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Finora conoscevo Mark Fisher solo indirettamente, ovvero attraverso qualche estratto delle sue opere, le sue interviste e le cose che altri scrivevano su di lui. Critico culturale, teorico politico e sottile pensatore, dopo essersi suicidato a nemmeno cinquant’anni il 13 gennaio 2017, Fisher è progressivamente e regolarmente approdato con i suoi scritti anche qui da noi, grazie a Not che ne ha pubblicato il manifesto politico (Realismo Capitalista) e a Minimum Fax che si è impegnata nella pubblicazione sistematica dei suoi scritti. Grazie a questa attenzione, ho potuto accumulare nel frattempo diverse sue opere in casa, e negli ultimi giorni, approfittando dello spiacevole imprevisto di un autoisolamento domestico, ho cominciato ad andare oltre il semplice e distratto sfogliare quelle pagine. Che fin da subito hanno iniziato a chiudere spettrali risonanze con alcune riflessioni con cui da qualche mese mi sto dilettando (per esempio: in questo e in quest’altro post a tema nostalgia).
Per la precisione, sono bastate poco più di quindici pagine di Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti (Minimum Fax, traduzione di Vincenzo Perna, 2019), per ritrovare concetti su cui mi arrovellavo senza trovare una quadra. Nel primo scritto di questa raccolta, che s’intitola programmaticamente «La lenta cancellazione del futuro», Fisher parte dall’episodio finale di Zaffiro e Acciaio, serie di culto della TV britannica trasmessa tra il 1979 e il 1982, per approdare alla definizione del titolo, ripresa da una riflessione di Franco Bifo Berardi:
Eternamente sospesi, prigionieri senza fine, bloccati oer sempre in una situazione e con un’origine mai pienamente chiarite: la segregazione di Sapphire e Steel in quel vecchio caffè nel mezzo del nulla appare profetica di una condizione più generale, in cui la vita continua ma il tempo si è in qualche modo fermato.[…] L’ipotesi di questo libro è che la cultura del ventunesimo secolo sia caratterizzata dallo stesso anacronismo e dalla stessa inerzia che affliggono Sapphire e Steel nella loro missione finale. Ma che tale stasi sia stata sotterrata, sepolta sotto una superficiale frenesia di «novità», di movimento perpetuo. Lo «scompaginamento del tempo», l’assemblaggio di ere precedenti, ha ormai cessato di meritare qualsiasi commento: oggi è talmente diffuso da non essere neppure notato. [pag. 17]
La riflessione di Fisher sgombra subito il campo dalla fin troppo facile identificazione con la nostalgia dei vecchi che rifiutano il nuovo, perché non è di quello che stiamo parlando. In effetti, Fisher si dice piuttosto allarmato dalla persistenza di schemi, modelli e forme perfettamente riconoscibili e riconducibili al passato, in un contesto che rende superflua qualsiasi etichetta di retromania a causa dell’assenza stessa di un’idea del futuro, o anche solo di un gusto ben definito nel presente, a cui contrapporre qualsivoglia processo di retrospezione. E questo accade tanto in ambito musicale quanto cinematografico, al punto da acquisire una rilevanza culturale tout court.
Richiamando la definizione del critico letterario e teorico politico statunitense Fredric Jameson e i suoi studi sul postmodernismo e la società dei consumi, Fisher parla di «modalità nostalgica»: in altre parole, non la nostalgia psicologica che ritroviamo negli scritti degli autori modernisti (Joyce, Proust) coi loro “ingegnosi esercizi per ritrovare il tempo perduto“, bensì “un’adesione formale alle tecniche e alle formule del passato, una conseguenza della rinuncia alla sfida modernista di innovare le forme culturali adeguandole all’esperienza contemporanea“.
