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Ovviamente, non posso fare altro che sperare che i diritti opzionati per la serie di Briganti si traducano in qualcosa di concreto, ma allo stesso tempo non posso ignorare che il mondo della serialità, che più di ogni altro ha cambiato negli ultimi 15-20 anni il modo di concepire, costruire e raccontare storie complesse incentrate su personaggi multidimensionali, ha già iniziato a cambiare nuovamente pelle: la prossima era, in cui già cominciamo a muovere i primi passi, prevede un progressivo abbandono di temi sfidanti e del modello rischioso fondato su temi scomodi o comunque in grado di accendere discussioni (e di tabù Sezione π² e Corpi spenti ne infrangono qualcuno) e su personaggi disfunzionali (come sono quelli intorno a cui ruotano le mie storie), a favore del recupero del vecchio formato confezionato per soddisfare i palati del pubblico più ampio possibile, e per questo basato su trame lineari, se non proprio verticali, necessariamente accessibili, in grado di assicurare il ritorno atteso agli investitori.

Al cinema, in realtà, il vecchio modello non ha mai lasciato molto spazio al nuovo: è stato nella serialità che la sfida è risultata vincente in questi ultimi anni, perché nella serialità si è potuto osare di più, grazie all’audacia di nuovi player alla disperata ricerca di una formula in grado di sovvertire lo status quo della fruizione generalista tradizionale. Il prevalere di fenomeni come il binge watching ha sancito l’esito della scommessa e la scoperta del tanto ambito Sacro Graal dell’intrattenimento continuo, multipiattaforma e dal seguito social: le piattaforme di streaming hanno conquistato quote di mercato sempre più larghe, arrivando a diventare dominanti con un sorpasso epocale portato a termine nel corso del 2022, e hanno potuto fissare gli standard di un modello poco sostenibile ma valido anche per i concorrenti. Lo spiega molto bene questo articolo uscito ieri sul Post e non faccio fatica a crederci.

Le case di produzione (cioè le società che le serie le inventano e poi le realizzano dopo averle proposte a un canale o una piattaforma che accetta di finanziarle) spesso raccontano come gli stessi committenti che prima chiedevano qualcosa di coraggioso oggi vogliano prodotti sicuri e adatti al grande pubblico. Anche i canali che avevano costruito un business intorno all’idea di serie di prestigio sono diventati altro, spinti a seguire economie di scala e a crescere sempre di più, il che significa attirare un pubblico più ampio, cosa per la quale è necessaria una programmazione buona per tutti e quindi con un carattere più vicino alla televisione generalista.

Benché, specialmente in ambito cinematografico, la storia della fantascienza sia scandita da fallimenti di grande successo (o capolavori che si sono rivelati dei flop al botteghino, a seconda di come la si voglia guardare), da Blade Runner a GATTACA, da Strange Days a Blade Runner 2049 (per chiudere il cerchio), era nella serialità che la science fiction, da Battlestar Galactica in poi, sembrava aver trovato una sua dimensione in grado di coniugare il coraggio di un certo approccio sperimentale a produzioni, almeno nelle loro stagioni di esordio, dal budget confrontabile o di poco superiore alle produzioni indipendenti (penso tra le altre a The Man in the High Castle, The Handmaid’s Tale, Love, Death & Robots e alla sfortunata Raised by Wolves o, sul versante della vecchia guardia, a Westworld, The Expanse e Watchmen).

Certo, esistono sempre le eccezioni e, per nominare una serie che non ho ancora citato, magari prima o poi salterà fuori una nuova Stranger Things. Tuttavia, nessuna delle produzioni avviate negli ultimi anni sembra destinata a prenderne il posto (come sottolinea l’articolo citato) e appare sempre meno probabile che la ricerca della prossima Stranger Things sia perseguita dai produttori con la sistematica tenacia che abbiamo visto finora. E questa è un’inevitabile conseguenza del cambio di modello di business che sta prendendo forma.

Mi piacerebbe sbagliarmi. Spesso succede. Magari succederà anche stavolta.

