Industries, ovviamente…) e al più quello con… la zia May più giovane. Ma malgrado l’ottima alchimia tra i protagonisti, né Homecoming né Far from Home avevano regalato molti elementi degni di nota, se si esclude per l’appunto il finale di quest’ultimo da cui deriva tutto questo terzo capitolo.
Serviva qualcosa di grosso, per rendere giustizia a quello che forse è il più amato dei supereroi, perlomeno in casa Marvel. E alla Marvel, come abbiamo imparato in questi anni, non ci si tira indietro quando bisogna pensare in grande. Così ecco un film che in qualche modo cancella tutti gli Spider-Man cinematografici precedenti, ma con la grazia di rendergli onore ed esaltare il meglio di ognuno di loro. Un film che fa un falò di tutte le convenzioni invalse nelle trasposizioni cinematografiche di fumetti, dal funerale al sacrificio dell’eroe, dalla storia d’amore tormentata al cattivo in cui si specchia il lato oscuro che ogni supereroe, malgrado tutto, si porta dentro. Stereotipi, vale la pena sottolinearlo, scolpiti nel nostro immaginario quasi tutti dalla mano di Raimi, con la sua trilogia capace di stabilire un canone per il mondo dei cinecomic (passatemi ancora una volta questo termine odioso, per favore).
E, anche qui, Spider-Man: No Way Home non si limita a cancellarli, ma in qualche modo li riscrive, spingendo tutto avanti di alcuni anni-luce, parlandoci di etica mentre stimatissimi cineasti liquidano i film con i supereroi come se fossero degli insulsi cinepanettoni, e allo stesso tempo riportandoci in quella piacevole e rassicurante comfort zone in cui basta avere un laboratorio di scienze del liceo a disposizione per una notte per sintetizzare il composto chimico adatto alle nostre esigenze. Senza tuttavia trasformare quella comfort zone in un riparo definitivo, ma anzi mostrandocene senza esitazioni la provvisorietà, prima sovvertendola nel perturbante abbraccio tra le tre versioni alternative di Peter Parker, in un trionfo solipsistico che è anche una malinconica presa d’atto della solitudine del supereroe, e poi, inevitabilmente, arrivando al completamento dell’incantesimo di Strange, con la rimozione di quell’abbraccio e di tutti i momenti vissuti insieme da Spider-Man con i suoi amici, perché appunto un supereroe si porta dietro, con i suoi grandi poteri, anche grandi responsabilità, da cui scaturiscono scelte non facili, e soluzioni tutt’altro che comode.
Ad aiutare il Peter Parker di Tom Holland nella sua coming of age, Maguire e Garfield sono i comprimari perfetti, e riescono a guadagnarci il primo l’uscita di scena che il suo personaggio avrebbe sempre meritato (qui poco manca a vederlo con la tunica e la spada laser da saggio maestro Jedi), e il secondo il salvataggio che lo ha tormentato dal 2014 a oggi.
La formula segreta del Multiverso
Come arrivino lo Spider-Man di Maguire e quello di Garfield nella New York di Holland appare chiaro, e le brevi note biografiche che i personaggi condividono con lo spettatore aiutano a colmare il gap che ci separa dalle rispettive ultime apparizioni. Meno chiaro è come abbiano fatto i villain a raggiungerla, visto che tutti sono finiti o stecchiti o redenti nelle loro precedenti manifestazioni, mentre qui preservano fin dalla loro entrata in scena la rivalità verso l’amichevole Uomo Ragno di quartiere che li ha resi suoi storici, indimenticati avversari. Forse solo i Peter Parker provengono dalle pellicole precedenti, mentre i loro avversari arrivano in realtà da storie alternative che non abbiamo mai visto sul grande schermo? Magari storie con esiti diversi? Poco importa.
Ciò che conta è che la storia funzioni e tenga incollati allo schermo dal primo all’ultimo fotogramma, regalando allo spettatore meraviglia anche nei dettagli più piccoli, come il cameo di Charlie Cox nella divisa da avvocato di Matt Murdock / Daredevil. Il merito, va detto, è anche di una formula che la Columbia Pictures porta in dote al progetto da una delle migliori (forse, diciamolo pure, la migliore in assoluto) avventure cinematografiche di Spidey. Il film, che finora non abbiamo citato non essendo un live action ma un lungometraggio di animazione, è quell’autentico gioiello di Spider-Man: Into the Spider-Verse (qui da noi Spider-Man – Un nuovo universo), pellicola del 2018 diretta da Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman, meritatamente premio Oscar, Golden Globe e BAFTA nella categoria miglior film d’animazione. In quel caso era l’adolescente Miles Morales, metà portoricano e metà afroamericano, a ereditare il testimone dell’Uomo Ragno e unire le forze ad altri Spider-colleghi richiamati nel suo universo da un esperimento di Kingpin. Insieme riusciranno a sventare i piani del signore del crimine e a fare ritorno nelle rispettive dimensioni.
Con animazioni pazzesche, un montaggio degno di una graphic novel merito di Robert Fisher Jr., una scrittura eccezionale firmata da Phil Lord e dal co-regista Rodney Rothman e una colonna sonora curata da Daniel Pemberton, Spider-Man: Into the Spider-Verse si è meritato all’uscita 375 milioni di dollari a fronte di un budget di 90, il plauso unanime della critica e in particolare degli artisti coinvolti nei progetti della Marvel Entertainment e, inevitabilmente, la luce verde per un sequel in due parti, in uscita tra la fine del 2022 e il 2023.
Sam Raimi: Homecoming
A quanto pare, la formula di Miles Morales ha funzionato ancora meglio per il caro vecchio Peter Parker, che con Spider-Man: No Way Home ha frantumato i precedenti record del caro vecchio Spidey, raggiungendo l’incasso stratosferico di 1.892.020.052 dollari nel mondo, con cui ha quasi decuplicato il budget di produzione di 200 milioni di dollari, arrivando ad attestarsi come il miglior incasso Sony nella storia, il terzo incasso nella serie dedicata al Marvel Cinematic Universe e il sesto in assoluto di sempre.
Naturale, quindi, che la produttrice Amy Pascal e Kevin Faige, presidente dei Marvel Studios e mente imprenditoriale dietro allo sviluppo dell’MCU (grazie a cui è diventato il recordman tra i produttori, con 25 miliardi di dollari incassati dai suoi film), abbiano da subito cominciato a parlare di nuovi progetti sullo Spider-Man di Tom Holland, anche se al momento il calendario delle uscite della Fase Quattro sembra escludere novità prima del 2024.
Intanto a maggio 2022 (il 6 negli USA, il 4 qui da noi) arriverà nelle sale Doctor Strange nel Multiverso della Follia, che molti punti in contatto ha proprio con l’ultimo Spider-Man, come già si può intuire dal titolo. Il film ha vissuto una gestazione travagliata e, dopo essere stato originariamente attribuito al regista del precedente Doctor Strange (2016) Scott Derrickson, a poco più di un anno dall’inizio dei lavori sulla sceneggiatura è stato riassegnato nientemeno che a sua altezza Sam Raimi, che non si siede dietro la macchina da presa dalla bellezza di nove anni. Michael Waldron, che già si è distinto per il lavoro su Rick and Morty e Loki, è stato chiamato a riscrivere la sceneggiatura e ha dichiarato che il film non rappresenterà solo il ritorno di Raimi all’universo dei supereroi, ma anche alle sue radici horror. Le premesse per un hype alle stelle, insomma, si sprecano.
Il tempo è un cerchio piatto, diceva qualcuno. L’inizio e la fine spesso si toccano. E a volte dalla collisione scaturiscono esiti imprevisti nella nostra dimensione, ma di certo non avulsi alla logica superiore del Multiverso. Provate a chiedere al vostro amichevole Uomo Ragno di quartiere: magari vive e combatte il crimine in un mondo che non si ricorda più di lui, senza più una tuta-armatura hi-tech fabbricata dalla Stark Industries e costretto a indossare una calzamaglia cucita a macchina nel suo minuscolo, spoglio, umido monolocale… ma adesso ha alle spalle una storia coi fiocchi tutta sua. Anzi, almeno tre.
Mosso da un istinto rabdomantico, lo scorso gennaio ho comprato, approfittando dell’offerta dell’editore reiterata come da rito annuale, un libro mai sentito di un autore che non avevo mai letto prima, e in cui mi ero imbattuto solo dopo che negli ultimi anni mi sono deciso a colmare – per gradi – le mie vaste lacune sulla letteratura mitteleuropea (mancanza a cui il catalogo Adelphi offre facilmente l’opportunità di rimediare). Di Un sogno in rosso ad attirarmi al momento dell’acquisto era stata sicuramente la presentazione, che riprendo integralmente dal risvolto di copertina:
Terrifica la profezia pronunciata in un salotto di Mosca alla vigilia della Grande Guerra da un certo Ananchin: ciascuno dei presenti, aveva detto il mediocre scrittore, avrebbe assistito alla propria rovina e a quella della Russia intera, ciascuno avrebbe trovato una morte atroce – e la bella Wera Grocholska avrebbe partorito il Demonio. Vent’anni dopo, il conte Chlodowski, l’uomo che allora stava per sposarla, ha ormai visto realizzarsi ogni cosa: il vecchio mondo è stato travolto, lui stesso è ridotto in miseria, e a nulla è valso che Wera rinunciasse alle nozze e prendesse i voti. La guerra e la Rivoluzione l’hanno strappata al convento e sospinta, fra mille peripezie, nelle steppe dell’Asia – e là, dalla monaca violata da un assassino, è nato quel figlio che Chlodowski cerca in ogni maniera di tenere lontano da sé. Ma tutto sarà vano: come gli spiega Ananchin, che è ora al suo servizio, «il mondo intero è una trama sottile che il Diavolo continua diabolicamente a scompigliare e Dio, invece, con indicibile fatica – così almeno vogliamo sperare a sua gloria – si sforza senza posa di sbrogliare. Al momento, però, il più forte è certo il Diavolo». Per di più, «il Diavolo non ha affatto bisogno di avere corna e artigli, può anche avere charme, addirittura uno charme straordinario, e nutrire le migliori intenzioni, come un vero angelo, quale in realtà egli sarebbe». E sotto spoglie angeliche, infatti, si presenterà nella tenuta del conte, in Polonia, un bellissimo, dolente Anticristo, suscitatore di sventura… Un sogno in rosso è un intreccio inesorabile, dove il racconto di una divinazione passata (sulla Rivoluzione Russa) diventa divinazione dell’immediato futuro, dell’Anticristo hitleriano che avanza.
