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Uno spettro si aggira tra le visioni del futuro dell’umanità. A dire la verità, di spettri potremmo contarne diversi, ma se escludiamo le estrapolazioni in cui la civiltà umana si annienta in una catastrofe globale, il più ingombrante rimane senz’altro quello della futura scalata umana alla Nuova Frontiera.
Per noi vecchi arnesi cresciuti a pane e fantascienza, lo spazio è il convitato di pietra di ogni tentativo di proiezione dell’umanità nel futuro. Lo è anche a dispetto dell’evidenza di tutti gli ostacoli disseminati lungo il cammino verso le stelle, perché con ogni probabilità il mistero del cosmo è iscritto talmente a fondo nel nostro inconscio come specie da essere diventato un marchio a fuoco nel codice memetico del nostro immaginario. E lo è al punto da saltare fuori anche nelle visioni del futuro nominalmente concepite in antitesi con le spensierate avventure tecnologiche della prima fantascienza, quella ormai associata con la Golden Age: se da un lato la space opera non ha mai perso davvero vigore, attraversando le decadi sulla spinta di un motore inerziale che da Edmond Hamilton e Isaac Asimov è passato per la penna di Frank Herbert, Larry Niven, John Varley e C.J. Cherryh per arrivare fino a noi con Lois McMaster Bujold, Iain M. Banks, Vernor Vinge, e poi con Peter F. Hamilton, Alastair Reynolds e numerosi altri anche tra i frequentatori occasionali, è un dato di fatto che lo spazio è un ingrediente fondamentale nel world-building dello stesso cyberpunk (pensiamo alla Disneyland orbitale di Freeside o all’epilogo stesso di Neuromante, agli habitat spaziali della Matrice Spezzata o alle colonie extra-mondo di Blade Runner, tanto per citare i tre pilastri su cui l’immaginario del movimento degli Anni Ottanta ha preso forma), come lo erano stati la Luna, Marte e i satelliti dei giganti gassosi per Philip K. Dick e lo specchio delle contraddizioni terrestri allestito da Ursula K. Le Guin sui pianeti del suo Ecumene, o come lo sarebbero poi stati diversi sfondi del sistema solare per Kim Stanley Robinson, gli autori della cosiddetta fantascienza umanistica, Ian McDonald o gli aderenti alla Mundane SF.
Alla luce di questa scorribanda più veloce della luce, potremmo distillare l’essenza della fantascienza in una formula approssimativa, ma che ne riesce comunque a cogliere una delle caratteristiche più distintive emerse in un secolo di invenzioni, declinate sia nella dimensione della creatività più esplosiva che sul piano della critica più speculativa: vale a dire, che per l’umanità non c’è futuro senza spazio.
Da veterani di questo feeling di lunga data, noi appassionati di fantascienza siamo quindi particolarmente sensibili alle imprese spaziali vagheggiate, programmate o millantate dalla genia dei multimiliardari che da alcuni anni a questa parte inseguono il sogno dello sviluppo commerciale dello spazio. Ancor più di Jeff Bezos (di cui proprio durante la pandemia ha finito per insidiare il primato di uomo più ricco del mondo, secondo molti arrivando nel 2022 addirittura a surclassarlo) o di Richard Branson, che può vantare la costruzione del primo aeroporto spaziale, grazie alla sua sovra-esposizione mediatica è ormai Elon Musk a personificare l’imprenditore del futuro, provvisto di una visione e a capo di un impero economico capace di tentare la conquista della frontiera spaziale. Il più grande capolavoro di Musk è stato probabilmente quello di intestarsi un’immagine di outsider, come se un uomo fuori dalle logiche del mercato potesse arrivare ad accumulare la fortuna richiesta per diventare l’uomo più ricco del mondo – oppure, se è per quello, come se un uomo in grado di twittare 5mila volte in un anno potesse anche essere direttamente coinvolto in un’attività vagamente assimilabile al lavoro.
Questo gli ha permesso di far passare sempre sottotraccia le molteplici contraddizioni della visione imprenditoriale di cui si fa portatore: da una parte la proiezione verso un futuro migliore sbandierata a suon di tweet e interviste, dall’altra le conseguenze pratiche sulla vita degli abitanti di Boca Chica comportate dall’attività della sua Starbase in Texas e i dissidi professionali con i suoi collaboratori e dipendenti. Come emerge, nonostante i toni apologetici, dalla sua biografia scritta da Ashley Vance (Elon Musk: Tesla, SpaceX e la sfida per un futuro fantastico) e come riassumeva Nicolò Porceluzzi nel suo profilo redatto per Prismo, i dipendenti di Musk finiscono per essere utilizzati come munizioni, investiti strumentalmente di un ruolo solo nella logica di finalizzare uno scopo, dopodiché consumati e buttati via. Nello stesso articolo gli esempi si sprecano: dalla collaboratrice di lunga data licenziata per aver chiesto un aumento, alle conseguenze altrettanto estreme per i dipendenti che mancano una deadline o commettono un refuso in una e-mail importante.
Dopotutto ogni cosa per Musk sembra ridursi a un mezzo al servizio dei suoi obiettivi: che siano i dipendenti delle sue aziende o gli abitanti di un villaggio di pescatori che per caso si è venuto a trovare troppo vicino alla sua base operativa per i lanci spaziali. Perché dovremmo quindi sorprenderci se Musk ammette candidamente che il sacrificio da pagare per andare su Marte si misurerà in missioni fallite e vite umane perse? Perché dovremmo stupirci se Musk pianifica la conquista di Marte con un meccanismo di servitù debitoria che somiglia a una forma di schiavitù a esclusivo beneficio dei suoi sogni di colonizzazione spaziale?

Ma se la sorpresa non è giustificata, la generale mancanza di reazione da parte dell’opinione pubblica, di coloro che si fanno passare per intellettuali o – entriamo in modalità utopia estrema? – della politica, desta più di qualche perplessità. Le rare volte in cui Musk ha finito per sfiorare il discorso, come quando il governatore repubblicano Greg Abbot ha dichiarato la vicinanza (se non proprio l’appoggio) del suo nuovo partner in affari alle politiche sociali del Texas, nella scia delle polemiche seguite alle nuove restrizioni sull’aborto introdotte dallo stato nel settembre del 2021, per smarcarsi Musk non ha saputo fare di meglio che prodursi in una dichiarazione pilatesca (quella volta fu questa: “In general, I believe government should rarely impose its will upon the people, and, when doing so, should aspire to maximize their cumulative happiness. That said, I would prefer to stay out of politics“).
Allo stesso modo in cui siamo disposti a ignorare che la lotta al cambiamento climatico per le aziende di Musk è fondamentalmente un business, sembriamo capaci di passare su tutte le altre contraddizioni del personaggio. La vaghezza degli annunci, la cronica mancanza di dettagli a fronte di progetti talmente ambiziosi da richiedere una cura diabolica, per la prima volta sta però cominciando a far breccia in questa sorta di muro di omertà in cui si è trasformato il credito di fiducia incondizionata che siamo stati disposti a riconoscergli per tutto questo tempo: è notizia proprio degli ultimi giorni che il ritardo nei piani di lancio di Starship ha iniziato a produrre qualche perplessità tra i commentatori che s’interessano delle iniziative eloniane.
Sempre in veste di appassionati di fantascienza, avremmo dovuto forse accorgerci prima degli altri che Elon Musk era piuttosto distante dall’ingenuo prototipo del visionario capitalista spaziale celebrato, con il suo tipico slancio ottimistico, da Robert A. Heinlein, a partire dal D. D. Harriman protagonista di Requiem e L’uomo che vendette la Luna, pietre miliari degli Anni Quaranta. Nonostante Musk si sia dichiarato un fan di Iain M. Banks, nonostante tutto il citazionismo di facciata utile a costruirsi un alone da geek funzionale alla sua causa (peraltro, quale scelta migliore di David Bowie o della Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams per triggerare gli entusiasmi dei fan?), i bug che possiamo individuare nel suo programma per rendere la specie umana una civiltà multiplanetaria, come lui stesso ama chiamarla, dovrebbero già adesso insospettirci sui possibili esiti finali. Dal realismo capitalista di Mark Fisher, con Musk facciamo già due o tre passi avanti nel futuro e ci troviamo sbalzati nell’orizzonte di un transrealismo iperliberista: se non c’è alternativa ora al neoliberismo, come potremo rinunciare ai suoi protocolli operativi per piegare il futuro alla volontà della ragione? Tra le crepe che percorrono la superficie di questo sogno si affaccia un futuro che non può essere per tutti. Insomma, suo lo spazio, suo il futuro.
A meno che, e questo diventerà evidente sicuramente prima della fine del decennio, Elon Musk non si dimostri semplicemente un innocuo ciarlatano.