È interessante vedere come questa critica si salda, in Fisher, con la dimensione sociopolitica e l’analisi storica tipica delle sue riflessioni, anche qui chiudendo un cortocircuito con la disamina dei meccanismi di alienazione del tempo che andavamo investigando a proposito dell’unica vera dittatura che dovremmo aver imparato a conoscere, quella della cronofagia:
Non è vero che nel periodo in cui ha preso piede la lenta cancellazione del futuro non è accaduto nulla. Al contrario, questi trent’anni sono stati un periodo di massiccio e traumatico cambiamento. In Gran Bretagna l’elezione di Margaret Thatcher ha messo fine ai precari compromessi del cosiddetto consenso sociale postbellico. Il programma politico neoliberale della Thatcher è stato supportato da una ristrutturazione transnazionale dell’economia capitalistica. Il passaggio al cosiddetto post-fordismo – con la globalizzazione, l’onnipresente computerizzazione e la precarizzazione del lavoro – ha prodotto una completa trasformazione del modo in cui in precedenza erano organizzati lavoro e tempo libero. Negli ultimi dieci o quindici anni, intanto, internet e le tecnologie di telecomunicazioni mobili hanno completamente modificato la trama dell’esperienza quotidiana. Eppure, e forse proprio a causa di ciò, proviamo la crescente sensazione che la cultura abbia perso la capacità di cogliere e articolare il presente. O forse, in un particolare senso molto importante, sentiamo che ormai non esiste più nessun presente da cogliere e articolare. [pag. 20-21]
La modalità nostalgica individuata da Jameson e Fisher si esprime attraverso la “rinuncia a ogni esplicito riferimento al passato” e “un profondo struggimento nei confronti di una forma del passato“. Si tratta di un meccanismo anche identificativo che ha portato al successo planetario di franchise come Star Wars, ma che potremmo senza fatica intercettare anche alla base della recente travolgente ondata dei film di supereroi (prima o poi ci torneremo).
Ed è qui che fa la sua comparsa folgorante un termine che abbiamo usato, in tempi non sospetti, sebbene con una valenza estremamente specifica, anche da queste parti:
Se il periodo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta ha rappresentato il momento in cui si è avvertita per la prima volta l’attuale crisi della temporalità culturale, è stato soltanto nella prima decade del ventunesimo secolo che si è rivelata endemica quella che Simon Reynolds ha definito «discronia». Mentre tale discronia e disgiunzione temporale dovrebbero in teoria risultare perturbanti, il predominio di ciò che Reynolds definisce «retromania» significa invece che esse hanno perso qualsiasi carica di tale tipo: l’anacronismo viene oggi dato per scontato. Il postmodernismo di Jameson – con le sue propensioni alla retrospezione e al pastiche – è ormai naturalizzato. [pag. 27]
Siamo ancora all’inizio di questo viaggio, ma la discesa nel pensiero di Fisher già si annuncia ricca di scoperte.
L’antologia è lì fuori da poco più di tre mesi e mi rendo conto di non averne ancora parlato. Quindi direi che è arrivato il momento di rimediare.
La sindrome di Kessler e altri racconti è un campionario della mia scrittura dal 2004 al 2020. Mancano una manciata di titoli che mi sarebbe piaciuto includere, ma o per questione di diritti (è il caso di Al servizio di un oscuro potere, uscito lo scorso anno sul Millemondi dedicato alla distopia), o per la prospettiva di progetti antologici a tema (La vita nel tempo delle ombre, Orizzonte degli eventi e Vanishing Point), o per entrambe le ragioni (Maja, Il lungo ritorno di Grigorij Volkolak, Sulle ali della notte), sono rimaste fuori da questa raccolta. Per il resto, il volume, che include 28 racconti e conta la bellezza di 490 pagine, offre tutto il meglio di quello che mi è riuscito di scrivere in questo intervallo di tempo, dopo i primi timidi tentativi del 2003, e prima dell’ultimo anno che vedrà comunque uscire almeno una novità da qui a fine mese.
Il lettore più attento ci troverà molte storie che probabilmente già conosce, in particolare i racconti vincitori di premi (Viaggio ai confini della notte e Red Dust), i racconti ospitati da Robot (Cloudbuster) o Next/Next-Station (SIN: Stati Indotti di Narcolessia) o i microracconti usciti in precedenza sul blog (Novilunio, Orfani del cielo, Civiltà di prova), ma tutti sono passati sotto le amorevoli cure dell’accetta dell’editor, ed essendo trascorsi in alcuni casi più di quindici anni dalla loro precedente apparizione l’intervento è stato tutt’altro che indolore. Per tutti, ci saranno comunque delle sorprese, a cominciare da un inedito assoluto (Ruggine), sviluppato come tassello di un più ampio progetto steampunk su un’Italia fin de siècle alternativa che purtroppo, per varie vicissitudini editoriali, non ha mai visto la luce.
