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Ricordo di avervi già parlato della mia valle, ma la lettura di questo pezzo direttamente dall’Antro Atomico del Dr. Manhattan mi ha ricordato di non avervene mai parlato nei termini che avrei sempre voluto. Nell’articolo citato, viene coniata una felice espressione che riflette ciò a cui penso il novanta per cento delle volte (forse più) delle volte che con la mente torno indietro agli anni ’90: per il Doc Manhattan è l’extaterritorialità della nostalgia, per me è – con parole che credo di aver rubato a un vecchio articolo dell’indimenticato Giuseppe Lippi – la cosiddetta nostalgia del futuro.

Negli anni ’90 la realtà sembrava attraversata da un ronzio elettrico che poteva preannunciare qualsiasi cosa, e in effetti nei venti anni successivi le abbiamo viste quasi tutte: dagli attacchi terroristici al cuore dell’impero Stars and Stripes all’esplosione di una pandemia come prima ci era capitato di leggere solo nei libri di fantascienza (ops… mi tocca autolinkarmi di nuovo). Il mondo era su un punto di discontinuità come raramente gli era capitato prima di trovarsi: potevamo imboccare tante strade diverse, sull’onda delle ricadute tecnologiche che cominciavano ad accelerare in maniera sensibile la nostra rincorsa al futuro.

E io dov’ero? Beh, io attraversavo il decennio con passo veloce, cercando di dribblare la vita nei suoi anni migliori, nella convinzione che gli amici e i compagni di strada di quegli anni sarebbero stati lì per sempre e che io sarei stato a mia volta sempre lì per loro, incapace di decidere cosa fare da grande ma così entusiasta del futuro da divorarlo su vecchi tascabili fuori commercio che riportavano storie scritte in un passato ormai anche molto distante come per esempio quello da cui mi parlava la voce di Philip K. Dick, ma anche quello che mi sembrava il futuro da cui scriveva del mio presente William Gibson. Perché, anche se Neuromante aveva più di dieci anni quando lo lessi la prima volta, sentivo che funzionava come un reportage in presa diretta dal mondo in cui sarei potuto finire catapultato da un momento all’altro, e intanto guardavo i pomeriggi correre fuori dalla finestra su una valle che ormai, quando va bene, rivedo dal vivo quattro o cinque volte all’anno.

Dopo la scuola leggevo – o, più spesso, rileggevo – Nathan Never e dietro ai miei occhi le montagne che racchiudono l’Alta Valle del Sele si trasformavano in arcologie e grattacieli, immensi habitat urbani che trasfiguravano lo Sprawl di cui leggevo sui libri e le megalopoli che incontravo nei fumetti o sul nastro consumato di una VHS su cui avevo registrato nel 1996 una replica notturna di Blade Runner (con tanto di Tg Notte all’intervallo) e che da allora, se non ero impegnato a riguardarla per l’ennesima volta, era perché l’avevo prestata per l’ennesima volta a qualche amico o compagno di scuola.

Il futuro era lì, a un passo da noi, e sapevamo tutti che stava affilando le lame con cui ci avrebbe dato il benvenuto. Lo vedevamo arrivare, lo aspettavamo, perfino, eravamo pronti ad affrontarlo corpo a corpo se necessario. Fa una certa impressione pensare che da allora è passato quasi il doppio del tempo che all’epoca ci separava dall’uscita di Blade Runner, che tutti riconoscevamo come un capolavoro ma nessuno di noi osava immaginare che avrebbe saputo descrivere in maniera così pervasiva, accurata ed efficace il futuro che si andava componendo sotto i nostri occhi.

Eravamo troppo intenti a rincorrere il futuro, a gettarci nelle sue bracci, per vederlo arrivare alle nostre spalle, a fauci spalancate, come effettivamente è poi successo. Ma da allora, da quei pomeriggi di autunno, inverno, primavera o estate passati a intervallare i libri di scuola con letture meno ortodosse, cercando il senso delle cose tra le parole degli autori che avrebbero plasmato il mio senso del futuro e il mio immaginario, mentre le stagioni si alternavano sul cielo della valle trascolorandola e cambiando forma e inclinazione alle ombre, il ricordo dei giorni perduti si mischia inestricabilmente a quello del mio apprendistato fantascientifico. Ed è così che, in preda a un riflusso di nostalgia del futuro, ogni volta ripenso alla mia valle, e a com’era cyberpunk sotto il cielo di una televisione sintonizzata su un canale morto.

Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per stradalì ricomincia la storia del calcio.

Non so se il famoso aforisma attribuito a Jorge Luis Borges (1899-1986) sia apocrifo o meno, ma mi è sempre piaciuto immaginare uno dei più grandi autori della letteratura mondiale ispirato dalla scena di due bambini che rincorrono una palla in un campo di periferia di Buenos Aires, mentre la luce del tramonto s’incunea tra i palazzi. Probabilmente, se mai disse o scrisse quelle parole, il maestro argentino era già costretto ad affidarsi alle ombre del ricordo e alle voci e agli schiamazzi che gli giungevano alle orecchie, dal momento che la sua retinite pigmentosa si era aggravata al punto da renderlo completamente cieco alla fine degli anni ’60. E questo, tra le altre cose, gli avrebbe impedito di godersi nei suoi ultimi anni le magie del più grande giocatore che abbia preso a calci un pallone.

Su Diego Armando Maradona, che ci ha lasciati lo scorso 25 novembre, mi rendo conto che potrei scrivere decine e decine di pagine senza fermarmi. Credo che sia così per chiunque lo abbia vissuto da tifoso, e chiunque abbia tifato per Maradona, per il suo Napoli o la sua Argentina, non può non aver provato per un lungo periodo della sua vita un sentimento di amore incondizionato e viscerale per il Pibe de Oro. Era ed è una forma di gratitudine per averci sottratti all’oblio e resi partecipi di uno dei più insulsi ma ambiti riti di massa dell’ultimo secolo e mezzo: fuori di tecnicismi e retorica, il gioco del calcio. Per me è stato così fino all’ultimo ed è così ancora adesso.

Anche se oggi non si direbbe a scorrere la marea di ricordi e di cordoglio che ha sommerso la rete, le pagine dei giornali e i palinsesti televisivi, fino a non più di una settimana fa per la quasi totalità degli organi di informazione, come pure, non per fare il puntiglioso, per la quasi totalità degli appassionati di calcio, Maradona veniva trattato come il nemico pubblico N. 1. Le accuse di oltraggio alla morale pubblica, di rappresentare un cattivo esempio per i giovani, di slealtà sportiva, erano all’ordine del giorno quando si parlava di lui, così come l’inevitabile ricordo delle sue dispute giudiziarie con il fisco italiano (una vicenda kafkiana, come ricostruito in questi giorni dal Foglio, scaturita da un gesto di improvvisazione quasi situazionista di due sindacalisti e ingigantitasi fino a diventare una valanga che ha finito per seppellire qualunque cosa, inclusa la verità).

I mille e uno volti di Maradona

Dai primi calci tirati a quella che possiamo immaginare come una palla di stracci per le strade di Villa Fiorito (e nessuno ha usato meglio le parole di Julio Velasco per descrivere la parabola di Diego Armando Maradona dalla periferia di Buenos Aires al jetset internazionale) alla sua villa a Tigre, passando per i campi da gioco di mezzo mondo, la Rambla, le strade della vita notturna di Napoli e i grattacieli di Dubai, quello di Maradona è un corpo che indossa mille maschere, di volta in volta spavaldo, arrogante, rabbioso, sconvolto, annebbiato, assente, sorridente, ma che sotto nasconde sempre lo stesso volto, quello del ragazzo del barrio che all’esordio in Primera División, a sedici anni non ancora compiuti con la casacca degli Argentinos Juniors, dichiara ai giornalisti che nella sua vita è cambiato tutto da quando… è tenuto a rilasciare interviste.

Prestigiatore con il pallone, virtuoso capace di non smarrire mai l’efficacia, architetto di invisibili geometrie di gioco ormai impresse a fuoco nel nostro immaginario calcistico, condottiero in campo, leader politico, antagonista, istrione, castigatore di ogni malcostume che avrebbe poi finito per prevalere nel mondo del calcio non solo italiano (il vizietto di chiudere gli occhi davanti alle tante forme di discriminazione, il carrierismo politico, il ribaltamento dei valori di lealtà e correttezza dello sport perpetrato a piacimento), specchietto per le allodole dei moralismi buoni per ogni stagione; nell’arco della sua carriera Maradona sarebbe stato tutto questo, insieme a tante altre cose che forse in tanti, pur attribuendogli proprio per questo l’inevitabile marchio d’infamia, un po’ gli invidiavano: la vita dissipata, l’abilità di vivere sempre al limite, con il pedale del gas al massimo, di sfidare le convenzioni sempre e comunque. Socialista, terzomondista, peronista. Sperperarore di fortune e accorto gestore delle sue finanze, ma soprattutto benefattore e filantropo. Figlio devoto, marito infedele e padre discutibile. Maradona andava preso per com’era, perché non puoi avere la luce senza le crepe che la lasciano passare, per ricordare ancora una volta Leonard Cohen: pieno di contraddizioni e paradossale forse per sua natura intrinseca, come il suo corpo compatto ma capace di arrivare dappertutto attraverso quell’estensione rappresentata dalla sfera, alfiere di un calcio non euclideo, inventivo, fantasioso, attore di una forza a distanza in grado di sfidare le leggi inappellabili della gravità. E capace, ogni volta, di inventarsi nuovi peccati per cui inevitabilmente arrivare a pentirsi e dover chiedere scusa. Magari dopo poche ore o pochi giorni, come in occasione della terribile rissa scatenata in finale di Copa del Rey ormai agli sgoccioli della sua esperienza spagnola, magari dopo vent’anni.

Per me Maradona è tutto in quello sguardo un po’ timido del quindicenne di Villa Fiorito, tutto il contrario dell’esuberanza atletica, del controllo tecnico, dell’estro artistico, del talento innato – insomma, in una parola, del genio – che già da bambino esibiva sui campi di calcio, al punto da spingere un tassista a suggerire a Gianni Di Marzio, allora tecnico proprio del Napoli, questo ragazzino con le carte in regola per diventare un crac. Era il 1978 e il Napoli avrebbe potuto prenderlo per duecento milioni di lire, se le frontiere non fossero state chiuse. In fondo, come dice con spirito partenopeo un testimone di quegli anni intervistato per il documentario Maradonapoli di Alessio Maria Federici (2017), una sentita ricostruzione dell’impatto avuto da Maradona sulla vita della città e dei suoi abitanti e tifosi, lui era già «un napoletano che viveva all’estero».

