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L’idea che gli Stati Uniti d’America potessero sfaldarsi in una costellazione di entità indipendenti sembrava fino a solo pochi anni fa un pretesto per uno scenario distopico di fantascienza a buon mercato. Non solo la più potente, ma per la forza del suo impatto sull’immaginario comune e per la sua influenza sulla percezione delle persone, sui cittadini dei posti più remoti della Terra, anche la più grande nazione al mondo, un paese in cui tutti vorrebbero (o avrebbero voluto) vivere. Il cuore dell’Impero, a cui noi che abbiamo avuto la fortuna/sfortuna di nascere in una delle sue province d’oltremare potevamo guardare solo con invidia e ammirazione. Un posto da cui dipendono mode e stili di vita, in cui tutto viene deciso, dove si forgia l’idea stessa di futuro. Ecco, almeno quest’ultima parte era per la verità venuta già un po’ meno durante la doppia Amministrazione Bush, ma nemmeno in quei difficili anni di dura guerra al terrorismo era mai venuta meno la convinzione che un paese così, benché diviso e ferito, sarebbe stato per sempre.

Solo nelle storie di fantascienza degli anni ’70 (il discusso Dr. Adder di K. W. Jeter e in parte anche il successivo Noir, il racconto d’esordio di William Gibson Frammenti di una rosa olografica) o in piccole produzioni molto decentrate rispetto alla produzione mainstream (il film per la televisione La seconda guerra civile americana di Joe Dante) poteva capitare di imbattersi in scenari fantapolitici in cui gli USA si erano disuniti in un arcipelago di stati ostili all’autorità centrale, e più o meno impegnati in uno schema di rivalità reciproche sulla falsariga dell’Italia pre-risorgimentale. Se si trascurano le ucronie in cui gli Stati Confederati sono usciti vincitori o in qualche modo sono sopravvissuti alla guerra di secessione, casi concreti se ne contavano anche prima, ma tutti in qualche modo riconducibili a un qualche tipo di catastrofe (spesso connessa al tragico epilogo di una guerra nucleare) da cui emergeva un nuovo ordine in grado di mettere insieme una parvenza di governo sulle rovine del passato (penso ai classici degli anni ’60 Un cantico per Leibowitz di Walter M. Miller o a Davy, l’eretico di Edgar Pangborn).

Molti esempi sono ripresi dal sempre enciclopedico Paul Di Filippo in questo suo excursus sui futuri frammentati della fantascienza, e qualcosa avevo messo insieme anch’io in questo vecchio pezzo sulla fine del mondo. Ma credo proprio – anche se potrei sbagliare – che sia solo con i primi vagiti del cyberpunk che, sul modello della più grandiosa e inquietante delle storie alternative, quella immaginata da Philip K. Dick per La svastica sul sole, cominciano a prendere forma scenari meno granitici, che si confrontano con la prospettiva di un’America frammentata, balcanizzata dalle spinte centrifughe delle stesse entità a livello statale che la compongono. Non più una federazione, ma un continente in perenne stato di guerra intestina, bruciato da un fuoco in grado di incendiare il mondo.

Dallo scorso 6 gennaio 2021 e dal tragico assalto a Capitol Hill, è uno scenario più attuale che mai. Da osservatore remoto delle vicende americane, non mi sembra che un anno di presidenza Biden abbia potuto curare le ferite di quattro anni di trumpismo rampante, né a spazzare via le bugie sparse a piene mani dalla propaganda repubblicana negli ultimi quattordici mesi, e un editoriale del New York Times addita ora la minaccia di una spada di Damocle sospesa sulla testa della democrazia americana, che da un anno vive di fatto in un 6 gennaio permanente. È notte fonda e probabilmente questo senso di precarietà ha già scavato a fondo dentro di noi, come un fiume carsico nelle viscere del nostro immaginario di cui lo sguardo compassionevole verso il passato è solo l’ennesimo sintomo, in un lento processo durato anni che ha gradualmente, progressivamente e inesorabilmente eroso la nostra capacità di guardare al domani, saldandosi con le dinamiche di cui scrivevo a proposito della nostalgia del futuro.

Dieci anni fa, scrissi quasi di getto un racconto che a oggi rimane il racconto a cui resto più legato. Senza far torto a tutti gli altri, che ovviamente continuano a occupare un posto particolare tra i miei affetti e i miei ricordi, Cenere alla cenere è probabilmente il racconto in cui sono riuscito a fare meglio ciò che mi prefiggevo mentre scrivevo: calare l’universale nel particolare, affondare lo sguardo nelle nebbie del tempo (per citare il mio socio Lanfranco Fabriani), laddove la cronaca esplode senza senso e offusca qualsiasi possibile recupero della verità. Ma forse il motivo per cui continuo a essere così affezionato a questo racconto è il lavoro che c’è stato dietro: il contributo di decine di amici che mi hanno aiutato a ricostruire l’Italia di quei giorni grazie ai loro ricordi, alle loro sensazioni, alla loro dedizione per una causa che in fondo ognuno sente un po’ propria – quella di trovare un senso alle cose, anche se le cose non sempre si prestano a essere decifrate. E quei giorni non sono nient’altro che i giorni che portarono al 2 agosto 1980, di cui sta per giungere il quarantesimo anniversario, senza che molta chiarezza sia arrivata a dissipare le nebbie e i fumi, le ombre e le tenebre di quell’epoca oscura.

Linko anche il making of ospitato da Delos in occasione della ristampa del racconto su Robot, perché credo che mai come in questo caso sia importante tanto quanto il racconto.

Nei giorni scorsi è poi uscito il nuovo numero di Futuri. (disponibile anche in PDF). Sono trascorsi quasi sei anni dal primo numero della rivista dell’Italian Institute for the Future, sulle cui pagine uscivo con un racconto di stampo postumanista. Roberto Paura, direttore della testata nonché fondatore e presidente dell’istituto, ha voluto ospitare un mio nuovo racconto, che al momento rappresenta anche l’ultima cosa che abbia scritto: un racconto su un’Italia del sud (Bassitalia, again) prossima ventura, in un entroterra sconvolto dai cambiamenti climatici e svuotato da successive ondate di profughi ambientali, alle prese con space junk, IA, indentured system e intrighi geopolitici. S’intitola La sindrome di Kessler, ha un forte debito di riconoscenza “formale” verso Frammenti di una rosa olografica di William Gibson e contiene più o meno tutto quello che volevo metterci dentro mentre lo scrivevo.

Se le storie di ieri sono ciò di cui si nutrono i racconti di domani, in entrambi questi casi lo sguardo di domani scruta tra le pieghe del presente. Buone letture!

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Mi chiamo Giovanni De Matteo, per gli amici X. Nel 2004 sono stato tra gli iniziatori del connettivismo. Leggo e guardo quel che posso, e se riesco poi ne scrivo. Mi occupo soprattutto di fantascienza e generi contigui. Mi piace sondare il futuro attraverso le lenti della scienza e della tecnologia.
Il mio ultimo romanzo è Karma City Blues.

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