Argomenti più che sufficienti per indurmi alla lettura, a dispetto di tutta la coda di libri in attesa, nel momento in cui Vladimir Putin dava l’ordine di invadere l’Ucraina e alzare così la posta della sfida che da anni sta lanciando all’Occidente. Il romanzo di Alexander Lernet-Holenia prende avvio proprio in una tenuta polacca, crocevia tra oriente e occidente, contesa tra Varsavia, Vienna e Mosca. Fin dalla prima pagina, veniamo catapultati in un mondo sospeso tra passato e futuro, tra un massacro già compiuto e una catastrofe ancora peggiore ma dai contorni ancora incerti che si prepara all’orizzonte:
Tutte le finestre erano aperte, e l’aria entrava a fiotti. Chlodowski guardava oltre la corte e i tetti delle stalle, oltre il profilo delle colline. Queste ultime erano molto estese, arrivavano assai più lontano del suo sguardo: dietro le altrue della Galizia si stendevano quelle della Volinia, che si spingevano fin dentro l’Ucraina perdendosi nella steppa, e la steppa a sua volta arrivava nel cuore dell’Asia sterminata.
È proprio dal cuore di quell’Asia sterminata che una terribile minaccia si prepara a sconvolgere le vite dei protagonisti. Il conte Adam Chlodowski è un nobile caduto in disgrazia, non si sa bene quanto per demeriti propri e quanto per i tiri mancini del destino. In realtà, la tenuta di Rafalówka in cui gli eventi si dipanano non è nemmeno sua, ma vi abita per gentile concessione della sorella, la più avveduta Madeleine. Chlodowski, che ospita una comunità di esuli russi che hanno preferito emigrare all’avvento della Rivoluzione d’Ottobre, incolpa delle proprie sventure uno di loro, lo stalliere Sergej Gavrilovič Ananchin, ex funzionario di un non meglio precisato ministero dell’impero zarista nonché romanziere di scarso successo, che in occasione di un ricevimento svoltosi a Mosca alla vigilia della Prima Guerra Mondiale ebbe modo di profetizzare l’ascesa del bolscevismo, gettando nella costernazione più totale gli astanti, e in particolare lo stesso Chlodowski, che come conseguenza dei vaticini di Ananchin vide sfumare il sogno di un matrimonio con l’amata cugina Wera Grocholska. A lei Ananchin riservò la più terribile delle previsioni, profetizzandole il parto della sola creatura destinata a sopravvivere a tutti i presenti, “[…] ma quel bambino non sarà un essere umano, sarà un demonio“.
Tanto bastò a sgomentarla e indurla a rinunciare alla vita mondana: dopo una profonda depressione, la poveretta si ritirò in convento, ma le vicissitudini della guerra, gli intrighi politici e una fuga rocambolesca verso l’Oriente prepararono comunque le condizioni perché la previsione di Ananchin si avverasse e la transfuga Wera Grocholska, giacendo con Il’ja Aleksandrovič Ussurov, a sua insaputa nientemeno che “discendente diretto […] del conquistatore e distruttore del mondo Gengis khān, le cui guerre erano costate dieci milioni di morti“, mettesse al mondo l’Avversario.
Un sogno in rosso (Ein Traum in Rot, ed. italiana Adelphi, 2006, traduzione di Elisabetta Dell’Anna Ciancia) è il racconto dell’attesa dell’Anticristo che vide la luce tra le steppe dell’Asia, la cui venuta si compie tra presagi sempre più sinistri, peripezie rocambolesche, scambi di persona e apparizioni spettrali, realizzandosi infine in un’atmosfera da romanzo gotico che sembra preludere agli abissi di follia in cui il nazismo sprofonderà l’Europa e il mondo intero. Dopo aver giocato con le ossessioni tragicomiche della borghesia, la nostalgia farsesca della nobiltà decaduta, e averci fatto ridere amaramente dei loro vezzi, dopo averci intrattenuto con la sarabanda e l’esotismo del romanzo d’avventura, e averci stupito con l’erudizione degli excursus storici e filologici di Chlodowski, e intrigati con i battibecchi filosofici che lo contrappongono ad Ananchin, Alexander Lernet-Holenia risolve il suo sofisticato gioco a incastri con una crudele irruzione del caso nella placida e trasognata atmosfera di Rafalówka.
Ciò che di cogente e di ovvio accade in questo mondo, ciò che non può essere se non così, si compie per mezzo del caso e del malinteso. Perché il necessario e ovvio, di per sé, non sarebbe affatto in grado di imporsi alle altrettanto ovvie necessità che gli si contrappongono. Il necessario in sé non è altro che perpetua preparazione, disponibilità e tensione di cose che si fronteggiano, e infinite sono le necessità che soffocano in se stesse senza neppure cominciare ad agire. Solo dove la folle scintilla del caso dà fuoco alla miscela di conflitti in incubazione, prima che essa venga dispersa dal vento dei tempi, solo là gli eventi esplodono. In questo senso caso e malinteso sono le sole, supreme istanze. Il necessario in sé, infatti, abbonda sempre e ovunque. È solo nell’innesco di coincidenze causali, nel crudo malinteso che mette in moto elementi in principio neppure presi in considerazione ma in realtà dotati di un senso ben preciso – è in questo che si manifesta la volontà del destino.
Lernet-Holenia (1897-1976), che nel secondo dopoguerra fu riconosciuto come esempio di resistenza passiva opposta all’egemonia culturale nazionalsocialista (il suo Marte in Ariete, pubblicato nel 1947, è stato indicato come l’unica opera di opposizione al Terzo Reich scritta in Austria durante la guerra), modello e punto di riferimento negli ambienti della letteratura austriaca fino a subirne quasi il ripudio, trasformandosi nel simbolo di un’Austria inattuale e anacronistica per finire con l’isolamento in cui trascorse gli ultimi anni di vita, firma con Un sogno in rosso (1939) alcune delle pagine più dense e affascinanti che mi sia capitato di leggere, evocando nella dimensione ristretta e periferica della campagna galiziana la vertigine storica che separa la società della Belle Èpoque dal mondo emerso dalla catastrofe della Grande Guerra, e il solenne cupio dissolvi con cui questo mondo di mezzo si consegnerà al sacrificio della Seconda Guerra Mondiale.
Nel sofisticato gioco dei rimandi e delle allusioni che Lernet-Holenia imbastisce a beneficio del lettore, vale la pena rimarcare l’assonanza tra Ananchin e Ananke, la dea greca del destino e della necessità inalterabile, e in maniera altrettanto simbolica il parallelo autobiografico con la figura dell’orfano di incerti natali delineata nell’affascinante Michail Fëderovič Rosenthorpe. Lernet-Holenia propone una lettura gnostica della dimensione divina, da cui lo zampino del Diavolo è inseparabile, e condensa con impareggiabile forza narrativa questa funzione negli esiti via via sempre più distruttivi e catastrofici che comportano i disinteressati tentativi di Rosenthorpe di fare del bene, quasi in un’anticipazione di certo involontaria e del tutto estranea agli scopi dell’autore delle leggi che governano la teoria del caos e che condensano la complessità del mondo.
La qual cosa, forse meglio di ogni altro pregio del romanzo, lo rende tuttora un’opera attuale e capace di parlare al lettore del XXI secolo, con la stessa autorevolezza ed efficacia con cui poteva rivolgersi ai lettori tedeschi alla sua prima edizione il 1° settembre 1939, lo stesso giorno in cui un altro Anticristo, di certo quanto di più distante ci potesse essere dall’ignaro, sfortunato, povero diavolo di Lernet-Holenia, ordinava l’invasione della Polonia.
Ho provato a capirci qualcosa e, malgrado tutto, continuo a provarci. Davvero. Ho letto e ascoltato più che ho potuto negli ultimi undici giorni, cercando di intercettare tutti gli scampoli di un’informazione spesso frammentata, perché le notizie da una zona di guerra – e da questa zona di guerra in particolare, pressoché isolata dal resto del mondo e consegnata alle truppe d’invasione, non fosse per i pochi giornalisti che stanno rischiando la loro pelle per raccontarci quel che succede – sono per loro natura schegge, a meno che non abbiano la necessità di costruire una narrazione per offuscare la verità, ma continuo a non capire. Tante, troppe cose sfuggono alla mia comprensione, e alcune sconfinano nella metafisica.
Tra queste, l’invocazione alla resa dell’Ucraina che attraversa la mia bolla. Un auspicio che si ammanta delle sfumature più svariate, che si appella alle ragioni più disparate: il nostro interesse economico, il male minore per gli ucraini, le colpe della NATO, e via di questo passo. In pochi, audaci, spericolati, arrivano a celebrare Putin e le sue legittime pretese, ma ci sono pure loro, come se parlassero russo, vivessero a Mosca e si cibassero solo di propaganda di regime – miracoli di questi tempi pericolosi e bui!
E provo a mettermi nei panni di chi si augura la capitolazione veloce di Kyiv, ma davvero non ci riesco. Perché stiamo parlando della vita di 44 milioni di persone, ma anche se fossero solo 44 sarebbero comunque otto in più dei Lamed Wufnik di Jorge Luis Borges – otto in più, insomma, di quanti dovremmo essere disposti a perderne non per amore del prossimo, ma di noi stessi – e dall’inizio dell’invasione sono già migliaia i civili uccisi dalle bombe, dai proiettili, o semplicemente dagli stenti, dalla mancanza di cure adeguate, dall’esaurimento delle medicine, dal collasso degli ospedali (e non dimentichiamoci che l’Ucraina è stata colpita nel pieno della sua quinta ondata pandemica e con appena il 34% di vaccinati). 44 milioni di persone, con una loro storia solo in parte condivisa con i vicini russi, e basta leggere mezza pagina su Lviv e la Galizia per capirlo (se ne trovano di ben fatte anche su Wikipedia). 44 milioni di ucraini, senza cibo, senza acqua potabile, senza riscaldamento e ormai in gran parte anche senza elettricità, che abitano un territorio grande il doppio dell’Italia, su cui da quasi due settimane marciano i battaglioni di un esercito nemico, scaricando tonnellate di bombe sulla popolazione civile e organizzando carneficine o deportazioni con la scusa del cessate il fuoco e dei corridoi umanitari.

