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La Biblioteca del Futuro (Future Library, in norvegese Framtidsbiblioteket) nasce a Oslo da un progetto dell’artista scozzese Katie Paterson nel 2014. Da allora raccoglie ogni anno il manoscritto inedito di un autore o un’autrice internazionali destinato a essere custodito nella cosiddetta Silent Room per essere pubblicato solo nel 2114. In questi anni hanno preso parte all’iniziativa autori di prima grandezza come Margaret Atwood (Il racconto dell’ancella), Han Kang (Atti umani) e David Mitchell (Cloud Atlas), che all’inizio per la verità era scettico sulla valenza dell’operazione, ma poi ha dovuto ricredersi.

Il progetto si prefigge infatti di mettere in condizione gli autori di misurarsi con il pensiero a lungo termine, qualcosa che trascende le loro vite, e quelle dei lettori che avranno la possibilità di misurarsi con le loro opere: tutti gli autori che prenderanno parte alla Biblioteca prima della metà di questo secolo (e plausibilmente molti tra quelli che verranno anche dopo) scriveranno infatti lavori destinati a essere letti da generazioni nemmeno ancora nate al momento della stesura. Inoltre, i contributi che si aggiungeranno alla Biblioteca nel corso del tempo risentiranno inevitabilmente del mutare delle condizioni (politiche, sociali, economiche, culturali) in cui saranno scritti, attraversando un secolo intero di vita sulla Terra, e di sicuro il secolo più ricco di eventi, sconvolgimenti e ricadute tecnologiche tra tutti quelli trascorsi dalla comparsa di quel fenomeno che va sotto il nome di civiltà.

La Biblioteca del Futuro richiama un po’ anche l’intento della Long Now Foundation, che lavora su una scala temporale persino più ampia (10000 anni). L’idea, come scrive BBC Future, è ispirare le persone a superare le distrazioni momentanee e riflettere sulle responsabilità nei confronti delle generazioni che abiteranno il pianeta dopo di noi, promuovendo una prospettiva lungimirante sul futuro. Questo è il sito ufficiale della Future Library.

Trovo che, in un’epoca come la nostra, iniziative come queste dovrebbero fiorire un po’ dappertutto, finché non si sarà raggiunta una consapevolezza tale da poter dare per scontato che le nostre scelte nel presente possono avere una ricaduta a lungo termine, anche oltre l’orizzonte della nostra permanenza sulla Terra.

La perfetta visualizzazione della Città dei Trasporti per come me l’ero immaginata dalle prime pagine di Babel-17. A firma di J (via Instagram).

“Questa città è un porto.”

Frank Uwe Laysiepen, in arte Ulay, è morto oggi a Lubiana. Aveva 76 anni. Nel corso della sua carriera dedicata alla performance art aveva legato indissolubilmente il suo nome a quello di Marina Abramovic: compagni nella vita e nell’arte, avevano concepito e realizzato esibizioni difficili da dimenticare, fino alla separazione suggellata dall’incontro al centro della Grande Muraglia Cinese, dopo tre mesi di percorso a piedi (The Lovers). Quando si ritrovarono, 22 anni più tardi, dopo battaglie legali e tensioni personali, andò così, e con la canzone di How I Became the Bomb a fare da colonna sonora dell’incontro è probabilmente la cosa più bella che vedrete oggi:

Il più grande sogno della letteratura del soprannaturale è rappresentare con il massimo grado di intensità l’immagine dell’universo come una sorta di incubo incantatore.

Su Quaderni d’Altri Tempi recensisco la raccolta delle interviste a Thomas Ligotti selezionate da Matt Cardin: Nato nella paura.

Domenica prossima si chiuderà la quarta edizione di Foto/Industria, biennale di fotografia dell’industria e del lavoro curata da Francesco Zanot per la Fondazione MAST di Bologna. Il tema, che risulterà particolarmente caro a chi frequenta queste pagine, è la Tecnosfera, come è stato definito dal geologo Peter Haff “l’insieme di tutte le strutture che gli esseri umani hanno costruito per garantire la loro sopravvivenza sulla terra”, uno strato artificiale “con un peso stimato di decine di miliardi di miliardi di tonnellate”.