In ogni caso, parafrasando la sua ex-moglie, questo non è il mondo di Elon e noi non siamo lo Starman che lui ha piazzato alla guida di una Tesla Roadster prima di lanciarla nello spazio. Non dobbiamo viverci dentro per forza, se non lo vogliamo. Smettere subito con l’adorazione acritica della sua immagine sarebbe già un inizio, verso un diverso futuro ancora da esplorare.
Un sole di gomma fu squassato, e tramontò; e un nulla nero-sangue si mise a far girare un sistema di cellule intrecciate con cellule intrecciate con cellule intrecciate dentro un unico stelo. E spaventosamente nitida, sullo sfondo di tenebra, una candida fonte zampillò.
Vladimir Nabokov, Fuoco pallido, traduzione di Franca Pece e Anna Raffetto per l’edizione italiana Adelphi (2002)
Finalmente la mia copia del balenottero è venuta a spiaggiarsi qui di fianco e quindi quale occasione migliore per parlarvi un po’ del mio racconto? Il senso del post, come avrete capito, è quanto di più autoreferenziale si possa immaginare. Se decidete di andare avanti, sapete cosa aspettarvi.
1. Riferimenti letterari
Come fa giustamente notare il curatore del volume Franco Forte (che ringrazio oltre che per aver messo in luce il modello, anche per avermi dato la possibilità di comparire ancora una volta in un libro con diverse autrici e autori per cui non ho mai fatto mistero di nutrire da lettore – e a volte anche, nel mio piccolo, da curatore – un apprezzamento incondizionato), sul mio racconto aleggia l’ombra di Sergio “Alan D.” Altieri. Alla fine i conti tornano, no?
Anche lui forse avrebbe usato per questo racconto l’etichetta sci-fi action, che non so se merito, però mi avrebbe fatto senz’altro piacere.
Accanto a lui, altri riferimenti al mio personale pantheon letterario che fanno capolino tra le pagine sono meno scontati per un racconto di fantascienza quale Al servizio di un oscuro potere è, e in particolare penso a H. P. Lovecraft, Thomas Ligotti e Breece D’J Pancake.
2. Suggestioni e ispirazioni
Lo spunto di partenza, la scintilla che ha innescato la suggestione da cui è scaturito il racconto, è una sequenza di fotogrammi di Bologna, una mattina presto d’inverno di due o tre anni fa. In superficie la città deserta, spazzata da un vento gelido che strappava pioggia ghiacciata a un cielo di marmo. Nel sottosuolo, il labirinto multi-livello della stazione dell’alta velocità, con le sue lunghe passerelle di vetro sospese sui binari e immerse in un’atmosfera ovattata, altrettanto rarefatta, e le voci dei passeggeri in attesa che si perdono in lontananza, soffocate dai volumi delle navate sotterranee.
La cordiale voce registrata del sistema di annunci sonori diffusi dagli altoparlanti è stata da ispirazione per Mezereth. Con la complicità di un umore appena più torvo del solito, non è stato difficile delineare invece il personaggio di Maksim Bogdanov. Il nome è un omaggio ad Aleksandr Bogdanov, sulla cui figura è incentrato Proletkult dei Wu Ming, ma anche ad Arkady Bogdanov, uno dei personaggi più intriganti della Trilogia Marziana di Kim Stanley Robinson.
3. Storie dentro storie dentro altre storie
Keira è antecedente a entrambi, essendo ormai anni che medito di raccontarne la storia. Una storia che inizia in una città devastata dalla guerra, subito dopo il crollo della civiltà, e si conclude a bordo di un’astronave interstellare che si lascia alle spalle un sistema solare irreversibilmente sconvolto. In mezzo ci sono un annuncio del SETI a lungo atteso, ma che forse mai avremmo voluto sentirci dare sul serio, e il Programma Majestic. Di tutto questo si fa menzione in Al servizio di un oscuro potere, che va così a coprire con una prima tessera il mosaico di una storia più ampia e più antica. Il resto, prima o poi, lo scriverò.
Dimenticavo. Il personaggio che fa da contraltare a Maksim nella ricerca di Keira per conto di Mezereth si chiama… Irene Adler. Ovviamente, non quella Irene Adler.
4. World-building
Nel mondo post-apocalittico in cui vivono Maksim e Irene Adler, la società e le sue strutture di potere sono state commissariate dalle intelligenze artificiali. Amorevoli, altruistiche IA come Mezereth hanno preso in custodia il genere umano per il bene della civiltà. E gli umani, per lo meno quelli sopravvissuti all’ultima guerra totale, sono stati incasellati, per il loro bene, in ruoli predefiniti in virtù della loro classificazione in sedici tipi psicologici, che riprende lo schema messo a punto dalle psicologhe Myers e Briggs, per altro madre (la seconda) e figlia (la prima), nel secondo dopoguerra (per scoprire il vostro tipo MBTI, potete sottoporvi a test più o meno accurati, anche on line se ne trovano di diversi, tra cui questo in italiano).
Nel racconto mi diverto a giocare, come si sarà capito poco sopra, con i rischi esistenziali di Nick Bostrom, provando ad azzardare una risoluzione “artificiale” del dilemma del prigioniero, che porta a pagare un prezzo alto ma accettabile per evitare la distruzione assicurata. Questo dilemma, nel racconto, è legato al paradosso di Fermi, e a una possibile spiegazione che è stata già affrontata con eccellenti risultati da autori come Stephen Baxter, Alastair Reynolds e Liu Cixin.
5. Altri mondi, altre storie
Il nome della città in cui si apre e finisce il racconto, al-Hastur, è una citazione abbastanza trasparente di Robert W. Chambers, i cui racconti del ciclo del Re in Giallo sono andati a costituire il nucleo di un universo letterario di rimandi e citazioni che si è avvalso nel corso del tempo dei contributi, tra gli altri, di H. P. Lovecraft, sublimando nell’immaginario popolare anche grazie al lavoro di Nic Pizzolatto sulla prima stagione di True Detective.
In effetti, con tutti questi link, sembra che non abbia dovuto fare altro che mettere un po’ di ordine nella cronologia del blog. Ma è stato un po’ più complessa di così.
Nella descrizione di al-Hastur come di una città mausoleo, uno spettrale sepolcro imbiancato, riverberano le sensazioni di Cuore di tenebra di Joseph Conrad, in cui si ritrova una descrizione di Bruxelles che gli permette di materializzare una critica all’imperialismo colonialista europeo (“Mi ritrovai nella città sepolcrale risentito alla vista di individui che si affrettavano nelle strade per sgraffignare un po’ di denaro l’uno all’altro, […] per sognare i loro sogni sciocchi e insignificanti. Calpestavano i miei pensieri. Erano intrusi e la conoscenza che avevano della vita mi appariva un’irritante finzione, perché mi sentivo così sicuro che non potessero certo sapere le cose che sapevo io“).
Ho aggiunto il prefisso al un po’ per un tocco di esotismo, un po’ per caricarlo di un vezzo demoniaco, e poi perché mi sono detto: con tutti questi riferimenti, perché non citare anche Jack Vance?
6. E il titolo?
Ok, adesso l’ultima e poi evito di importunarvi oltre. Il titolo, vi starete chiedendo, o forse no, ma ormai avrete capito che ho comunque intenzione di dirvelo.
Al servizio di uno strano potere è il titolo, preso in prestito da uno dei suoi racconti, di un’antologia di Samuel R. Delany pubblicata in Italia in un numero monografico di Robot (il 35, per l’esattezza, nel febbraio del 1979). Robot è la mia rivista preferita, Delany è uno degli autori di cui non potrei fare a meno (e tra i primi che citerei se mi venisse chiesto il nome di uno scrittore che tutti dovrebbero conoscere) e questa antologia è uno scrigno di pietre preziose (così parafrasiamo pure il suo titolo più bello).
Al servizio di un oscuro potere esiste anche grazie a Robot e a Delany. Ed è un’influenza che va al di là del titolo, ma che il titolo mette da subito in chiaro.
Buona lettura!
Kim Stanley Robinson è uno dei giganti viventi della letteratura nordamericana, artefice di quello che è il più ambizioso affresco planetario della fantascienza contemporanea. I personaggi, gli scenari e le tematiche che sorreggono la trilogia marziana sono stati oggetto anche di una serie di «scritti minori», sicuramente per dimensioni, ma altrettanto certamente non per ambizioni. I racconti, le poesie e i frammenti di quella che potremmo definire autofiction ambientati nell’universo dei Primi Cento e in una sua linea narrativa alternativa sono stati raccolti in un volume che Fanucci ha pubblicato da poco con il titolo I marziani.
Ne parlo diffusamente su Quaderni d’Altri Tempi.