Quindi mi sfugge come si possa desiderare che gli ucraini, in più di un milione e mezzo già costretti a fuggire all’estero nella più grave catastrofe umanitaria della storia recente, lasciando le proprie case (o quel che ne rimante), separandosi dai propri cari costretti a restare, a organizzare una resistenza disperata per lo più incentrata, vista la sproporzione tra le forze in campo, su approssimativi piani di guerriglia urbana, possano accettare di cedere di buon grado non solo la loro terra e la loro identità di popolo, ma anche le legittime aspirazioni ad autodeterminarsi come popolo, a scegliere i propri rappresentanti politici, a salvare le proprie istituzioni, nel nome del male minore. Come se riuscissimo a dare per scontato che il male minore si risolva in una pacifica convivenza, quando invece lo scenario più probabile in caso di cacciata di Zelensky e insediamento di un governo collaborazionista non potrà che essere, per tutte le ragioni sopra elencate, una lunga guerra civile. E abbiamo già visto in Cecenia questo che cosa significhi, o ce lo siamo tutti già dimenticati?
Non pretendo di avere la formula magica per uscire da questo vicolo cieco, siamo tutti intrappolati nell’ennesima zona morta, ma come dicevo una settimana fa dipenderà dalla strategia che decideremo di seguire che dipenderà il nostro futuro. Purtroppo, la prima persona plurale è solo un artificio retorico, perché in realtà sappiamo tutti che nessuno di noi giocherà davvero un ruolo nelle decisioni che ci porteranno in guerra contro Putin oppure ci terranno alla finestra mentre si consuma il più vile atto di aggressione internazionale che si ricordi dal 1939 a oggi. Ma se c’è una speranza di favorire una spallata al regime che schiaccia Mosca non può che passare per una No-Fly Zone: con tutti i rischi che comporta, ma con il possibile vantaggio di non coinvolgere nel conflitto armato i civili russi. Non è un auspicio, ma una settimana fa non credevo possibile che paesi abituati a seguire le proprie agende, a tutelare prima di tutto i propri interessi di parte, potessero trovare un accordo su sanzioni così dure come quelle che sono state adottate. E non sono il solo ad aver notato il carattere di imprevedibilità che la crisi si sta portando dietro. Quindi non possiamo fare altro che seguire l’evolversi della situazione.
PS: Mi sono sforzato di evitare il parallelo per non scadere nella reductio ad Hitlerum che minerebbe l’intero discorso, ma non posso fare a meno di chiedermi in cosa consistano le differenze tra l’invasione della Polonia da parte delle truppe naziste e l’aggressione dell’Ucraina da parte di Putin. Anche all’epoca ci saremmo appellati alla neutralità nel nome di una guerra veloce e del superiore interesse della nostra economia? Anche con la consapevolezza di quanto accaduto dopo, saremmo stati disposti a chiudere entrambi gli occhi?
PPS: Sono d’accordo con chi dice che la Terza Guerra Mondiale è già cominciata, se non altro perché non si vedono ragioni, dopo gli annunci ad allargare la sfera d’influenza russa dei giorni e dei mesi scorsi, perché Putin debba accontentarsi dell’Ucraina e risparmiare un trattamento analogo ad altri paesi «dissidenti» della sfera ex-sovietica (repubbliche baltiche in primis) da sigillare nell’orbita di una Mosca neozarista. Ma proprio come non dovremmo invocare la resa dell’Ucraina, non dovremmo nemmeno caricare sulle spalle degli ucraini il fardello dell’ultima difesa del mondo occidentale. Perché a resistenza sconfitta la trappola logica e morale del male minore risulterà smascherata, ma sarà anche troppo tardi per porvi efficacemente rimedio.
L’invasione russa in Ucraina, iniziata nella notte del 24 febbraio, non è certo arrivata come un fulmine a ciel sereno, ma in tutta onestà in pochi (anche tra gli analisti più attenti e meglio informati) si aspettavano che le tensioni in aumento nelle ultime settimane, con l’accumulo di truppe ai confini ma soprattutto al culmine di un processo di rafforzamento e specializzazione dell’esercito portato avanti per anni, potessero nel 2022 portare a uno strappo storico come una guerra “tradizionale” sul suolo europeo. Invece gli eventi hanno preso la piega peggiore e da più di 48 ore ci troviamo incollati a reti all-news e liveblog, in attesa spasmodica di notizie, dapprima sull’avanzata russa dai tre fronti aperti, poi su quella che probabilmente entrerà nei libri come la battaglia di Kyiv.
La sorpresa dell’attacco di Vladimir Putin e del suo Stato Maggiore si può arrivare a giustificare solo nei termini di una guerra lampo, come peraltro sembrava essere stata preparata schierando circa trentamila soldati delle divisioni dell’esercito russo in Bielorussia, con il pretesto di un’esercitazione congiunta protrattasi fino a pochi giorni prima dell’inizio delle manovre sul territorio ucraino. Ma il bersaglio mancato dell’aeroporto di Hostomel, 30 km a nord-ovest di Kyiv, ritenuto strategico per attivare un ponte aereo con la Russia e facilitare lo sbarco di ulteriori truppe alle porte della capitale, inizialmente preso dai soldati russi ma subito dopo riconquistato dall’esercito ucraino, ha rappresentato il primo segnale di una resistenza più dura di quella che si sarebbero attesi Putin e i suoi generali.
I messaggi lanciati nel frattempo dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky (figura tragicomica che con la sua fermezza ha però accresciuto incommensurabilmente la propria statura politica nelle ultime ore), l’esempio dato dai suoi soldati contro la soverchiante potenza militare russa (da consegnare immediatamente alla memoria l’epica risposta delle tredici guardie di frontiera di stanza sull’Isola dei Serpenti alla nave da guerra che gli intimava la resa: “Nave da guerra russa, vai a farti fottere!“), persino l’ascolto inatteso ottenuto dagli appelli di Zelensky presso la popolazione civile russa, con un allargamento delle proteste a sfidare la repressione del regime, prima ancora dei pacchetti di sanzioni minacciati o disposti da USA e UE stanno complicando non poco i piani di Mosca.

Per questo l’invito di ieri di Putin alle autorità militari ucraine affinché deponessero i vertici di Kyiv (insistiamo con la grafia ucraina per ottime ragioni), più che una precondizione a intavolare un negoziato per la tregua in realtà, è sembrato in realtà un tentativo fin troppo frettoloso di subappaltare il lavoro sporco agli ucraini stessi. È un primo segno di impazienza, da parte di un leader solitamente ritenuto freddo e calcolatore, ma che potrebbe trovarsi costretto a reprimere un dilagante dissenso interno proprio mentre è maggiormente esposto sul fronte internazionale. La propaganda di questi giorni maschera solo in parte le difficoltà a cui sta andando incontro Putin, sospinto da una smodata ambizione personale che nel tempo ha trovato terreno fertile nelle aspirazioni egemoni del nazionalismo russo.
Se la figura luciferina di Putin il “decomunistizzatore“, il riunificatore, sarà consegnata alla storia come quella dell’ultimo zar della vecchia era o invece come quella del primo zar di una nuova Grande Russia, sarà l’esito della battaglia di Kyiv a deciderlo. Ma impareremo molte più cose sul futuro che ci aspetta osservando il modo in cui Europa, USA e soprattutto Cina decideranno di rapportarsi a un’aggressione criminale che non ha precedenti nella storia degli ultimi trent’anni. E i primi segnali non sono purtroppo incoraggianti.
Uno spettro si aggira tra le visioni del futuro dell’umanità. A dire la verità, di spettri potremmo contarne diversi, ma se escludiamo le estrapolazioni in cui la civiltà umana si annienta in una catastrofe globale, il più ingombrante rimane senz’altro quello della futura scalata umana alla Nuova Frontiera.
Per noi vecchi arnesi cresciuti a pane e fantascienza, lo spazio è il convitato di pietra di ogni tentativo di proiezione dell’umanità nel futuro. Lo è anche a dispetto dell’evidenza di tutti gli ostacoli disseminati lungo il cammino verso le stelle, perché con ogni probabilità il mistero del cosmo è iscritto talmente a fondo nel nostro inconscio come specie da essere diventato un marchio a fuoco nel codice memetico del nostro immaginario. E lo è al punto da saltare fuori anche nelle visioni del futuro nominalmente concepite in antitesi con le spensierate avventure tecnologiche della prima fantascienza, quella ormai associata con la Golden Age: se da un lato la space opera non ha mai perso davvero vigore, attraversando le decadi sulla spinta di un motore inerziale che da Edmond Hamilton e Isaac Asimov è passato per la penna di Frank Herbert, Larry Niven, John Varley e C.J. Cherryh per arrivare fino a noi con Lois McMaster Bujold, Iain M. Banks, Vernor Vinge, e poi con Peter F. Hamilton, Alastair Reynolds e numerosi altri anche tra i frequentatori occasionali, è un dato di fatto che lo spazio è un ingrediente fondamentale nel world-building dello stesso cyberpunk (pensiamo alla Disneyland orbitale di Freeside o all’epilogo stesso di Neuromante, agli habitat spaziali della Matrice Spezzata o alle colonie extra-mondo di Blade Runner, tanto per citare i tre pilastri su cui l’immaginario del movimento degli Anni Ottanta ha preso forma), come lo erano stati la Luna, Marte e i satelliti dei giganti gassosi per Philip K. Dick e lo specchio delle contraddizioni terrestri allestito da Ursula K. Le Guin sui pianeti del suo Ecumene, o come lo sarebbero poi stati diversi sfondi del sistema solare per Kim Stanley Robinson, gli autori della cosiddetta fantascienza umanistica, Ian McDonald o gli aderenti alla Mundane SF.