Io ho avuto la fortuna di visitare con la guida dell’artista una delle mostre realizzate sul tema, che raccoglie gli ultimi lavori di Délio Jasse. Ne ho parlato su Quaderni d’Altri Tempi questa settimana. E ve la consiglio incondizionatamente, insieme agli altri nove allestimenti realizzati nel centro storico di Bologna. Tempo (climatico e cronometrico) permettendo.

Nel libro di cui parlavamo pochi giorni fa, Roy Menarini sottolinea le tensioni tra i produttori di Blade Runner e Philip K. Dick, a cui a un certo punto fu chiesto di scrivere una novelization più aderente allo sviluppo narrativo della pellicola diretta da Ridley Scott. Dick, che dei suoi lavori aveva una considerazione una o due tacche più alta della media degli scrittori, rifiutò la proposta e alla fine fu trovato un accordo per una riedizione di Do Androids Dream of Electric Sheep? che, come racconta Paul M. Sammon nella sua Future Noir (da noi Blade Runner. La storia di un mito), richiamasse il titolo del film e apportasse minimi cambiamenti al testo originale (principalmente date e toponimi: il libro di Dick, non dimentichiamolo, si svolgeva a San Francisco nel 1992). Tuttavia, per così dire, le divergenze di vedute tra l’autore e la produzione potrebbero essere state largamente esagerate.

Nel 2012, infatti, sul sito ufficiale dell’autore californiano curato dai suoi eredi, purtroppo non più in linea, venne resa pubblica una lettera inedita indirizzata a Jeff Walker della Ladd Company, una delle società che parteciparono alla produzione di Blade Runner. La lettera, redatta in un tono a dir poco entusiasta, si segnala come documento incontestabile del livello di gradimento che la trasposizione di Scott riscosse da parte di Dick, oltre che del suo punto di vista sulla fantascienza di quegli anni.

Suscita una certa emozione leggerne i passaggi, perché testimonia anche il livello di coinvolgimento a cui giunse Dick semplicemente guardando uno spezzone di Blade Runner, trasmesso durante un servizio che ospitava anche un’intervista a Harrison Ford all’interno di un programma sul cinema mandato in onda dall’emittente locale Channel 7. L’autore rimase sinceramente impressionato dall’estetica di Scott, apprezzò il lavoro dei diversi artisti e tecnici coinvolti nell’adattamento cinematografico di Do Androids Dream of Electric Sheep?, spingendosi infine a profetizzare, sull’onda dell’entusiasmo, una rinascita della fantascienza che negli ultimi anni – secondo il suo giudizio, forse un po’ troppo severo – era “scivolata in una morte monotona”, diventando “fragile, derivativa e stantia”.

Il documento fece la sua apparizione nell’anno del trentesimo anniversario dell’uscita nelle sale del capolavoro imprevedibilmente destinato ad attestarsi come cult movie, oltre che della prematura scomparsa di Dick. Ben prima della rivalutazione critica che avrebbe riabilitato il film decretandone un successo duraturo e una fama planetaria, l’autore seppe cogliere le sfumature di un’opera complessa e, grazie alla sua spiccata sensibilità, riuscì istintivamente anche ad anticipare l’impatto che sia dal punto del linguaggio che dei contenuti il film avrebbe esercitato negli anni a seguire, sulla letteratura di genere, sul cinema tout-court ma anche sulle forme d’arte più varie (“potreste aver creato una nuova forma, unica nel suo genere, di espressione artistica, qualcosa di mai visto prima”, scrive nella sua lettera a Walker, e qui echeggiano le riflessioni di Menarini sul rapporto della pellicola con il ruolo dell’arte).

Dopo le esperienze del cyberpunk e il successo delle declinazioni di temi intrinsecamente fantascientifici secondo gli stilemi della letteratura noir e hard-boiled, è difficile smentire le sue previsioni. E gli echi che se ne riescono a cogliere tuttora nelle opere più disparate e in particolare in capolavori della letteratura di SF (come la trilogia di Kovacs di Richard K. Morgan), del cinema (si pensi a Strange Days di Kathryn Bigelow, a Gattaca di Andrew Niccol, al sequel Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve) e della televisione (da Battlestar Galactica a Westworld), dell’animazione (Ghost in the Shell di Mamoru Oshii, da un manga di Masamune Shirow), dei videogiochi (Deus Ex di Warren Spector, prodotto dalla Eidos Interactive, senza dimenticare l’insuperato videogioco della Westwood Studios), stanno a dimostrare che la sua influenza è ben lungi dall’estinguersi.