Diego Armando Maradona e la politica

La notizia del suo arrivo a Napoli colse il mondo intero alla sprovvista. Gli anni di Barcellona, che lo aveva acquistato nel 1982 dall’amato Boca Juniors, non furono facili: malgrado le prestazioni di Maradona, il club catalano raggranellò in due anni qualche successo nei confini nazionali, ma rimase sempre lontano dalla vetta della Liga, come pure dai trofei continentali. Per di più, l’esperienza spagnola di Maradona fu costellata di infortuni, a partire da un’epatite virale che lo tenne lontano dal terreno di gioco per diversi mesi, fino alla rottura della caviglia (con annessa lesione dei legamenti) rimediata per un intervento criminale del difensore basco Andoni Goikoetxea Olaskoaga in un match con l’Athletic Bilbao passato tristemente alla storia. Altri mesi di assenza e di riabilitazione, fino al rientro in squadra all’inizio del 1984 per una volata finale che si sarebbe conclusa con la finale di Copa del Rey, di nuovo contro l’Athletic di Goikoetxea. La vita di Maradona, come vedremo, è piena di questi ricorsi, dopotutto «la vita è un cerchio piatto», come insegnano Nic Pizzolatto e True Detective. La partita viene persa dal Barcellona e culmina in una rissa degna delle stracittadine bonaerensi. Nel frattempo, però qualcosa si era incrinato nel rapporto con il club che tanto lo aveva voluto da renderlo il giocatore più pagato del mondo. Le voci sulla vita notturna di Diego indispettiscono la dirigenza blaugrana, che a fine stagione si ritroverà disposta (costretta?) a cederlo.

Il mondo è con il fiato sospeso. Dove giocherà a settembre il giocatore più forte del mondo? Nel documentario che Asif Kapadia dedica a Diego Maradona nel 2019, assistiamo a un compassato giornalista della televisione francese annunciare la prossima destinazione del Pibe de Oro: «La città più povera d’Italia, e forse una delle più povere d’Europa, acquista il giocatore più costoso del mondo». Non è il Real, non è la Juventus, ma il Napoli di Corrado Ferlaino, che fino ad allora sfoggiava in bacheca due Coppe Italia, una Coppa delle Alpi e una Coppa di Lega Italo-Inglese e che adesso metteva a segno il colpo del secolo, portando in una città che nelle riprese dell’epoca sembra davvero una città del terzo mondo (non me ne vogliano gli amici napoletani, dopotutto veniamo dalla stessa terra), l’equivalente moderno degli eroi della mitologia classica.

Ai giornalisti che gli domandano cosa si aspetti da Napoli, Maradona risponde candidamente: «La tranquillità che non avevo a Barcellona. Ma, più di ogni altra cosa, rispetto». E Maradona, acquistato per tredici miliardi e mezzo di lire attraverso una fideiussione del Banco di Napoli rilasciata grazie al patrocinio della DC campana (che all’epoca esprimeva la segreteria del partito con Ciriaco De Mita e il sindaco della città con Vincenzo Scotti, due a cui del Napoli importava relativamente), atterra a Capodichino e attraversa la città in cui ha scelto di vivere gli anni migliori della sua carriera. Nemmeno quattro anni prima il terremoto dell’Irpinia aveva colpito anche la città, ma soprattutto aveva rivelato al resto d’Italia una delle terre più povere del suo territorio, di cui in pochi fino ad allora sapevano qualcosa, e Napoli (calcisticamente parlando, ma probabilmente non solo) era un po’ l’avamposto di un territorio d’oltremare da trattare con l’indulgenza della miglior retorica neocoloniale. Invece, all’improvviso, la sua squadra di calcio, una compagine di mezza classifica con alle spalle una società patronale, reclamava il suo posto al tavolo delle grandi. È il 1984 e Maradona viene presentato in una conferenza stampa incandescente e poi ai suoi tifosi in un’esibizione al San Paolo passata anch’essa alla storia. Già allora, come osserverà poi il suo presidente-carceriere, Maradona incarna lo spirito di Napoli.

Il primo anno, ancora una volta, non è facile. La squadra è poco competitiva e la Serie A non fa sconti al giocatore più forte del mondo: i difensori sono aggressivi, gli arbitri non tutelano quello che è a tutti gli effetti un patrimonio non solo del Napoli ma di tutto il calcio italiano e Maradona colleziona falli su falli, non sempre fischiati. È un calcio completamente diverso da quello a cui siamo ormai abituati, con pochi riflettori e molto fango, giocato su campi spesso al limite della praticabilità, che oggi vediamo solo nelle categorie inferiori. E Maradona risponde a modo suo: invece di perdere tempo in inutili recriminazioni, si adatta, cambia i tempi di gioco, diventa più veloce, alza il tasso tecnico e aumenta il coefficiente di imprevedibilità delle giocate. Il Napoli conclude il campionato a metà classifica ma Maradona segna 14 gol in 30 presenze. L’anno dopo i gol saranno 11, ma è già nato un Maradona diverso, lungo la rotta di avvicinamento ai Mondiali del 1986 e allo Stadio Azteca di Città del Messico, dove prima infliggerà all’Inghilterra la sconfitta più cocente della sua storia, e una settimana dopo condurrà l’Argentina alla sua seconda Coppa del Mondo.

«La vendetta è un piatto che va servito freddo» recita un vecchio proverbio Klingon e Maradona lo aveva cucinato per quattro anni, dopo la disastrosa guerra delle Falkland costata la vita a centinaia di giovani della sua generazione, la prigionia a migliaia di soldati, e l’onta della sconfitta a un popolo intero, già oppresso da anni di crisi economica e di dittatura militare. È una rivincita con il sapore della vendetta soprattutto per come viene consumata: nei quarti di finale, nel giro di quattro minuti, duecentoquaranta secondi che separano il gol più controverso dal gol più bello della storia. E non sarebbe stato lo stesso se l’ordine fosse stato inverso, perché il primo gesto (la famosa «Mano de Dios», nell’espressione usata da Diego) segna il pareggio con la forza militare e le ambizioni neo-imperialistiche della Thatcher, mentre il secondo esprime la prevalenza della bellezza, della classe e dell’arte sopra ogni cosa. Il primo è un gesto politico, il secondo è un atto estetico, che trasforma il vendicatore in un oggetto ultraterreno, un barrilete cósmico nella famosa telecronaca del commentatore argentino Hugo Morales.

È così che nasce la leggenda di Diego Armando Maradona e niente, dopo quella partita, sarà più lo stesso. Per lui, per l’Argentina che vincerà il Mondiale e per il Napoli che l’anno dopo avrebbe vinto il suo primo campionato di Serie A, una conquista impensabile fino ad allora, replicata nel 1990 e mai più ripetuta nei trent’anni successivi.

In quegli anni Maradona diventa più influente di tanti capi di stato. Non è solo ammirato come calciatore, ma matura un seguito che le tante figurine politiche da cui siamo assediati oggi, in televisione e sui social, si sognano ancora la notte. Oggi si parlerebbe di leadership, all’epoca si parlava – con un’espressione oggi fin troppo retorica – di condottieri. Maradona dava voce agli ultimi, ancora una volta: dopo gli argentini umiliati alle Falkland, i napoletani che in ogni stadio d’Italia in cui mettevano piede trovavano ad attenderli striscioni e cori degni dell’apartheid (come avrebbe brillantemente riassunto in uno sketch da applausi Massimo Troisi, e come ricorda nella sua ricostruzione impareggiabile Massimiliano Gallo sulle pagine del Napolista).

La vita e gli amori di Diego Armando Maradona

No, non voglio parlare qui del gossip che ha accompagnato Maradona fin dal suo arrivo in Europa, ovunque andasse, prima a Barcellona, come si è visto, e poi a Napoli. Gli aneddoti si sprecano, ne abbiamo lette di tutti i colori in questi giorni e vi risparmio la rassegna. Ma la vita di Maradona è stata indubbiamente piena di amore, dato e ricevuto.

La scelta di Napoli e il legame viscerale che riuscì a instaurare con la città fin dal suo arrivo meriterebbe un’analisi antropologica che non ho gli strumenti per svolgere qui: fu sicuramente una sfida, lanciata da Maradona al mondo del calcio, ma quale calcolo indusse i suoi procuratori ad accettarla rimane e rimarrà sempre un mistero. Come termine di paragone, fatte le debite proporzioni e senza offesa per nessuno, è come se Messi venisse a giocare nel Bologna: non il Messi di oggi, ma quello che dieci anni fa vinceva le Champions con il Barcellona.

L’amore che ricevette in cambio dalla città divenne in un certo modo tossico negli ultimi anni della sua esperienza napoletana, come se un dosaggio eccessivo avesse scatenato degli effetti collaterali. Nel 1989, dopo la finale di ritorno della Coppa UEFA che consegnò al Napoli il primo (e finora unico) grande trofeo internazionale, Maradona chiese a Ferlaino di lasciarlo andare. Anche le grandi storie d’amore finiscono e sicuramente è meglio finirle quando si è ancora in tempo, piuttosto che tirare la corda finché si spezza.

Ma Ferlaino aveva altri programmi. Voleva ancora una grande affermazione continentale, ma per riuscirci il Napoli avrebbe dovuto vincere un altro scudetto. Così trattenne Maradona contro la sua volontà e, viste le voci sulle sue frequentazioni private, gli mise alle calcagna un investigatore privato. È così che ebbe inizio la fine.

La leggenda di Diego Armando Maradona

Dalle partite illegali di beneficenza ai gol impossibili segnati da ogni posizione – la compilation delle reti segnate con il Napoli è impressionante: da fermo, al volo, dalla tre quarti, di testa, direttamente da calcio d’angolo, rigori ogni volta diversi – i sette anni italiani di Maradona rappresentarono qualcosa di mai visto prima e che mai si sarebbe rivisto in seguito.

Ancor più che i suoi gol, però, destano meraviglia ancora oggi le giocate: gli assist, non sempre finalizzati; i tocchi del repertorio (di tacco, sombrero, veronica, no-look), ora per smarcarsi, ora per saltare l’uomo, ora per servire i compagni; i falli subiti senza protestare, di cui sono pieni i suoi anni spagnoli e italiani.

Il vertice inarrivabile, per lo meno dopo la partita con l’Inghilterra, è in un momento non di gioco, e anche questo rende forse la dimensione del personaggio. Semifinale di ritorno della Coppa UEFA 1989 contro il Bayern, durante il riscaldamento pre-partita delle squadre dagli altoparlanti dell’Olympiastadion di Monaco partono le note di Live is Life degli Opus, eseguita da una cover band ingaggiata per l’occasione, e Maradona inizia uno spettacolo passato alla storia.

La partita finirà 2-2 e il Napoli si qualificherà per la finale con lo Stoccarda. Cos’altro aggiungere?

Dopo quella finale, dicevamo, inizia l’arco discendente della parabola di Diego Armando Maradona. «La luce che arde col doppio di splendore brucia per metà tempo». Sono le parole con cui Eldon Tyrell ammonisce paternalisticamente Roy Batty in una delle scene più cruente di Blade Runner. «E tu hai sempre bruciato la tua candela da due parti». Parole che potremmo applicare anche alla vita di Maradona.

La stagione 1989-90, come tutte quelle a ridosso di un mondiale, non fu per lui come le altre. Malgrado l’intensificarsi di problemi fisici di vecchia data, inclusa una sciatica che lo costrinse per diversi mesi a sottoporsi a delle dolorose infiltrazioni, malgrado la dipendenza dalla cocaina anche per questo diventasse sempre più acuta, Maradona trascinò il Napoli al secondo scudetto e arrivò ai Mondiali di Italia ’90 deciso a condurre anche la nazionale argentina al secondo successo di seguito dopo Messico ’86. L’Argentina era la squadra da battere e fin dal match inaugurale disputato a San Siro (perso per 1-0 contro il sorprendente Camerun di Roger Milla, che riuscì a difendere eroicamente il vantaggio in 9 contro l’assedio albiceleste) apparve chiaro che non sarebbe stata una passeggiata di salute fino alla finale: in qualsiasi stadio giocassero, i gauchos di Carlos Bilardo venivano accolti dall’ostilità del pubblico.