Alla luce di questa scorribanda più veloce della luce, potremmo distillare l’essenza della fantascienza in una formula approssimativa, ma che ne riesce comunque a cogliere una delle caratteristiche più distintive emerse in un secolo di invenzioni, declinate sia nella dimensione della creatività più esplosiva che sul piano della critica più speculativa: vale a dire, che per l’umanità non c’è futuro senza spazio.
Da veterani di questo feeling di lunga data, noi appassionati di fantascienza siamo quindi particolarmente sensibili alle imprese spaziali vagheggiate, programmate o millantate dalla genia dei multimiliardari che da alcuni anni a questa parte inseguono il sogno dello sviluppo commerciale dello spazio. Ancor più di Jeff Bezos (di cui proprio durante la pandemia ha finito per insidiare il primato di uomo più ricco del mondo, secondo molti arrivando nel 2022 addirittura a surclassarlo) o di Richard Branson, che può vantare la costruzione del primo aeroporto spaziale, grazie alla sua sovra-esposizione mediatica è ormai Elon Musk a personificare l’imprenditore del futuro, provvisto di una visione e a capo di un impero economico capace di tentare la conquista della frontiera spaziale. Il più grande capolavoro di Musk è stato probabilmente quello di intestarsi un’immagine di outsider, come se un uomo fuori dalle logiche del mercato potesse arrivare ad accumulare la fortuna richiesta per diventare l’uomo più ricco del mondo – oppure, se è per quello, come se un uomo in grado di twittare 5mila volte in un anno potesse anche essere direttamente coinvolto in un’attività vagamente assimilabile al lavoro.
Questo gli ha permesso di far passare sempre sottotraccia le molteplici contraddizioni della visione imprenditoriale di cui si fa portatore: da una parte la proiezione verso un futuro migliore sbandierata a suon di tweet e interviste, dall’altra le conseguenze pratiche sulla vita degli abitanti di Boca Chica comportate dall’attività della sua Starbase in Texas e i dissidi professionali con i suoi collaboratori e dipendenti. Come emerge, nonostante i toni apologetici, dalla sua biografia scritta da Ashley Vance (Elon Musk: Tesla, SpaceX e la sfida per un futuro fantastico) e come riassumeva Nicolò Porceluzzi nel suo profilo redatto per Prismo, i dipendenti di Musk finiscono per essere utilizzati come munizioni, investiti strumentalmente di un ruolo solo nella logica di finalizzare uno scopo, dopodiché consumati e buttati via. Nello stesso articolo gli esempi si sprecano: dalla collaboratrice di lunga data licenziata per aver chiesto un aumento, alle conseguenze altrettanto estreme per i dipendenti che mancano una deadline o commettono un refuso in una e-mail importante.
Dopotutto ogni cosa per Musk sembra ridursi a un mezzo al servizio dei suoi obiettivi: che siano i dipendenti delle sue aziende o gli abitanti di un villaggio di pescatori che per caso si è venuto a trovare troppo vicino alla sua base operativa per i lanci spaziali. Perché dovremmo quindi sorprenderci se Musk ammette candidamente che il sacrificio da pagare per andare su Marte si misurerà in missioni fallite e vite umane perse? Perché dovremmo stupirci se Musk pianifica la conquista di Marte con un meccanismo di servitù debitoria che somiglia a una forma di schiavitù a esclusivo beneficio dei suoi sogni di colonizzazione spaziale?

Ma se la sorpresa non è giustificata, la generale mancanza di reazione da parte dell’opinione pubblica, di coloro che si fanno passare per intellettuali o – entriamo in modalità utopia estrema? – della politica, desta più di qualche perplessità. Le rare volte in cui Musk ha finito per sfiorare il discorso, come quando il governatore repubblicano Greg Abbot ha dichiarato la vicinanza (se non proprio l’appoggio) del suo nuovo partner in affari alle politiche sociali del Texas, nella scia delle polemiche seguite alle nuove restrizioni sull’aborto introdotte dallo stato nel settembre del 2021, per smarcarsi Musk non ha saputo fare di meglio che prodursi in una dichiarazione pilatesca (quella volta fu questa: “In general, I believe government should rarely impose its will upon the people, and, when doing so, should aspire to maximize their cumulative happiness. That said, I would prefer to stay out of politics“).
Allo stesso modo in cui siamo disposti a ignorare che la lotta al cambiamento climatico per le aziende di Musk è fondamentalmente un business, sembriamo capaci di passare su tutte le altre contraddizioni del personaggio. La vaghezza degli annunci, la cronica mancanza di dettagli a fronte di progetti talmente ambiziosi da richiedere una cura diabolica, per la prima volta sta però cominciando a far breccia in questa sorta di muro di omertà in cui si è trasformato il credito di fiducia incondizionata che siamo stati disposti a riconoscergli per tutto questo tempo: è notizia proprio degli ultimi giorni che il ritardo nei piani di lancio di Starship ha iniziato a produrre qualche perplessità tra i commentatori che s’interessano delle iniziative eloniane.
Sempre in veste di appassionati di fantascienza, avremmo dovuto forse accorgerci prima degli altri che Elon Musk era piuttosto distante dall’ingenuo prototipo del visionario capitalista spaziale celebrato, con il suo tipico slancio ottimistico, da Robert A. Heinlein, a partire dal D. D. Harriman protagonista di Requiem e L’uomo che vendette la Luna, pietre miliari degli Anni Quaranta. Nonostante Musk si sia dichiarato un fan di Iain M. Banks, nonostante tutto il citazionismo di facciata utile a costruirsi un alone da geek funzionale alla sua causa (peraltro, quale scelta migliore di David Bowie o della Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams per triggerare gli entusiasmi dei fan?), i bug che possiamo individuare nel suo programma per rendere la specie umana una civiltà multiplanetaria, come lui stesso ama chiamarla, dovrebbero già adesso insospettirci sui possibili esiti finali. Dal realismo capitalista di Mark Fisher, con Musk facciamo già due o tre passi avanti nel futuro e ci troviamo sbalzati nell’orizzonte di un transrealismo iperliberista: se non c’è alternativa ora al neoliberismo, come potremo rinunciare ai suoi protocolli operativi per piegare il futuro alla volontà della ragione? Tra le crepe che percorrono la superficie di questo sogno si affaccia un futuro che non può essere per tutti. Insomma, suo lo spazio, suo il futuro.
A meno che, e questo diventerà evidente sicuramente prima della fine del decennio, Elon Musk non si dimostri semplicemente un innocuo ciarlatano.
In ogni caso, parafrasando la sua ex-moglie, questo non è il mondo di Elon e noi non siamo lo Starman che lui ha piazzato alla guida di una Tesla Roadster prima di lanciarla nello spazio. Non dobbiamo viverci dentro per forza, se non lo vogliamo. Smettere subito con l’adorazione acritica della sua immagine sarebbe già un inizio, verso un diverso futuro ancora da esplorare.
Lo ammetto, avevo snobbato con sufficienza questa serie HBO baciata dal successo, liquidandola come l’ennesimo teen drama, appena più spinta sotto il profilo del sensazionalismo e della ricerca per la provocazione a tutti i costi. Poi, una sera di un paio di settimane fa, per puro caso mi sono imbattuto in una replica del primo episodio della seconda stagione, in onda su Sky Atlantic, e vuoi per la chimica tra i personaggi, vuoi per lo stile piacevolmente allucinatorio della regia che a tratta sembrava omaggiare nientemeno che David Lynch, vuoi per una colonna sonora – curata dal produttore londinese Timothy Lee McKenzie, in arte Labrinth – che mescola di tutto, dalla trap all’R&B, dall’indie rock al doo wop, passando per sperimentazioni elettroniche ed effetti psichedelici, mi è bastata quell’ora sulla giostra allestita da Sam Levinson per volerne immediatamente di più. E così, nel giro della settimana successiva, ho recuperato tutte le puntate della prima stagione (che per fortuna non sono tante, appena otto), riuscendo a mettermi in pari prima della messa in onda dell’episodio successivo.
E adesso posso dire due cose in più: la prima, che Euphoria non è affatto la solita serie adolescenziale, ma piuttosto una bomba che fa esplodere tutto quel nodo di cliché e pregiudizi che siamo soliti associare al filone; la seconda, che mai pregiudizio da parte mia fu più mal riposto di questa volta, visto che mi ritrovo a confessare di essere diventato a tutti gli effetti un fan di questa serie, che sulla carta dovrebbe essere lontana anni luce dai miei gusti.
Basata su una miniserie omonima israeliana del 2012, ideata dallo scrittore e sceneggiatore Ron Leshem, Euphoria è stata scritta e co-prodotta dal figlio d’arte Sam Levinson (suo padre Barry è il regista, tra gli altri, del piccolo cult Piramide di paura, sulla prima avventura apocrifa dei giovani Sherlock Holmes e John Watson, e di film di successo come Good Moorning, Vietnam, Rain Man – L’uomo della pioggia e Sleepers), che ne ha diretto anche diversi episodi. Parte come una serie incentrata sulla tossicodipendenza della protagonista, la diciassettenne Rue Bennett interpretata da Zendaya (vista e apprezzata negli Spider-Man della Marvel e nel Dune di Denis Villeneuve) e doppiata da Emanuela Ionica, ma ben presto si sviluppa per includere nel raggio d’azione dei suoi episodi tutto ciò che una stagione di passaggio e maturazione come l’adolescenza si porta dietro, dal bisogno di riconoscimento al conflitto generazionale, dall’accettazione di se stessi ai continui attriti tra la ricerca di indipendenza e il conformismo imperante a modelli di bellezza, schemi familiari, relazioni sociali. Traumi, abusi fisici e psicologici, si susseguono mentre avanziamo sul sottile filo teso tra fiducia e tradimento, venendo continuamente presi a pugni da improvvise esplosioni di violenza, lungo il percorso accidentato che conduce i protagonisti fuori da un’adolescenza che sa essere sia una prigione dorata che una giungla spietata.