Qui aggiunto soltanto che si tratta di un libro in cui per l’appassionato della trilogia sarà un piacere perdersi e ritrovarsi, riprendere i fili del racconto e venire catapultato ancora una volta nell’epopea della colonizzazione marziana. Per assistere alla progressiva sottomissione dell’habitat selvaggio alla legge della vita, e per seguire fin oltre le estreme conseguenze mostrate nel Blu di Marte l’evoluzione della terraformazione.
Eileen lo invidia, sebbene sappia che lui ha dei sentimenti contrastanti a riguardo. Ma ormai è una delle cose di lui che ama. Si ricorda tutto eppure è rimasto fiducioso, perfino allegro, durante tutti gli anni del collasso climatico. Una roccia su cui poteva fare affidamento quando è lei ad affrontare cicli di disperazione e tristezza. Ovviamente, in quanto Rosso, si potrebbe dire che lui non ha ragione di lamentarsi. Ma non sarebbe la verità. Il suo atteggiamento è sempre stato più complesso, Eileen se n’è accorta; così complesso che non lo ha afferrato del tutto. Un aspetto della sua memoria infallibile, avere una prospettiva a lungo termine; la determinazione a fare sempre le cose al meglio; la gioia sgomenta per la natura che resiste; un miscuglio di tutto ciò. Lei lo guarda mentre fissa assorto il promontorio da cui una volta hanno ammirato un mondo vivente.
Al quarto giorno dalla decisione della World Health Organization di attribuire all’infezione da COVID-19 lo status di pandemia, l’Europa continentale è un arcipelago di zone rosse. Con misure ancora una volta scoordinate (la Germania che chiude le frontiere ai vicini come pochi giorni fa aveva fatto la Polonia; Spagna, Austria e Repubblica Ceca che adottano misure analoghe all’Italia; la Francia che chiude scuole e università ma manda i suoi cittadini a votare per la tornata delle comunali, a cui già si annuncia un tasso di astensione record, oltre il 50%, che induce il governo a riconsiderare l’opportunità di sospendere il secondo turno previsto per domenica prossima), ma almeno il contagio non è più preso sottogamba: anche perché le proporzioni che sta assumendo altrove, come per esempio in Spagna, sono del tutto raffrontabili con quelle che il fenomeno ha raggiunto in Italia.
In USA il presidente Donald Trump ha addirittura accettato di sottoporsi al tampone, risultato negativo (per quello che vale il comunicato della Casa Bianca). Sua figlia Ivanka da ieri è in isolamento volontario dopo essere stata a contatto nei giorni scorsi con un ministro australiano che nel frattempo è risultato positivo al test. La Cina cerca di far ripartire la sua economia, ma sarà dura recuperare ai livelli pre-crisi.
Il bollettino odierno della Protezione Civile registra 3.590 nuovi casi in Italia, che portano il totale a 24.747, di cui 20.603 attualmente positivi. Questi dati sono in linea con la sigmoide dello scenario E che esaminavamo ieri e questo in qualche modo ci conforta. Tuttavia, esaminando lo spaccato dei dati, ci rendiamo conto di due cose:
- I guariti sono complessivamente 2.335, ma il numero dei decessi è salito a 1.809, con 368 nuovi morti che rappresentano il nuovo triste record dall’inizio della crisi, e questo purtroppo riporta il tasso grezzo di letalità oltre il 7% dopo l’illusorio ribasso di ieri. Per raffronto, consideriamo che in Cina, la cui situazione è stata rappresentata e continua a essere raccontata come pre-apocalittica, il numero totale dei morti è ad oggi di 3.199, con un tasso inferiore al 4%. In tutti gli scenari che esaminavamo ieri consideravamo un progressivo riallineamento del tasso di mortalità a quello medio degli altri paesi, ma al momento questo obiettivo appare allontanarsi.
- I ricoveri in terapia intensiva sono 1.672 (il rombo blu visibile nel grafico sottostante), leggermente inferiori rispetto alla curva verde che vedevamo ieri, e questo forse anche per effetto (ipotesi mia, ma da approfondire) della progressiva saturazione che si va profilando nella regione più colpita: la Lombardia, che conta la metà degli oltre 20mila casi attivi in Italia, è infatti arrivata al 90% della capienza delle sue strutture. In queste condizioni l’aumento della mortalità è un dazio amaro da pagare. Dobbiamo confidare soprattutto nel tasso di guarigione dei ricoverati, che vengono man mano sottoposti a cure meno intensive con il decorso positivo della malattia, e nel contenimento del contagio nelle regioni limitrofe, perché si trovino i posti necessari per far fronte alla domanda dei prossimi giorni.
Approfittando del fine settimana, abbiamo cominciato a guardare The Outsider, serie HBO tratta dal romanzo di Stephen King, che ci ha preso abbastanza da mettere per il momento in stand-by sia la seconda stagione di Altered Carbon che la terza di Mr. Robot. Restano in coda di visione Yellowstone e Mindhunter. Chi è a casa e vuole un consiglio, ne tenga conto. Chi deve affrontare i prossimi giorni in autoisolamento domestico, può prendere inoltre in considerazione altri recuperi, tra cui la seconda stagione di Westworld visto l’imminente arrivo della terza (magari anche due visioni, vista la complessità della sua struttura temporale), oppure due miniserie targate anch’esse HBO come Save me e – per restare in qualche modo in tema – Chernobyl.
Libri in lettura: I marziani di Kim Stanley Robinson, antologia di racconti riconducibili al suo vasto affresco planetario, una delle costruzioni più ambiziose di tutta la fantascienza (e non solo).
Nella rinnovata sezione dedicata alla narrativa del Club GHoST, Luca Bonatesta ha scelto di ripubblicare uno dei miei primissimi racconti, uscito sull’ormai introvabile Revenant, l’antologia con cui di fatto ho esordito. Benché siano passati quasi quindici anni da quando l’ho scritto, quando Luca mi ha chiesto un racconto già edito Red Dust è stato uno dei primi titoli che mi è venuto in mente, e quello su cui poi ho lavorato per ripulirlo dalla patina del tempo. Si tratta di un racconto di ambientazione marziana, sullo sfondo di una guerra planetaria. Ed è un racconto cyberpunk e, se vogliamo, protoconnettivista, che si configura un po’ come un ritorno a casa, visto che ho pubblicato il mio primissimo racconto (Notturno n. 23) proprio sulle pagine di questa pionieristica rivista on-line.
Non avendo io all’epoca letto né le storie marziane di Kim Stanley Robinson né quelle di Ian McDonald, scaturisce da un immaginario quasi vergine, benché non del tutto incontaminato. Oltre all’inesorabile William Gibson (che però non mi risulta abbia mai scritto nulla di ambientazione marziana), l’ombra dei fantasmi marziani di John Carpenter si staglia sullo sfondo della vicenda, così come anche alcune rappresentazioni di Philip K. Dick e K. W. Jeter delle colonie marziane. Se vi piace, o anche se non vi piace, e ne volete parlare, sapete dove trovarmi.
Buona lettura!
Stanno facendo molto discutere le dichiarazioni rilasciate dallo scrittore inglese Ian McEwan in occasione del lancio del suo ultimo romanzo Machines Like Me, che si presenta come un’ucronia incentrata sulla riscrittura del rapporto dell’uomo con la tecnologia. Come fa notare Sarah Ditum nel suo ottimo articolo apparso sul Guardian, McEwan ci ha tenuto a rimarcare la distanza del suo lavoro dalla fantascienza, “tracciando un confine invalicabile tra la literary fiction e il genere e posizionandosi fermamente dal lato rispettabile della linea”. Un atteggiamento che la giornalista non esita a definire snobismo e a regolare con una semplice controprova: è sufficiente infatti citare anche solo un autore di genere per fornire a McEwan un esempio più che sufficiente di approccio della fantascienza a scenari di storia alternativa e temi come l’esplorazione dei confini non-umani della coscienza.
Per la cronaca, l’esempio citato è Philip K. Dick, ma possiamo ritrovare esiti analoghi in una miriade di altri autori, da William Gibson e Bruce Sterling a Kim Stanley Robinson, da Neal Stephenson a Charles Stross, da Ted Chiang ad Aliette De Bodard. E sono tutti autori ben presenti sul mercato editoriale anglofono (e per fortuna anche nel nostro, anche se in misura inevitabilmente più circoscritta e con un certo ritardo), quindi difficili da trascurare in un giudizio tanto lapidario, a meno di non tradire la propria fiera ignoranza o una malafede senza vergogna. Come si dice in questi casi, tertium non datur… e delle due l’una.