Per consentire un accesso diretto ai contenuti della lettera di Dick, pubblico qui di seguito una mia traduzione integrale.

Caro Jeff,

Stasera mi sono imbattuto su Channel 7 nel programma Hooray For Hollywood con il pezzo su Blade Runner. (Be’, a essere sinceri, non ci sono capitato per caso; mi avevano avvertito che si sarebbe parlato di Blade Runner, perché non me lo perdessi.) Jeff, dopo averlo visto – e soprattutto dopo aver sentito Harrison Ford parlare del film – sono giunto alla conclusione che non si tratta veramente di fantascienza; non è fantastico; è esattamente quello che Harrison ha detto: futurismo. L’impatto di Blade Runner sarà semplicemente travolgente, sia sul pubblico che sugli autori… e, credo, sull’intero settore della fantascienza. Da quando ho iniziato a scrivere e vendere fantascienza trent’anni fa, questa è stata l’unica questione di qualche rilevanza per me. In tutta onestà, devo dire che negli ultimi anni il nostro campo è andato gradualmente e inesorabilmente deteriorandosi. Niente di ciò che abbiamo fatto finora, singolarmente o collettivamente, può rivaleggiare con Blade Runner. Non è escapismo; è iperrealismo, così crudo, particolareggiato, autentico e dannatamente convincente che dopo aver visto la sequenza non ho potuto fare a meno di trovare in confronto sbiadita la mia “realtà” quotidiana. Quello che voglio dire è che tutti voi insieme potreste aver creato una nuova forma, unica nel suo genere, di espressione artistica, qualcosa di mai visto prima. E penso che Blade Runner sia destinato a rivoluzionare le nostre nozioni su cosa sia e “possa” rappresentare la fantascienza.

Fammi ricapitolare così. La fantascienza è lentamente ma ineluttabilmente scivolata in una morte monotona: è diventata fragile, derivativa, stantia. All’improvviso arrivate voi, alcuni dei più grandi talenti in attività, e abbiamo infine un ritorno alla vita, un nuovo inizio. Per quanto riguarda il mio ruolo nel progetto di Blade Runner, posso solo dire che non pensavo che un mio lavoro o una mia manciata di idee potessero essere sviluppate fino a dimensioni tanto sbalorditive. La mia vita e il mio lavoro creativo sono giustificati e compiuti da Blade Runner. Grazie… e sarà un grande successo. Si dimostrerà imbattibile.

Cordialmente,

Philip K. Dick

[Questo articolo riprende e rielabora un mio post apparso su HyperNext il 17 maggio 2012.]

Arte e intelligenza artificiale rappresentano un connubio affascinante al quale io stesso non ho saputo resistere, mettendolo al centro di uno dei miei ultimi racconti. In Maja, che potete leggere su Propulsioni d’improbabilità (curato da Giorgio Majer Gatti per Zona 42), l’attenzione si focalizza sulla musica e sull’ipotesi che il talento innato e le basi della creatività possano rappresentare un fertile terreno d’incontro e di dialogo tra intelligenze «naturali» e artificiali, sviluppando esiti che al momento possiamo solo vagamente immaginare.

Dopotutto, è da alcuni anni che il celebre test di Turing, da sempre portato a esempio pratico come campo di prova per valutare un costrutto (aspirante o presunto) candidato a essere riconosciuto come IA, raccoglie un numero crescente di critiche sulla sua effettiva validità pratica, tra le altre cose anche per il suo ispirarsi all’altrettanto famoso imitation game (da cui anche il titolo dell’interessante biopic di Morten Tyldum, tratto dalla biografia di Andrew Hodges, in cui il Benedict Cumberbatch intrepreta il ruolo del grande matematico e criptoanalista britannico). Il punto non è tanto una sottigliezza, perché di fronte agli adeguamenti normativi richiesti dall’introduzione di sistemi automatici in grado di prendere scelte con conseguenze reali e quindi non prive d’impatto per l’ecosistema «umano» in cui agiscono (come potrebbero essere i veicoli a guida autonoma, ma anche IA preposte al controllo del traffico aereo, per non parlare delle eventuali applicazioni militari) le questioni etiche assumono una rilevanza centrale, e quindi non il discrimine per l’attribuzione di una responsabilità non può basarsi sulla pur sofisticata capacità di “ingannare” un interlocutore umano.