La prima stagione segue il ritorno a casa di Rue dopo alcuni mesi trascorsi in riabilitazione a seguito di un’overdose. Rue e sua sorella Gia (Storm Reid) vivono con la madre dopo che il padre è morto a causa di un tumore, ma quando si trova a fare i conti con il trauma della perdita Rue, che reagisce in maniera molto diversa da Gia, ha la lucidità di ammettere che la sua dipendenza ha radici forse più profonde e non necessariamente legate al lutto. Il caso gioca un ruolo cruciale nella sua vita e in quella delle sue coetanee: è per caso che Rue s’imbatte in Jules Vaughn (Hunter Schafer), una ragazza in transizione appena arrivata in città, e una fortuita serie di coincidenze fa venire a galla, puntata dopo puntata, i segreti che i loro compagni di scuola nascondono dietro la superficie di vite apparentemente perfette.
Lealtà, identità e ossessioni private completano la ricetta a base di dipendenze di varia natura (psicologica o fisica, da alcol, da droghe, dal sesso), mettendo in pratica una formula che tiene incollati allo schermo dal primo all’ultimo minuto, avvalendosi di continui cambi di registro e di una furia ipercitazionista di stampo molto postmoderno. Il finale della prima stagione culmina in una sequenza girata come un musical sulle note di All for Us e ci lascia appesi alla scogliera del ricatto emotivo in uno dei cliffhanger più riusciti che si siano visti in TV.
Della colonna sonora curata da Labrinth abbiamo detto, ma forse vale la pena sottolineare che i pezzi del produttore britannico (Still Don’t Know My Name, When I R.I.P., The Lake, la già citata All for Us) si alternano con tracce che spaziano dai Bronski Beat (Smalltown Boy) agli Arcade Fire (My Body is a Cage), dagli INXS (Mystify) a Charlotte Day Wilson (Work) a Orville Peck (Dead of Night), tutti scelti con chirurgica precisione per catturare il momento dei personaggi sullo schermo. La musica è uno dei due meccanismi adottati per intensificare l’empatia dello spettatore con i protagonisti. L’altro è il riuscitissimo espediente di iniziare ogni puntata con una digressione su uno di loro, una sorta di origin story che ci racconta il loro background personale attraverso la voce e il punto di vista di Rue, che solo ed esclusivamente in questi momenti si erge a una onniscienza totalizzante ma mai giudicante, con una ricchezza di particolari e uno stile documentaristico che non lesinano effetti paradossali, quando non proprio esilaranti.
La seconda stagione si apre esattamente dove la prima si era bruscamente interrotta, e promette uno spazio maggiore per alcuni dei personaggi più interessanti, il cui minutaggio complessivo era finito per essere necessariamente sacrificato alla parabola del rapporto tra Rue e Jules: e se nel giro di un paio di puntate la loro storia si trasforma in un triangolo amoroso raccontato con sensuale delicatezza, alle mesmerizzanti interpretazioni di Zendaya (premiata con un Emmy nel 2020) e Hunter Schafer si affiancano quelle dell’anomalo duo Angus Cloud / Javon Walton nei panni dei giovani fratelli spacciatori Fezco e Ashtray, di Maude Apatow nel ruolo di Lexi Howard, un’amica d’infanzia di Rue, e di Eric Dane (volto noto del piccolo schermo grazie a Grey’s Anatomy, ma con un ruolo anche nel peggiore dei film dedicati agli X-Men), qui nei panni di un padre di famiglia non proprio irreprensibile.
Grazie al meccanismo dei flashback di inizio puntata, il progressivo svelamento delle loro storie aggiunge spessore a personaggi che nella prima stagione erano poco più che abbozzati, e permette a Levinson di realizzare un ulteriore scatto in avanti nel rilancio delle ambizioni della serie, mettendo in discussione il facile schematismo della contrapposizione tra protagonista buono e antagonista malvagio e portando allo scoperto le ambiguità che aggiungono ombre alla luce, ma che permettono allo stesso tempo anche di cogliere la luce tra le ombre.
La serie in uno scambio di battute
Ali: – Quello che provi per lei ti ricorda qualcosa?
[Dalla puntata 1×04 “Sali sulla giostra”]
Rue: – Che vuoi dire?
Ali: – Intendo l’ossessione… i sentimenti, l’astinenza…
Rue: – Come la droga?
Ali: – Bingo!
Rue: – Ok, ma questa è una cosa positiva.
Ali: – E la droga? Non era bella appena l’hai provata?
Come sa ogni appassionato, Blade Runner è il frutto di un lungo, incessante lavoro di adattamento, iniziato da Hampton Fancher, che per primo riuscì ad assicurarsi un’opzione per i diritti cinematografici di Do Androids Dream of Electric Sheep?, e successivamente proseguito sotto le cure di David Webb Peoples, quando Ridley Scott pretese e ottenne dalla produzione un maggior controllo sulla sceneggiatura, insoddisfatto dei risvolti a suo dire eccessivamente sentimentali delle riscritture di Fancher. In questo processo di riscrittura molte cose furono tagliate via dal materiale di partenza: benché il romanzo non fosse particolarmente lungo (210 pagine nel rilegato della prima edizione Doubleday, perfettamente in linea con gli standard degli anni Sessanta e Settanta), era pur sempre una storia di Philip K. Dick, infarcita di idee, suggestioni, ossessioni, mutuate sia dallo spirito della sua epoca che dalle sue personali fissazioni, troppo per far entrare tutto in 124 minuti di film.
Così ecco ridimensionarsi il ruolo di J.R. Isidore, che nel romanzo dava voce a un alter ego dell’autore (Jack Isidore è anche il nome del protagonista di Confessions of a Crap Artist, scritto nel 1959 e unico tra i suoi numerosi romanzi mainstream che Dick riuscì a pubblicare in vita, nel 1975), spartendosi la scena quasi equamente con Rick Deckard, mentre nel film (dove cambia anche nome in J.F. Sebastian e viene interpretato da William Sanderson) vede il proprio minutaggio ridursi a quello di personaggio secondario. Sorte peggiore tocca ad altri personaggi, tra cui Iran (la moglie di Deckard) e Irmgard (la compagna di Roy Baty), depennate dalla sceneggiatura, così come anche Garland, un altro dei replicanti fuggiaschi. Max Polokov viene in parte adattato nella figura di Leon Kowalski (Brion James), Luba Luft (la cantante d’opera protagonista di uno dei ritiri più struggenti del romanzo, il momento in cui Deckard comincia a nutrire dubbi sulla reale necessità della propria missione e sulla legittimità del ruolo dei cacciatori a premi) confluisce parzialmente in quella di Zhora/Salomé (Joanna Cassidy). Solo Pris (Daryl Hannah) rimane più o meno fedele al romanzo, dove in realtà è una replica di Rachael, e con quest’ultima incarna l’archetipo della donna dickiana, e finisce per assimilare anche alcune caratteristiche di Irmgard; e ovviamente Roy (Rutger Hauer), che da Baty (re pipistrello) si trasforma in Batty (re folle).
In realtà non è del tutto corretto dire che Roy Batty e Pris rimangono fedeli al romanzo, in quanto il film opera un capovolgimento prospettico che da un lato avvicina la storia allo spettatore, e dall’altro conferisce uno slancio quasi romantico ai replicanti. Se nel romanzo Dick era infatti interessato a sviscerare i temi a lui cari dell’alienazione e della reificazione, anche attraverso la figura di un protagonista che non si distacca mai dalla sua dimensione di burocrate, di servitore monodimensionale di una sinistra forza di polizia che ha ramificazioni ovunque nel mondo, e come lui le altre figure umane danno prova (con l’unica eccezione appunto dello «speciale» Isidore) di scarsissima umanità, in una parabola nichilista che si risolve in un orizzonte cupo e disilluso; nella pellicola di Scott abbiamo invece un ribaltamento del punto di vista, con Deckard costretto a confrontarsi, più che con delle minacce letali, con l’umanizzazione esasperata dei replicanti, non solo capaci di spacciarsi per umani, ma di esprimere autentiche qualità umane.
Empatia e entropia sono i due grandi concetti intorno a cui si snoda il romanzo di Dick. Ma mentre nel romanzo l’empatia è una qualità estranea agli androidi e che Deckard sospetta sia sempre più rara e difficile da identificare anche tra gli esseri umani, in Blade Runner l’empatia diventa il comune terreno d’incontro tra l’umanità superata e obsoleta di Deckard e la nuova umanità di Rachael e Roy Batty.
Quanto all’entropia, è un’altra vittima illustre che allunga la lista delle modifiche apportate da Ridley Scott al materiale di partenza. In Blade Runner scompaiono gli animali, così centrali nel romanzo da meritarsi un’esplicita menzione nel beffardo gioco con il lettore che è il titolo scelto da Dick. Scompare San Francisco, sostituita da Los Angeles (pare che una delle prime intenzioni di Scott fosse di trasferire l’ambientazione sulla East Coast, motivo per cui la L.A. di Blade Runner somiglia così poco alla metropoli orizzontale californiana, e invece molto di più alla megalopoli verticale del Mid-Atlantic, o Nord-Est che dir si voglia). E spariscono soprattutto le due principali novità fantascientifiche introdotte da Dick nel romanzo, insieme al tema già molto più convenzionale, anche per l’epoca, degli androidi, ovvero il Mercerismo e il kipple.
Il Mercerismo è una delle trovate più inquietanti dell’intera opera di Dick, una religione basata sull’identificazione dei fedeli con il loro profeta, in una sublimazione della liturgia eucaristica cristiana spinta all’estremo grazie al supporto di una tecnologia capace di rendere la realtà virtuale più reale del reale (così come lo slogan della Tyrell Corporation, a cui nel film corrisponde la Rosen Association del romanzo, è “più umano dell’umano“). Durante la condivisione con Mercer, attraverso la misteriosa scatola empatica gli adepti di questo culto del futuro sperimentano le sofferenze e il dolore inflitti al loro predicatore; e, proprio come succederà di lì a una quindicina d’anni con il cyberspazio di William Gibson (il romanzo di Dick, non dimentichiamolo, è del 1968), durante la fusione/connessione possono riportare ferite anche fisiche, come capita allo stesso Deckard (“È vero […]. Io sono Wilbur Mercer, mi sono fuso con lui per sempre. Non riesco più a staccarmi da lui“, dirà nel capitolo 21).