Roger Luckhurst, professore di letteratura moderna e contemporanea all’Università di Londra e curatore di una storia letteraria della fantascienza, ascoltato sulla questione non ha esitato a individuare nel successo della letteratura gotica tra il XVIII e il XIX secolo le radici dell’odierno disprezzo per la fantascienza: mentre Ann Radcliffe vendeva migliaia di copie con i suoi romanzi, la sua produzione veniva bollata come pessima spazzatura dagli strenui difensori della rispettabilità letteraria, per lo più indispettiti dal non guadagnare tanto quanto lei. E la storia prosegue con Mary Shelley e ovviamente con Edgar Allan Poe, H. G. Wells e Jules Verne, e con il successo postumo di H. P. Lovecraft, con i bestseller di Frank Herbert e Isaac Asimov e, nei generi contigui, di J. R. R. Tolkien, Stephen King, Terry Pratchett o George R. R. Martin.
D’altro canto, se è vero che questo atteggiamento di sufficienza non coinvolge indiscriminatamente tutti gli autori forti di uno status letterario, è altrettanto vero che nel corso del tempo possiamo annoverare una lista crescente di nomi che continuano a inciampare nel vecchio pregiudizio, dai casi più eclatanti di Vladimir Nabokov e Margaret Atwood (che poi in parte è tornata sui suoi passi) ai più recenti, con il premio Nobel Kazuo Ishiguro e appunto McEwan, che siamo sicuri non rimarrà a lungo l’ultimo della sequenza. Molti di loro si sono ritrovati a scrivere fantascienza magari “a loro insaputa” ed è comunque fuori discussione, come per altro faceva notare già questo articolo di Derek Zoo, che questa inconsapevolezza nelle mani degli scrittori più dotati possa tramutarsi in una riserva di originalità per lo stesso immaginario di genere. Ma i giudizi lapidari espressi sulla fantascienza ci dicono forse molto più sulla scarsa conoscenza di questi autori verso il loro stesso pubblico, di quanto non ci dicano rispetto alla loro “ignoranza” sul genere: i confini contrassegnati con le etichette funzionano molto meglio sugli scaffali delle librerie che nei gusti dei lettori, e non di rado capita che i lettori dei suddetti autori si trovino già a essere lettori, più o meno consapevoli, di fantasy e fantascienza, e in definitiva appassionati alle opere dei realisti di una realtà più grande.
Siccome le cose non capitano mai per caso, non mi sono sorpreso di imbattermi stamattina in una vecchia lista di Taste of Cinema dedicata ai 20 film più complessi della storia. Un elenco in una certa misura arbitrario, come sempre quando si compilano liste di questo tipo, ma tutto sommato sintomatico: il 70% dei titoli sono infatti chiaramente identificabili come fantascienza e già così sarebbe una percentuale schiacciante, che tuttavia diventa ancora più larga se si considera che molte delle rimanenti pellicole sono comunque riconducibili ai codici del fantastico. Questo chiude il cerchio con quanto viene spesso rimproverato alla fantascienza, anche dagli stessi appassionati affezionati a un’idea statica del genere (ne abbiamo già parlato in altre occasioni), legati a una concezione granitica e anti-evoluzionistica, e che per questo mi divertirò a chiamare i creazionisti della fantascienza: un’etichetta, a ben guardare, che si attaglia tanto a quei lettori, spesso non proprio numerosi ma comunque molto rumorosi, che disprezzano e sminuiscono i più innovativi tra gli esiti recenti della letteratura di idee, spesso proprio in ragione della loro eccessiva complessità; quanto a quegli autori che pretendono di rimarcare la propria originalità prendendo le distanze dal genere, e così facendo finiscono irrimediabilmente per scoprire e riscoprire l’acqua calda.
Volendo estremizzare, se la complessità è una delle prerogative della fantascienza, una delle frecce che l’arco del genere può decidere di volta in volta di incoccare, rinunciando per principio a questa possibilità si sta ancora sfruttando la fantascienza al massimo delle proprie potenzialità? E quanto è facile cogliere la complessità di un tema consolidato nella letteratura di genere potendo “vantare” di non averne mai letto una sola pagina?
Si direbbe che ci stiamo prendendo gusto. Dopo aver rielaborato un pezzo già uscito su Robot per il volume Filosofia della fantascienza (a cura di Andrea Tortoreto, Mimesis Edizioni), con Salvatore Proietti ci siamo candidati lo scorso anno rispondendo a questa call for papers della rivista di filosofia contemporanea Philosophy Kitchen, dedicata ancora una volta ai rapporti tra l’immaginario di fantascienza e la filosofia, proponendo un pezzo inedito sui modelli e le declinazioni del concetto di eterotopia (ed eterocronia) nella fantascienza contemporanea.
Il numero della rivista, a cura di Antonio Lucci e Mario Tirino, annunciato lo scorso anno, ha visto la luce l’altro giorno sotto il titolo denso di suggestioni di Filosofia e fantascienza. Spazi, tempi e mondi altri (può essere scaricata anche in un comodo PDF da questo link) e propone un sommario ricchissimo, con contributi – tra gli altri – di Adolfo Fattori (a cui devo un ringraziamento particolare per avermi segnalato l’iniziativa e avere insistito con garbo) e Gianluca Didino (che non vedo l’ora di leggere). Come scrivono i curatori nella loro introduzione:
Nel nostro piccolo, nel presente fascicolo di Philosophy Kitchen abbiamo cercato di portare ad evidenza, facendo “parlare” le narrazioni, alcuni nuclei di questo portato filosofico presente dietro alle narrative sci-fi. Tra i tanti tagli e approcci possibili, e tra le moltissime direttive presenti nelle suddette narrative fantascientifiche, ne abbiamo privilegiate due: una tematica e una mediologica. A livello mediologico abbiamo cercato di rendere il più possibile amplio lo spettro degli “strumenti del comunicare” analizzati, nella convinzione che i media digitali (in particolare cinema, videoclip, videogioco e serialità televisiva) offrano nuove, ed estremamente importanti, possibilità di sviluppo del conglomerato narrazione-medium-teoria che è al centro degli interessi di noi curatori. […] A livello tematico, appunto, abbiamo privilegiato la lente offerta della triade utopia/distopia/eterotopia, su cui abbiamo invitato a contribuire gli autori che compongono il presente numero. La dimensione spazio-temporale “altra” delle utopie e delle distopie, infatti, ci ha permesso di aprire il ventaglio di opzioni discorsive a nostra disposizione al fine di offrire visioni dell’umano e dell’umanità, dello spazio, del tempo e dell’interazione uomo-macchina, che sfuggissero (senza per questo mancare di rigore) alle griglie della forma-trattato e che aprissero scorci, e visioni, utili – di ritorno – a un sapere filosofico che non sia pregiudizialmente chiuso alle provocazioni della multimedialità e della narratività.
In particolare il nostro pezzo, che abbiamo voluto intitolare Altri spazi, in controtempo: letture e visioni dalle nuove frontiere della fantascienza (e che può essere scaricato anch’esso in PDF cliccando sul link), viene presentato dai curatori come “una lunga ricostruzione tanto teorica quanto attenta alla storia sia romanzesca quanto cinematografica della sci-fi“, volta a offrire “un panorama dei punti di forza teorici (il postumano, le utopie e le eterotopie) che nelle narrative di fantascienza saldano immaginario utopico e tensioni sovraumaniste, mirate alla ricerca di mondi altri e potenziamenti dell’umano”.
Sono poco meno di 9.000 parole e 60.000 battute, in cui a partire da Michel Foucault e Rosi Braidotti parliamo di Ursula K. Le Guin e Samuel R. Delany, di William Gibson e del cyberspazio (ma anche della Trilogia del Ponte), di Pat Cadigan e di Kim Stanley Robinson, di Blade Runner 2049 e di Westworld, di The Man in the High Castle e di tutto quello che siamo riusciti a infilare in queste 30 pagine corredate da una settantina di titoli in bibliografia. Per stuzzicarvi ulteriormente l’appetito, eccovi un abstract in italiano:
La dicotomia tra utopie e distopie in tempi recenti è stata sempre più spesso riveduta in forma di continuum, composto di visioni che vanno dal positivismo acritico al pessimismo apocalittico, e che affrontano il rapporto con la modernità e la postmodernità, e superata nella fantascienza degli ultimi decenni in costruzioni narrative definite di volta in volta come utopie o distopie critiche – affini alle eterotopie di Foucault.
A partire dal cyberspazio di William Gibson (Neuromancer, 1984), lo «spazio altro» per eccellenza in cui le coscienze disincarnate dei cowboy dell’interfaccia compiono le loro scorribande nei territori virtuali della nuova frontiera elettronica, le eterotopie di Michel Foucault ricevono un’attenzione crescente in letteratura come anche nel cinema e nella serialità televisiva.