Il percorso complicato dell’Argentina, qualificata agli ottavi come miglior terza classificata del suo girone, superato il Brasile di misura e la Yugoslavia ai rigori, andò quindi a collidere con quello della nazione ospitante, in una partita evidentemente organizzata dal destino: il 3 luglio 1990, nello stadio che lo aveva visto splendere in campionato e in Europa, Maradona avrebbe giocato non solo contro l’Italia, ma contro il suo pubblico.

Checché raccontino oggi cronisti sportivi dalla memoria labile ed ex-giocatori forse colpiti alla testa da troppe pallonate, secondo la vecchia consuetudine italica della ricerca di un alibi a tutti i costi, il San Paolo quella sera non tifò Argentina, nonostante le preventive esortazioni del loro beniamino a non dimenticare gli anni trascorsi insieme e il trattamento riservato ai napoletani dal resto d’Italia, ogni santa domenica. Anzi, le azioni dell’Albiceleste furono accompagnate fin dal primo minuto da fischi sonori, così come il girone infernale dei calci di rigore che decise la partita dopo i supplementari conclusi sull’1-1. Nelle riprese dell’epoca si vede Maradona applaudire agli spalti, a fine partita, ma sugli spalti è tutto un film di sconforto, di lacrime di rabbia e di frustrazione, e sono pochi i settori che ricambiano l’applauso del Pibe de Oro.

L’Italia è fuori dai Mondiali e l’eliminazione brucia, non solo sugli spalti. Si racconta che fu in quell’occasione che la dirigenza del mondo calcistico italiano la giurò a Maradona. La finale dell’Olimpico, di rara noia per una finale mondiale, vide una riedizione della finale dell’Azteca, con l’Argentina opposta alla Germania dell’Ovest. La partita fu decisa da un rigore inventato dall’arbitro e messo dentro da Brehme, che superò un grande Sergio Goycochea, uno dei migliori portieri del torneo.

Maradona andò a ritirare la sua medaglia d’argento in lacrime, deluso da un mondo che, dopo essersi retto per anni sulle sue spalle, all’improvviso gli era franato addosso con tutto il suo peso. Da calciatore più ammirato, si ritrovò a essere nominato personaggio più odiato dagli italiani nei sondaggi dei quotidiani, il suo stile di vita un tempo invidiato fu messo all’improvviso sotto attacco da rotocalchi e trasmissioni televisive.

Maradona smarrì del tutto lo spirito solare, gioioso, che lo aveva accompagnato fino a un anno prima, e divenne una figura pubblica costantemente adombrata. Memorabili le riprese della cena di Natale del Napoli di quell’anno: Maradona, che era stato l’anima di tutte le feste a cui aveva preso parte fino ad allora, assiste in disparte, con aria seriosa e un po’ infastidita. Il 17 marzo 1991 sarebbe risultato positivo a uno dei primi controlli antidoping, dopo una partita casalinga del Napoli contro il Bari vinta di misura. Gli sarebbe stata comminata una squalifica di un anno mezzo, il Napoli avrebbe chiuso la stagione settimo e non avrebbe più rivisto il più grande calciatore del mondo indossare la 10 con i suoi colori.

Spiace doverlo ammettere, ma nella fine di Maradona giocò un ruolo importante anche l’incapacità del Napoli di tutelare il suo campione, come ricorda Gianni Minà, fino a lasciarlo incappare fatalmente nella trappola dell’antidoping.

Maradona avrebbe lasciato Napoli la sera del primo aprile 1991. I conti con lui erano chiusi. Era la fine di un’epoca, anche se non tutti se ne accorsero subito.

Adesso che le lacrime della commozione generale gonfiano la marea del cordoglio, nessuno sembra voler ricordare le parole di condanna, il biasimo unanime, i giudizi sprezzanti, le sentenze del tribunale popolare dell’opinione pubblica che all’epoca accompagnarono l’uscita di scena di Maradona. Ma la mia memoria per fortuna è di ferro e a tutti i sicofanti di allora scopertisi adesso magnanimi nella vittoria, io rivolgo il mio più sincero invito a tapparsi la bocca e andarsene a fare in culo.

Le mille e una morte di Maradona

Maradona ha vissuto mille vite e altrettante volte lo abbiamo visto morire e risorgere. Anche se ha legato indissolubilmente la sua fama a tre maglie (quella blaugrana, quella azzurra e quella dell’Albiceleste), ne ha vestite altre cinque, tra cui quella dell’esordio tra i professionisti degli Argentinos Juniors e quella del Boca, i suoi colori del cuore. Ogni esperienza si è conclusa in maniera malinconica, a dir poco, e gli ultimi anni da calciatore dopo la squalifica per doping del 1991 sono fotogrammi evitabili e per questo ancor più dolorosi di un unico, lungo, lento addio. L’unica parentesi di gloria in grado di riportarlo ai fasti del decennio precedente è rappresentata dai Mondiali di USA ’94, dove un nuovo controllo antidoping mise fine alla rincorsa del terzo titolo mondiale per l’Argentina.

Sulla sua carriera da allenatore e commissario tecnico, possiamo tranquillamente sorvolare. Maradona non era nato per insegnare agli altri il gioco del calcio, e dopotutto il talento non si può condividere, così come il genio non si può travasare.

Maradona era nato semplicemente per renderci felici. Alcuni lo hanno capito solo adesso, dopo essere stati per anni accecati dall’invidia e dalla Schadenfraude. Altri non hanno mai smesso di crederlo, fin dalla prima volta che gli hanno visto prendere a calci una palla, un limone o un’arancia.

Siamo noi, che adesso lo piangiamo. Mentre Maradona consuma l’ultima morte ed è finalmente libero di misurarsi con l’unico limite che compete alla sua dimensione: l’eternità.

[Questo pezzo è rimasto in bozza per quasi quattro anni. A volte, nel corso di questi mille e passa giorni, mi sono ripromesso di riprenderlo, ma poi non mi sono mai deciso a sistemarlo come mi sarebbe piaciuto. Ogni volta che parlo del mio paese e della mia terra, parlo indirettamente dei miei amici, della mia famiglia, e – come è facile verificare dai contenuti del blog – ho sempre cercato di conservare una netta separazione tra pubblico e privato. In più, per me, come credo per molti, parlare della mia terra è come parlare di una storia d’amore che va avanti da decenni, tra alti e bassi… non ne parli, se non ti ci trovi proprio costretto. Ogni volta che l’ho fatto in passato (potete consultare gli archivi dello Strano Attrattore), mi sono pentito un istante dopo aver premuto il tasto invio: sono cose che ancora oggi mi sembrano patetiche, un effetto che detesto. Ma a volte non ne puoi proprio fare a meno. Il pretesto di questo post scaturiva da un articolo apparso nel gennaio del 2017 sull’Espresso, un articolo che parlava del paese in cui sono cresciuto, presentandolo come “il paese cancellato per sempre”. Messa così, non poteva non costringermi a prendere una posizione. Risale così a quei giorni questa mia sorta di replica, che di sicuro non aggiunge granché al dibattito sulla ricorrenza che cadrà domani per i 40 anni dal Terremoto in Irpinia. Ma che dà forma a pensieri meditati a lungo e finora sempre silenziati.]

Castelnuovo non è un paese cancellato per sempre. Non è un museo delle porte chiuse. Non è nemmeno un paese da salvare. È difficile definire davvero cosa sia e forse qualsiasi tentativo in questa direzione sarà invariabilmente destinato a scontrarsi con la frustrazione. Ma anche per questo è tanto più importante cominciare a stabilire quel che non è.

Ovviamente, questa sua mancanza di definizione, lascia un po’ interdetti. Lascia interdetto persino chi come me ci è nato o cresciuto, chi per anni ha vagheggiato di andarsene per poi, una volta lontano, abbracciare l’attesa di segno opposto del ritorno. Figuriamoci chi ci arriva da fuori e si trova davanti questa manciata di case sparse sul fianco di una montagna, nemmeno poi così alta da spiccare ed evitare di finire stritolata tra le montagne che la circondano da questa e dall’altra parte della valle del Sele. Lo capisco. Capisco mia moglie che a distanza di qualche anno dalla prima volta che ce l’ho portata continua ancora a chiedersi quale segreta attrazione possa esercitare questa terra su chi la ha abitata (capisco meno ma mi riempie di irrazionale euforia sentirne parlare il più grande dei nostri figli, che dopo averci messo piede non più di quattro volte ne parla come di un posto mitologico se non fiabesco), quindi comprendo lo spirito dell’articolo di Franco Arminio, che vi giunge da un paese non tanto distante e che nel tempo ha sfiorato il rango di cittadina, per poi ricadere nella dimensione del borgo.

In effetti, Castelnuovo forse non è nemmeno un paese. Bensì, come minimo, un trittico di paesi: c’è il centro storico, ricostruito per intero dopo essere stato raso al suolo dal terremoto del 1980, e che con le facciate colorate delle sue case riproduce sullo sperone roccioso su cui sorge l’andamento dei tetti del paese scomparso; c’è l’insediamento provvisorio dei prefabbricati in cui furono alloggiate le famiglie in attesa della Ricostruzione, e che non è mai stato smantellato ma continua ad alloggiare ancora oggi famiglie d’inverno ed emigranti d’estate, oltre a quella che di fatto è diventata la piazza principale del paese; e infine c’è il paese ricostruito, il piano di zona, che non ha una sua personalità ben precisa e, come gran parte dei paesi ricostruiti a seguito del sisma, assomiglia a uno strano incrocio tra una stazione antartica di ricerca e una base militare: ordinato, pulito, ma in fondo anonimo. La monotonia è interrotta da un campo sportivo degno di una compagine semiprofessionale, sovrastato da una chiesa dall’architettura assurda, che a vederla si fa anche un po’ fatica ad accettarla come luogo di culto, e forse per questo la accompagna un campanile monumentale che ricorda piuttosto un razzo pronto al decollo sulla rampa di lancio.

Il paese già così è quindi uno e trino e questa tripartizione è sempre stata un po’ fonte di confusione tra chi vi abita. Dove incontro oggi i miei amici? Alla piazza di sopra o alla piazza di sotto? E dove organizziamo quest’anno la festa patronale? Nel paese nuovo o nel centro storico o nella piazza dei prefabbricati? Capirete quindi dove si origina la mia dissociazione, e sicuramente anche quella di molti altri miei compaesani.

Con il tempo, è vero, in tanti siamo partiti. Chi per necessità, chi per esasperazione, chi per mancanza di alternative. Pochi, credo, per il desiderio di scoprire il grande mondo là fuori. La maggior parte, malgrado tutto, controvoglia. Me compreso.