Il kipple è invece la manifestazione letterale dell’entropia, la massa di rifiuti autoreplicanti che ormai assedia le città terrestri insieme alla polvere radioattiva lasciata in eredità dall’Ultima Guerra Mondiale, un’entità contro cui è inutile qualsiasi resistenza (“Nessuno può battere la palta […] tranne che per un po’ di tempo e forse in un posto solo, come nel mio appartamento per esempio, dove ho creato una specie di equilibrio tra la pressione della palta e della nonpalta, finché dura. Ma poi morirò e me ne andrò, e allora la palta riprenderà il sopravvento. È un principio universale valido in tutto l’universo; l’intero universo è diretto verso uno stato finale di paltizzazione totale e assoluta“, spiega Isidore a Pris nel capitolo 6, dove palta è la traduzione scelta da Riccardo Duranti nell’ultima edizione Fanucci del romanzo) e a cui siamo tutti destinati ad arrenderci (“Lui e le altre migliaia di speciali del pianeta Terra erano tutti destinati a confluire nel mucchio della spazzatura. A trasformarsi in palta vivente“, capitolo 7). Del kipple in Blade Runner rimane un più generico e indefinito senso di decadenza, reso in particolare nell’accumulo di vecchi giocattoli di Sebastian e nello stato di semiabbandono della sua dimora.
Scompare anche un’ulteriore folgorante anticipazione dickiana, di quelle che hanno reso il maestro californiano in qualche modo un profeta del nostro tempo, e per cui si è ogni volta tentati di parlare di realtà dickiana a proposito del mondo in cui viviamo: ovvero la centralità dei mass media nella vita delle persone, che nel romanzo è efficacemente rappresentata attraverso il talk show di Buster Friendly.
E scompare soprattutto un’intera sezione del romanzo, che include alcuni dei capitoli chiave del Cacciatore di androidi. Ma di questo parleremo la prossima volta.
Finora conoscevo Mark Fisher solo indirettamente, ovvero attraverso qualche estratto delle sue opere, le sue interviste e le cose che altri scrivevano su di lui. Critico culturale, teorico politico e sottile pensatore, dopo essersi suicidato a nemmeno cinquant’anni il 13 gennaio 2017, Fisher è progressivamente e regolarmente approdato con i suoi scritti anche qui da noi, grazie a Not che ne ha pubblicato il manifesto politico (Realismo Capitalista) e a Minimum Fax che si è impegnata nella pubblicazione sistematica dei suoi scritti. Grazie a questa attenzione, ho potuto accumulare nel frattempo diverse sue opere in casa, e negli ultimi giorni, approfittando dello spiacevole imprevisto di un autoisolamento domestico, ho cominciato ad andare oltre il semplice e distratto sfogliare quelle pagine. Che fin da subito hanno iniziato a chiudere spettrali risonanze con alcune riflessioni con cui da qualche mese mi sto dilettando (per esempio: in questo e in quest’altro post a tema nostalgia).
Per la precisione, sono bastate poco più di quindici pagine di Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti (Minimum Fax, traduzione di Vincenzo Perna, 2019), per ritrovare concetti su cui mi arrovellavo senza trovare una quadra. Nel primo scritto di questa raccolta, che s’intitola programmaticamente «La lenta cancellazione del futuro», Fisher parte dall’episodio finale di Zaffiro e Acciaio, serie di culto della TV britannica trasmessa tra il 1979 e il 1982, per approdare alla definizione del titolo, ripresa da una riflessione di Franco Bifo Berardi:
Eternamente sospesi, prigionieri senza fine, bloccati oer sempre in una situazione e con un’origine mai pienamente chiarite: la segregazione di Sapphire e Steel in quel vecchio caffè nel mezzo del nulla appare profetica di una condizione più generale, in cui la vita continua ma il tempo si è in qualche modo fermato.[…] L’ipotesi di questo libro è che la cultura del ventunesimo secolo sia caratterizzata dallo stesso anacronismo e dalla stessa inerzia che affliggono Sapphire e Steel nella loro missione finale. Ma che tale stasi sia stata sotterrata, sepolta sotto una superficiale frenesia di «novità», di movimento perpetuo. Lo «scompaginamento del tempo», l’assemblaggio di ere precedenti, ha ormai cessato di meritare qualsiasi commento: oggi è talmente diffuso da non essere neppure notato. [pag. 17]
La riflessione di Fisher sgombra subito il campo dalla fin troppo facile identificazione con la nostalgia dei vecchi che rifiutano il nuovo, perché non è di quello che stiamo parlando. In effetti, Fisher si dice piuttosto allarmato dalla persistenza di schemi, modelli e forme perfettamente riconoscibili e riconducibili al passato, in un contesto che rende superflua qualsiasi etichetta di retromania a causa dell’assenza stessa di un’idea del futuro, o anche solo di un gusto ben definito nel presente, a cui contrapporre qualsivoglia processo di retrospezione. E questo accade tanto in ambito musicale quanto cinematografico, al punto da acquisire una rilevanza culturale tout court.
Richiamando la definizione del critico letterario e teorico politico statunitense Fredric Jameson e i suoi studi sul postmodernismo e la società dei consumi, Fisher parla di «modalità nostalgica»: in altre parole, non la nostalgia psicologica che ritroviamo negli scritti degli autori modernisti (Joyce, Proust) coi loro “ingegnosi esercizi per ritrovare il tempo perduto“, bensì “un’adesione formale alle tecniche e alle formule del passato, una conseguenza della rinuncia alla sfida modernista di innovare le forme culturali adeguandole all’esperienza contemporanea“.
È interessante vedere come questa critica si salda, in Fisher, con la dimensione sociopolitica e l’analisi storica tipica delle sue riflessioni, anche qui chiudendo un cortocircuito con la disamina dei meccanismi di alienazione del tempo che andavamo investigando a proposito dell’unica vera dittatura che dovremmo aver imparato a conoscere, quella della cronofagia:
Non è vero che nel periodo in cui ha preso piede la lenta cancellazione del futuro non è accaduto nulla. Al contrario, questi trent’anni sono stati un periodo di massiccio e traumatico cambiamento. In Gran Bretagna l’elezione di Margaret Thatcher ha messo fine ai precari compromessi del cosiddetto consenso sociale postbellico. Il programma politico neoliberale della Thatcher è stato supportato da una ristrutturazione transnazionale dell’economia capitalistica. Il passaggio al cosiddetto post-fordismo – con la globalizzazione, l’onnipresente computerizzazione e la precarizzazione del lavoro – ha prodotto una completa trasformazione del modo in cui in precedenza erano organizzati lavoro e tempo libero. Negli ultimi dieci o quindici anni, intanto, internet e le tecnologie di telecomunicazioni mobili hanno completamente modificato la trama dell’esperienza quotidiana. Eppure, e forse proprio a causa di ciò, proviamo la crescente sensazione che la cultura abbia perso la capacità di cogliere e articolare il presente. O forse, in un particolare senso molto importante, sentiamo che ormai non esiste più nessun presente da cogliere e articolare. [pag. 20-21]
La modalità nostalgica individuata da Jameson e Fisher si esprime attraverso la “rinuncia a ogni esplicito riferimento al passato” e “un profondo struggimento nei confronti di una forma del passato“. Si tratta di un meccanismo anche identificativo che ha portato al successo planetario di franchise come Star Wars, ma che potremmo senza fatica intercettare anche alla base della recente travolgente ondata dei film di supereroi (prima o poi ci torneremo).
Ed è qui che fa la sua comparsa folgorante un termine che abbiamo usato, in tempi non sospetti, sebbene con una valenza estremamente specifica, anche da queste parti:
Se il periodo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta ha rappresentato il momento in cui si è avvertita per la prima volta l’attuale crisi della temporalità culturale, è stato soltanto nella prima decade del ventunesimo secolo che si è rivelata endemica quella che Simon Reynolds ha definito «discronia». Mentre tale discronia e disgiunzione temporale dovrebbero in teoria risultare perturbanti, il predominio di ciò che Reynolds definisce «retromania» significa invece che esse hanno perso qualsiasi carica di tale tipo: l’anacronismo viene oggi dato per scontato. Il postmodernismo di Jameson – con le sue propensioni alla retrospezione e al pastiche – è ormai naturalizzato. [pag. 27]
Siamo ancora all’inizio di questo viaggio, ma la discesa nel pensiero di Fisher già si annuncia ricca di scoperte.
A proposito di nostalgia… Per rispondere al quesito sollevato da AV Club e rilanciato da Rivista Studio, non sarà proprio per il suo flirtare senza contegno con la nostalgia per un mondo antico e probabilmente mai davvero esistito, che Yellowstone risulta allo stesso tempo in vetta alle classifiche degli ascolti e tra le ultimissime serie televisive in grado di generare dibattito o per lo meno small talk sulla rete?
La quarta stagione, conclusasi da poco, ha frantumato i record messi a segno con la stagione precedente, arrivando a raddoppiare la media di spettatori USA e a registrare il primato di quasi dieci milioni con l’episodio finale. Niente male per una produzione partita tra mille incertezze e senza la sicurezza di poter dare un seguito alle innumerevoli sottotrame messe in piedi con i primi nove episodi, nonostante la presenza di star del calibro di Kevin Costner negli stivali del protagonista John Dutton (nonché nel ruolo di produttore esecutivo) e Kelly Reilly (la cui interpretazione era tra le poche cose da salvare della seconda stagione di True Detective) in quelli di sua figlia Beth. Da allora pare che non solo la critica mainstream ma nemmeno la platea degli spettatori, solitamente incapaci di sottrarsi alla spirale convulsiva della ripetizione memetica che nell’ultimo decennio ha suggellato qualsiasi esperienza collettiva di successo, abbiano dedicato alla serie di Taylor Sheridan (già sceneggiatore di Sicario di Denis Villeneuve e del suo seguito, Soldado, e qui anche regista di tutti gli episodi della prima stagione) e John Linson (tra i produttori esecutivi di Sons fo Anarchy) l’attenzione che ci si sarebbe aspettati da un prodotto con i suoi numeri. E tra le ragioni di questa contraddizione lampante c’è forse la natura stessa dello spettacolo messo in scena tra le valli del Montana.