Ogni volta che muore uno scrittore con cui avverto una risonanza, o che in qualche modo ha avuto un’influenza sulla costruzione delle lenti attraverso cui osservo il mondo, non posso fare a meno che tornare alle sue pagine. A volte sono libri che ho già letto e a cui torno come si farebbe ritorno in una casa che abbiamo abitato per un po’, prima di partire per nuove destinazioni (non è così, in fondo, per tutti i libri che leggiamo, almeno i più belli?). Altre sono libri che mi prefiggevo da tempo di leggere ma che per un motivo o per l’altro (crediamo ci sia sempre tempo, per le cose importanti che necessitano di quel tempo) sono rimasti ad accumularsi sulle mensole della libreria. Era successo l’anno scorso con Valerio Evangelisti. Ed ero ancora immerso nelle sue pagine, quelle familiari intrise di un senso di claustrofobia di Cherudek e quelle crudeli e violente che leggevo per la prima volta di Veracruz, quando è arrivata la notizia della morte di Cormac McCarthy.

Cormac McCarthy Photograph © Beowulf Sheehan http://www.beowulfsheehan.com (via Literary Hub)

Adesso, leggere Sunset Limited potrebbe non essere stata la scelta migliore, mentre ero ancora intriso del mood di Cherudek e delle riflessioni di Mark Fisher, ma di sicuro ha amplificato quella risonanza, quel senso di sintonia con alcune considerazioni, sensazioni o convinzioni, che vanno montando da un po’, stratificandosi tra i miei pensieri, condizionando il mio modo di vivere e agire il mondo.

Il libro è un testo teatrale portato in scena per la prima volta nel 2006 a Chicago, e in seguito adattato anche per la televisione da Tommy Lee Jones, che lo ha interpretato con Samuel L. Jackson. Protagonisti sono due uomini con una vita di dolore e rabbia alle spalle, ma mentre il Nero ha trovato una via d’uscita da questa gabbia di oscurità (“Ho avuto quello che mi serviva invece di quello che volevo, e questa è grossomodo la più grande fortuna al mondo“, sostiene a pag. 100 dell’ultima edizione Einaudi del 2017, nella traduzione di Martina Testa), il Bianco continua a vivere in un “mondo buio“, in cui si sente in trappola.

Una mattina il Nero evita al Bianco di trasformarsi in un “pendolare terminale“, strappandolo dalle rotaie davanti al Sunset Limited in arrivo. Lo porta a casa sua, in uno squallido caseggiato popolato di tossici e crackomani, e inizia tra i due un lungo dialogo sui massimi sistemi: la vita, la morte, il destino dell’uomo, il senso del mondo. Una pagina prima, dopo una lunga insistenza da parte del Nero, il Bianco si era finalmente risolto a dichiarare il suo punto di vista:

Per me il mondo è fondamentalmente un campo di lavori forzati da cui ogni giorno si estraggono a sorte i detenuti – completamente innocenti – perché vengano giustiziati. Non è così che la vedo. E’ così che è. Esistono pareri diversi? Certo. Resistono a un esame approfondito? No.

Ma è un confronto che li porta a lambire un po’ tutto lo scibile umano, dalla musica di John Coltrane al metodo scientifico, dalla storia alla letteratura, diventando ben presto un esercizio olistico di critica, come in questo passaggio capace di coniugare fisica quantistica e narratologia:

BIANCO La Bibbia è piena di storie che devono servire da ammonimento. Anzi, ne è piena tutta la letteratura, se è per questo. Ci dicono di stare attenti. Attenti a cosa? A non prendere la strada sbagliata. Il sentiero sbagliato. Quante ne esistono, di strade sbagliate? Un numero infinito. E di strade giuste? Una sola. [pag. 57]

Il Bianco è un pessimista, un disilluso, e in diversi momenti sembra richiamare direttamente la lezione di Thomas Ligotti. Cormac McCarthy non compare nel lungo elenco di nomi e di titoli di cui il maestro delle tenebre fa menzione nelle sue interviste, ma giudicate un po’ voi davanti a una pagina come questa:

BIANCO Ok. Forse ha ragione. Va bene, ecco le notizie che ho da darle, reverendo. Io anelo all’oscurità. Io prego che arrivi la morte. La morte vera. Se pensassi che da morto incontrerei le persone che ho conosciuto in vita, non so cosa farei. Sarebbe la cosa più orrenda. Il colmo della disperazione. Se dovessi incontrare mia madre e ricominciare tutto daccapo, ma stavolta senza la prospettiva della morte a consolarmi… Be’, quello sarebbe l’incubo finale. Kafka coi controfiocchi.

NERO Cazzo, professore. Non vuoi rivedere tua mamma?