Per una nuova generazione di autori e autrici, con il cyberspazio Gibson fornisce nuove formulazioni (già esplorate in Philip K. Dick) del confine tra natura e simulazione e sulla convergenza tra umano e artificiale, e in tempi recenti abbiamo visto l’eterotopia rinnovarsi continuamente e assumere forme sempre nuove. Gli ambienti urbani vanno dalla trilogia del Ponte di Gibson al collasso ecologico di Blade Runner 2049; i contesti spaziali rielaborano un topos classico come l’astronave generazionale in Paradises Lost di Ursula K. Le Guin, mentre in serie TV come Battlestar Galactica e Farscape l’astronave funge al contempo da microcosmo e da laboratorio politico e sociale; gli scenari planetari diventano un’epica futura nell’acclamata trilogia di Marte di Kim Stanley Robinson.
Insieme alla letteratura, nei media visivi è la serialità televisiva, piuttosto che il cinema, a riservare l’offerta più ricca e interessante, spaziando dal parco giochi tematico sul cui sfondo vediamo consumarsi gli effetti della Singolarità Tecnologica (Westworld) all’ucronia distopica in grado di sovvertire la rassicurante familiarità della storia (The Man in the High Castle).
In ambito letterario, negli ultimissimi anni autrici come Ann Leckie e Aliette De Bodard stanno contribuendo a ridefinire le coordinate dell’immaginario di genere, operando un’inattesa fusione degli scenari di più ampio respiro della space opera con una riflessione sui temi dell’identità e della persona, come anche della memoria storica e della tradizione.
L’intenzione di questo saggio è approfondire, anche alla luce delle più recenti elaborazioni teoriche e femministe sul postumano, le connessioni interne all’immaginario di genere e le risonanze che queste instaurano con i temi di più stringente attualità affrontati nel dibattito scientifico e filosofico di inizio secolo, dai cambiamenti climatici agli interrogativi etici sollevati dallo sviluppo delle intelligenze artificiali. Il nostro approccio rifiuta le macronarrazioni top-down prevalenti nella critica italiana e ci proponiamo, attraverso il loro superamento, di sviluppare un’analisi letteraria e culturale più rispettosa dell’autonomia del genere.
E a beneficio dei naviganti anglofoni che capitano da queste parti (e che negli ultimi tempi rappresentano misteriosamente il grosso del traffico del blog) ne riporto anche la traduzione in inglese:
The utopia-dystopia dichotomy, a continuum which may summarize the range of visions (from uncritical positivism to apocalyptic pessimism) vis-à-vis modernity and postmodernity, has been more and more challenged and superseded in the science fiction of the latest decades through narrative constructions variously described as critical utopias and dystopias – akin to Michel Foucault’s notion of heterotopia.
Starting with William Gibson’s 1984 Neuromancer, the «other space» par excellence in which the disembodied consciousness of interface cowboys perform their raids in the virtual territories of the new electronic frontier, heterotopias receive growing attention, in manifold variants across literature, film, and television.
For a new generation of authors, Gibson’s cyberspace has reformulated interrogations (already explored in Philip K. Dick) on the boundaries between nature and simulation, as well as on the convergence between the human and the artificial, and in recent times readers/viewers have witnessed heterotopias assuming new shapes, across all media. Urban environments range from Gibson’s Bridge trilogy to the eco-collapse of Blade Runner 2049; space-travel settings rework the classic motif of the generation starship in Ursula K. Le Guin’s Paradises Lost while in TV series such as Battlestar Galactica and Farscape, the spaceship is a microcosm and a socio-political testing ground; planetary scenarios become an epic of the future in Robinson’s own Mars trilogy.
Along with print fiction, among visual media television, rather than film, seems to provide the deepest sources of interest, from the theme park affected by the Technological Singularity in Westworld to the subversion of history’s reassuring familiarity in the dystopian alternate history of The Man in the High Castle.
In the very latest years, the original voices of women writers such as Ann Leckie and Aliette de Bodard are redefining the genre’s imaginary, with their fusion between far-future space opera and a meditation on identity, personhood, gender, memory, and tradition
In this essay, in the light as well of the recent theoretical and feminist work on the notion of the posthuman, we intend to explore the inner connections of the genre’s iconography as it resonated with some of the most urgent topics in contemporary scientific and theoretical debates, from climate change to the ethical debates raised by the emergence of artificial intelligences. Our approach, beyond all-too-frequent top-down macronarratives, is meant as a contribution to cultural-literary analysis that does not do away with respect for the genre’s own autonomy.
Milan M. Cirkovic è un ricercatore serbo dell’Osservatorio Astronomico di Belgrado che da tempo si occupa di astrobiologia e SETI. In un famoso articolo del 2008, pubblicato sul Journal of the British Interplanetary Society, si sofferma sulle possibili evoluzioni delle società post-biologiche, sia postumane che extraterrestri. L’articolo può essere consultato su Arxiv.org e si intitola, in maniera molto evocativa per chi ha confidenza con un certo immaginario fantascientifico, Against the Empire.
In quello studio Cirkovic considerava due possibili modelli di società post-biologiche, applicabili a società sia postumane che extraterrestri: l’impero e la città-stato. Il primo si basa sulla spinta all’espansione e alla colonizzazione, il secondo sul contenimento delle dimensioni mirato all’ottimizzazione delle risorse. L’autore pone l’accento sul fatto che quasi sempre si analizzano i possibili comportamenti delle società post-biologiche senza tener conto del fatto che in tali società gli imperativi derivanti dalla biologia perderanno la loro importanza. Muovendo da questa considerazione arriva alla conclusione che il modello della città-stato ha ottime probabilità di successo in una società post-biologica, mentre il modello dell’impero non sarebbe così diffuso come siamo spinti a credere per effetto dei bias alimentati dalle nostre letture e visioni fantascientifiche, specialmente quelle più popolari, divenute quasi mainstream (pensiamo a Star Trek o Star Wars, che malgrado la varietà di specie portate in scena rappresentano modelli piuttosto omogenei).
Da tempo sono spinto dalle mie letture e scritture a riflettere sulle possibili caratteristiche delle società postumane. E ormai da diversi anni la fantascienza va elaborando scenari sempre più contaminati, eterogenei, meticci. Tanto che, sicuramente condizionato da queste rappresentazioni (penso a Kim Stanley Robinson, ad Alastair Reynolds, a M. John Harrison, ad Aliette de Bodard), ormai faccio fatica a concepire una società dalla costituzione monolitica e omogenea e anzi, devo ammettere, gran parte del piacere del world-building nasce dalla complessità degli scenari che si vanno elaborando.
Proviamo a vedere da quali considerazioni scaturiscono queste ipotesi?
1. Diversificazione e postumanesimo. In prima battuta dovrebbe risultare sempre meno plausibile, o quanto meno “bizzarro”, che nel vasto ventaglio delle soluzioni possibili possa prevalere un’unica tecnologia postumanizzante, a meno che questa tecnologia non sia un particolare tipo di intelligenza artificiale, nel qual caso ricadremmo nella fattispecie di problemi che abbiamo già esaminato un po’ di tempo fa e che smorzerebbe sul nascere ogni ulteriore discussione sul merito della faccenda. Quindi ipotizziamo che l’intelligenza artificiale si sviluppi in parallelo con altre tecnologie emergenti (nano- e bio-, genetica, cognitive augmentation, etc.) portando a un’esplosione di intelligenza, spingendo la curva del progresso oltre l’orizzonte percepibile della Singolarità Tecnologica, e innescando tutta quella catena di eventi che su periodi sempre più brevi renderanno sempre più complessa la società in cui viviamo, innescando il meccanismo a orologeria delle contraddizioni irrisolte che si annidano in essa, e rendendo ogni possibile scelta una questione di sopravvivenza. La diversificazione sarebbe funzionale alla resilienza (concetto ultimamente abusato e sempre più diffuso a sproposito), ma non trascuriamo neanche – per dirla con Nassim Nicholas Taleb – i vantaggi dell’antifragilità in contesti dalla spiccata incertezza.
Potrebbe infatti anche essere semplicemente una questione di filosofia: in altre parole, l’umanità potrebbe non essere così compatta da mettere a punto un piano di soluzioni condivise per affrontare i rischi esistenziali che si porranno. Eventi più o meno catastrofici potrebbero mettere l’umanità davanti a bivi più o meno drammatici, fungendo anche da banco di prova per le soluzioni escogitate. E una strategia quanto più diversificata potrebbe essere una risposta possibile (oltre che alquanto probabile) da parte del genere umano in una situazione di forte pericolo. E siccome non è detto che ogni problema abbia un’unica soluzione, eccoci mentre ci addentriamo nel giardino dei sentieri che si biforcano. Un luogo molto particolare, nel quale ad ogni passo corrispondono ore del tempo a cui siamo abituati. E poi giorni. E poi anni…
2. Diaspora e disgregazione. In seconda battuta, su un periodo sufficientemente lungo (diciamo una prospettiva di qualche decennio, ma volendo stiamo pure larghi e diamoci l’orizzonte temporale del secolo in corso), non riesco a disaccoppiare l’evoluzione postumana dalla colonizzazione spaziale. I due concetti mi sembrano diventare sempre più inestricabilmente correlati man mano che ci addentriamo nell’uno o nell’altro. La Nuova Frontiera Spaziale potrebbe rappresentare quel punto di svolta capace di promuovere la diffusione di numerose tecnologie emergenti. Ho studiato anch’io Kim Stanley Robinson, negli ultimi anni me ne sono occupato diffusamente e ovviamente ho bene in mente questo suo articolo fondamentale, tuttavia non riesco a non pensare a un futuro a medio-lungo termine in cui l’umanità resta confinata sulla Terra.
