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Di Matthew Phipps Shiel abbiamo già scritto, a proposito del suo capolavoro di fantascienza post-apocalittica La nuvola purpurea. Sul Post Libri Ludovica Lugli ha esplorato un’ulteriore ramificazione della sua storia, che parte dall’incoronazione da parte di suo padre Matthew Dowdy Shiell, che volle così celebrare la nascita di un figlio maschio dopo tante femmine, e di scrittore in scrittore, attraverso un labirinto di testi molto postmoderno tenuto attualmente in vita da Javier Marías, arriva fino a noi: la storia del Regno di Redonda.
Uno spettro si aggira tra le visioni del futuro dell’umanità. A dire la verità, di spettri potremmo contarne diversi, ma se escludiamo le estrapolazioni in cui la civiltà umana si annienta in una catastrofe globale, il più ingombrante rimane senz’altro quello della futura scalata umana alla Nuova Frontiera.
Per noi vecchi arnesi cresciuti a pane e fantascienza, lo spazio è il convitato di pietra di ogni tentativo di proiezione dell’umanità nel futuro. Lo è anche a dispetto dell’evidenza di tutti gli ostacoli disseminati lungo il cammino verso le stelle, perché con ogni probabilità il mistero del cosmo è iscritto talmente a fondo nel nostro inconscio come specie da essere diventato un marchio a fuoco nel codice memetico del nostro immaginario. E lo è al punto da saltare fuori anche nelle visioni del futuro nominalmente concepite in antitesi con le spensierate avventure tecnologiche della prima fantascienza, quella ormai associata con la Golden Age: se da un lato la space opera non ha mai perso davvero vigore, attraversando le decadi sulla spinta di un motore inerziale che da Edmond Hamilton e Isaac Asimov è passato per la penna di Frank Herbert, Larry Niven, John Varley e C.J. Cherryh per arrivare fino a noi con Lois McMaster Bujold, Iain M. Banks, Vernor Vinge, e poi con Peter F. Hamilton, Alastair Reynolds e numerosi altri anche tra i frequentatori occasionali, è un dato di fatto che lo spazio è un ingrediente fondamentale nel world-building dello stesso cyberpunk (pensiamo alla Disneyland orbitale di Freeside o all’epilogo stesso di Neuromante, agli habitat spaziali della Matrice Spezzata o alle colonie extra-mondo di Blade Runner, tanto per citare i tre pilastri su cui l’immaginario del movimento degli Anni Ottanta ha preso forma), come lo erano stati la Luna, Marte e i satelliti dei giganti gassosi per Philip K. Dick e lo specchio delle contraddizioni terrestri allestito da Ursula K. Le Guin sui pianeti del suo Ecumene, o come lo sarebbero poi stati diversi sfondi del sistema solare per Kim Stanley Robinson, gli autori della cosiddetta fantascienza umanistica, Ian McDonald o gli aderenti alla Mundane SF.
Alla luce di questa scorribanda più veloce della luce, potremmo distillare l’essenza della fantascienza in una formula approssimativa, ma che ne riesce comunque a cogliere una delle caratteristiche più distintive emerse in un secolo di invenzioni, declinate sia nella dimensione della creatività più esplosiva che sul piano della critica più speculativa: vale a dire, che per l’umanità non c’è futuro senza spazio.
Da veterani di questo feeling di lunga data, noi appassionati di fantascienza siamo quindi particolarmente sensibili alle imprese spaziali vagheggiate, programmate o millantate dalla genia dei multimiliardari che da alcuni anni a questa parte inseguono il sogno dello sviluppo commerciale dello spazio. Ancor più di Jeff Bezos (di cui proprio durante la pandemia ha finito per insidiare il primato di uomo più ricco del mondo, secondo molti arrivando nel 2022 addirittura a surclassarlo) o di Richard Branson, che può vantare la costruzione del primo aeroporto spaziale, grazie alla sua sovra-esposizione mediatica è ormai Elon Musk a personificare l’imprenditore del futuro, provvisto di una visione e a capo di un impero economico capace di tentare la conquista della frontiera spaziale. Il più grande capolavoro di Musk è stato probabilmente quello di intestarsi un’immagine di outsider, come se un uomo fuori dalle logiche del mercato potesse arrivare ad accumulare la fortuna richiesta per diventare l’uomo più ricco del mondo – oppure, se è per quello, come se un uomo in grado di twittare 5mila volte in un anno potesse anche essere direttamente coinvolto in un’attività vagamente assimilabile al lavoro.