La trama, in breve, segue le vicende della famiglia Dutton, da più di un secolo proprietaria di uno dei ranch più grandi dello stato. John Dutton e i suoi figli sono gli ultimi esponenti di una famiglia che ha partecipato alla costruzione del mito della frontiera americana, e che deve vedersela con le numerose minacce che rischiano di spezzare la loro egemonia su Yellowstone e sulla politica dello stato, di cui controllano le massime cariche. Dopo gli iniziali attriti con gli abitanti della vicina riserva indiana, speculazioni edilizie e faide familiari monopolizzano nelle stagioni successive le loro preoccupazioni, in una escalation di antagonisti e di conflitti che non solo arricchisce di volta in volta la loro collezione di lutti e ferite, ma porta gradualmente a galla i numerosi segreti sepolti nel loro passato. Il senso di appartenenza (alla terra, alla famiglia) e lo scontro tra progresso e tradizione sono i due meccanismi narrativi che innescano tutti i conflitti che riverberano nelle 39 puntate fin qui mandate in onda, sottolineate da un continuo richiamo al senso del dovere che non di rado si trasforma in un ricatto quando non in un alibi.
L’apparente disinteresse mostrato dalla critica non si spiega con una sceneggiatura sì non brillantissima e non del tutto avulsa da plot hole – a volte risolti sbrigativamente, altre semplicemente lasciati lì nella speranza di non essere notati o almeno di essere velocemente dimenticati – ma anche capace di intessere una trama sempre più fitta tra i molti personaggi, accompagnandoli in una crescita che il più delle volte si traduce in un consolidamento della loro caratterizzazione di partenza. Potrebbe sembrare uno schema statico, avverso alle buone regole di qualsiasi manuale di scrittura, e invece è una scelta del tutto funzionale a questo grande mondo antico, costruito sull’esempio della progenie a cui John Dutton appartiene: uomini tutti d’un pezzo, in grado di imporsi contro una natura tanto spettacolare quanto ostile, e di affrontare le insidie disseminate sul loro cammino per volontà di altri uomini come loro, se non peggiori. Ma la sceneggiatura riesce anche a compensare lo scarso dinamismo dei personaggi con un ritmo che da una parte tiene lo spettatore incollato alle vicende dei personaggi e dall’altra esalta i momenti di distensione immortalati dalla fotografia di Ben Richardson, con l’impareggiabile bellezza delle Montagne Rocciose resa ora con lo sguardo attento di un documentarista, ora non senza un certo gusto agiografico nella luce delle albe e dei tramonti.
Date le premesse, il rischio di scadere nella ripetizione fine a se stessa e nel già visto è un confine sottile su cui la serie della Paramount si muove con noncuranza episodio dopo episodio. Ma è un rischio che anche lo spettatore ama correre, perché in fondo è un prezzo che si è disposti a pagare in attesa di scoprire il prossimo passo sulla strada per l’inferno che sono intenzionati a percorrere i protagonisti (in particolare la Beth di Kelly Reilly). È così che Yellowstone, pur senza essere niente di memorabile, si attesta come un ottimo prodotto di massa, espressione di una cultura popolare forse sottorappresentata, ma comunque capace di avvincere l’audience regalando personaggi per cui parteggiare e alimentando quel senso pruriginoso per lo svelamento del mistero che trae conforto dalla sua stessa prevedibilità.
E allora perché se ne parla così poco?
A frenare gli entusiasmi che innescano l’impennata delle condivisioni social è forse principalmente il suo schematismo. Non si tratta di vero e proprio manicheismo, poiché le sfumature dei personaggi sono sufficienti a riconoscere le ombre delle colpe e degli errori che si annidano in ognuno di loro, ma di una più generale tendenza all’omissione che è inevitabile per la riuscita dello spettacolo. Mettere in scena un mondo sospeso fuori dal tempo, in cui il senso di appartenenza a un luogo può convivere pacificamente con un senso della giustizia declinato secondo le usanze e la volontà di un singolo uomo, in cui il mito della frontiera perdura inalterato nella vastità dei panorami senza preoccuparsi troppo del genocidio perpetrato ai danni delle popolazioni indigene su cui quel mito si regge, ma in una versione edulcorata che ovviamente espunge ogni controversia dalla narrazione dei vincitori, è una formula che probabilmente non crea problemi alla maggior parte del pubblico. Ma sicuramente lo diventa l’esito scontato del conflitto: non ci sorprenderemmo di ritrovarci qui tra quindici anni a seguire la ventesima stagione o giù di lì di Yellowstone, con una nuova generazione di Dutton impegnata a difendere il ranch da nuovi nemici, che poi sono i nemici di sempre. E se da una parte questo è proprio ciò che lo spettatore di Yellowstone in fondo chiede, non c’è niente di più distante da quel senso di precarietà e incertezza che condensa il vero potere di una storia.
La serie in una battuta
“L’amara verità è che vogliono i terreni, e, se li ottengono, non sembrerà mai più la nostra terra. Questo è il progresso nel linguaggio moderno, perciò se cercate il progresso non votate per me: io sono l’opposto del progresso. Sono il muro contro cui il progresso va a sbattere. E non sarò io a spezzarmi.”
John Dutton
Di cosa parliamo quando parliamo di cyberpunk? La risposta è molto meno scontata di quanto potrebbe sembrare a un approccio superficiale. Il cyberpunk letterario è stato spesso accusato di scarsa originalità, monotonia di fondo e, col tempo, conformismo a tutta una serie di elementi divenuti un po’ dei cliché: il mondo distopico dominato dalle multinazionali, gli hacker solitari in lotta contro il sistema, la vita di strada nei bassifondi delle megalopoli… e potremmo continuare. Ma se prendiamo in considerazione i due titoli che hanno contribuito maggiormente a plasmare la nuova sensibilità della fantascienza dagli anni ’80 in avanti, ci accorgiamo di tutta una serie di differenze anche abissali legate non a elementi di contorno, che tutto sommato sono anche abbastanza sovrapponibili (*) – come dimostrano anche le dichiarazioni di William Gibson sulla sua esperienza come spettatore in sala all’uscita di Blade Runner – ma su un elemento che per il cyberpunk è tutto fuorché accessorio: la tecnologia.
(*) E che così di contorno, come vedremo tra poco, comunque non sono.
La tecnologia in Neuromante
Partiamo da Neuromante, il manifesto letterario del cyberpunk. Uscito nel 1984, è ambientato secondo le stime di Gibson intorno al 2035 (sebbene l’arco della trilogia copra 16 anni e quindi questa datazione vada presa molto con le molle, potendo oscillare, diciamo, tra il 2025 e il 2040… ma tutto sommato ancora dietro l’angolo, a differenza di quanto dedotto invece da un lettore su Vice basandosi su altri elementi interni ai romanzi ma probabilmente più dovuti a sviste dell’autore che non riconducibili alle sue reali intenzioni) e dipinge una tecnologia ormai smaterializzata, micro- e nanometrica, pervasiva.
Nel mondo di Case e Molly, la tecnologia si è ormai integrata in maniera indistricabile con i corpi e la psiche degli utenti: il cyberspazio è un piano dell’esistenza complementare alla realtà fisica, con cui si compenetra in declinazioni che assumono di volta in volta le forme di un’internet ante litteram, della realtà virtuale o di una realtà aumentata, e che assolve al ruolo di vero e proprio ecosistema, con le sue nicchie e i suoi agenti (virus informatici, ICE, costrutti di personalità riconducibili al mind uploading, intelligenze artificiali…).
Case, Molly e gli altri abitanti del futuro come loro non esitano a modificare i propri corpi attraverso impianti prostetici che ne aumentano le facoltà e attivano un feedback con il cyberspazio: non sono più solo agenti, ma la loro psiche e il loro organismo diventa un target su cui la rete e altri agenti possono produrre effetti tangibili. La strada ha trovato il suo uso per la tecnologia uscita dai laboratori, per dirla con Gibson. Anzi, ha trovato mille modi per utilizzarla e piegarla alle necessità dei singoli operatori, attraverso tutto un mercato nero di tecnologie trafugate dai centri di ricerca delle multinazionali o dell’esercito e messe in circolazione da una rete di contrabbandieri, corrieri, rigattieri…
La tecnologia in Blade Runner
La visione della Trilogia dello Sprawl prende forma tra la fine degli anni ’70 e i primissimi ’80, e nel 1982 arriva nelle sale Blade Runner. Un film che si inserisce nel solco di quella visione cupa e pessimistica del futuro che negli stesi anni si andava definendo grazie a pellicole epocali come Mad Max di George Miller (1979) e 1997: Fuga da New York di John Carpenter (1981), o Alien dello stesso Ridley Scott (1979). Ma, con la notevole eccezione di quest’ultimo, i film che stavano ridefinendo l’immaginario del futuro erano prevalentemente accomunati da un basso tasso tecnologico: la tecnologia era o ridotta al puro elemento meccanico (le automobili di Mad Max con cui vivono in simbiosi i sopravvissuti dell’outback australiano) o a strumento di controllo (le bombe miniaturizzate iniettate a Plissken per convincerlo a esfiltrare il presidente dal carcere di massima sicurezza di Manhattan).