Già nel 2008 alcuni esperimenti condotti da Kevin Warwick all’Università di Reading (UK) avevano destato scalpore, se non altro per alcuni esiti quanto meno inquietanti (Think deeply about mysterious dubjects) delle conversazioni con le candidate IA.

Negli ultimi tempi, si sono invece intensificate le notizie sul ruolo possibile delle IA nella costruzione di artefatti video, che spaziano dall’esperimento cinematografico con il corto Sunspiring pensato e scritto da Benjamin, una rete neurale ricorsiva addestrata con una collezione di film di fantascienza, alle frontiere della post-verità con le aberranti prospettive della tecnologia deepfake. Evoluzioni che rendono ancora più concreta e urgente la necessità di pensare a un superamento del test di Turing, magari evolvendolo in una direzione analoga a quella che non facevo altro che estrapolare in Maja pensando a un ipotetico test di Lovelace (ovviamente da Ada, figlia di Lord Byron e prima programmatrice informatica della storia, convinta sostenitrice dell’incapacità delle macchine di sviluppare uno spirito creativo – o banalmente anche solo sorprendere i loro programmatori).

Immagine di Luca Zamoc (fonte: Il Trascabile).

È notizia di questi giorni che i ricercatori di OpenAI, l’organizzazione non profit fondata a San Francisco nel 2015 da Sam Altman e Elon Musk, e finanziata tra gli altri da Amazon e dall’indiana Infosys (un colosso della consulenza IT con oltre 113.000 dipendenti, uffici in 22 paesi, centri di ricerca sparsi su quattro continenti e proprietaria nel campus di Mysore della più grande università d’impresa al mondo), con lo scopo di gestire i rischi esistenziali connessi alla ricerca nel campo dell’intelligenza artificiale e promuovere lo sviluppo di una Friendly AI (una IA benevola), hanno messo a punto un’intelligenza artificiale tanto avanzata da non poter essere rilasciata pubblicamente. Il modello denominato GPT2 risulterebbe infatti talmente efficace nell’ambito per cui è stato sviluppato, ovvero la scrittura di testi deepfake in grado di ingannare un lettore umano, da rappresentare un rischio concreto.

Tra le possibili applicazioni distorte del loro costrutto, i creatori hanno da subito annoverato la generazione di recensioni fake per orientare il gusto dei consumatori e la diffusione di notizie false, la generazione di spam e di fishing. IA come GPT2 potrebbero persino comportarsi come un utente reale, oppure sostituirsi a profili hackerati impersonando versioni alterate ad hoc dell’utente originale, per i motivi più disparati: trarre in inganno altri utenti, per esempio; oppure screditare gli utenti originali, diffondere false informazioni, etc. Inoltre almeno un caso recente ha sicuramente fatto accendere un ulteriore campanello d’allarme nei laboratori di OpenAI: la possibile influenza di un bias ultraconservatore, bigotto e reazionario nelle risposte di GPT2 in caso di addestramento con testi ricavati dalla rete (sorte già toccata al chatbot di Microsoft addestrato per interagire su Twitter).

Questa volta, insomma, ci è andata bene. Ma se la tecnologia ha ormai raggiunto questo livello, non possiamo escludere che altrove qualcuno con meno scrupoli possa a breve mettere (o aver già messo) a punto sistemi altrettanto validi, adottandoli per le applicazioni più subdole. Per quello che ne sapete, non potrebbe questo stesso blog essere mandato avanti da una IA dagli scopi ancora imperscrutabili? Pensate a certe pagine e profili attivi sui social network, a certe piattaforme politiche, a certe dinamiche in atto nei motori di ricerca e nella promozione di beni e prodotti. Il futuro potrebbe essere già davanti ai nostri occhi, e sfuggirci solo perché non abbiamo ancora metabolizzato le categorie giuste per riconoscerlo.