Questo gli ha permesso di far passare sempre sottotraccia le molteplici contraddizioni della visione imprenditoriale di cui si fa portatore: da una parte la proiezione verso un futuro migliore sbandierata a suon di tweet e interviste, dall’altra le conseguenze pratiche sulla vita degli abitanti di Boca Chica comportate dall’attività della sua Starbase in Texas e i dissidi professionali con i suoi collaboratori e dipendenti. Come emerge, nonostante i toni apologetici, dalla sua biografia scritta da Ashley Vance (Elon Musk: Tesla, SpaceX e la sfida per un futuro fantastico) e come riassumeva Nicolò Porceluzzi nel suo profilo redatto per Prismo, i dipendenti di Musk finiscono per essere utilizzati come munizioni, investiti strumentalmente di un ruolo solo nella logica di finalizzare uno scopo, dopodiché consumati e buttati via. Nello stesso articolo gli esempi si sprecano: dalla collaboratrice di lunga data licenziata per aver chiesto un aumento, alle conseguenze altrettanto estreme per i dipendenti che mancano una deadline o commettono un refuso in una e-mail importante.
Dopotutto ogni cosa per Musk sembra ridursi a un mezzo al servizio dei suoi obiettivi: che siano i dipendenti delle sue aziende o gli abitanti di un villaggio di pescatori che per caso si è venuto a trovare troppo vicino alla sua base operativa per i lanci spaziali. Perché dovremmo quindi sorprenderci se Musk ammette candidamente che il sacrificio da pagare per andare su Marte si misurerà in missioni fallite e vite umane perse? Perché dovremmo stupirci se Musk pianifica la conquista di Marte con un meccanismo di servitù debitoria che somiglia a una forma di schiavitù a esclusivo beneficio dei suoi sogni di colonizzazione spaziale?

Ma se la sorpresa non è giustificata, la generale mancanza di reazione da parte dell’opinione pubblica, di coloro che si fanno passare per intellettuali o – entriamo in modalità utopia estrema? – della politica, desta più di qualche perplessità. Le rare volte in cui Musk ha finito per sfiorare il discorso, come quando il governatore repubblicano Greg Abbot ha dichiarato la vicinanza (se non proprio l’appoggio) del suo nuovo partner in affari alle politiche sociali del Texas, nella scia delle polemiche seguite alle nuove restrizioni sull’aborto introdotte dallo stato nel settembre del 2021, per smarcarsi Musk non ha saputo fare di meglio che prodursi in una dichiarazione pilatesca (quella volta fu questa: “In general, I believe government should rarely impose its will upon the people, and, when doing so, should aspire to maximize their cumulative happiness. That said, I would prefer to stay out of politics“).
Allo stesso modo in cui siamo disposti a ignorare che la lotta al cambiamento climatico per le aziende di Musk è fondamentalmente un business, sembriamo capaci di passare su tutte le altre contraddizioni del personaggio. La vaghezza degli annunci, la cronica mancanza di dettagli a fronte di progetti talmente ambiziosi da richiedere una cura diabolica, per la prima volta sta però cominciando a far breccia in questa sorta di muro di omertà in cui si è trasformato il credito di fiducia incondizionata che siamo stati disposti a riconoscergli per tutto questo tempo: è notizia proprio degli ultimi giorni che il ritardo nei piani di lancio di Starship ha iniziato a produrre qualche perplessità tra i commentatori che s’interessano delle iniziative eloniane.