Organizzate tematicamente in sezioni, queste storie esplorano la frontiera tra connettivismo e cyberpunk (Connessioni) o tra postumanesimo ed esplorazione spaziale (Transizioni), oppure si addentrano in diversi filoni della letteratura di fantascienza, dall’ucronia al viaggio nel tempo al New Weird (Deviazioni), dalla discronia alla letteratura ricorsiva (Mutazioni). Completano il volume cinque racconti-bonsai che si spingono ai limiti del conte philosophique (Iterazioni). Insomma, rappresentano uno spaccato davvero eterogeneo rappresentativo credo non solo della mia scrittura, ma più in generale delle molteplici anime che convivono in questo calderone così difficile da definire che tutti sappiamo essere la fantascienza.
Anche per questo motivo, ogni racconto è preceduto da un’introduzione scritta ad hoc per inquadrarne il background: ho voluto in questo modo omaggiare i miei maestri e le mie fonti di ispirazione, e inoltre fornire ai lettori nuove coordinate per tracciare eventuali nuovi percorsi di lettura, che spesso finiscono per sconfinare fuori dal genere.
Il libro è uscito per Kipple Officina Libraria con una prefazione di Linda De Santi. La copertina è di Franco Brambilla. Se avete altre domande, lo spazio dei commenti è a vostra disposizione.
Tre mesi dopo esco dal cono d’ombra e il libro che annunciavo prima dell’ultimo silenzio radio è finalmente qui di fianco a me – e fa una certa impressione.
Nelle sue quasi 500 pagine sono condensati diciotto anni di racconti, spaziando dalla vena cyberpunk che esploro fin dal lontano 2003 ad ambientazioni interplanetarie, dal viaggio nel tempo alla discronia, dalle frontiere del postumanesimo alla fan fiction, fino ai racconti-bonsai che da qualche tempo mi diverto occasionalmente a scrivere per questo blog o per altre testate.
Non credo di esagerare sostenendo che è un libro che mette un punto a due decenni scarsi di scrittura. Anche se non vengono presentati in ordine cronologico, essendo il libro organizzato tematicamente in cinque sezioni (Connessioni, Deviazioni, Transizioni, Mutazioni, Iterazioni), i racconti sono preceduti da una introduzione e completati da notizie bibliografiche che aiuteranno il lettore interessato a inquadrarli meglio in relazione l’uno all’altro, o al piano più generale del discorso che attraverso di essi mi prefiggevo di volta in volta di portare avanti.
Il libro sarà acquistabile dal 30 agosto online e nelle librerie servite da Kipple, oltre che l’11 e il 12 settembre a Stranimondi, dove in qualche modo lo presenteremo ufficialmente. Se non finirò nuovamente risucchiato da un infundibolo cronosinclastico, è possibile che nei prossimi giorni vi dica qualcosa di più. Come vedete dalla splendida copertina, vent’anni di scrittura sarebbero valsi la pena già solo per potermi fregiare – ancora una volta – di una illustrazione di Franco Brambilla e – per la prima volta! – di una prefazione di Linda De Santi, che qui ringrazio pubblicamente.
Seconda segnalazione robotica in meno di una settimana, per annunciarvi che è uscito il numero 90 della leggendaria rivista di fantascienza fondata da Vittorio Curtoni e attualmente diretta da Silvio Sosio, e che tra le sue pagine ha trovato in extremis confortevole asilo anche il mio articolo-moloch sullo sviluppo semiotico dell’utopia. Perché se è vero che il blog è impermanente per definizione, come tutto quello che è codificato in pacchetti di bit in un server oceanico da qualche parte, le pagine di Robot sono per sempre.