Già prima che me ne andassi, Castelnuovo di Conza era in proporzione il secondo comune in Italia con il peggior saldo di emigrazione. In pochi di quelli partiti sono tornati. Dopo il miraggio della Ricostruzione, che ha richiamato decine di famiglie dall’estero, l’esodo è ripreso, svuotando di nuovo le case e sprofondando le strade nel silenzio e nell’abbandono. Di questi tempi, purtroppo, chi parte non può confidare in un ritorno a breve. Si finisce per piantare le radici altrove e in un batter d’occhio il sogno di tornare si confonde con la promessa di un buen retiro per la pensione. E poi la pensione diventa un miraggio essa stessa.

Forse per senso di colpa o solo per spirito d’avventura, qualche anno fa ho provato anche a cimentarmi nella vita amministrativa. Il ruolo di consigliere comunale, in paesi come il mio, ha in fondo un alone romantico e a conti fatti si configura a pieno titolo come un’attività di volontariato. Ma consente di imparare alcune cose. Per esempio, cosa banale ma non scontata, che non è quasi mai sufficiente la buona volontà: un muro invisibile esclude la politica locale delle piccole comunità dai centri decisionali di stato e regioni. Oppure che ormai sono così tanti i vincoli posti all’iniziativa, da rischiare con facilità lo stallo amministrativo, al punto da dover combattere quotidianamente per il reperimento delle risorse necessarie all’autosostentamento. Figuriamoci allora pensare di intraprendere progetti di sviluppo, unica possibile ancora di salvezza per un comune che ha perso più di un terzo dei suoi abitanti dal 2001 al 2016.

Eppure, malgrado tutto questo, io e molti altri come me facciamo sempre un po’ fatica ad accettare il quadro a tinte fosche di questa minuscola realtà che periodicamente emerge da articoli come questo. Senza dubbio possiamo ricondurre un simile atteggiamento al legame emotivo che ci costringe al posto in cui siamo nati e cresciuti. E con il tempo mi vado convincendo che questa sia anche una parte del problema, perché in fondo nessuno di noi vorrebbe che il nostro paese cambiasse: né chi ci vive, perché magari è disposto ad accettare come un compromesso l’assenza di servizi e talvolta l’ostilità stessa dello stato, né chi è andato via, perché in fondo spera sempre di tornare e trovare lo stesso paese incantato che ha preservato intatto per così tanti anni nella memoria, quel paese delle meraviglie che probabilmente tanto meraviglioso non era per averlo spinto a partire… E quindi siamo un po’ tutti noi, con la nostra rassegnazione o il nostro egoismo, in ogni caso con la nostra personale mancanza d’iniziativa, a condannare questi posti all’immutabilità, quasi li volessimo conservare sotto una campana di vetro, congelati in una dimensione astratta, che poi non è nient’altro che la dimensione illusoria, fallace e parziale del nostro ricordo.

Tutto questo non dovrebbe tuttavia offuscarci la vista e impedirci di scorgere i difetti e la fallacia del quadro che ci viene ripetutamente presentato. Perché la condizione di Castelnuovo non è un’anomalia, ma è sempre più diffusa e riguarda un numero in crescita costante di paesi, di borghi, di comunità rurali, tagliati fuori da qualsiasi prospettiva di sviluppo, perfino la più timida. Centri che hanno perso in questi anni la stazione della ferrovia o l’ospedale, oppure le scuole primarie e poi anche le scuole materne. Paesi che proprio mentre il resto del mondo si muoveva verso l’integrazione e l’inclusione si sono visti esclusi da ogni circuito virtuoso, anche per colpa di quelle politiche nazionali che ci hanno portati dove siamo oggi: un’Italia incapace di valorizzare la sua ricchezza storica, paesaggistica, culturale, incapace di dotarsi di un piano energetico nazionale, incapace di pensare a concrete strategie di sviluppo, incapace di provvedere alla benché minima programmazione anche di fronte alla certezza di una seconda ondata della crisi globale di questo 2020. E dentro questa Italia vetrina dello sfascio, un’Italia tenuta nascosta, messa tanto male da non poter essere nemmeno esposta in vetrina con le sue vergogne più appariscenti. Un’Italia ancora più vulnerabile nell’Italia già malmessa, un paese parallelo, una nazione invisibile, una sorta di federazione che comprende tutte le terre marginali che si sono volute deliberatamente creare o negligentemente dimenticare.

In questa dimensione sospesa, possiamo trovare anche Castelnuovo. Che oltre a essere un paese uno e trino è quindi anche un paese senza tempo: senza passato, raschiato via dal terremoto; senza futuro, scongiurato dalle logiche del potere che in Bassitalia da sempre declinano le politiche nazionali; e soprattutto senza presente, incapace di offrire alcuna possibilità di attaccamento al di fuori della sfera emotiva (e se vi sembra insopportabile la prospettiva del lockdown in città, provate a immaginare come dev’essere in un paese di 600 abitanti con un’età media di cinquant’anni e un reddito pro capite di 5.894 euro, una media di due componenti per nucleo familiare, un quarto della popolazione sopra i 65 anni [fonte: Comuni-Italiani.it]).

Anche se poi, a vedere le foto che corredano l’articolo ripreso sulle pagine di Doppiozero, che in realtà ritraggono l’isola-fortezza di Gunkanjima, l’isola-miniera-città al largo delle coste di Nagasaki, che fu della Mitsubishi e dopo l’esaurimento dei suoi giacimenti di carbone fu progressivamente abbandonata… il ricorso a immagini provenienti da un posto dall’altra parte del pianeta desta il sospetto che in fondo, malgrado tutto, Castelnuovo non se la passi poi così male.

Fonte: Wikipedia.
Foto di Newfotosud, Renato Esposito.
Foto di Fabat.

Sono trascorsi quasi due mesi dall’ultimo post, un lasso di tempo che ha inghiottito tutti i buoni propositi con cui ogni volta mi avvicinavo al blog, le rare volte in cui riuscivo a superare una sorta di blocco psicologico che quasi sempre mi impediva addirittura di aprire il link. Stati d’animo contrari, abbinati alla cronica assenza di tempo, sono state le cause principali della latitanza, mentre la mia testa era presa a rimuginare per tutta la durata di ottobre, masticando sensazioni stratificate nel tempo e indugiando in ricordi autunnali.

Foto di James Jordan: ”Night Station”.

Non hanno certo contribuito a migliorare l’umore le statistiche che hanno ripreso a delineare un nuovo stato emergenziale che sembravamo tutti aspettare, come sempre senza darci la pena di prepararci. Perché senza avanzare soluzioni da bacchetta magica, è dalla scorsa primavera che gli esperti prospettavano scenari e opportunità, ma ovviamente predicavano nel deserto perché intanto i politici, come sempre, erano troppo impegnati a rimirare il dito per concentrarsi anche sulla luna. E così già da maggio sapevamo che non sarebbe cambiato granché, e ovviamente che ci saremmo fatti trovare impreparati come la prima volta (ma senza le stesse puerili giustificazioni).

E lungi da me il voler giustificare l’ostinazione di un numero crescente di nostri concittadini a far finta di nulla, a resistere alle misure pensate dal governo per contenere il contagio, limitare i danni sociali e preservare il servizio di salute pubblica. Se la novità della prima volta aveva stimolato un senso di coesione, che aveva portato alle consuete celebrazioni patriottiche dell’italiano restio alla disciplina ma sempre pronto al sacrificio e alla solidarietà se le condizioni lo impongono, non è che le condizioni attuali richiedano meno sacrificio della prima volta, è solo che le crepe della narrazione già falsata della prima ondata si sono spalancate, aprendo voragini che stanno vomitando tutto il peggio che eravamo riusciti a nascondere sotto il tappeto o nell’armadio.

Ovviamente, le responsabilità sono equamente distribuite. 1. C’è l’incompetenza di una classe dirigente inadeguata, come dimostrano tuttora scandali che – specialmente dopo le sciaguratezze compiute in Lombardia – sarebbe bastata un minimo di attenzione per evitare. 2. C’è la vanità di una schiera crescente di scienziati che hanno pensato di poter approfittare della visibilità acquisita per imporre un nuovo culto dell’immagine, peccato che abbiano voluto far passare le proprie opinioni personali per verità incontrovertibili, come ben sottolineato da Carlo Rovelli nel corso della sua intervista andata in onda durante l’ultima puntata di Propaganda Live.

3. C’è l’opportunismo ipocrita e sempre più miope di un giornalismo che sempre più ama rimestare nella confusione, più incline a massaggiare la pancia dell’opinione pubblica piuttosto che nutrire e confrontarsi con il suo cervello. 4. E ovviamente c’è la responsabilità dei cittadini, sempre meno responsabilizzati e a corto di senso civico, su cui tutte le altre cause già enumerate finiscono per prosperare.

Sul terzo punto, ha scritto parole largamente condivisibili Luca Sofri sul suo blog, che ci ricorda, adesso che i conteggi sono ultimati, quanto poco ci sia mancato perché il mondo imboccasse ancora una volta il peggiore dei sentieri possibili. Malgrado i proclami, il trumpismo si avvia a essere una parentesi di follia cripto-dittatoriale nella tradizione retorica della democrazia americana, benché il monocrate non si stia negando tutte le armi ormai spuntate del suo repertorio populista: la parata tra due ali di sostenitori inneggianti scesi per strada per rivendicare una vittoria immaginaria, mentre si dirige scortato dal sevizio d’ordine presidenziale verso i suoi campi da golf in Virginia, è la fotografia emblematica della sua uscita di scena, il congedo perfetto di questo quadriennio deleterio.

Credit: Il Post.

Se non rimpiangeremo Trump tra le cose che ci lasceremo dietro in questo anno nefasto, sono tante le perdite che conteremo una volta portata a termine la traversata. E non potrebbe essere diversamente: mentre scrivo, il conto dei casi di COVID-19 accertati nel mondo si appresta a superare i 55 milioni e le vittime sono ben 1.320.286. Paesi come USA, India e Brasile stanno pagando un prezzo altissimo, ma anche nella civilissima Europa, Francia, Spagna, UK e Italia (con un minimo di un milione e un massimo di due, e un numero di vittime compreso tra le quaranta e le cinquantamila) sono state messe in ginocchio dalla pandemia.

Ci sarà inevitabilmente un prima e un dopo questa crisi sanitaria globale. E se al momento ci sembra di essere tutti impegnati in un’impresa titanica che somiglia ogni giorno di più a una scalata lungo un percorso impervio, con la parete rocciosa del domani che ci impedisce di lanciare anche solo un fugace sguardo oltre l’ostacolo, a un certo punto ci sembrerà chiaro che questi mesi, più che uno spartiacque, sono stati in realtà un abisso, un baratro che ha inghiottito tutte le nostre certezze, dalla scala più larga alla dimensione più intima del nostro privato. Ma non illudiamoci con il mantra che niente sarà più come prima: non abbiamo imparato dai nostri errori finora, dubito che lo faremo anche stavolta. L’unica cosa che potremo dire, forse, sarà di aver imparato nuove scuse e nuovi alibi. Tutto il resto, lo troveremo ancora lì, la prossima volta che ci sarà bisogno di prendere decisioni vitali sul medio e lungo periodo.

Tutto, tranne molte delle cose che abbiamo amato pensare che sarebbero state per sempre.