Non prevedo lo sviluppo di una civiltà interstellare, ma trovo istintivamente poco credibile uno scenario in cui da qui alla fine del XXI secolo non ci siano delle colonie umane nello spazio: habitat artificiali nella cintura asteroidale, o sulla Luna e su Marte, magari anche solo come forma di presidio scientifico se non proprio di sfruttamento minerario, renderanno la frontiera spaziale un po’ quello che nel XX secolo è stato l’Antartide. Sicuramente poco per parlare di una vera e propria civiltà interplanetaria, ma a mio parere un’esperienza fondamentale per dotarsi di quelle conoscenze necessarie a elaborare sistemi di supporto vitale in grado di assicurare agli habitat artificiali un’autonomia dal pianeta madre. Qui mi rendo conto di calpestare un terreno piuttosto scivoloso, però nel 1919 conoscevamo già tutto quello che nella seconda metà del secolo scorso avrebbe reso possibile lo sviluppo di internet, dai laboratori della DARPA alle nostre case (e ancora una manciata di anni dopo alle nostre tasche): il limite era di natura tecnica, non scientifica. Quindi non trovo così astruso pensare a ecosistemi chiusi sempre più efficienti per sostenere piccole comunità di coloni spaziali.
Volendo spingerci più avanti di qualche secolo, senza timore di sconfinare nel dominio delle fantasticherie, la diaspora umana su altri pianeti esterni al sistema solare non farebbe altro che indebolire i reciproci legami e influssi tra le varie comunità. Le distanze in gioco sarebbero tali da comportare una drastica riduzione della banda di comunicazione e un lag culturale di una certa rilevanza. Anche limitandoci a considerare solo i sistemi stellari più vicini (una cinquantina nel raggio di 5 parsec, ovvero 16 anni-luce), senza un qualche tipo di collegamento più veloce della luce (FTL) ci troveremmo di fronte a separazioni dell’ordine di decine di anni di attraversamento (ricordate Interstellar? Allo stato attuale: “La stella più vicina è lontana migliaia di anni…“). La Nuova Frontiera risulterebbe così estremamente incentivante sul fronte della “postumanizzazione” come anche della disgregazione della matrice dell’umanità. A questo proposito sono esemplari i lavori di Samuel R. Delany (che in Babel 17 mette in scena una frammentazione di tipo linguistico e culturale), di Bruce Sterling (che nel sontuoso universo della Matrice Spezzata parte dalla frattura dell’umanità in Mechanist e Shaper per progredire nella disintegrazione tra cladi e fazioni fino a livelli parossistici) e di Alastair Reynolds (che allestisce uno scenario intrigante e piuttosto problematico, con numerose fazioni politiche a contendersi lo scacchiere interstellare del Revelation Space).
A meno di qualche scoperta o invenzione che ci permetta di infrangere la barriera della luce e contrarre così le distanze tra i diversi avamposti della postumanità, la colonizzazione interstellare condurrà a una crescente frammentazione che potrebbe semplicemente rappresentare la naturale evoluzione della situazione già disgregata di partenza, in uno scenario che richiama l’organizzazione in città-stato a cui si riferisce Cirkovic. In una sorta di gioco frattale di autosomiglianza di scala, le differenze potrebbero ripetersi a livello planetario, stellare e interstellare.
All’inizio del 1904 tre elefanti di Coney Island fuggirono dal loro recinto. Accidenti, mi chiedo perché! Uno di essi venne trovato il giorno successivo a Staten Island, il che significava che doveva aver attraversato a nuoto la Lower Bay, una distanza di almeno tre miglia. Avevamo idea che gli elefanti sapessero nuotare? Quell’elefante sapeva di poter nuotare?
Gli altri due non furono mai più rivisti. Mi piace pensarli mentre si aggiravano per le sparute foreste di Long Island, vivendo la loro vita come yeti pachidermici, ma gli elefanti tendono a rimanere uniti, quindi è più probabile che gli altri due si siano messi a nuotare insieme a quello ritrovato a Staten Island. Non è molto piacevole immaginarli là fuori a nuotare verso ovest nella notte, con il più debole che finiva per scivolare sott’acqua con un addio subsonico, seguito ben presto dall’altro più debole. Persi in mare. Ci sono modi peggiori di andarsene, come loro ben sapevano. Alla fine, l’unico superstite dev’essere emerso sulla spiaggia avvolta dalla notte ed essere rimasto là da solo, tremante, in attesa del sole.
Tratto da New York 2140 di Kim Stanley Robinson
(Fanucci Editore, 2017 – traduzione di Annarita Guarnieri, pag. 386)

(Credit: Climate Central)
Charlotte si accigliò. «Quindi cosa si fa in questa situazione.»
«Si vende allo scoperto.»
«Cosa significa?»
«Si scommette che la bolla scoppierà. Si comprano strumenti tali da vincere quando poi scoppia davvero. E vinci così tanto che la tua sola preoccupazione è che la civiltà stessa possa collassare e che non rimanga più nessuno che ti possa pagare.»
«La civiltà?»
«La civiltà finanziaria.»
«Non è la stessa cosa!» esclamò. «Sarei felice di abbattere la civiltà finanziaria!»
«Dovrà mettersi in fila» ribattei.
Mi piaceva il modo in cui rideva. Anche gli analisti stavano ridendo, e Amelia si era unita agli altri nel vederli ridere. In effetti aveva un sorriso splendido, come lo aveva Charlotte, adesso che finalmente lo notavo.
«Mi dica come fare» mi incitò Charlotte, gli occhi accesi dall’idea di distruggere la civiltà.
Dovevo ammettere che era una cosa divertente. «Pensi alla gente comune che vive la sua vita. Hanno bisogno di stabilità. Vogliono quelli che si potrebbero definire cespiti non liquidi, e cioè una casa, un lavoro, la salute. Quelle non sono cose liquide, e non vuole che lo siano, quindi si effettua una serie continua di pagamenti perché rimangano non liquide… intendo rate di mutuo, assicurazione per la salute, versamenti al fondo per la pensione, bollette, quel genere di cose. Tutti pagano ogni mese, e la finanza fa affidamento su quel costante afflusso di denaro. Si fanno prestiti basati su quella certezza, la si usa come collaterale, e poi si usa il denaro preso a prestito per scommettere sui mercati. Con questa leva finanziaria si aumentano di cento volte i cespiti a disposizione, che consistono in prevalenza nel flusso di pagamenti che la gente effettua. I debiti di quelle persone sono cespiti, puri e semplici. Le persone hanno la non liquidità, la finanza ha la liquidità, e la finanza trae profitto dallo spread fra quelle due condizioni. E ogni spread è un’occasione per guadagnare ancora di più.»
Charlotte mi stava fissando con occhi penetranti come laser. «Si rende conto che sta parlando con il direttore amministrativo dell’Unione proprietari?»

(Credit: architecture2030, Ed Mazria, via Inhabitat)
«È quello il suo lavoro?» chiesi, sentendomi di colpo ignorante. L’Unione proprietari era una sorta di impresa privata con supporto governativo per gli affittuari e altra povera gente, e il suo nome mi sembrava esprimere un’aspirazione. Alcuni importanti dati provenienti da essa confluivano nell’IPPL, come parte della valutazione della fiducia dei consumatori.
«È quello che faccio» confermò Charlotte. «Però continui. Cosa stava dicendo?»
«Ecco, un classico esempio del crollo della fiducia è il 2008. Quella bolla era relativa ai mutui, detenuti da persone che avevano promesso di pagare e che non potevano effettivamente farlo. Quando sono risultati insolventi, dovunque gli investitori hanno tagliato la corda. Tutti cercavano di vendere all’istante, ma nessuno voleva comprare. Le persone che hanno venduto allo scoperto hanno guadagnato alla grande, ma tutti gli altri ci hanno rimesso le penne. Le società finanziarie hanno perfino smesso di effettuare pagamenti già contratti, perché non avevano a disposizione il denaro per pagare tutti quelli con cui erano in debito e c’era la concreta possibilità che l’entità che avrebbero dovuto pagare non ci sarebbe più stata la settimana successiva, quindi perché sprecare denaro con quel pagamento, anche se era dovuto? A quel punto nessuno sapeva più se un qualsiasi documento o titolo aveva un qualche valore, quindi tutti hanno perso la testa e sono andati in caduta libera.»