La droga produce la formula di base del virus del «male»: l’Algebra del Bisogno. La faccia del «male» è sempre la faccia del bisogno assoluto. Il drogato è qualcuno che ha un bisogno assoluto di droga. Oltre una certa frequenza il bisogno non conosce nessun limite né controllo. […] E la droga è una grande industria. […] Se volete alterare o annientare una piramide di numeri in correlazione seriale dovete alterare o rimuovere il numero alla base. Se vogliamo annientare la piramide della droga dobbiamo partire dalla base: il Tossicodipendente della Strada, e smetterla di partire lancia in resta contro i mulini a vento, cioè contro i pesci grossi, i quali sono tutti immediatamente sostituibili. Il tossicodipendente della strada, che ha bisogno della roba per vivere, è l’unico fattore insostituibile nell’equazione della droga. Quando non ci saranno più tossicodipendenti disposti a comprare la droga non ci sarà più traffico di droga. Finché esisterà il bisogno della droga, ci sarà qualcuno pronto a soddisfarlo.
William S. Burroughs, Deposizione: testimonianza di una malattia, dall’Introduzione a Pasto nudo.
Ieri Burroughs avrebbe compiuto 105 anni. L’influenza che ha esercitato sulla mia scrittura, come pure su alcune elaborazioni teoriche e sugli stessi esiti artistici dei connettivisti, è difficile da riassumere nel breve spazio di un post. Controverso, estremo, eccessivo, sono tutte definizioni che gli si attagliano alla perfezione e che potrebbero risultare perfino riduttive tanto per le sue opere quanto per il suo personaggio, avendo incarnato alla lettera il ruolo di scrittore senza mezze misure.
Smaltita la febbre controculturale dei miei anni giovanili non sono certo, oggi come oggi, che sedendomi al tavolo di un bar di Tangeri con Burroughs avrei avuto molti punti d’incontro per imbastire una chiacchierata tranquilla, senza correre il rischio di innervosirlo e far degenerare la conversazione in un confronto armato, ma ancora adesso non posso non riconoscergli un forte e duraturo impatto sulla visione / impressione / comprensione / elaborazione di certi meccanismi, non ultime le spietate dinamiche di controllo in cui ci ritroviamo quotidianamente invischiati.
Nel corso degli anni, ho cercato di rendergli omaggio come ho potuto. Dapprima con una delle mie primissime recensioni, dedicata al suo libro forse più noto, Pasto nudo (e ormai sono trascorsi la bellezza di oltre tredici anni…), poi con un profilo di oltre quarantamila battute per la rubrica che all’epoca tenevo sulle pagine di Delos SF, e che successivamente, in occasione della riedizione di Nova Express da parte di Adelphi, ho condensato in un pezzo un po’ più agile sempre per la rivista curata da Carmine Treanni.
Su Robot 73 potete inoltre leggere Cloudbuster, un racconto in cui Burroughs fa capolino come personaggio insieme ad altri volti e nomi noti del mondo fantascientifico e non solo, tutti catapultati in un universo discronico in cui le teorie di Wilhelm Reich da fringe science si sono tradotte in vera scienza, con tanto di applicazioni tecnologiche che diventano l’ago della bilancia degli equilibri mondiali.
Sono trascorsi trentacinque anni dal capolavoro di Ridley Scott che ridefinì la nostra percezione del futuro. Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve non aspira a tanto, ma moltiplica le prospettive di un mondo che ci eravamo illusi di conoscere fin troppo bene.
Hollywood non ama particolarmente le sfide aperte, preferisce andare sul sicuro. Riportare al cinema un titolo che alla sua uscita lasciò i produttori in cattive acque, per quanto poi col tempo abbia finito per attestarsi come caposaldo imprescindibile, non era di certo quella che può definirsi una scommessa facile. Per questo nel 2011 in molti, tra semplici appassionati e addetti ai lavori, avevamo accolto con un certo scetticismo la notizia che i diritti di Blade Runner erano stati rilevati per una somma imprecisata dalla Alcon Entertainment, in circolazione da una quindicina d’anni e, se si eccettua Insomnia (remake di un film norvegese affidato a un promettente regista anglo-americano, che sarebbe diventato il banco di prova per saggiare le future ambizioni di Christopher Nolan), mai coinvolta fino ad allora in produzioni degne di nota.