Dieci anni fa, scrissi quasi di getto un racconto che a oggi rimane il racconto a cui resto più legato. Senza far torto a tutti gli altri, che ovviamente continuano a occupare un posto particolare tra i miei affetti e i miei ricordi, Cenere alla cenere è probabilmente il racconto in cui sono riuscito a fare meglio ciò che mi prefiggevo mentre scrivevo: calare l’universale nel particolare, affondare lo sguardo nelle nebbie del tempo (per citare il mio socio Lanfranco Fabriani), laddove la cronaca esplode senza senso e offusca qualsiasi possibile recupero della verità. Ma forse il motivo per cui continuo a essere così affezionato a questo racconto è il lavoro che c’è stato dietro: il contributo di decine di amici che mi hanno aiutato a ricostruire l’Italia di quei giorni grazie ai loro ricordi, alle loro sensazioni, alla loro dedizione per una causa che in fondo ognuno sente un po’ propria – quella di trovare un senso alle cose, anche se le cose non sempre si prestano a essere decifrate. E quei giorni non sono nient’altro che i giorni che portarono al 2 agosto 1980, di cui sta per giungere il quarantesimo anniversario, senza che molta chiarezza sia arrivata a dissipare le nebbie e i fumi, le ombre e le tenebre di quell’epoca oscura.

Linko anche il making of ospitato da Delos in occasione della ristampa del racconto su Robot, perché credo che mai come in questo caso sia importante tanto quanto il racconto.

Nei giorni scorsi è poi uscito il nuovo numero di Futuri. (disponibile anche in PDF). Sono trascorsi quasi sei anni dal primo numero della rivista dell’Italian Institute for the Future, sulle cui pagine uscivo con un racconto di stampo postumanista. Roberto Paura, direttore della testata nonché fondatore e presidente dell’istituto, ha voluto ospitare un mio nuovo racconto, che al momento rappresenta anche l’ultima cosa che abbia scritto: un racconto su un’Italia del sud (Bassitalia, again) prossima ventura, in un entroterra sconvolto dai cambiamenti climatici e svuotato da successive ondate di profughi ambientali, alle prese con space junk, IA, indentured system e intrighi geopolitici. S’intitola La sindrome di Kessler, ha un forte debito di riconoscenza “formale” verso Frammenti di una rosa olografica di William Gibson e contiene più o meno tutto quello che volevo metterci dentro mentre lo scrivevo.

Se le storie di ieri sono ciò di cui si nutrono i racconti di domani, in entrambi questi casi lo sguardo di domani scruta tra le pieghe del presente. Buone letture!

Giorno 39 dalla dichiarazione della Zona Rossa Italia. Raggiunti i 172.434 casi totali. 42.727 dimessi, di cui un numero imprecisato di guariti. 22.745 decessi sicuri, ma diverse migliaia di decessi stimati in aggiunta ai dati ufficiali: nelle case di riposo (e qui per la Regione Lombardia le cose iniziano a mettersi male, con buona pace per tutta la campagna propagandistica che ha accompagnato la gestione dell’emergenza, dalle dirette Facebook del suo assessore al Welfare all’ospedale in Fiera) o in isolamento domiciliare.

La curva dei contagi pare stia raggiungendo l’atteso picco, con tre settimane di ritardo rispetto al picco che in molti ci aspettavamo a fine marzo. Oggi il numero totale dei positivi è salito di sole 355 unità a 106.962: l’incremento minore dal 3 marzo, grazie anche al massimo finora raggiunto dal numero di guariti giornalieri (+2.563), ma sono comunque 10mila unità più del picco che prevedevamo solo la scorsa settimana.

Ma ormai su questi numeri l’attenzione si è molto ridotta, sia per le note metodologie già più volte discusse (e riassunte in questi due articoli del Post), sia per l’allentata pressione sul sistema sanitario nazionale, in particolare con una riduzione del tasso di occupazione delle terapie intensive dal 65% di inizio aprile a circa la metà negli ultimi giorni (37%).

Sulla validità, attendibilità, utilità o credibilità dei dati si sono aggiunti negli ultimi giorni questo commento di Francesco Costa e questo post di Luca Sofri che riprende uno studio di alcuni astrofisici che stanno seguendo l’evoluzione statistica dell’epidemia, e che hanno trovato per primi una spiegazione allo strano andamento ondulatorio della discesa del numero di contagi giornalieri: evitando spoiler per rovinarvi il gusto della scoperta, anticipiamo qui che i «picchi» visibili nella prima delle immagini qui sopra sono distanziati di… 7 giorni.

Tutto sommato, che fosse una farsa avevamo iniziato a sospettarlo già dopo la prima settimana di quarantena.

Ma a proposito di farsa guardiamo cosa sta succedendo nel mondo. Ovvero: 2.223.240 casi totali e 152.328 vittime. Gli USA hanno quasi raggiunto 700.000 casi e 37.000 vittime: i nuovi contagi continuano a crescere da giorni al ritmo di 30.000 al giorno, mentre la conta delle vittime ha visto il suo giorno più nero il 14 aprile, con oltre 6.000 decessi in ventiquattro ore. I numeri, come dimostra l’esperienza italiana, non devono trarre in inganno: gli Stati Uniti, fatte le debite proporzioni, si trovano più o meno dove eravamo noi a fine marzo; sono passate tre settimane e i casi sono continuati ad aumentare. Ma Donald Trump tira dritto per la sua strada e, spaventato da scenari economici sempre più foschi che difficilmente ne favorirebbero la rielezione (nell’ultimo mese sono state presentate 22 milioni di richieste per il sussidio di disoccupazione), ha deciso di andare allo scontro aperto con i governatori degli stati guidati dal Partito Democratico. Mentre lui dichiara di aver sospeso i finanziamenti alla World Health Organization, rea a suo dire di una cattiva gestione della crisi (ma in molti hanno riconosciuto nell’annuncio la solita strategia di Trump per sviare l’attenzione dalle sue responsabilità e dai suoi fallimenti), e propone un piano in 3 fasi per rimettere in moto l’economia, il governatore dello stato di New York Andrew Cuomo estende le misure restrittive fino al 14 maggio.

In Spagna i casi sono arrivati a 188.093, con 19.613 vittime. In Francia a 147.969, con 18.681 vittime. Nel Regno Unito 108.692, con 14.576 vittime, ma il 12 aprile il premier Boris Johnson ha lasciato l’ospedale in cui era ricoverato. In Germania, con 139.134 casi confermati, ci sono state appena 4.203 vittime. Il Portogallo si conferma al contrario una felice eccezione nel panorama del Vecchio Continente.

L’epidemia si diffonde anche in Turchia e Russia, inducendo il governo di Ankara a scarcerare 45.000 detenuti a rischio di contagio (ma non i «detenuti politici») e il presidente russo Vladimir Putin a una posizione inaspettatamente defilata nella gestione di una crisi la cui portata potrebbe essere già oggi più grave di quanto denunciano le cifre ufficiali (32.000 casi, meno di 300 vittime…).

Le autorità cinesi hanno rivisto al rialzo il numero di decessi avvenuti a Wuhan a causa della Covid-19: nella città focolaio della pandemia, ci sarebbero stati almeno 1.290 decessi in più rispetto alle stime originariamente diffuse dal governo. Il bilancio delle vittime sale così a 4.632.

La World Trade Organization nei giorni scorsi ha diffuso un rapporto in cui prospetta una contrazione del commercio mondiale compresa tra il 13 e il 32 per cento. Nel secondo semestre del 2020 gli scambi potrebbero ripartire limitando i danni; al contrario, se la crisi dovesse proseguire, si potrebbe avere un risollevamento dell’economia solo a partire dal 2021, con un ritorno al volume di scambi di… dieci anni fa. In entrambi gli scenari, l’impatto della pandemia sembra destinato a dimostrarsi peggiore della crisi del 2008.

Previsioni sul volume degli scambi commerciali mondiali; scenari a confronto con la serie storica (fonte: WTO, via Il Post).

E degli scenari bisognerebbe ricominciare seriamente a parlare anche in Italia. Le stime dell’impatto della crisi per il nostro paese peggiorano di settimana in settimana: se a marzo si parlava di un calo del PIL mediamente intorno al 5%, per il Fondo Monetario Internazionale adesso la crisi si tradurrà in una perdita del 9,1%. Non siamo soli: la Germania perderebbe circa il 7%, l’Eurozona nel suo insieme il 7,5%, gli Stati Uniti il 5,9%. Ma siamo sicuramente tra i più colpiti.

Non a caso l’altro giorno la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, intervenendo all’inizio dei lavori di una sessione plenaria straordinaria del Parlamento Europeo, ha rivolto delle scuse all’Italia per non aver fatto abbastanza nelle battute iniziali della crisi. Mentre sono in discussione le nuove misure per fronteggiare la pandemia e le sue conseguenze economiche, con i paesi europei schierati  tra un fronte più intransigente e uno più favorevole a una maggiore flessibilità, questa autocritica è sembrata un’apertura alle istanze del nostro paese… e, giusto per non smentirsi, poche ore dopo i nostri rappresentanti politici all’Europarlamento, senza distinzioni di schieramento, hanno offerto l’ennesima dimostrazione della grande coerenza e dell’amore che nutrono per il nostro Paese. A riprova del fatto che viviamo tutti in una farsa, non c’è altra spiegazione.

Inevitabilmente anche i tassi di disoccupazione aumenteranno dappertutto: dal 10 al 12,7% in Italia, con l’Eurozona al 10,4%. Mario Draghi, ex presidente della Banca Centrale Europea, ha ribadito che bisognerebbe spendere tutto il necessario per sostenere l’economia dei paesi in crisi durante la pandemia e qualcuno si è spinto a ipotizzare un «reddito di quarantena», che mette i brividi fin dalla definizione. Ma con un pizzico di coraggio in più si potrebbe provare a guardare un po’ oltre il nostro naso.

Si prevedono tempi di enormi stravolgimenti e la situazione è talmente incerta che mai come nelle ultime settimane think tank, comitati e risk office hanno elaborato scenari tanto contrapposti. Senza essercene accorti, invece del picco dei contagi potremmo in effetti esserci messi alle spalle il picco del petrolio (il cosiddetto picco di Hubbert, che prende il nome dal geofisico americano Marion King Hubbert), che diversi studi prevedevano per questo decennio (e alcuni per il 2023), e che invece potrebbe esserci stato nel 2019. En passant, la curva di Hubbert (che altro non è che la derivata della funzione logistica o sigmoidale che sappiamo approssimare bene l’andamento dei casi totali) è proprio la funzione adottata nei modelli usati per descrivere l’andamento dei nuovi contagi giornalieri (l’andamento qui sotto è tratto per esempio dal post del 31 marzo).

Scenario_E2_casi_giornalieri_2020-03-31

Per accelerare la ripresa, paesi come la Cina potrebbero decidere di puntare sulla costruzione di nuove centrali a carbone, vanificando i benefici indirettamente comportati dal lockdown in termini di emissioni inquinanti.