«E cos’è successo?»
«Il governo ha immesso abbastanza denaro da permettere ad alcuni di loro di acquistare gli altri, e ha continuato a immetterne finché le banche non si sono sentite più sicure e hanno potuto riprendere gli affari come al solito. I contribuenti sono stati costretti a pagare per coprire le scommesse perse dalle banche a cento centesimi per dollaro, un accordo che è stato fatto perché i dirigenti della Federal Reserve e del Tesoro provenivano dalla Goldman Sachs e il loro istinto è stato quello di proteggere la finanza. Hanno nazionalizzato la General Motors, una ditta automobilistica, e hanno continuato a gestirla finché non si è rimessa in sesto e ha pagato i suoi debiti. Alle banche e alle grandi ditte di investimento hanno però dato un vero lasciapassare. Poi le cose sono andate avanti come prima, fino al crollo del 2061, con la Prima ondata.»
«E cos’è successo allora?»
«Lo hanno rifatto daccapo.»
Charlotte levò in alto le mani. «Ma perché? Perché perché perché?»
«Non lo so. Perché funzionava? Perché potevano farlo e cavarsela? In ogni caso, da allora è stato come se avessero un modello di cosa fare, un copione da seguire, quindi lo hanno rifatto dopo la Seconda ondata, e adesso potrebbe arrivare la quarta tornata. O quale che sia il numero, perché bolle di questo tipo sono antiche quanto i tulipani olandesi o la stessa Babilonia.»
Charlotte guardò verso i due analisti ritornati. «È esatto?»
I due annuirono. «È quello che è successo» confermò in tono lugubre il più alto.
Charlotte si portò una mano alla fronte. «Ma questo cosa significa? Voglio dire, cosa potremmo fare di diverso?»
Sollevai un dito, godendo di quel mio momento in cui ero un guercio in mezzo ai ciechi. «Potreste far scoppiare la bolla di proposito, dopo aver predisposto una reazione diversa al crollo che ne seguirà.» Puntai verso la città alta il dito che avevo sollevato oltre la mia spalla. «Se la liquidità fa affidamento su un costante flusso di pagamenti da parte di gente comune, come in effetti fa, allora potreste far crollare il sistema in qualsiasi momento voleste facendo sì che la gente smetta di pagare. Mutui, affitti, bollette, debiti studenteschi, assicurazioni sulla salute. Smettete di pagare tutti quanti nello stesso momento. Chiamatelo il Giorno dell’insolvenza del debito odioso, o uno sciopero generale finanziario, o inducete il papa a dichiararlo un Giubileo, cosa che può fare quando vuole.»

(Credit: Literary Hub)
«Ma la gente non si troverebbe nei guai?» chiese Amelia.
«Sarebbero troppi. Non si può mettere tutti in prigione. Quindi, in un senso basilare del termine, il popolo ha ancora il potere. Ha la leva finanziaria a causa di tutte le leve. Voglio dire, lei è a capo dell’Unione proprietari, giusto?»
«Sì.»
«Allora, ci pensi, cosa fanno i sindacati?»
Adesso Charlotte mi stava sorridendo di nuovo, con gli occhi accesi, ed era un sorriso davvero caldo e intelligente.
«Indicono scioperi.»
«Proprio così.»
«Mi piace!» esclamò Amelia. «Questo piano mi piace.»
«Potrebbe funzionare» commentò l’analista più alto, e guardò verso il suo amico. «Tu che ne pensi? Incontra la tua approvazione?»
«Cazzo, sì» dichiarò l’altro. «Voglio ucciderli tutti.»
«Anch’io!» disse Amelia.
Charlotte rise di loro, poi raccolse la tazza e la protese verso di me. Io feci altrettanto con la mia e le urtammo in un brindisi. Entrambe erano vuote.
«Un altro po’ di vino?» suggerì lei.
«È orribile.»
«Devo dedurre che è un sì?»
«Sì.»
Tratto da New York 2140 di Kim Stanley Robinson
(Fanucci Editore, 2017 – traduzione di Annarita Guarnieri, pagg. 382-385)
Dalla quarta di copertina:
La baia di San Francisco affollata di cadaveri abbracciati, ali d’angelo tatuate sulla pelle. Uomini alle prese con l’inaudito: Tanner, Carlucci e gli altri sanno che l’equazione in grado di risolvere l’incognita contiene troppe varianti… Nel mondo di tecnologie corrotte e macchine proteiformi dove vivono, qualcuno cerca di giocare una carta estrema per riscrivere col sangue la storia della città. “La San Francisco di Richard Paul Russo, a metà del XXI secolo, è popolata di angeli assassini, cyborg, e poliziotti dal karma molto negativo. Una città disperatamente romantica” (Ursula K. Le Guin).
Riprendendo così lo strillo della Le Guin che accompagnava la prima edizione italiana del 1998, nell’ottobre 2014 tornava nelle edicole Angelo meccanico di Richard Paul Russo. L’autore californiano, classe 1954, residente a Seattle dal 2010, aveva esordito nel 1988 con Inner Eclipse e già l’anno successivo si era aggiudicato il prestigioso Philip K. Dick Award con la sua seconda fatica, Subterranean Gallery (entrambi rimasti inediti nel nostro paese). Con L’astronave dei dannati (Ship of Fools, 2001, tradotto anch’esso da Urania nel 2002) Russo avrebbe poi bissato il successo, diventando uno dei tre soli autori, in compagnia di Tim Powers e Stephen Baxter, ad aver doppiato l’affermazione al Dick Award, riconoscimento riservato al miglior paperback di fantascienza pubblicato l’anno precedente nel mercato USA. Ad oggi il suo ultimo lavoro risulta The Rosetta Codex, del 2005.
Tra i due premi Dick, negli anni ’90 escono negli Stati Uniti (e a stretto giro in Italia) tre romanzi che potremmo classificare come future noir, dalle forti ascendenze cyberpunk sebbene Russo, proprio come altri autori della sua generazione (pensiamo a Kim Stanley Robinson, forse il più grande di tutti, ma anche a John Kessel, di certo il più agguerrito), finì presto associato al cosiddetto movimento umanista (literary humanist, o anche new humanist) che, forse un po’ pretestuosamente, indubbiamente in maniera arbitraria, sorse intorno alla metà degli anni ’80 in contrapposizione al gruppo di Mirrorshades. En passant, il primo ad azzardare la distinzione fu Michael Swanwick in un articolo molto citato e altrettanto controverso, A User’s Guide to Postmoderns, ritrovandosi poi lui stesso associato, in una sorta di contrappasso, sia agli uni che agli altri (la più completa panoramica del cyberpunk apparsa in Italia, curata da Piergiorgio Nicolazzini per l’Editrice Nord, include non a caso un suo romanzo breve dal titolo L’uovo di grifone).
Tornando a Richard Paul Russo e ai suoi lavori degli anni ’90, questi tre romanzi vanno a comporre in senso abbastanza lato una trilogia e sono di fatto conosciuti come la serie del tenente Carlucci:
- 1992: Destroying Angel (Angelo meccanico, Urania, prima edizione n. 1351 nel 1998, ristampa n. 1511 nel 2014)
- 1995: Carlucci’s Edge (Cyberblues – La missione di Carlucci, Urania n. 1374, 1999)
- 1997: Carlucci’s Heart (Frank Carlucci Investigatore, Urania Speciale n. 11, 2000)
Frank Carlucci è un poliziotto della Omicidi che lavora a San Francisco in un prossimo ma imprecisato futuro. La città della Baia è molto cambiata da come la conosciamo noi: è un agglomerato urbano cresciuto a dismisura con le proprie contraddizioni, in cui non esistono quasi più zone sicure a parte l’enclave sorvegliata del Distretto finanziario, e in cui si può finire ammazzati solo per essere usciti all’ora sbagliata o senza l’adeguata protezione. Bande di varia natura imperversano per le strade: fanatici religiosi come i Veri Millenaristi, piccoli delinquenti come i massacratori che scorazzano sulle loro tavole a sospensione, e tribù esotiche ma non meno inquietanti come gli Screamers, che in un atto estremo di protesta contro la società hanno rinunciato alla parola saldandosi chirurgicamente le labbra. Cuore di questo inferno urbano è il Tenderloin, il vecchio quartiere del vizio e della corruzione, che è diventato una sorta di “zona proibita”, da cui le forze di polizia e le autorità sono esiliate. Il Tenderloin ha trovato l’equilibrio in una forma estrema di autogestione: è di fatto una zona franca, la cui economia si regge su attività che fuori dai suoi confini sarebbero ritenute illecite, dal commercio di stupefacenti al traffico di organi.