La mia intenzione era di girare un film ambientato tra quarant’anni con lo stile di quarant’anni fa.

Ridley Scott

Titolo quanto mai paradossale, quello scelto da Roy Menarini, critico cinematografico già professore associato di Storia e Critica del Cinema presso il DAMS di Gorizia al momento della pubblicazione di questo volume e ora in servizio presso la sede di Rimini dell’Alma Mater Studiorum di Bologna, per la monografia dedicata a una delle pietre miliari del cinema di fantascienza e non solo. Ridley Scott. Blade Runner risale infatti al 2007, anno di uscita del Final Cut presentato in anteprima alla Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia, ma è invecchiato piuttosto bene. Infatti, se da un lato è vero che la discussione critica intorno al film è andata avanti incessante, ricevendo nuovo impulso dall’uscita del sequel diretto da Denis Villeneuve, è altrettanto vero che i 25 anni trascorsi dalla deludente uscita nelle sale di Blade Runner avevano già prodotto una mole imponente di letture, interpretazioni e disamine, di cui Menarini tiene giustamente conto nella sua esegesi. Dall’analogia marxista tra replicanti e la forza lavoro che si ribella alle tendenze oppressive del capitale, a tutto il simbolismo cristologico che pervade la pellicola, qui dentro l’appassionato hard troverà pane in abbondanza per i suoi denti.

Il libro si compone di una decina di brevi capitoli: parte con un paio di pezzi critici di inquadramento dell’opera, prosegue con l’esame del film fino al livello delle singole scene, riprende la lettura critica con i due capitoli più interessanti del volume (L’estetica delle rovine (umane): un mondo replicante e Modernità di «Blade Runner») e si riserva interessanti divagazioni sui montaggi alternativi, le influenze sul cinema successivo e i seguiti letterari firmati da K. W. Jeter (se volete iniziare, provate a partire da qua). Destano qualche perplessità solo la scelta del materiale incluso nell’antologia critica che fa da appendice al volume, a mio parere inutilmente italo-centrica, come anche il giudizio non proprio lusinghiero espresso su Future Noir: The Making of Blade Runner di Paul M. Sammon, autentica miniera di retroscena sulla pellicola e l’immaginario che ha generato, pubblicato in Italia da Fanucci con il titolo di Blade Runner. Storia di un mito e purtroppo finito fuori catalogo. Nota negativa purtroppo anche per la bassissima risoluzione delle immagini incluse nella galleria che dovrebbe essere il cuore del volume, e che purtroppo disperdono tutto il potenziale visionario dei fotogrammi.

Ma i pregi superano di gran lunga questi piccoli nei. In primis, il punto di partenza. L’autore cerca di rispondere a un quesito apparentemente nonsense: a che cosa pensa Blade Runner? E da qui muove per cercare di “comprendere il funzionamento del cinema, della storia e della cultura contemporanea”. In seconda battuta, e qui torniamo al paradosso di cui dicevamo sopra, propone la lettura di Blade Runner come di un film senza autore, o meglio di un film dai molti autori, visti non solo i contributi di assoluto spessore su cui da sempre siamo costretti a soffermarci quando si parla di Blade Runner, sottolineando l’apporto di Hampton Fancher e David Peoples, di Syd Mead e Douglas Trumbull, di Vangelis e Jordan Cronenweth, senza dimenticare il romanzo originale di Philip K. Dick, ma anche per lo status di cult movie che ne ha determinato un’affermazione tale da portarlo a occupare un posto privilegiato nell’immaginario di ogni spettatore.

Soprattutto, Menarini si sofferma sul rapporto di Blade Runner con il postmoderno, proponendo di converso un’interessante riflessione sulla sua modernità, che finisce per riallacciarsi con il predetto interrogativo di partenza:

Tornando alla suggestione di cui si parlava all’inizio, i replicanti potrebbero essere film che pensano, prendendo la parola film per il suo significato pre-linguistico: una pellicola, una riproduzione tecnica, un nastro, un oggetto dotato improvvisamente di logos. Il replicante è, tautologicamente, la replica della vita, ma finisce con l’essere una vita surreale (o surrealista?), una macchina che pensa per accidente, una forma che prende sostanza.