Probabilmente con i settori dell’auto e dei trasporti aerei che riporteranno le perdite più gravi a causa della pandemia (e almeno per il trasporto aereo sembra davvero poco plausibile un rilancio nei prossimi mesi) e con il mercato dell’energia che si accinge ad accelerare i tempi di una transizione epocale, potrebbe essere arrivato il momento per rivedere l’intero modello di business su cui si reggono le nostre società occidentali. Ovviamente è presto per parlare di cambiamenti che potrebbero diventare effettivi solo sul medio-lungo periodo, come per esempio la riprogettazione del settore dell’energia, ma i piani decennali che alcuni paesi hanno già avviato potrebbero venire accelerati. Allo stesso tempo, gli effetti della pandemia potrebbero finire per mostrare anche ai più scettici i vantaggi di un sistema sanitario centralizzato o almeno coordinato centralmente e la necessità di  un piano di assistenza medica gratuita universale. Spingendoci ancora un po’ oltre, allora, con milioni di posti di lavoro che andranno in fumo prima che se ne possano creare di nuovi, probabilmente in settori diversi, è ancora così balzana la prospettiva di un reddito universale di base che non sia la ridicola parodia messa in piedi dal M5S in Italia?

Non lo so, ma sugli scenari torneremo sicuramente nei prossimi giorni. Intanto, una chiosa sull’Italia. Il governatore della Campania Vincenzo De Luca si è detto pronto a chiudere i confini della regione se i suoi colleghi dovessero allentare le misure di sicurezza attualmente previste dal governo, con il rischio di una ripresa dei contagi a livello nazionale. Come qualcuno faceva notare, non è una prospettiva molto distante da qualcosa che capitava nelle pagine di Corpi spenti. La realtà potrebbe solo essere arrivata con quei 40 anni di anticipo, per non farci mancare ancora una volta niente. Nemmeno in tempi di pandemia.

Il feeling positivo ispirato dalle notizie di ieri è ripreso in serata, dopo che l’alba ci aveva consegnato un altro triste risveglio. Il tempo di confrontarsi con le notizie provenienti dal resto del mondo: oltre un miliardo di persone costrette nelle loro case in tutto il mondo, la curva dei contagi negli USA che schizza vertiginosamente verso l’alto (i casi sono cresciuti di dieci volte in meno di una settimana, e dopo essere arrivati ieri oltre i 30mila, oggi sono saliti ulteriormente a quasi 42mila con 500 vittime: al 21esimo giorno dell’emergenza, in Italia eravamo a metà dei casi…), le scene dagli ospedali spagnoli assiepati di malati in attesa di un posto letto e la vicepremier Carmen Calvo ricoverata per un’infezione respiratoria. Il sindaco di New York Bill de Blasio ha dichiarato di aspettarsi «un mese di aprile peggiore di quello di marzo, e un mese di maggio ancora peggiore» e ha avviato i lavori per trasformare un centro congressi in un ospedale da mille posti letto.

In Italia il mezzo pasticcio sulle chiusure delle attività produttive non essenziali propiziato dal caos istituzionale tra governo centrale e regioni, in cui s’inserisce un nuovo scontro tra Confindustria e sindacati, che annunciano scioperi nelle regioni del Nord.

La situazione al Sud è altrettanto tesa: Basilicata e Calabria hanno annunciato la chiusura dei loro confini regionali. I sindaci dei comuni dell’alta Calabria hanno chiesto al prefetto di Cosenza l’autorizzazione a istituire check point con l’aiuto di agenzie private sulle strade di accesso alla ragione. Mentre il governatore della Sicilia e il sindaco di Messina denunciano sbarchi non autorizzati dalla Calabria.

Il numero degli operatori sanitari contagiati è salito a 4.824, il doppio rispetto alla Cina.

I contagi nel mondo sono saliti a 375.000 casi, con 16.000 vittime (10.000 solo in Europa) e più di 12.000 ricoverati in condizioni critiche. In Italia la curva dei nuovi contagi segna un valore in riduzione per il secondo giorno di fila, con 50.418 casi attivi e 63.927 totali, ma rimandiamo ai prossimi giorni ulteriori considerazioni sulla curva. Intanto la provincia di Milano sembra aver frenato, ma le regioni del Sud stanno per diventare le osservate speciali per capire come evolverà la crisi.

In serata il premier britannico Johnson ha completato la svolta a U cominciata lunedì scorso e ha annunciato severe misure di contenimento, confrontabili con quelle adottate in Italia: chiusura degli esercizi commerciali non essenziali, forti restrizioni negli spostamenti, chiusura di biblioteche, parchi giochi e luoghi di culto, sospensione di battesimi e matrimoni. Prove tecniche di lockdown. La polizia avrà il potere di disperdere assembramenti e comminare multe anche molto salate. E il tutto durerà non meno di tre settimane. Ci sono volute più di trecento vittime per far cambiare idea a Johnson e ai suoi. È un duro bagno di realtà per chi aveva vaneggiato sul lasciar fare all’epidemia il suo corso.

Théodore Géricault, La zattera della Medusa (Louvre, 1819).

Oggi, come ricorda questo articolo sul Post, ricorre il 75simo anniversario della strage di Balvano, il più grave disastro ferroviario nella storia italiana e uno dei più gravi al mondo. Il contesto in cui maturò, l’Italia del 1944, che dopo l’armistizio dell’8 settembre era rimasta di fatto spaccata in due, con il sud sotto il controllo degli Alleati ma devastato dalla ritirata delle truppe nazifasciste, è ben descritto nell’articolo. Qui voglio ricordare la ricorrenza con un brano ispirato proprio dalla sciagura, estratto dal racconto Codice morto (Kipple Officina Libraria, 2013). Maggiori notizie, sul libro e sulle connessioni con quella storia, sul vecchio blog.

Avanzammo lungo la strada ferrata per tre giorni. Avevamo inciso dei segni sugli alberi per individuare il punto in cui il nostro sentiero di penetrazione aveva incrociato la ferrovia.

Per ragioni pratiche, finimmo per ricompattarci. Almeno per tre quarti.

Procedevamo in fila indiana, conservando sempre il contatto visivo: io in avanscoperta, Kramer al centro e il Bufo in retroguardia. L’ultimo quarto del gruppo di fuoco – lo sniper – continuava a seguirci dal suo sentiero parallelo, assicurandoci copertura.

Percorremmo quaranta chilometri, agevolati dalle condizioni regolari della nostra marcia, ma costretti ad affrontare anche le insidie di ponti e gallerie. Le gallerie, forse, furono la cosa peggiore della nostra avanzata. Fin dal primo attraversamento notammo strani rumori, ora striduli ora gravi, come lamenti e boati lontani. Ma ritenemmo di ascrivere quell’impressione alla suggestione e alla stanchezza. Quando i trafori cominciarono a svilupparsi in estensione, il Bufo ci fece notare come l’aria avesse un odore difficilmente definibile, se non per una punta di acidità. Decidemmo di ricorrere ai respiratori e proseguimmo.

Tuttavia, più andavamo avanti, più insistente e nitido si faceva il rumore, fino ad assumere le inquietanti sembianze di un coro di voci umane. Ero assillato da una domanda: poteva la natura della Zona raccogliere tutte le gallerie e le loro storie in un solo posto, come sembrava avere fatto per tutte le boscaglie e le guerriglie della storia dell’uomo? Comunque stessero le cose, ogni galleria mi si presentava come una ennesima Galleria delle Armi, ogni singolo rumore come un frammento di voce o lamento in una richiesta corale d’aiuto proveniente dal treno 8017, dai suoi passeggeri sepolti vivi in attesa che una Spoon River dei poveri venisse composta e recitata per loro.

Ricordavo il monumento che da bambino mio nonno mi aveva condotto a visitare, nel cimitero di Balvano. Il tempio del treno di luce, mi pare si chiamasse, fin dal nome riusciva a evocare uno scenario surreale. Lo aveva fatto costruire, mi aveva spiegato il nonno, un uomo che su quel treno, inghiottito nella fuliggine della Seconda Guerra Mondiale, aveva perso il padre e il fratello. A sorprendermi, quella volta, fu la visione dell’affresco che ricostruiva la tragedia sulla volta della cappella, un dipinto che parve quasi prendere vita sotto i miei occhi al suono delle parole del nonno che mi raccontava di come più di cinquecento persone avessero perso la vita, una gelida notte di marzo del 1944, in una strage dimenticata che era rimasta la peggiore sciagura ferroviaria nella storia italiana. Il numero esatto delle vittime restava un mistero, anche dopo che anni di inchieste erano riusciti a ricostruire ciò che era accaduto in quella galleria maledetta tra le stazioni di Balvano e Bella-Muro. Più di cinquecento, non faceva altro che ripetermi il nonno. E già da bambino quel numero mi impressionava almeno quanto il dipinto di Giuseppe Beato di Portici, colpendomi con le proporzioni del dramma che doveva aver rappresentato quell’episodio, nel dramma di portata più vasta della guerra.

E adesso mi sembrava di sentirle, le voci dei martiri imprigionati in un limbo di disperazione e oblio.

Ci facemmo strada in budelli lunghi anche due chilometri, superando pendenze degne di una tappa alpina del Giro d’Italia. La tattica era di mandare sempre me in ricognizione, e poi procedere a segnalazioni luminose per dare il via libera al resto del gruppo.

Ponti e gallerie erano anche i tratti in cui Natali era obbligato a ricongiungersi a noi, ma continuava a conservare sempre il suo distacco: si guardava le spalle come se il gruppo in sua presenza fosse più vulnerabile, cosa che non mi sarei sentito di discutere.

Fu dopo l’ennesima galleria che, il terzo giorno lungo i binari, ci imbattemmo nella prima stazione. Non aveva niente da spartire con gli edifici familiari del sistema ferroviario italiano. L’architettura recava un’impronta aliena e combinava pietra e legno, materiali di cui v’era abbondanza nei paraggi. Ma non mancavano plastiche e leghe di non agevole definizione, che potevano essere state trasportate fin laggiù sulla strada ferrata. Dimensioni e disposizioni di piani e angoli infittivano il mistero, del tutto incompatibili con gli standard a cui siamo abituati.

Ci assicurammo che l’edificio non fosse presidiato, ma al suo interno non trovammo niente di utile. Solo degli ambienti che avrebbero potuto servire da sale di attesa e qualche automatismo meccanico per la selezione e lo smistamento delle merci. Poi nient’altro.

Si prospettava la necessità di prendere una nuova decisione.

– Cosa ne pensate? – s’informò il Bufo.

– Una stazione di transito – dissi. – Deve esserci un insediamento, nei dintorni.

– Oppure potrebbe essere solo un impianto di servizio – mi contraddisse Kramer.

– È possibile – ammisi.

Ma ci trovammo d’accordo sul tentare una ricognizione nei paraggi prima di riprendere la marcia.