Sempre in veste di appassionati di fantascienza, avremmo dovuto forse accorgerci prima degli altri che Elon Musk era piuttosto distante dall’ingenuo prototipo del visionario capitalista spaziale celebrato, con il suo tipico slancio ottimistico, da Robert A. Heinlein, a partire dal D. D. Harriman protagonista di Requiem e L’uomo che vendette la Luna, pietre miliari degli Anni Quaranta. Nonostante Musk si sia dichiarato un fan di Iain M. Banks, nonostante tutto il citazionismo di facciata utile a costruirsi un alone da geek funzionale alla sua causa (peraltro, quale scelta migliore di David Bowie o della Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams per triggerare gli entusiasmi dei fan?), i bug che possiamo individuare nel suo programma per rendere la specie umana una civiltà multiplanetaria, come lui stesso ama chiamarla, dovrebbero già adesso insospettirci sui possibili esiti finali. Dal realismo capitalista di Mark Fisher, con Musk facciamo già due o tre passi avanti nel futuro e ci troviamo sbalzati nell’orizzonte di un transrealismo iperliberista: se non c’è alternativa ora al neoliberismo, come potremo rinunciare ai suoi protocolli operativi per piegare il futuro alla volontà della ragione? Tra le crepe che percorrono la superficie di questo sogno si affaccia un futuro che non può essere per tutti. Insomma, suo lo spazio, suo il futuro.
A meno che, e questo diventerà evidente sicuramente prima della fine del decennio, Elon Musk non si dimostri semplicemente un innocuo ciarlatano.
In ogni caso, parafrasando la sua ex-moglie, questo non è il mondo di Elon e noi non siamo lo Starman che lui ha piazzato alla guida di una Tesla Roadster prima di lanciarla nello spazio. Non dobbiamo viverci dentro per forza, se non lo vogliamo. Smettere subito con l’adorazione acritica della sua immagine sarebbe già un inizio, verso un diverso futuro ancora da esplorare.
La perfetta visualizzazione della Città dei Trasporti per come me l’ero immaginata dalle prime pagine di Babel-17. A firma di J (via Instagram).
“Questa città è un porto.”
Noi nati negli anni ’80 sentiamo spesso ripeterci che viviamo di nostalgia. Sicuramente è così: negli anni scorsi si è parlato spesso del revival degli anni ’80, iniziato agli albori degli anni Zero con un’ondata di produzioni cinematografiche che si rifacevano alle icone televisive del decennio, fino ad arrivare a produzioni inedite ma incentrate su una rievocazione del periodo o del suo immaginario, da Ashes to Ashes a Halt and Catch Fire, da Deutschland 83 a Stranger Things, fino al pot-pourri di Ready Player One. A innescare l’ondata sono state, tra gli altri, a partire dal 1999, due trilogie cinematografiche che, ognuna a modo suo, riportavano alla ribalta l’iconografia di quegli anni: la trilogia prequel di Star Wars, attingendo alla linfa della saga di maggior successo di quel decennio, e la trilogia di Matrix, con tutti i suoi debiti verso l’immaginario cyberpunk, l’animazione e i manga di quegli anni.
È stata e continua a essere una stagione popolata di alti e bassi, di rievocazioni più riuscite e di operazioni meno efficaci, ma tutte tese a offrire alla platea di chi è cresciuto in quegli anni una sensazione di persistenza di un periodo ben preciso, prolungando artificialmente la sospensione criogenica di quell’immaginario. La pervasività del fenomeno raggiunge un livello tale che, nell’ambito del fantastico e della fantascienza in particolare, innesca un ciclo che finisce per autoalimentarsi.
L’energia di attivazione è minima. Bastano una stagione di una serie TV (la terza di True Detective) o anche solo un episodio speciale (date un’occhiata agli episodi 2×15 e 3×15 di Fringe), perfino un dettaglio buttato lì per caso, per chiudere il circuito della nostalgia e attingere a un bacino dal potenziale sconfinato. Perché in fondo è molto meglio reinventare un periodo che abbiamo vissuto, con il suo portato di aspettative e speranze, di proiezioni e anticipazioni, che:
a. provare a imbastire qualsiasi discorso su un presente che ha smentito tutte le previsioni migliori del futuro che ci erano state propinate all’epoca, su cui sappiamo di essere arrivati con un gap incolmabile; e proprio per questo:
b. provare a immaginare nuovi futuri improbabili quando sappiamo che presto tutte le possibilità collasseranno sull’unico futuro inevitabile: non una linea nitida e ben tracciata, ma l’alveo roccioso di un fiume in cui scorreranno le acque turbolente di un’epoca di 1. sconvolgimenti sempre più drammatici legati ai cambiamenti climatici; 2. crisi sociali provocate dall’invecchiamento della popolazione occidentale e dall’incremento esponenziale dei rifugiati causati dai disastri ambientali; 3. dei prevedibili tentativi dei predatori alfa della giungla capitalista di scongiurare il superamento del sistema sbilanciato, sghembo e discriminatorio in cui hanno prosperato.