Ancora più in profondità si apre la voragine di caos del Centro, le porte dell’inferno da cui chiunque abbia ancora un minimo senso di autoconservazione cerca di tenersi alla larga. È quaggiù che sembra essersi rintanato il Killer delle catene, che per una stagione di terrore durata anni aveva seminato vittime nella Bay Area, legando i cadaveri con catene di argento saldate ai corpi e tatuando piccole ali di angelo nelle loro narici, giocando con la polizia come un gatto col topo.
Quando l’ondata di omicidi si era arrestata, tutti avevano pensato che il serial killer fosse morto, ma adesso la polizia ha ricominciato a recuperare altri cadaveri incatenati dalla Baia e così Carlucci, che non può scoprirsi più di tanto, ingaggia un suo vecchio collega come galoppino. Louis Tanner, che tre anni prima era andato vicino a rimetterci la pelle durante una perquisizione in cui aveva perso la vita il compagno di pattuglia, ha lasciato la polizia e da allora sopravvive barcamenandosi sulla sottile linea di confine tra la legge e l’illegalità, contrabbandando forniture mediche con la stazione spaziale di New Hong Kong.
È questo lo spunto da cui parte Angelo meccanico, che in effetti vede Carlucci come semplice comprimario di Tanner, vero protagonista della storia, ossessionato dagli incubi del proprio passato da sbirro e ancora perseguitato da alcuni drammi personali irrisolti, inclusa la morte della sua ragazza. Per uno scherzo del destino Tanner s’imbatte in Sookie, una bambina di strada che vive di stratagemmi e che somiglia incredibilmente proprio a Carla, al punto da poterne essere la figlia, se Carla non fosse morta prima che Sookie nascesse. Le loro storie s’intrecciano in un meticoloso montaggio parallelo, condotto da Richard Paul Russo con precisione cronometrica e rigore assoluto, fino a uno scioglimento tutt’altro che scontato.
Ho potuto recuperare il libro grazie alla provvidenziale ristampa nei Capolavori di Urania, e dopo averlo letto mi permetto di dire che la decisione di ripubblicarlo è stata quanto mai opportuna: Angelo meccanico non sarà forse un capolavoro del genere, ma è senz’altro uno di quei lavori in grado di alzarne la qualità percepita, sia dai fan che dai lettori occasionali. Per di più, mentre si accinge a sbarcare su Netflix la serie evento tratta dai romanzi di Richard K. Morgan incentrati sul personaggio di Takeshi Kovacs, vale la pena rilevare come Altered Carbon (in italiano tradotto da Vittorio Curtoni e uscito per la Nord con il titolo Bay City) condivida con la serie di Carlucci alcuni spunti di comune interesse, come l’ambientazione nella Bay Area, la violenza estrema del contesto urbano e dei personaggi fortemente caratterizzati attraverso un passato che non riescono in nessun modo a lasciarsi alle spalle. Per quanto abbia un buon ricordo di Cyberblues – La missione di Carlucci, letto alla sua uscita nel lontano 1999, non ho mai avuto l’occasione di imbattermi nel terzo romanzo per completare la serie, quel Frank Carlucci Investigatore uscito in una collana speciale e per questo forse meno facile da trovare nel mercato dell’usato. Non posso quindi fare altro che augurarmi che Urania prosegua su questa linea e decida di riproporre presto ai suoi lettori anche gli altri due volumi, strettamente incentrati sulle vicende private e professionali del tenente Carlucci.
Sarebbe una splendida notizia per i suoi aficionados e, credo, anche per stuzzicare i lettori più intrepidi delle collane sorelle.
Carlucci fece una breve, aspra risata. – Sai che sorpresa, Tanner. Senti, non lo metto in discussione, ma c’è una cosa che dovresti ricorda.
– Sì? Cosa?
– Che è il solo mondo che abbiamo.
Se come me avete apprezzato (o apprezzerete) Angelo meccanico, potrebbero piacervi anche i seguenti titoli.
Letture consigliate
- Richard Paul Russo, Cyberblues – La missione di Carlucci, Mondadori, Urania n. 1374, 1999
- Richard Paul Russo, Frank Carlucci Investigatore, Mondadori, Urania Speciale n. 11, 2000
- Alan Dean Foster, Il meridiano della paura, Mondadori, Urania n. 1518, 2007
- James E. Gunn, Gli immortali, Mondadori, Urania n. 1506, 2006
- K. W. Jeter, Noir, Fanucci, Solaria n. 1, 2000
- Marco Minicangeli, Uomo n, Mondadori, Segretissimo n. 1566, 2010
- Maico Morellini, Il re nero, Mondadori, Urania n. 1676, 2011
- Richard K. Morgan, Bay City, Tea Due, 2006
- Richard K. Morgan, Angeli spezzati, Editrice Nord, 2005
- Richard K. Morgan, Il ritorno delle furie, Editrice Nord, 2008
- Alan E. Nourse, Medicorriere, Mondadori, Urania n. 876, 1981
- Jack O’Connell, Il verbo si è fatto carne, Garzanti Libri, 2000
- Masamune Shirow, The Ghost in the Shell, Star Comics, Perugia, 2017
- Masamune Shirow, Ghost in the Shell 2: Man Machine Interface, Star Comics, Perugia, 2004
- Michael Marshall Smith, Ricambi, Garzanti Libri, 1999
- Dario Tonani, Infect@, Mondadori, Urania n. 1521, 2007
- Dario Tonani, Toxic@, Mondadori, Urania n. 1574, 2011
- Dario Tonani, L’algoritmo bianco, Mondadori, Urania n. 1544, 2009
- Nicoletta Vallorani, Il cuore finto di DR, Mondadori, Urania n. 1215, 1993
- Nicoletta Vallorani, DReam Box, Mondadori, Urania n. 1308, 1997
- Nicoletta Vallorani, Eva, Einaudi, 2002
- Francesco Verso, E-Doll, Mondadori, Urania n. 1552, 2009
Visioni consigliate
- Laeta Kalogridis, Altered Carbon, Netflix, 2018 (streaming)
- Ridley Scott, Blade Runner, Warner Bros, 2011 (home video)
- Denis Villeneuve, Blade Runner 2049, Universal, 2018 (home video)
- Tony Maylam e Ian Sharp, Detective Stone, Mondo Home Entertainment, 2005 (home video)
- Mamoru Oshii, Ghost in the Shell, Dynit, 2017 (home video)
- Mamoru Oshii, Ghost in the Shell – Innocence, Terminal Video Italia, 2012 (home video)
- Josef Rusnak, Il tredicesimo piano, Universal, 2010 (home video)
- Kathryn Bigelow, Strange Days, Twentieth Century Fox, 2010 (home video)
A dire il vero, non lo ricordo neanch’io. Molte cose si sono succedute in questo lungo iato di attività, quindi proviamo a riannodare i fili con i principali eventi accaduti nel frattempo. Tra le letture più impegnative e soddisfacenti del periodo, devo citare Kim Stanley Robinson, di cui Fanucci si è finalmente decisa a rimediare ad anni di una francamente incomprensibile scarsa attenzione da parte dell’editoria italiana. L’uscita in italiano della sua monumentale trilogia marziana mi ha offerto il pretesto per parlarne diffusamente:
- prima su Quaderni d’Altri Tempi, con una disamina dei tre romanzi, che tracciano un affresco unico nel panorama non solo della fantascienza ma della letteratura mondiale, capace di amalgamare speculazione scientifica, intrighi politici e scavo psicologico, restituendoci personaggi in evoluzione continua verso qualcosa di sempre più lontano da noi, mentre sullo sfondo assistiamo alla costruzione – tra sconfitte, battute d’arresto, rivalse e riscatto – di una nuova società, in quella che forse è la più convincente utopia nella storia della fantascienza (e non solo);
- e poi su Il Tascabile, la rivista a vocazione enciclopedica collegata alla Treccani, con un profilo approfondito dell’autore.
Kim Stanley Robinson è uno degli autori più impegnati attualmente in circolazione e dovrebbe essere motivo d’orgoglio per ogni appassionato di fantascienza che uno scrittore con la sua lungimiranza critica, il suo acume intellettuale, la sua profondità analitica, abbia scelto l’immaginario di genere come campo d’elezione per la sua attività.
Fanucci ha intanto annunciato la traduzione anche della sua ultima fatica New York 2140, ambientato in un mondo stravolto dagli effetti del cambiamento climatico. Speriamo che questo aiuti a farlo conoscere sempre meglio ai lettori italiani, che finora si sono visti negare il piacere di alcuni dei lavori più efficaci e influenti venuti alla luce nella SF degli ultimi trent’anni.
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