D’altronde era risaputo come Ridley Scott avesse sempre tenuto la porta aperta per un eventuale seguito, ma i suoi piani più o meno vaghi si erano andati a scontrare ogni volta contro difficoltà produttive, sovrapposizioni d’impegni e, last but not least, inestricabili nodi legali sui diritti, come nel caso dell’annunciata webseries prequel Purefold, sviluppata con il fratello Tony Scott e poi congelata a tempo indeterminato. È innegabile che la prospettiva di un possibile ritorno all’universo narrativo di Blade Runner abbia sempre solleticato anche la fantasia degli appassionati oltre a quella del suo creatore, ma in pochi sarebbero stati disposti a scommettere qualcosa sui piani di rilancio della Alcon. E invece in questi anni la casa di produzione di Broderick Johnson e Andrew A. Kosove non solo è riuscita ad assemblare una squadra produttiva di prim’ordine, coinvolgendo Columbia Pictures, Thunderbird Films e Scott Free Productions, per raccogliere il budget più alto della sua storia (ben 150 milioni di dollari, che secondo alcune fonti potrebbero invece essere stati addirittura 185), ma con la benedizione di Ridley Scott ha saputo anche assicurarsi il talento di uno dei più apprezzati cineasti in circolazione, il canadese Denis Villeneuve, reduce dal successo di Arrival (2016) e autore di piccoli grandi capolavori come La donna che canta (2010), Prisoners (2013), Enemy (2013) e Sicario (2015).
Con lui la Alcon ha ingaggiato professionisti di prim’ordine, il cui apporto sarebbe stato non meno importante o decisivo nella riuscita dell’operazione. A cominciare dallo sceneggiatore Michael Green (arruolato nel 2013, quando aveva all’attivo solo il copione di Green Lantern, nel frattempo ha visto realizzarsi altre due sceneggiature di un certo prestigio, per l’acclamato ritorno di Wolverine in Logan e per il nuovo adattamento di Assassinio sull’Orient Express firmato da Kenneth Branagh, senza dimenticare il suo ruolo di produttore e showrunner di American Gods, tratto dal romanzo di Neil Gaiman), che è andato ad affiancare Hampton Fancher, l’uomo che per primo colse le potenzialità cinematografiche di un romanzo di fantascienza intitolato Do Androids Dream of Electric Sheep?; per proseguire con Joe Walker (Blackhat, Arrival) al montaggio e Dennis Gassner (recentemente al servizio del nuovo corso di 007) alla scenografia; e per finire con la fotografia di Roger Deakins, plurinominato all’Oscar e punto di riferimento per i fratelli Coen, che è qui già alla terza collaborazione con Villeneuve dopo Prisoners e Sicario. Dell’esito artistico dei relativi contributi abbiamo già parlato diffusamente nella recensione apparsa su queste stesse pagine, quindi non ci dilungheremo oltre.
Il lettore che ha avuto pazienza di arrivare fin qui ci perdonerà di esserci dilungati sui retroscena, ma per un’operazione come questa le vicissitudini produttive non rappresentano un semplice corollario da ridimensionare al rango di curiosità, come d’altro canto insegnano anche le traversie in cui incorse la realizzazione di Blade Runner (si veda a questo proposito l’ottimo libro di Paul M. Sammon Blade Runner. Storia di un mito, purtroppo non più in catalogo, ma sarebbe ora che qualche editore si decidesse a riproporlo ai lettori italiani). Il processo di costruzione di Blade Runner 2049, come dimostra la sua trama stratificata, ricca di rimandi al capolavoro di Ridley Scott, rispecchia la necessità di fare i conti con un rompicapo matematico: riprodurre quel mix di stupore e malinconia, di meraviglia e inquietudine, di speranza e dannazione, di riscatto e castigo, che ha reso Blade Runner un’opera unica nel panorama cinematografico mondiale. Il risultato finale omaggia nella misura giusta il precursore e allo stesso tempo dischiude allo sguardo dello spettatore e dell’appassionato nuovi orizzonti, il tutto con uno sforzo immaginifico che riesce a reinventare l’estetica di Blade Runner tenendosi paradossalmente fedele all’originale.
2019-2049: le cicatrici del futuro
Trent’anni non sono passati invano. Il mondo del 2049 che ci viene presentato appare fin da subito come una credibile derivazione del 2019 impresso indelebilmente nella nostra memoria di spettatori e appassionati, ma è anche il prodotto di una netta discontinuità che, se vogliamo, riprende anche molti dei nostri attuali motivi di preoccupazione.