Il saggio finisce così per rimarcare un importante parallelo tra i replicanti e le riflessioni di Walter Benjamin sull’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica, illuminando di luce nuova una prospettiva che credevamo di conoscere fin troppo bene. Un compendio perfetto da abbinare alla lettura della bibbia di Sammon.

Il destino di Frankenstein nel romanzo originale era una degna punizione del suo crimine? E la vita della sua creatura si poteva rendere ancora più tormentosa? Si potrebbe convenire che il dolore inflitto dalla giovane Mary Shelley all’uno e all’altro possa bastare. Ma a volte i lettori di storie dell’orrore non sono sazi delle tragiche agonie offerte alla loro approvazione. E se tra essi c’è un autore dell’orrore, la posta in gioco può raggiungere le vette dei torvi cieli gotici. Ciò non avviene per puro amore di sadismo, il dare alla vite un altro giro per il piacere di strappare nuove urla ai torturati. Si compie – è stato compiuto – a mo’ di autoflagellazione vicaria, brutalissimo schiocco di frusta che colpisce alla schiena i personaggi di fantasia e distrae l’autore dai colpi che la vita reale infligge a lui in uno specifico momento dell’esistenza.

Thomas Ligotti, dalla Prefazione a La straziante resurrezione di Victor Frankenstein

Tra gli autori che hanno saputo plasmare le frontiere della letteratura dell’orrore, modificandone la percezione e la considerazione presso lettori e studiosi, un posto di rilievo è occupato da questo schivo e ormai leggendario scrittore di Detroit. Quello che prima di lui era riuscito con la narrativa di genere a H. P. Lovecraft, di cui in qualche modo raccoglie il testimone, Ligotti ha saputo riproporlo a partire dagli anni ’80 con i suoi racconti, che da qualche anno l’attenzione di case editrici come Elara e Il Saggiatore sta facendo conoscere anche ai lettori italiani.

Per un’introduzione alla sua figura e opera non posso che rimandare all’eccellente profilo tracciato da Andrea Bonazzi, tra i primi in Italia a occuparsi di Ligotti e suo massimo conoscitore.

Tutt’altro che popolare, Ligotti propone una letteratura weird estremamente ambiziosa, coerente con una poetica antiumana di cui in molti (scrittori e sceneggiatori, ma non solo) hanno finito per nutrirsi, e la sua parabola è analoga a quella descritta da Philip K. Dick nella fantascienza, se non fosse per la non irrilevante differenza che Ligotti è diventato un oggetto di culto ancora da vivo e in attività.

Il Saggiatore ha recentemente dato alle stampe l’edizione italiana di questo affascinante libello, impreziosito dalle meravigliose opere d’arte di Harry O. Morris e rivolto ai seguaci del suo culto. Oggi ne parlo su Quaderni d’Altri Tempi.

Nella descrizione della pagina Facebook I 1000 quadri più belli di tutti i tempi, un’oasi in quel settore di rete, su questo quadro di Edward Hopper leggiamo:

Il silenzio pervade questo angolo di città la domenica mattina, un silenzio quasi irreale che ci racconta di un risveglio lento. L’edificio ritratto – dico ritratto perché è una casa che parla, che racconta – ha le vetrine dei negozi chiuse ed una fila di finestre al primo piano dove possiamo immaginare occhi che si aprono e poi si socchiudono ancora.

Ciò che mi ha sempre affascinato di Early Sunday Morning è la sua perfezione geometrica, quasi che le linee della strada e del palazzo di fronte a noi cospirino per esaltare le migliori condizioni di luminosità di quest’ora del primo mattino di una domenica del 1930. Al riguardo Hopper ebbe modo di precisare che “domenica” non faceva parte del titolo originale e, benché col tempo vi si fosse affezionato, si trattava pur sempre dell’aggiunta di qualcun altro: nelle intenzioni originali dell’artista, questo quadro non era nato per rappresentare un giorno particolare della settimana, ma probabilmente per offrire piuttosto un commento alla vita ai tempi della Grande Depressione.