BIANCO No, per niente. Gliel’ho detto che si sarebbe arrabbiato. Io voglio che i morti restino morti. Per sempre. E voglio essere uno di loro. Sennonché, ovviamente non si può essere uno di loro, perché ciò che non esiste non può formare una comunità. Ecco: nessuna comunità. Mi si scalda il cuore soltanto all’idea. Silenzio. Buio. Solitudine. Pace. E tutto questo, nell’arco di un battito di ciglia.

NERO Cazzo, professore.

BIANCO Mi faccia finire. Io non considero il mio stato mentale una visione pessimistica del mondo. Io lo considero equivalente al mondo così com’è. L’evoluzione non potrà non condurre la vita intelligente alla consapevolezza di una certa cosa sopra tutte le altre, e questa cosa è la futilità. [pag. 109-110]

Ecco di cosa stiamo parlando, per intenderci. E ogni giorno di più ho la sensazione che la sofferenza sia davvero una costante ineluttabile, nelle nostre vite. Le cose possono andarci tanto bene da oltrepassare le nostre più rosee aspettative, eppure ci sarà sempre quel rumore di fondo a ricordarci che manca qualcosa, che qualcosa potrebbe andare meglio, che quella certa cosa poteva essere fatta meglio. Non è di insoddisfazione che sto parlando, ma proprio di vincoli, di oneri che ci opprimono, che ci schiacciano le spalle e il petto e ci impediscono di riempirci i polmoni di quell’ossigeno vitale di cui avremmo bisogno per dare sfogo alla nostra gioia. Nessuno è davvero libero, e nessuno, che se ne renda conto o meno, può trascendere la verità finale.

Perché, dopotutto, siamo tutti soli anche quando non siamo davvero soli: siamo soli con noi stessi davanti ai bilanci di natura personale, a quei piccoli check point con cui periodicamente sottoponiamo al vaglio ciò che abbiamo fatto e ciò che stiamo facendo, a quegli esami in cui ci misuriamo rispetto all’ideale che avevamo in mente quando abbiamo scelto di essere una determinata persona o fare una certa vita. Questo è qualcosa a cui non possiamo sfuggire, e non saranno le parole delle persone che abbiamo intorno, nemmeno le più vicine, a poter intercedere per noi con l’ultimo giudice a cui ognuno di noi si trova a rendere conto: sé stesso.

Possiamo nasconderci dietro alla facciata che ci siamo dati, dietro l’apparenza delle maschere che indossiamo ogni giorno, ma sotto è con questo che dobbiamo confrontarci. E sono qui che mi trastullo con queste riflessioni quando mi capita davanti questa visione di Hulk firmata da Mark Fielding:

Sembra un segnale dall’universo, no? Uno di quei messaggi che la realtà ti manda per metterti alla prova, per testare la tenuta delle tue convinzioni. Cosa dire, se non sposare ancora una volta le parole del Bianco di McCarthy, che qui entrano in risonanza con immagini di orrore cosmico in grado di richiamare addirittura H. P. Lovecraft:

La rabbia, di fatto, la provo solo nei giorni migliori. Ma in verità non me n’è rimasta molta. In verità le forme che vedo si sono andate pian piano svuotando. Non hanno più nessun contenuto. Sono soltanto figure. Un treno, un muro, un mondo. O un uomo. Una cosa che penzola con le sue espressioni insensate in mezzo a un vuoto ululante. Senza che ci sia alcun significato nella sua vita. Nelle sue parole. [pag. 112-113]

L’articolo che avevo annunciato è online da alcuni giorni su Quaderni d’Altri Tempi. È un pezzo a cui tengo molto e che allo stesso tempo avrei preferito non dover scrivere.

«Attento a ciò che desideri, Parker!» è il letterale ma tardivo ammonimento che Doctor Strange rivolge al nostro amichevole Uomo Ragno di quartiere dopo averlo malauguratamente assecondato in un disperato tentativo di cancellare la memoria del mondo. Ma facciamo un passo indietro e procediamo con ordine. Prima, però, un allarme spoiler grande come l’Empire State Building: tutto quello che si dirà d’ora in avanti presuppone non solo che abbiate già visto Spider-Man: No Way Home, ma anche ‒ almeno ‒ tutte le puntate cinematografiche precedenti. Teste di tela avvisate…