Il tempo trascorso dal 1982 ha infatti comportato un graduale slittamento della distopia di Ridley Scott nei territori dell’ucronia, o se vogliamo della discronia, aggiungendo straniamento a straniamento: il Giappone non ha soggiogato il mondo e nemmeno la West Coast e, anche se mancano meno di due anni alla data fatale, la robotica comincia sì a muovere i primi passi, così come il dibattito sull’intelligenza artificiale tiene banco sulle pagine dedicate a scienza e tecnologia, e magari la scalata alla frontiera spaziale inizia pure a essere tentata da imprese private disposte ad annunciare lo sbarco su Marte entro il prossimo decennio, ma non c’è purtroppo traccia dei replicanti “più umani dell’umano”, né di colonie spaziali pronte ad accogliere l’esodo dei terrestri in fuga da un pianeta al collasso. Non era insomma esente da rischi l’idea di sviluppare un mondo che in molti avrebbero potuto cogliere come già superato, o comunque contraddetto dai fatti. Ma né i produttori né Denis Villeneuve si sono lasciati scoraggiare e in qualche modo Blade Runner 2049 ha saputo costruire un nuovo futuro sulle fondazioni del vecchio futuro immaginato da Scott.
[Prosegue su Delos SF 192.]
Riporto un brano estratto da Cloudbuster, il racconto “discronico” pubblicato questo mese sulle pagine di Robot.
Secondo le pagine della politica estera e interplanetaria, Marte si apprestava a dichiarare guerra alla Terra. USA e URSS avevano avviato negoziati segreti per predisporre un piano di difesa congiunto, quando l’angelo biondo entrò nel mio ufficio.
Che non fosse il solito caso di moglie tradita, me ne accorsi non appena mise piede oltre la porta. La fluente chioma bionda ricadeva in morbide onde dorate sulle spalle della giacca di crespo rosso. La griffe italiana del completo denunciava lo stato delle sue finanze meglio di quanto sarebbe riuscita a fare una dichiarazione dei redditi. La gonna alle ginocchia era intonata con la giacca. Sotto il colletto della camicetta color perla, una collana d’oro ornava un collo da cigno. Riusciva a dare sfoggio di sensualità pur rispettando a prima vista i rigidi dettami sull’abbigliamento imposti dalla Commissione permanente di Vigilanza sui Costumi.
Negli occhi la leggerezza dei trent’anni era tuttavia incupita da un’ombra di preoccupazione. Avrei potuto innamorarmi, se non ci fosse stato di mezzo il lavoro. Questa è la seconda regola: in affari, evitare sempre il coinvolgimento. Di qualsiasi tipo.
Venne avanti sui suoi tacchi: ogni passo, un colpo secco al mio cervello, un battito perso del mio cuore.
– Che cosa posso fare per lei? – domandai, alzandomi dalla sedia sulla quale fino a dieci secondi prima me ne ero stato stravaccato, immerso nelle notizie del giorno. Avevo tolto i talloni dalla scrivania quando avevo sentito bussare.
– È lei Hank Brazell? – ribatté lei, inanellando le sillabe come se fossero note. – Il detective? Cerco un investigatore privato, mi hanno consigliato di rivolgermi a lei.
Piegai il St. Louis Post-Dispatch e le indicai la sedia davanti alla scrivania. Il ripiano tra noi era ingombro di fogli appuntati e fascicoli rilegati, ma non era quello a mettere distanza tra le orbite delle nostre vite. – Prego, si accomodi – le dissi, sforzandomi di tenere un tono professionale. – Di cosa si tratta?
La donna sedette con grazia e accavallò le gambe. Nel farlo, il nylon delle calze strisciò evocando immagini elettriche nella mia testa. Erano delle autoreggenti francesi da scandalo, l’ultima moda importata dalla vecchia Europa con gran disappunto per il Presidente e i suoi seguaci. E anche questo diceva sul suo conto molte cose: per poterselo permettere, doveva essere o terribilmente potente da non temere le sanzioni amministrative oppure irrimediabilmente pazza da non temere l’internamento correttivo.
Me lo chiesi e, così com’era sorto, lasciai cadere il dubbio. Mi stavo già immaginando a infilare la testa tra le cosce di porcellana strette nelle balze elasticizzate… ma adesso sto divagando.