Qualcosa che in pochi vogliamo sentirci raccontare, e con cui ancor meno vogliamo fare i conti.
La mia generazione, i nati negli anni ‘80 come e forse ancor più dei nati negli anni ’70, è stata la prima a crescere in un mondo con la possibilità materiale di mercificare i suoi sogni e i suoi ricordi. Il passo verso la creazione di una riserva di bisogni immaginari su cui costruire un mercato di massa della nostalgia è stato una logica conseguenza del progresso tecnologico. Perché, non dimentichiamolo, è molto più remunerativo soddisfare un bisogno illusorio piuttosto che uno reale.
Anche per questo sbagliamo a credere che l’onda lunga degli anni ’80 andrà stemperandosi man mano che la nostra generazione invecchierà e passerà ad altro – qualunque cosa questo voglia dire. Anche se negli ultimi anni abbiamo cominciato a toccare i primi esiti che ripetono la stessa operazione con gli anni ’90 (dalla riproposizione dei videogame del periodo alle ricorrenze per il 25simo o trentesimo anniversario di questo o quel prodotto), in realtà siamo solo in un ciclo, perché subito dopo gli anni ’90 non partiremo certo con gli anni Zero, ma riprenderemo con gli anni ’70 e ’80 che proprio a partire dagli anni Zero hanno conosciuto una prima felice rinascita. Il quarto capitolo di Matrix, dopo la nuova trilogia di Star Wars, rappresenta un segnale impossibile da trascurare, come pure il tentativo abortito di Netflix di trasporre un anime cult come Cowboy Bebop in una serie live action. E così, potenzialmente, all’infinito, cercando di soddisfare il gusto e le aspettative di chi è cresciuto in quel decennio, finché ci sarà una domanda forte di un potere di acquisto adeguato.
E c’è qualcuno che lo ha capito molto bene, prima di tutti gli altri, e ormai dal 2006 sta mettendo in atto il suo piano per assicurarsi il monopolio sul nostro immaginario passato, presente e futuro. Se siete arrivati fin qua, avrete già capito di chi stiamo parlando.


Quando parliamo di fantascienza parliamo di qualcosa che:
a. ricade in una o più delle seguenti categorie:
protofantascienza, scientific romance, weird fiction, space opera, planetary romance, viaggio nel tempo, sword and planet, fantascienza sociologica, hard science fiction, soft science fiction, fantascienza antropologica, distopia, ucronia, fantascienza libertaria, military science fiction, new wave, fantascienza femminista, space fantasy, primo contatto, science fantasy, future noir, fantathriller, fantapolitica, fantareligione, fantaspionaggio, fantarcheologia, fantahorror, space western, retrofuturismo, afrofuturismo, techno-thriller, fantascienza umoristica, cyberpunk, ribofunk, biopunk, nowpunk, nanopunk, cyber noir, steampunk, clockpunk, sandalpunk, raypunk, dieselpunk, decopunk, atompunk, steelpunk, mythpunk, postcyberpunk, mundane science fiction, connettivismo, fantascienza post-apocalittica, fantascienza catastrofica, silkpunk, solarpunk, lunarpunk, new weird, postumanesimo, techno-weird, climate fiction, discronia, slipstream, nextstream…
e/o b. richiama o si ispira a uno o più dei seguenti concetti:
robot, androidi, umanoidi, mutanti, macchina del tempo, novum, fine del mondo, crepuscolo della Terra, astrogazione, FTL, iperspazio, multiverso, civiltà interstellari, civiltà extraterrestri, alieni, inner space, outer space, ESP, paranormale, pseudoscienze, supereroi, cyborg, cyberspazio, intelligenze artificiali, nanotecnologie, transumanesimo, realtà virtuali, Singolarità Tecnologica, universo simulato, rischi esistenziali, dilemmi etici, altri mondi, società possibili e impossibili…
Dove ci eravamo lasciati? Non inizia così ogni ritorno? Ne ho scritti parecchi, di post con questo incipit, e inevitabilmente ho finito ogni volta per tradire i migliori propositi. Non so se questa sia la volta buona, ma alcuni segnali mi inducono a nutrire un cauto ottimismo.