Donato Speroni ha messo a disposizione (ormai da un mesetto), sul blog che cura per il Corriere della Sera, un semplice tool che si rivela utilissimo per prefigurare gli scenari sociali, politici ed economici del futuro. Basandosi su ipotesi relative all’evolversi della situazione mondiale (verso un esito più o meno sostenibile dell’attuale tempesta perfetta che stiamo attraversando), continentale (un’Europa forte e unita oppure ancora più in crisi di identità di quanto non sia oggi) e nazionale (superamento della crisi, o affondamento), ha elaborato 8 scenari che vanno dal “migliore dei mondi possibili” (e forse il più improbabile) al worst case del “si salvi chi può”. Ognuno può farsi la sua previsione, rispondendo ai seguenti quesiti con il grado di confidenza che si sente di attribuire a ciascuna affermazione:

  1. Nel Mondo, la tendenza verso una progressiva ingovernabilità dei fenomeni globali verrà corretta dagli accordi tra gli Stati?
  2. L’Europa riuscirà a darsi forme di governo più efficienti che consentano a questo continente di affrontare adeguatamente le sfide del futuro?
  3. L’Italia riuscirà a correggere i suoi mali collettivi e a diventare un Paese più unito, più onesto e più giusto, tutelando il benessere collettivo?

Come suggerisce lo stesso Speroni, si tratta di un giochino valido più che altro per “aiutare a riflettere sul futuro”, e per questo vi invito a provarlo.

Con la mia combinazione (30% di probabilità alla prima, 60% alla seconda e un più che  generoso 20% alla terza), gli scenari meno probabili sono risultati i primi due, in cui l’Italia abbraccia, con o senza Europa, la sfida mondiale di uno sviluppo inclusivo e sostenibile, aprendosi a una nuova fase di benessere e prospettive per il futuro. Insieme, raccolgono circa il 6%. Gli scenari che sono risultati più probabili sono al contrario quelli più pessimisti, in cui l’Italia naufraga, che assommano a un abbondante 56%: per la precisione 22,4% per l’ottavo, il peggiore in assoluto, e 33,6% per il settimo, che prefigura un’Europa a due velocità, che salva il salvabile dell’Italia, mettendolo sotto assistenza controllata, e abbandona il resto. Bassitalia sprofonda con la Grecia e la Spagna nel caos del Mediterraneo. E chi ha letto Corpi spenti non dovrebbe restare particolarmente sorpreso, né impressionato.

Cyberpunk_City_02

Altri scenari potrete trovarli su io9, grazie a questa panoramica di George Dvorsky, al motto di “you won’t see it coming“. In bocca al lupo!

Sul Napolista domenicale trovate l’ultima parte del racconto dedicato alle vicissitudini partenopee della stagione 2034-35. Buona lettura!

IlNapolista_12-10-2014

Il Napolista, web magazine di informazione e analisi politico-calcistica, pubblica oggi la prima parte (di due) di un mio racconto di fantasport, sulla memorabile annata 2034-2035 della SSC Napoli. Per leggerlo cliccate qui sotto. Buon divertimento!

Napolista-8-10-2014

Qualche giorno fa è stato pubblicato il dossier del comitato promotore per Matera Capitale Europea della Cultura 2019 e l’offerta preparata dagli organizzatori si è rivelata ricca di sorprese. Fin dall’annuncio della sua candidatura nutro – per ragioni affettive – forti speranze sulla capacità di Matera di rivestire questo ruolo, ma è stato comunque fonte di stupore ritrovare nel progetto così tanti punti di affinità con la mia visione della cultura e dello sviluppo territoriale. Qualche esempio? Eccovi alcuni passaggi, organizzati per aree tematiche:

1. Futuro Remoto: […] una riflessione sul nostro rapporto millenario con lo spazio e le stelle che, ripercorrendo i passi di uno dei residenti più illustri della regione, Pitagora, esplora l’antica bellezza universale della matematica; al tempo stesso, analizzeremo le infinite possibilità dei futuri remoti, contemplando città volanti e ambientando in luoghi di suggestione spirituale (come le chiese rupestri) o cosmologica (come il Centro di Geodesia Spaziale) concerti sperimentali.

2. Continuità e Rotture: […] la città sta ancora cercando di venire a patti con la sua identità fisica, e come in molte altre città europee il suo rapporto con la modernità può dirsi conflittuale. […] Matera 2019 è un’occasione per considerare il tema dell’estrazione del petrolio in Basilicata come un’opportunità per interrogarci sul rapporto tra l’uomo e l’ambiente.

3. Utopie e Distopie: […] il tema “Utopie e Distopie” trasformerà Matera in un terreno su cui immaginare alternative possibili a realtà che diamo per scontate.

4. Radici e Percorsi: […] la Basilicata ha sempre rappresentato uno spazio di incontro e convergenza.

5. Riflessioni e Connessioni: Il programma intende provare che l’arte, la scienza e la pratica diffusa della cittadinanza culturale possono rappresentare in tutta Europa gli elementi catalizzatori di un nuovo, rivoluzionario modello di comunità, radicato nella “pratica della vita quotidiana”.

Questa tensione verso il futuro è sintetizzata anche nello slogan “Open Future“. Se non è fantascienza questa… Per me il 2019 è sempre stato l’anno di Blade Runner. Il 18 ottobre scopriremo se invece non possa diventare anche l’anno di Matera, capitale europea della cultura.

Matera

Intanto è bene che sappiate che sabato mattina 27 settembre, a partire dalle 11.15, sarò ospite proprio nella città dei Sassi con Donato Altomare (presidente della World Science Fiction Italia) dell’incontro Sud e Fantascienza, un futuro post cyberpunk, organizzato presso l’Istituto Tecnico Economico e Tecnologico Loperfido – Olivetti nell’ambito dell’XI edizione del Women’s Fiction Festival. Presenteremo Corpi spenti e parleremo di fantascienza, futuro, vita, universo e tutto il resto. A fare da ospite e moderare l’incontro con le classi dell’Istituto Tecnico e del Liceo Scientifico sarà con noi Filippo Radogna. Mi piace pensare che questo sia il nostro piccolo contributo fantascientifico alla road map tracciata verso il 2019, e tutti insieme ci auguriamo che possa non essere l’ultimo.

Prima di partire per le agognate vacanze e tirare un po’ il respiro (ad attenderci all’orizzonte c’è un caldo autunno sul fronte fantascientifico di Bassitalia… ve ne darò notizia al rientro!), ecco altre quattro recensioni fresche di pubblicazione.

Partiamo da Marco Milani, co-iniziatore del movimento connettivista, che sul suo blog dedica al mio libro le parole più lusinghiere che un autore (specie uno come me, che su quel film ha costruito la sua passione per la fantascienza) possa mai sperare di vedersi rivolgere sulla propria opera:

Lo so, è più forte di me e non sarò certo il primo a dirlo: penso a De Matteo e mi si smuove l’associazione con Blade Runner; se vado a Pi-Quadro (e adesso anche Corpi spenti) non riesco a non visualizzare Harrison Ford, impermeabile e cappello, camminare su un marciapiede sotto un centellinare costante di piogge acide. È già nel 2005 mi si era stagliata l’accoppiata De Matteo/Blade Runner come una coppia di fatto, quando approntammo a quattro mani il racconto “E se i replicanti sognano angeli elettrici…” finito poi l’anno successivo su Next n. 5.
Non intendo dire che De Matteo sia la versione ‘mediterranea’ di Philip K. Dick, anzi, potrei dirlo per sottintendere che è un bravo scrittore, ma non lo dico, perché nella variegata produzione del connettivista Giovanni “X” De Matteo vi è originalità, caparbietà scientifica, sci-fi personalizzata e ormai riconoscibile come un’impronta retinea via bioscanner.
[…]
La partenza è scioccante, poi l’indagine parte lenta con cambi di ritmo improvvisi. Gli sviluppi globali che seguono sono complessi, difficili a volte da seguire ma ‘doverosi’ e onesti nella loro configurazione, precisi poiché così deve essere. I personaggi sono diversamente, ognuno a sé, reali nella loro ‘vitalità’ letteraria da arrivare ad immaginarne le espressioni, condividerne pensieri e parole fino ad immedesimarsi, a volte addirittura a comprenderli, esagero, a livello di coscienza. Spunti e impennate narrative alla De Matteo, connettono ottimamente le varie anime della storia a forgiare, alla fine, un Unico oggetto perfetto denominato Corpi spenti.

Marco Milani, autoscatto con 'Corpi spenti'.

Marco Milani, autoscatto con ‘Corpi spenti’.

Un bilancio sostanzialmente positivo, con alcune riserve sullo stile e la fruibilità dell’intreccio, è anche quello stilato da Glauco Silvestri:

Pregi e difetti in questo Urania che vede per la seconda volta un’opera di De Matteo. L’ambientazione è sicuramente un pregio. Napoli, il Kipple, e il degrado di una società che ormai non ha più principi, sono il perfetto fondamento per la creazione di una vicenda. La costruzione dell’ambiente, della situazione socio-politica, e persino dello sviluppo tecnologico (che nel romanzo è mostrato come un mix tra tecnologie oggi conosciute e altre futuristiche) sono sicuramente un must del romanzo.
La storia, il plot della vicenda, ha poco a che fare con la fantascienza. E’ un romanzo noir di discreto spessore in cui compaiono poliziotti corrotti, poliziotti borderline con principi morali, gruppi rivoluzionari, una spia, complotti tra agenzie governative e multinazionali, prostituzione… la vicenda poteva essere tranquillamente ambientata negli anni di piombo e avrebbe retto senza problemi.
Si intravede un progetto più ampio… del resto già nel primo libro molti temi erano stati lasciati aperti. Non ho compreso però quello strano intermezzo alla Stargate ove alcuni astronauti ricostruiscono una sorta di portale trovato su un asteroide, per poi spedire chissà dove una bomba atomica.

Quanto sia legato all’Almanacco della Fantascienza lo sapete. Nell’edizione 2014, in edicola proprio in questi giorni, Ettore Mancino scrive:

AlmanaccoFantascienzaBonelli2014[…] è fresco di stampa il nuovo romanzo fanta-noir di Giovanni De Matteo, Corpi spenti, uscito su Urania. Il libro racconta nuove avventure della squadra Pi Greco, un corpo investigativo speciale che può interrogare i morti e risolvere così i casi più intricati. Ma, sullo sfondo delle operazioni di polizia, si delinea un disegno più grande, con il tentativo di destabilizzare definitivamente il nostro Paese. Una fetta del quale, del resto, sta per proclamare una specie di secessione guidata (e nossignore, non si tratta dell’Angry Nord, ma del disilluso, impoverito e infuocatissimo Sud). Grande affresco, ambizioso “novel” del futuro, intricato romanzo italiano: parafrasando un grande della sf come Thomas M. Disch, lo si sarebbe potuto ribattezzare Gomorra e dintorni e non è detto che Urania non lo faccia in una prossima edizione.