– Mi chiamo Anne Louise McGovern – si presentò l’angelo biondo. – In Smith. – Assestò quella puntualizzazione come un affondo di fioretto. Il mio cuore perse un altro colpo, benché il sinistro presagio fosse aleggiato sulla stanza fin dal suo ingresso. – Sono qui per mio marito. Sospetto che da diversi mesi ormai porti avanti una relazione clandestina.
Ascoltai senza interromperla, lottando con le redini dei miei pensieri che si accavallavano, con furia selvaggia, del tutto fuori controllo, con le fantasie sulla vita privata di quella donna, caduta nel mio ufficio dalla più prossima allo scranno del Padreterno tra le corti angeliche. Quale uomo potrebbe tradire una moglie come questa?, continuavo a domandarmi. E ancora: quale uomo potrebbe tenere a freno una donna come questa?
– La nostra è sempre stata una vita tranquilla. Mike è un dirigente della Burroughs e fin dall’inizio si è impegnato molto per garantirmi ciò di cui una donna può avere bisogno. Come si suol dire, mi ha assicurato una vita felice. Abbiamo una bella casa, signor Brazell. Amicizie illustri, un’immagine di rispetto e decoro. Ma da qualche tempo mi sembra che qualcosa nell’ingranaggio del nostro matrimonio si sia inceppato.
– Posso chiederle se avete dei figli, signora Smith?
– No, niente figli – ammise Anne Louise, con un velo di tristezza. Dalla borsetta di velluto nero che teneva in grembo estrasse una foto e me la porse. – Ne avremmo voluti, ma purtroppo c’è qualcosa in me che non va come dovrebbe, almeno a giudizio dei medici.
Sempre pensato che i medici dovrebbero essere tutti in cura: sarebbero capaci di auscultare il cofano di un’automobile in panne ed emettere un circostanziato e convintissimo referto diagnostico. Fischi per fiaschi. Presi la foto e guardai l’uomo che ritraeva. Era vicino alla sessantina, quindi molto più vecchio dell’angelo in rosso che avevo davanti, e non posso dire che dimostrasse un’espressione particolarmente brillante. Stempiato, capelli bianchi, sguardo pensieroso: nella sua immagine da burocrate non c’era niente che potesse fornirmi un indizio delle doti che dovevano aver sedotto Anne Louise. Se la medicina ha i suoi misteri, cosa dire del cuore delle donne?
Sollevai gli occhi e li piantai in quelli della mia cliente. Erano di un colore acquamarina che mi ricordava un paradiso tropicale. In quel momento, tradivano imbarazzo.
– Non so come ci si comporta in questi casi – disse. – È la prima volta…
– Non si preoccupi, signora Smith – la tranquillizzai. – Per cominciare, terremo d’occhio suo marito. E magari scopriremo che i suoi sospetti sono semplicemente dettati da un eccesso d’amore.
– Lei è molto gentile, signor Brazell.
– Solo perché lei è una donna che non dovrebbe avere di questi timori – proseguii. – Vedrà che si risolverà tutto per il meglio.
– Lei è il miglior detective della città – mi lusingò lei. – So che non mi deluderà. Le lascio un biglietto da visita, ho appuntato il mio numero di telefono nel caso avesse bisogno di contattarmi.
– Grazie. Immagino che potrò trovare suo marito al quartier generale della Compagnia…
– A dire il vero è fuori città per lavoro, ma rientrerà in serata. Domani sarà sicuramente alla Green World per assistere alla conferenza dell’ospite d’onore.
– Domani è il giorno di quello scienziato pazzo, non è così?
Una strana luce scintillò dietro la superficie cristallina dei suoi occhi. Anne Louise mi sorrise e annuì, tra il divertito e l’ammirato. – Wilhelm Reich, proprio lui – confermò. – Forse accompagnerò Michael. Se vuole potrei presentarglielo, cosa ne pensa?
– Potrebbe essere una buona idea, ma valuteremo domani se è il caso. Mi procurerò subito un biglietto per la conferenza. Se dovessimo incontrarci, può presentarmi come un vecchio amico di suo padre.
Sorrise maliziosa. – O magari di mia madre – replicò.
– Lei pensi a un nome che funzioni – dissi. – Penserò io a circostanziare fatti e connessioni.