Forse stavolta sono tornato davvero per restare. Anche se non mi è ancora chiaro su quali tempi e a che ritmo viaggerà il blog.
Però intanto cominciamo a riscaldare i motori…
L’interliminale, quello spazio situato tra due soglie, che non appartiene né allo spazio prima né a quello dopo, è un concetto che somiglia molto alla condizione che stiamo vivendo da alcune settimane. Decretata a inizio maggio la fine del lockdown, siamo entrati in questo «spazio di mezzo», in cui non siamo più ibernati né pienamente tornati alla libertà di prima. Viviamo quindi in una condizione sospesa, in cui non solo quello che continua a succedere intorno a noi, ma anche quello che ci si profila davanti allunga ombre ancora piuttosto fosche sul nostro presente.
Nel mondo si sono superati oggi i 7,5 milioni di casi, le vittime sono oltre 420.000, e il contagio ha non solo raggiunto dimensioni preoccupanti in Brasile e Russia, ma cresce rapidamente in paesi come Perù, Cile, Messico, Pakistan, Bangladesh e Sud Africa, tutti caratterizzati da aree urbane densamente abitate, in cui il distanziamento sociale si sta dimostrando di difficile attuazione in assenza di rigide disposizioni di contenimento. Ormai ci stiamo gradualmente abituando all’idea di dover convivere a lungo con il virus.
In questo scenario, sono venuti meno molti dei miei propositi degli ultimi mesi, inclusa la voglia di aggiornare regolarmente il blog, che invece per alcune settimane ero riuscito a trovare. Ma nell’Interliminale tutto si fa tranne crogiolarsi nell’inattività. E in effetti, dietro le quinte, sono state settimane frenetiche, in cui sono culminati alcuni progetti che da mesi (e in alcuni casi anche anni) erano in gestazione.
Di alcuni di questi vi parlerò nei prossimi giorni (in effetti se ne sta già parlando, nei corridoi della rete). Per altri, l’auspicio è che la gestazione porti prima o poi a dei risultati pubblicamente spendibili.
20 marzo 2020, equinozio di primavera. Un’altra giornata nera per l’Italia.
Il totale dei casi registrati sale a 47.021 (5.986 più di ieri). Deceduti: 4.032 (+627), tasso grezzo di letalità: 8,6%. Guariti: 5.138 (+698).
Totale casi attivi: 37.851 (+4.670). Ricoverati in terapia intensiva: 2.655 (+157), corrispondenti al 7% sul totale dei casi attuali. Tasso di saturazione stimato dei posti letto in terapia intensiva: 45%.
Guardando i dati diffusi dalla Protezione Civile ci accorgiamo che il numero dei ricoverati in terapia intensiva non sta crescendo con la stessa rapidità dei casi positivi in corso: lo scollamento non è fluttuante ma mostra un progressivo aumento da una decina di giorni a questa parte.
Nell’immagine seguente lo scostamento è più evidente, ed è rappresentato da quello scalino tra l’andamento attuale dei ricoveri in ICU (intensive care unit) e quello stimato al tasso delle prime due settimane della crisi (mediamente intorno al 10% del numero dei casi attivi): rispettivamente la linea rosso/arancio e quella blu elettrico con gli indicatori.