Se col tempo Early Sunday Morning ha perso la sua originale connotazione storica, forse persino prima ha visto sublimare la sua individuazione geografica: dalla Seventh Avenue di New York, non distante dallo studio dell’artista (al numero 3 di Washington Square North, tra Bowery e il Greenwich Village, non distante dalla New York University), il quadro è diventato rappresentativo dell’America nella sua astratta, forse persino illusoria, totalità. Riesco a pensare a pochi quadri con una vocazione più universale, in grado di sintetizzare l’immagine degli Stati Uniti dalle grandi metropoli alla provincia profonda.

In questo suo articolo per Independent, Tom Lubbock scrive:

Nothing happening. That’s the visual message of the image, with its parallel horizontals, its repetitive sequence of units, its long stretch. It’s also the narrative message. The light declares early morning, and the title specifies early Sunday morning. No one is around. No one is up and about. No one is awake. The street is empty. The people in the apartments sleep. The only visible event is the fall of the light. You’re looking at a scene without consciousness.

La perfezione geometrica che dicevamo sopra ha anche l’effetto di annullare qualsiasi prospettiva, trasportando lo scorcio di questa strada newyorkese della prima metà del secolo scorso dal mondo reale dell’esperienza al dominio “astratto” della matematica. Basta forse questa purezza a evocare l’emersione di una coscienza autonoma, una coscienza che potremmo estremizzare come del quadro sul quadro stesso, o in maniera più poetica come intrinseca alla luce che piove sulla strada e ne rivela le linee e le forme, scoprendo la sequenza della vetrine, delle porte e delle finestre, in un’epifania di sensazioni perse o semplicemente dimenticate nella memoria. Risolvendo così il paradosso di una vista senza osservatori in giro ad apprezzarla, di una coscienza non umana, forse perfino anti-umana.

And maybe you aren’t there either” prosegue Lubbok:

“When we were at school,” Hopper remembered, “we debated what a room looked like when there was no one to see it, nobody looking in, even…” This is the strangest effect in his paintings. He can depict individuals sitting by themselves, or empty rooms, or deserted streets, and he can suggest that the individuals are absolutely alone, the rooms and the streets absolutely empty.

Early Sunday Morning rappresenta lo scorcio di una strada americana com’era negli anni Trenta, come poteva apparire con o senza osservatori in giro ad apprezzarne il silenzio. E rappresenta anche lo scorcio di una strada come potrebbe apparire dopo che qualcosa di catastrofico si è consumato. Un dipinto allo stesso tempo in grado di trasmettere un senso di pace e di angoscia, una rappresentazione del mondo circoscritta in un intervallo storico e un intorno di spazio e una sua idea astratta e universale. La sua essenza e al contempo la sua possibilità.

Guardare il dipinto significa aprire gli occhi in una delle stanze con le tende mezze abbassate al primo pianto, appena sfiorati da un raggio di sole, dal suo calore che si propaga sul cuscino e sulla parete dietro la testiera del letto. E richiuderli per tornare a contemplare nella dimensione del sogno la quiete silenziosa di una strada deserta immersa nella luce del mattino, su un pianeta lontano migliaia, milioni di anni luce da noi.

Passeggiando per le strade di New York il mese scorso avrebbe potuto imbattervi in un’opera fresca di spray firmata nientemeno che da Banksy, misterioso quanto acclamato artista di strada, nonché attivista, che dagli inizi degli anni Zero sta mostrando nuovi e irriverenti percorsi all’establishment dell’arte contemporanea. Banksy ha infatti voluto concedersi un’autentica mostra per le strade della Grande Mela, marchiandone i muri ogni giorno con un’opera diversa, per la gioia dei graffitari e dei fan e con gran disappunto dell’ormai ex-sindaco Michael Bloomberg. Un evento ai confini tra arte di strada e situazionismo, battezzato programmaticamente – da una celebre espressione dell’impressionista francese Paul Cézanne – Better Out Than In.

Le sue imprese, sempre venate di un humour corrosivo, hanno attirato l’attenzione dei media oltre che della polizia, sono state documentate da un blog e si sono concluse con un appello al salvataggio di 5 Pointz, un complesso di Long Island che dagli anni ’90 è un punto di incontro per gli street artist di NY e non solo, e che il proprietario vorrebbe ora abbattere per lasciar posto a un nuovo complesso di condomini.