Prima di uscire, mi porse la mano e io gliela strinsi.
– Non dovremo mica aspettarci un’altra irruzione di manifestanti europei situazionisti, come l’anno scorso? – dissi per puro spirito di provocazione. – O di qualche altro compare dei loro…
– Oh, no, per quest’anno non credo – ci tenne ad assicurarmi lei. – Mr. Burroughs non si perdonerebbe di essere stato tanto prevedibile…
Mezzo minuto più tardi, dalla finestra dello studio la vidi scendere dal marciapiede e attraversare Clarke Avenue. Si diresse verso una Cadillac Eldorado rosa decapottabile con il tettuccio bianco. Salì a bordo e mise in moto.
La guardai percorrere la strada nel traffico sonnolento e rarefatto del primo pomeriggio. Quando le pinne dello squalo da strada svoltarono al semaforo, imboccando il Tucker Boulevard in direzione sud per sparire subito dietro l’angolo, stavo ancora accarezzando l’ombra tattile delle sue dita, il calore del suo palmo soffice e affilato, stretto nel mio.
Numero ricchissimo di contenuti, il 73 di Robot che arriva in distribuzione in questi giorni (in formato elettronico lo trovate già disponibile al download sul Delos Store). Dietro la copertina di Alejandro Burdisio vi aspettano 192 pagine di meraviglia, tra cui un ricordo di Gianfranco Viviani (uno dei grandi professionisti della fantascienza in Italia, purtroppo scomparso la scorsa estate), un reportage dalla Worldcon di Londra, la versione ampliata dell’articolo di Marco Passarello sul pessimismo e l’ottimismo nella fantascienza apparso su Repubblica Sera.
Sia l’articolo sulla Loncon3 che quello sull’approccio contemporaneo alla fantascienza includono dei miei interventi, che per altro chi legge questo blog ha già avuto modo di leggere nei mesi scorsi: qui e qui.
Ma l’indice comprende anche un mio racconto inedito, un’ucronia hard-boiled come ha voluto definirlo Francesco Lato – e a me la sua scelta sta benissimo. Il racconto, che s’intitola Cloudbuster, vuole essere un omaggio a Dashiell Hammett, al cui stile mi sono indegnamente ispirato per la scrittura. Ma anche a Wilhelm Reich, controverso personaggio della scienza (e della fringe science) del ‘900 che ha già ricevuto le attenzioni letterarie di Valerio Evangelisti nel bellissimo Il mistero dell’inquisitore Eymerich: tanto lo psichiatra quanto il suo gruppo CORE (acronimo per Cosmic Orgone Engineering) giocano un ruolo cruciale nella vicenda, che si avvale anche della partecipazione straordinaria di William S. Burroughs, J.G. Ballard e Cordwainer Smith. Il tutto si svolge a St. Louis nei frenetici giorni della Green World Conference del ’75.
Come? È la prima volta che ne sentite parlare? Fidatevi, non è l’unica cosa che vi suonerà strana alla lettura di queste pagine. Il racconto è stato infatti concepito nell’ambito di un progetto di scrittura poi abortito, un’antologia che avrebbe dovuto uscire per i tipi di Edizioni XII e che purtroppo non riuscì a vedere la luce prima della chiusura della coraggiosa casa editrice. Il progetto, curato da Luigi Acerbi, Sandro Battisti e Daniele Bonfanti, era incentrato sull’idea di discronia: universi che seguono leggi fisiche diverse dal nostro, da cui divergono per effetto di qualche anomalia capace di rendere scienza quella che per noi è solo scienza di confine. Come avrete intuito, la teoria dell’orgone di Reich è il concept da cui ho sviluppato la mia storia.
A Reich l’impareggiabile cantautrice britannica Kate Bush, tornata recentemente a calcare le scene, dedicò la canzone Cloudbusting (inclusa nell’album Hounds of Love del 1985), che parlava di un ragazzo che vive la perdita del padre. Il video della canzone fu concepito dalla stessa autrice con Terry Gilliam e realizzato da Julian Doyle (che proprio in quel periodo stava collaborando con Gilliam alla realizzazione degli effetti speciali di Brazil) e vanta la partecipazione di Donald Sutherland nei panni dello scienziato.
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