Naturalmente il numero dei ricoveri in terapia intensiva non può superare la capienza dei reparti (linea rossa spezzata, già comprensiva del piano di rafforzamento disposto dal Ministero della Salute), anzi non vi si può nemmeno avvicinare: si stima che a regime un terzo circa dei posti totali non siano destinabili a trattamenti per il COVID-19, e quindi l’andamento attuale sembra piuttosto un effetto del progressivo assorbimento della richiesta crescente di ICU nelle regioni più colpite (in particolare la Lombardia, dove da diversi giorni decine di contagiati bisognosi di cure vengono trasferiti in strutture in altre regioni).
Essendo giunti a questo punto e con un tasso di contagi accertati compatibile con un livello di massima diffusione del COVID-19 (picco dei casi attivi) di più di 80mila casi, più del doppio delle cifre su cui ragionavamo solo all’inizio di questa settimana (non ero il solo), gli scenari si fanno decisamente cupi. Per di più stiamo cercando di fare previsioni ragionando su cifre fortemente condizionate dal bias delle procedure ministeriali (secondo cui andavano testati solo soggetti con sintomi che avessero avuto un link epidemiologico chiaro con i focolai o con altri contagiati): quello che sta succedendo oggi è l’effetto di una situazione solo in parte sotto controllo due-tre settimane fa e che nel frattempo ha avuto modo di evolvere secondo dinamiche caotiche. E nel frattempo continuiamo a fare molti meno tamponi di quanto l’Organizzazione Mondiale della Sanità suggerisce di fare.
Così più passano i giorni più aumenta la distanza tra lo stato dei fatti e la rappresentazione che ne possiamo dare. Come dicevamo anche ieri, ormai i dati della Lombardia sono legati solo in parte alla reale entità del contagio. Un ottimo articolo in merito è apparso proprio oggi, nemmeno a dirlo, sul Post.
E sempre dal Post apprendiamo che i 466 casi attualmente positivi in Puglia avrebbero avuto tutti contatti nelle settimane scorse con persone arrivate dalle regioni del Nord Italia. Un’altra cittadina è stata chiusa dopo i casi in Campania: questa volta è toccata a Fondi, in provincia di Latina, mentre un uomo risultato positivo al tampone dopo il decesso del padre è fuggito da un ospedale della Val Brembana e ha fatto perdere le sue tracce: carabinieri, vigili del fuoco e soccorso alpino sono impegnati nelle ricerche.
Tornando all’epicentro della crisi epidemica in Lombardia, alle ipotesi iniziali della scorsa settimana sul trigger che avrebbe accelerato la diffusione del coronavirus si sono continuati ad aggiungere ulteriori dettagli. Una combinazione letale di negligenza e superficialità ha piazzato una bomba a orologeria sotto i piedi di un’intera comunità. Anteporre il fatturato delle aziende alla salute dei lavoratori e delle loro famiglie ha fatto il resto.
A futura memoria: quando lo avremo superato, ricordatevi di quanto faceva schifo il capitalismo https://t.co/5GSglhol64
— Marina Calculli (@marinacalculli) March 20, 2020
Come un pioniere, l’uomo sposta i propri confini sempre più in là, si allontana sempre più da se stesso; si “trascende” sempre di più – e anche se non s’invola in una regione sovrannaturale, tuttavia, poiché varca i limiti congeniti della sua natura, passa in una sfera che non è più naturale, nel regno dell’ibrido e dell’artificiale.
Günther Anders, L’uomo è antiquato
Metto il punto finale a un racconto a cui ho lavorato per un mese in cui sono riuscito a far confluire molti dei miei interessi degli ultimi anni: l’ascesa di una superintelligenza forte in grado di prendere il controllo sulla storia dell’uomo, il contatto con civiltà tecnologiche avanzate extraterrestri, l’ingegnerizzazione dell’umanità in chiave postumana, le pulsioni autodistruttive insite nella nostra natura, il pessimismo cosmico di Lovecraft e Ligotti. In diecimila parole.
Il sabato ideale.
Il soprannaturale è la controparte metafisica della follia, e ciò rende il genere dell’orrore soprannaturale il miglior veicolo possibile per esprimere l’incubo misterioso di una mente cosciente naufragata in questa casa infestata che è il mondo, e portata alla pazzia dal suo incredibile raccapriccio. Questo tipo di orrore non ha niente a che vedere con la disumanità dell’uomo verso l’uomo, ma è una demenza necessaria, un ordine superiore di bizzarria e desolazione incorporato nel sistema in cui noi tutti funzioniamo.