Better Out Than In, questa sorta di installazione itinerante, ha richiamato dagli archivi del mio immaginario sci-fi il record relativo a Confini, stupendo racconto di Fabio Nardini scritto nel 1997, originariamente apparso su Robot 43 e quindi incluso nella sua raccolta personale intitolata Quantica.

Quanto a Banksy, ne approfitto per riprendere un vecchio post dallo Strano Attrattore. Leggi il seguito di questo post »

Qualche anno fa l’artista Anders Ramsell ha avuto un’idea singolare: ricreare con la tecnica dell’acquerello le scene di Blade Runner, film tratto nel 1982 dal romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep? di Philip K. Dick. L’opera di Ridley Scott ha contribuito in maniera determinante a definire il ruolo della fantascienza nell’immaginario contemporaneo, aprendo la strada alla penetrazione dell’estetica e delle tematiche cyberpunk. E il proposito di Ramsell, che nasceva dalla naturale ma velleitaria ambizione alimentata dall’ossessione del fan, poteva “sfogarsi” in una manciata di tavole in omaggio alla forza visionaria del capolavoro del cinema distopico di fantascienza.

Invece Anders Ramsell non si è lasciato scoraggiare dalla portata titanica del progetto. E oggi, 12.597 acquerelli dopo, i suoi lavori dipinti a mano su pellicole da 1,5 x 3 cm formano una “personale parafrasi da 35 minuti” del capolavoro di Scott. “L’incredibile tributo di un fan“, come è stato definito dalle colonne di Popular Science. Un lavoro straordinario, denso di suggestioni impressioniste, impregnato di una sensibilità degna del surrealismo, che in qualche misura richiama la reinterpretazione animata dei dipinti di Van Gogh, rivelando quanto creativo possa essere il bordo d’intersezione tra le arti.

Ma ora bando alle ciance e gustatevi Blade Runner, come non l’avete mai visto…

[Via Tor.com.]

O almeno questo è quello che ho pensato stamattina, imbattendomi in questa segnalazione da Tor.com: il mondo visto dall’immenso Vincent Van Gogh, ricreato attraverso i suoi quadri. Su Van Gogh la redazione del blog richiama in effetti una puntata di Doctor Who che è in assoluto una delle avventure più belle, poetiche ed emozionanti vissute dal Dottore (almeno tra quelle che ho visto io): Vincent and the Doctor10° episodio della quinta stagione nuova serie.

Forse l’idea mi è nata proprio da là, oltre che da un’altra mezza dozzina di fonti sparse d’ispirazione, fatto sta che qualche mese fa iniziavo a pianificare un racconto su un falsario reclutato per ricreare ex-novo i quadri di un noto pittore di Cape Cod, al fine di replicarne il punto di vista e con esso la meraviglia della scoperta e l’emozione della prima volta a beneficio di un facoltoso committente, ammiratore dello sfuggente artista.

Probabilmente, come spesso mi capita, se avessi letto la notizia mentre stavo già scrivendo il racconto, l’avrei mollato lì a metà strada e le pagine già scritte sarebbero state fatica sprecata. L’effetto collaterale della realtà, come appunto accade. Per fortuna, il racconto si era già scritto da solo in un paio di sere, non più di due settimane fa, e da allora è in buone mani. Stavolta l’alba non mi ha portato sconforto: solo la sorpresa di aver letto la notizia giusta nel momento sbagliato.

Vi lascio al video, che merita davvero.

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Vivere anche il quotidiano nei termini più lontani. -- Italo Calvino, 1968

Neppure di fronte all'Apocalisse. Nessun compromesso. -- Rorschach (Alan Moore, Watchmen)

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Mi chiamo Giovanni De Matteo, per gli amici X. Nel 2004 sono stato tra gli iniziatori del connettivismo. Leggo e guardo quel che posso, e se riesco poi ne scrivo. Mi occupo soprattutto di fantascienza e generi contigui. Mi piace sondare il futuro attraverso le lenti della scienza e della tecnologia.
Il mio ultimo romanzo è Karma City Blues.

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