E per finire una ciliegina sulla torta. Dalle pagine di Fantascienza.com Giampaolo Rai dedica al romanzo parole di grande apprezzamento:

Corpi_spenti_Fcom

I sette anni intercorsi tra il primo e il secondo romanzo dedicato ai Necromanti non sono passati invano, Giovanni De Matteo ha compiuto un netto salto di qualità senza peraltro rinunciare ad alcune sue peculiarità, in primis il gioco delle citazioni. Citazioni che spuntano improvvise, in una testata giornalistica o in un modo di dire, scoprirle diventa un gioco intrigante quanto avanzare nell’intreccio della storia.
[…]
La sensazione è che De Matteo abbia solide radici nella fantascienza (e non solo) del passato e le usi per proietttarsi verso il futuro. L’interesse del romanzo non sta però nelle citazioni: ambientazione, personaggi e intreccio sono i veri punti di forza. La Napoli futura è una città violenta ma viva, al centro di trame oscure, tra residui di guerre fredde ma anche bollenti e forze misteriose che usano indifferentemente manovre sotterranee e terrore per raggiungere i propri scopi. A contrastare questi progetti criminosi gli agenti della π², stavolta tutti al centro della scena, ben caratterizzati e credibili; il mio preferito è Guzza, un detective cinico e duro, le sue indagini tra le spaziali sono le scene migliori del romanzo.
Lo stile è quello caratteristico di De Matteo, ricco e denso di informazioni su tecnologie e armi, con una vera e propria colonna sonora e un coinvolgimento intenso, richiede un certo grado di attenzione per seguire la vicenda ma ripaga con una sensazione di immersione notevole.
Un secondo capitolo superiore al primo, a Corpi spenti non è stato necessario vincere il Premio Urania (cosa peraltro impossibile per i vincitori del passato) per essere pubblicato, la sua miscela di diversi generi che formano un amalgama perfetto convince sin dalle prime pagine.

Meglio di così, insomma… E per il momento non potevo davvero immaginare un congedo migliore. Ne approfitto per ringraziare ancora una volta tutti i lettori, i colleghi, gli appassionati, gli amici, che hanno apprezzato il romanzo e hanno voluto farmi avere le loro impressioni di lettura. Per me sono tutti feedback preziosi, quindi grazie per il tempo e l’attenzione che avete voluto dedicarmi. Intanto buone ferie a tutti, torneremo a leggerci presto su queste stesse frequenze…

Stay tuned, cyberspace cowboys!

PS: Una segnalazione in extremis! Da oggi anche Lanfranco Fabriani, plurilaureato Premio Urania con cui ho avuto il piacere di collaborare, ha aperto un blog. Lo trovate, come c’era da aspettarsi, lungo i vicoli del tempo!

Con l’inizio della crisi in cui ancora ci dimeniamo per non annegare, il 2008 ha segnato uno spartiacque nella vita di ognuno di noi. Nel 2009, per la prima volta dal dopoguerra il PIL mondiale è caduto e per la prima volta dal 1982 il volume degli scambi commerciali si è contratto. Ciascuno nell’ambito del proprio vissuto, possiamo tutti riconoscere uno scarto del mondo in cui viviamo rispetto a quello precedente. Il potere di acquisto è crollato e la disoccupazione ha sfondato tetti che avrebbero potuto essere alti la metà per risultare già preoccupanti.

In Italia l’immobilismo politico dei nostri rappresentanti eletti (ma anche del nostro governo designato) non lascia presagire niente di buono per il prossimo futuro. Malgrado i ripetuti inviti all’ottimismo, gli annunci del governo vanno costantemente disattesi. Per di più, mi sembra che negli ultimi tempi, grosso modo proprio dall’insediamento di Matteo Renzi, ci sia stata una generale disattenzione da parte degli organi di informazione su tre problemi che difficilmente riusciranno a essere risolti con le politiche di procrastinazione in corso:

  1. La disoccupazione giovanile, che ha raggiunto a marzo quota 42,7%, contro una media europea di 23,7%, e ad aprile è salita al 43,2%, mentre nel resto d’Europa si attestava al 23,5% (con la Germania al 7,9% e l’Austria al 9,5%). Ormai non è più che stiamo bruciando una generazione: abbiamo già bruciato una generazione, che porterà le cicatrici addosso nei prossimi decenni, e con cui tutti dovremo fare i conti.
  2. Il divario tra esportazioni e domanda interna ha concesso in questi anni un po’ di ossigeno all’economia italiana. A fronte di un mercato interno generalmente depresso e di importazioni in calo del 10% nel solo biennio 2012-2013, le esportazioni hanno continuato a crescere fino ad agosto 2012 per poi attestarsi su livelli compressi tra i 32 e i 33 miliardi di euro di valore mensile. Significativo il dato del settore dell’automazione, che malgrado la forza dell’euro ha fatto registrare una crescita costante, dimostrando come il made in Italy non sia circoscritto all’alimentazione e all’abbigliamento, ma abbia anche qualcosa da offrire al campo della tecnologia. D’altro canto, il mercato interno non dà segni di ripresa, e in assenza di investimenti difficilmente riuscirà a risollevarsi. E sugli investimenti grava anche la forte incertezza legata a provvedimenti governativi quanto meno discutibili. [Solo sei mesi fa il premier in carica Enrico Letta poteva tornarsene raggiante dal Kuwait dopo aver strappato al fondo sovrano una promessa di investimenti nella Cdp per 500 milioni di euro (a fronte dei 1.600 miliardi di spesa potenziale che il paese del Golfo effettuerà nell’arco di quest’anno: detto in altre parole, l’Italia si era aggiudicata 31 centesimi per ogni 1.000 euro che il fondo avrebbe investito all’estero, e il nostro primo ministro festeggiava…) attirandosi gli improperi di Confindustria e Unimpresa e suscitando lo scherno di Repubblica. Stampa e associazioni delle imprese si sono rivelate tuttavia molto più benevole verso il suo erede, quando Renzi ha fatto passare il cosiddetto “decreto spalma-incentivi”, pubblicato in Gazzetta il 24-6-2014, destando l’allarme degli investitori stranieri e il sollevamento dell’intero comparto delle rinnovabili (che con l’indotto conta almeno 100.000 posti di lavoro) e finendo poi incagliato (notizia degli ultimi giorni) in Commissione Bilancio al Senato.] Come se non bastasse, l’Italia si ritrova a fare i conti ogni anno con la tara endemica della corruzione (10 miliardi di euro l’impatto sul PIL, secondo le stime più ottimistiche), della criminalità organizzata (arrivata a gestire un volume d’affari di oltre 100 miliardi di euro all’anno, con un impatto del 7% sul PIL) e dell’evasione fiscale (180 miliardi di euro, secondo uno studio commissionato lo scorso anno dal gruppo S&D del Parlamento Europeo). Senza contare le inefficienze di sistema, gli sprechi, etc., che oltre a un impatto reale sul prodotto interno contribuiscono a rendere meno agevole la vita delle persone, proprio nell’erogazione di quei servizi per cui annualmente offriamo in tasse il nostro contributo all’amministrazione dello Stato.
  3. Il crollo del Mezzogiorno prelude al baratro in cui sta scivolando l’Italia. Può essere comodo fornire i dati aggregati a livello di Paese, specie quando aiuta a mascherare le sue debolezze interne. Ma ancora una volta la semplificazione nasconde una realtà impietosa. Il rapporto della Banca d’Italia sulle Economie Regionali nel 2013 ci offre una fotografia della situazione e il quadro che ne emerge è atroce. Dal 2007 al 2013 il PIL è sceso del 7,1% in Italia e di ben il 13,5% nel Mezzogiorno. Dall’inizio della crisi, inoltre, le regioni meridionali sono le uniche ad aver registrato sempre il segno negativo nell’andamento del PIL: nemmeno l’illusione di una ripresa effimera registrata nel resto del Paese tra il 2010 e il 2011 ha alleviato le pene del Sud, che nel biennio 2012-2013 ha toccato il massimo della flessione con un netto e inappellabile -4%. Dal 2007 il Sud ha bruciato 43,7 miliardi di euro di PIL e 600.000 posti di lavoroLa metà dei posti di lavoro persi in Italia in questi sei anni è andata persa a Sud.

Insomma, non è che non se ne parli, ma nel migliore dei casi si tratta di notizie frammentarie, con dati forniti in quadri ipotetici di ripresa le cui fondamenta finiscono poi sempre per rivelarsi intrinsecamente fragili. Il governo Renzi gode, se non proprio di un endorsement, almeno di un credito fiduciario da parte dei principali organi d’informazione italiani (per non dire tutti), che consente di fornire cifre solo in una prospettiva comunemente accettabile. Come sia stato possibile imporre questo armistizio resta al momento dominio di speculazioni e sospetti, e forse non arriveremo mai a scoprirlo, ma non è di questo che voglio parlare.

I problemi vanno affrontati alla radice. Vi invito quindi a fare un passo indietro con me e tornare a inquadrare la situazione globale, su un intervallo storico più ampio. Il grafico qui in basso mostra l’andamento degli indicatori di produttività (in rosso) e occupazione (in blu) sul periodo 1947-2010. Le due curve procedono appaiate fino alla fine del secolo scorso. Da qualche parte intorno all’anno 2000 accade invece quello che Erik Brynjolfsson, docente alla Sloan School of Management del MIT, e il suo assistente Andrew McAfee hanno definito the Great Decoupling, vale a dire: il Grande Disaccoppiamento.

Employment-and-Productivity-Growth-1947-2012

Il Grande Disaccoppiamento non invertirà la marcia, per il semplice motivo che i progressi nelle tecnologie dell’informazione non sembrano destinati a fermarsi. Sembra anzi che stiano accelerando. E potrebbe essere questa la buona notizia per la società. Il progresso tecnologico riduce i costi, migliora la qualità e ci proietta in un mondo in cui l’abbondanza diventa la norma.

Ma non esiste una legge economica che assicuri dal progresso benefici equamente distribuiti per tutti. Mentre la tecnologia scatta in avanti, potrebbe lasciarsi indietro molti lavoratori. Sulla breve distanza possiamo migliorare le loro prospettive principalmente investendo sulle infrastrutture, riformando la scuola ad ogni livello e incoraggiando gli imprenditori a inventare nuovi prodotti, servizi e industrie per creare nuove professioni.

Ma mentre facciamo questo, dobbiamo comunque iniziare a prepararci per una economia alimentata dalla tecnologia ancora più produttiva, che potrebbe non richiedere un grande apporto di lavoro umano. Progettare una società in salute compatibile con questa economia sarà la grande sfida, e la grande opportunità, della prossima generazione.

Dobbiamo riconoscere che la vecchia tendenza degli indicatori strettamente accoppiati è giunta a termine, e cominciare a pensare su come vorremmo che fosse la nuova tendenza.

Fino ad oggi abbiamo vissuto in una società basata sulla scarsità di risorse, ci ricordano Brynjolfsson e McAfee. È stato questo principio ad aver modellato l’economia su cui si regge il mondo in cui viviamo. Ma questo mondo potrebbe essere ormai giunto al crepuscolo. È impensabile continuare a ragionare secondo i vecchi schemi e modelli. La società sta cambiando inesorabilmente sotto la spinta delle forze della tecnologia, e le stesse forze stanno rimodellando il mondo della produzione. Per uscire dalla crisi potrebbe essere necessario cominciare a pensare secondo nuovi schemi di pensiero. O se non altro potrebbe risultare utile.

Un cambiamento di paradigma.

(fine prima parte – continua)

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Neppure di fronte all'Apocalisse. Nessun compromesso. -- Rorschach (Alan Moore, Watchmen)

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Mi chiamo Giovanni De Matteo, per gli amici X. Nel 2004 sono stato tra gli iniziatori del connettivismo. Leggo e guardo quel che posso, e se riesco poi ne scrivo. Mi occupo soprattutto di fantascienza e generi contigui. Mi piace sondare il futuro attraverso le lenti della scienza e della tecnologia.
Il mio ultimo romanzo è Karma City Blues.

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