Tratto da Thomas Ligotti. Nato nella paura, a cura di Matt Cardin
(Il Saggiatore, 2019 – traduzione di Luca Fusari, pag. 95)
Un po’ come L’ultimo banchetto di Arlecchino di Thomas Ligotti, ma con i Krampus dell’Alto Adige.
Sono trascorsi due anni dall’arrivo nelle sale di Blade Runner 2049 (era il 6 ottobre 2017) e, se da una parte i risultati definitivi al botteghino sembrano aver dato ragione a chi prevedeva il mancato pareggio del budget (gli incassi si sono fermati a 259 milioni di dollari, a cui bisognerebbe ora aggiungere ora i ricavi dalla distribuzione in DVD e Blu-ray), dall’altra è trascorso tempo a sufficienza per trarre un bilancio meno condizionato emotivamente sull’esito della pellicola. Siamo sempre nella sfera del gusto soggettivo, ma a distanza di due anni posso scrivere che nel mio caso il senso di appagamento visivo e di stupore, di meraviglia e di coinvolgimento innescato dalle prime visioni non è andato scemando, anzi ogni volta che se ne presenta l’occasione (nei passaggi televisivi, in home video), non mi lascio scappare l’occasione per tornare sotto la neve sporca di Denis Villeneuve. E la magia si rinnova.
C’è da dire anche che questo film ha rimesso in marcia delle rotelle che non giravano da un po’. Se è presto per dire quale sarà il risultato in questo caso, intanto quanto scrivevo sopra mi sembra un risultato degno di nota, soprattutto rispetto a quanti sostenevano che il film non sarebbe durato oltre l’orizzonte degli eventi degli entusiasmi iniziali. Blade Runner 2049 è ancora lì e per me resta il film migliore di questi ultimi anni. E sono convinto che sia destinato a restare.
Ana Stelline: I Replicanti vivono vite dure, creati per fare quello che noi preferiamo non fare. Non posso aiutarli con il futuro, ma posso darvi dei bei ricordi a cui ripensare, per cui sorridere.
K: È bello.
Ana Stelline: È più che bello. Sembra autentico. E se hai dei ricordi autentici allora puoi avere vere reazioni umane. Non pensa anche lei?
Se ti interessa puoi recuperare la mia recensione o l’articolo scritto per Delos SF, oltre a tutti i pezzi che puoi trovare negli archivi storici di Holonomikon.
Ma adesso guardate ottobre. Le scuole sono cominciate da un mese, e voi ve la prendete più calma, tirate avanti. Avete il tempo di pensare all’immondizia che scaricherete sul portico del vecchio Prickett, o al costume da scimmia che indosserete alla festa dell’YMCA l’ultima sera del mese. E se è già il 20 ottobre e tutto odora di fumo e il cielo è color arancio e grigio cenere al crepuscolo, sembra che Halloween non verrà mai, in una pioggia di manici di scopa e in un filtrare sommesso di lenzuola agli angoli delle strade.
Ma in un anno strano, buio, lungo e assurdo, Halloween venne in anticipo.
Un anno Halloween venne il 24 ottobre, tre ore dopo mezzanotte.
A quell’epoca, James Nightshade, che abitava al 97 di Oak Street, aveva tredici anni, undici mesi e ventitré giorni. Il ragazzo che abitava alla porta accanto, William Halloway, aveva tredici anni, undici mesi e ventiquattro giorni. Entrambi stavano per raggiungere i quattordici anni: gia i quattordici anni tremavano nelle loro mani.
E poi vi fu quella settimana d’ottobre in cui divennero adulti di colpo e non furono mai più giovani…
Tratto da Il popolo dell’autunno (Something Wicked This Way Comes, 1962) di Ray Bradbury. Traduzione di Remo Alessi (Mondadori, Piccola Biblioteca Oscar, 2002). Foto di James Jordan: ”Night Station”.
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