Lo stesso Alien non è che brilli sotto il profilo dell’estrapolazione tecnologica, ma se non altro, sullo sfondo di una civiltà che è stata comunque in grado di mettere in campo lo sforzo necessario a esplorare rotte spaziali al di fuori del sistema solare, presenta personaggi che sono androidi meccanici indistinguibili dagli esseri umani e computer che rasentano, per autorità anche se non proprio per flessibilità (e qui torniamo alle forme di controllo già citate sopra a proposito di 1997: Fuga da New York), lo status delle IA. Elementi che, con le dovute variazioni, caratterizzano anche Blade Runner, dove ritroviamo appunto una tecnologia pesante: gli avanzamenti nella biotecnologia hanno permesso lo sviluppo di replicanti, androidi biologici indistinguibili dagli esseri umani (anzi, più umani dell’umano), destinati all’impiego in teatri di guerra extra-mondo e a farsi carico di mansioni che richiedono forza e resistenza fisica. L’uso più soft contemplato per i Nexus-6, i replicanti di ultima generazione, è per i modelli femminili, adibiti alla prostituzione nei bordelli delle colonie, non proprio un esempio di visione futuristica sull’impiego del più sofisticato prodotto della tecnologia umana.
In Blade Runner, la tecnologia è sempre separata dai corpi e dalle menti dei suoi utilizzatori umani: l’intermediazione tecnologica nelle relazioni umane è ridotta al minimo, i telefoni sono ancora in cabine pubbliche, i computer quasi nemmeno si vedono e – tralasciando volutamente, per il momento, qualsiasi grande o piccola retcon operata da Blade Runner 2049 – la rete nemmeno esiste. La tecnologia non è bassa, ma è sostanzialmente hard e ha a che fare con la programmazione/manipolazione biologica dei corpi, confinata all’interno di questi (alcune decine o centinaia di migliaia di replicanti sparsi sulle colonie extra-mondo, e pochissimi fuggitivi clandestini sulla Terra), mentre il mondo di fuori è sostanzialmente la fucina di catastrofi ambientali in cui ci troviamo a vivere oggi, con un downgrade della tecnologia attuale a quella degli anni ’80.
Blade Runner & Neuromancer: convergenze non accidentali
Per inciso, ricollegandoci a quanto dicevamo in apertura sulla sovrapponibilità degli elementi d’ambiente e le atmosfere, è interessante anche notare come Gibson e Scott condividessero una visione sostanzialmente comune su quella che l’autore di Neuromante definisce “la più caratteristica delle nostre tecnologie“: la città. Entrambi, Gibson sulla pagina scritta e Scott nei set di Blade Runner, compiono un’operazione che potrebbe apparire scontata (soprattutto a un europeo, sostiene Gibson): sovrapporre elementi del passato, del presente e del futuro nella rappresentazione delle città. In pratica: dare evidenza della stratificazione delle epoche attraverso il mélange architettonico che plasma l’estetica della città.
Ciò che Ridley Scott fa con Blade Runner, lo si ritrova nella stessa misura sia in Neuromante che nei precedenti racconti di Gibson: le strade delle loro città sono concentrati di archeologia urbana e per questo danno una misura incontestabile del tempo che è corso su quelle superfici e di ciò che è costato.
Blade Runner vs Neuromancer: dove saltano gli schemi
Tutto semplice, quindi? Forse no, perché il doppio finale di Blade Runner, con il problema della duplice interpretazione della natura di Deckard, complica significativamente lo schema fin qui delineato. A seconda delle letture che si vogliono dare al personaggio, il cacciatore di replicanti può essere un umano (chiave interpretativa prediletta dall’interprete del ruolo Harrison Ford) o un replicante lui stesso (lettura sostenuta a più riprese da Ridley Scott, almeno fino all’uscita nelle sale del sequel di Denis Villeneuve che invece opta per la versione di Ford).
Se Deckard è un umano, la sua fuga finale con Rachael assume le valenze metaforiche di un matrimonio tra la sfera umana e quella artificiale, una sorta di romantica conciliazione tra la natura e la tecnologia. Poco plausibile forse, sicuramente suggestiva, estrinsecata in particolare nella sequenza dell’auto che attraversa i boschi a nord di Los Angeles sulle note incalzanti della leggendaria colonna sonora di Vangelis. Si tratta del finale voluto dallo sceneggiatore Hampton Fancher e realizzato da Scott su input della produzione “riciclando” le sequenze girate per Shining scartate da Stanley Kubrick.
Se Deckard al contrario è un replicante, la sua scoperta finale (molto in linea con la sensibilità di Philip K. Dick benché non fedele alla lettera al romanzo), suggellata dalla chiusura delle porte dell’ascensore scelta come final cut dal regista, diventa l’agnizione lacerante dell’incompatibilità della propria esistenza con la natura, l’anamnesi sul proprio essere – esattamente come i replicanti a cui il cacciatore ha finora dato la caccia – una contraddizione in atto, la prova «vivente» che la realtà ha ormai raggiunto un livello di falsificazione da cui è impossibile tornare indietro: non sono solo i ricordi a essere contraffatti, ma l’effetto si estende inevitabilmente alla percezione stessa della realtà. La natura è destinata a scomparire, sostituita da repliche che si credono originali e reali. Le superiori capacità mimetiche dei simulacri renderanno infine vano qualsiasi tentativo di resistenza.
La versione di Ford (e di Fancher) chiude in qualche modo un cortocircuito con la visione tecnologica di Neuromante, dove la sintesi tra organico e sintetico viene subita ma a cui non ci si sforza di resistere, cercando piuttosto di piegarla alle esigenze dei protagonisti: sotto questa luce, Blade Runner prospetta un’accettazione perfino ottimistica di questa sintesi, facendo quindi un ulteriore passo avanti.
La versione di Scott (e di Dick), invece, stabilisce che non c’è ragione di sposare ciò che è fuori con ciò che è dentro, l’organico e l’inorganico. Semplicemente, l’inorganico, l’artificiale, il sintetico, il simulacro, ormai più umano dell’umano, è destinato a soppiantare l’organico, il naturale, l’originale. Non c’è scampo, non esiste via di fuga, la partita è segnata.
Siamo sotto scacco, a una mossa di distanza dallo scacco matto. Solo che non ce ne siamo ancora resi conto.
Devo ammettere che mai avrei pensato di scrivere parole gentili su un film interpretato da Sergio Castellitto, ma alcuni giorni fa mi sono imbattuto in un film che avevo distrattamente adocchiato alla sua uscita, scotomizzandolo all’istante probabilmente anche per via della sua presenza nel cast. Invece la messa in scena, la fotografia, il ritmo della scena in cui ero inciampato per caso mi hanno convinto a dargli una possibilità. Il film, intitolato Il talento del calabrone, ha un’idea e uno sviluppo ben più solidi di un titolo che, per quanto funzionale alla trama, appare anche abbastanza fuorviante, echeggiando la stessa fucina aforistica che ha partorito perle del calibro dell’Eleganza del riccio o La solitudine dei numeri primi: al di là del valore intrinseco delle opere, la formula dei titoli mi dà l’impressione – giusta o sbagliata che sia – di una industrializzazione del prodotto editoriale/cinematografico, che trovo stucchevole e disturbante. In questo caso, alla base del film non c’era tuttavia un libro, come inizialmente sospettavo, ma un soggetto di Lorenzo Collalti.
A rinvigorire il mio intento ci si è messa pure una coincidenza illuminante. Il talento del calabrone è infatti l’esordio italiano di Giacomo Cimini, regista e sceneggiatore romano (classe 1977) con all’attivo un cortometraggio che non poteva essere passato inosservato agli appassionati di fantascienza (e infatti questo non l’avevo scotomizzato): The Nostalgist, da un racconto di Daniel H. Wilson. Questa volta Cimini dirige su una sceneggiatura sviluppata a quattro mani con Collalti, partendo da un soggetto che si presenta come un bizzarro ibrido tra Talk Radio, Speed e Zodiac, per trasformarsi ben presto però in qualcosa di diverso e di piuttosto originale. E si può tranquillamente dire che tutto il peso della riuscita dell’impresa poggi sulle spalle di Castellitto, che per una volta recita senza strafare, per sottrazione più che per enfasi.
L’ultima telefonata di una trasmissione radiofonica notturna mette in contatto un presunto mitomane con DJ Steph (Lorenzo Richelmy), e prima con il pretesto di un suicidio imminente, poi con azioni dimostrative che partono con un attentato dinamitardo e arrivano alla presa di controllo della rete elettrica attraverso un worm modellato sull’esempio reale di Stuxnet, il misterioso radioascoltatore prende il controllo della trasmissione e guida lo speaker e gli inquirenti che intanto si sono messi sulle sue tracce verso la scoperta di un segreto che affonda nel passato e unisce i due uomini in un vincolo indissolubile. Una storia di violenze e umiliazioni mette in moto un meccanismo vendicativo orchestrato come una partita a scacchi, accompagnata dall’esecuzione di brani di musica classica che si riveleranno funzionali allo scioglimento del mistero, in cui flash del passato irrompono attraverso le crepe di una mente corrotta dalla follia gettando luce sul movente.
Una curiosità per gli annali: il protagonista è un ex-professore di fisica di nome Carlo De Mattei, con tanto di parentesi sull’equazione di Dirac e lezione annessa sulla propagazione di versioni adulterate della scienza e di pseudoscienze varie grazie alla cassa di risonanza dei social. Nella messinscena che ha allestito a uso e consumo della sua vittima, De Mattei diventa un fantasma che si aggira per le strade notturne di una Milano fotografata a regola d’arte dal veterano Maurizio Calvesi. Alla sua ricerca si muovono le forze dell’ordine coordinate dal tenente colonnello Rosa Amedei, resa con efficacia e la giusta dose di partecipazione umana da Anna Foglietta, a cui la sceneggiatura affida la battuta più riuscita del film (“Penso che i fantasmi hanno sempre qualcosa che li trattiene su questa terra“).
Risultando centrali o comunque funzionali alla trama, tematiche quanto mai sensibili come bullismo e cybersecurity ricevono per una volta un trattamento all’altezza da parte di una produzione nostrana. Anche per questo Il talento del calabrone è un noir atipico nel panorama cinematografico italiano e, dopo l’esito di The Nostalgist, lascia ancora più con la curiosità di scoprire cosa potrebbe fare Cimini con un budget all’altezza e un nuovo soggetto fantascientifico a disposizione.
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