Spider-Man: No Way Home (2021) è il terzo film monografico dedicato dal sodalizio Marvel Studios / Columbia Pictures alle avventure del nostro amichevole Uomo Ragno di quartiere nato nel 1962 dalla penna di Stan Lee e dalle matite di Steve Dikto, dopo Spider-Man: Homecoming (2017) e Spider-Man: Far from Home (2019), tutti e tre diretti da Jon Watts, con Chris McKenna (già tra gli artefici dei copioni di LEGO Batman – Il film e Ant-Man and the Wasp) a dare continuità a un pool di sceneggiatori sempre diversi e Tom Holland a vestire la tuta del supereroe del Queens. Il film inizia proprio dove Spider-Man: Far from Home si concludeva, con la sconcertante rivelazione dell’identità di Spidey compiuta in mondovisione (come si diceva un tempo) dal più falso degli antagonisti dell’MCU, il Mysterio di Jake Gyllenhaal, spalleggiato dal più fedele denigratore dei supereroi di sempre, l’inde-fesso J. Jonah Jameson di J.K. Simmons, che qui torna dopo dodici anni nei panni di un giornalista che scopriremo essere una versione alternativa del direttore del Daily Bugle.

La spirale degli eventi innescati dalla rivelazione della sua vera identità comporta l’esclusione dall’MIT di Peter e dei suoi amici, l’inseparabile Ned Leeds (Jacob Batalon) e MJ (Zendaya), il che spinge Peter a rivolgersi a Strange (Benedict Cumberbatch) per tentare un incantesimo che possa rimuovere dalla memoria dell’umanità il ricordo della vera identità di Spider-Man. Contro i consigli di Wong (Benedict Wong), Strange accetta di aiutarlo, ma mentre sta lanciando il suo delicatissimo incantesimo, una serie di ripensamenti di Peter finisce per destabilizzarlo e produrre un effetto collaterale imprevisto ma per niente trascurabile.

Non si scherza con il Multiverso

Nella New York del nostro Peter si manifestano all’improvviso una serie di antagonisti incontrati nelle precedenti incarnazioni cinematografiche dell’Uomo Ragno. Ed ecco così riapparire Otto Octavius / Doctor Octopus che semina scompiglio sulla tangenziale con i suoi tentacoli controllati da un’intelligenza artificiale maligna (Alfred Molina, da Spider-Man 2, 2004), seguito a ruota da Norman Osborn nella sua armatura cibernetica da Green Goblin (Willem Dafoe, da Spider-Man, 2002), e così via: Thomas Haden Church riprende il ruolo dell’Uomo Sabbia visto in Spider-Man 3 (2007) prestando la voce alle animazioni in CGI e ai frame ripresi dal girato di Raimi, idem per Rhys Ifans con Lizard (da The Amazing Spider-Man, 2012); mentre Jamie Foxx torna in carne e ossa da The Amazing Spider-Man 2 – Il potere di Electro (2014) a lanciare fulmini e saette.

Insomma, se Spider-Man 3 o The Dark Knight vi erano sembrati eccessivi e ingestibili per il sovraffollamento di supercattivi, Spider-Man: No Way Home è a tutti gli effetti l’Avengers: Endgame dei villain. Sarà difficile battere il primato del numero di antagonisti di un unico supereroe riuniti in un solo film, ma siamo certi che la Marvel stia già pensando a come polverizzare il record. Sta di fatto che prima dell’ultimo Spider-Man, mai si era vista una simile concentrazione di supervillain in un’unica pellicola.

A renderlo possibile, certo, è anche l’escamotage del multiverso. La perturbazione introdotta da Strange nel suo incantesimo ha fratturato il continuum e richiamato a New York gli avversari di tutti (tutti davvero, anche se i più attenti tra quanti ancora non hanno visto il film ‒ pochi, certamente ‒ staranno già facendo i conti) gli Spider-Man cinematografici visti fin qui. Ma per fortuna di Tom Holland, i supercattivi non sono gli unici ad essere precipitati nel suo universo. Insieme ai villain, sono arrivati infatti anche gli arrampicamuri che avevamo imparato a conoscere mentre lui passava dalla materna alle elementari e poi completava il liceo: proprio loro, signore e signori, Tobey Maguire e Andrew Garfield.

L’Uomo Ragno di cui tutti avevano bisogno

Se lo Spider-Man di Sam Raimi (2002-2007) era quello che aveva beneficiato delle storie migliori, raccogliendo i risultati che avrebbero convinto gli studios a investire capitali senza precedenti nei cinecomic (termine su cui ci sarebbe da aprire una lunga parentesi), mentre l’Amazing Spider-Man di Marc Webb (2012-2014) aveva goduto dell’interpretazione forse migliore del personaggio, grazie alla memorabile prova d’attore di Andrew Garfield, lo Spider-Man di Jon Watts e Tom Holland finora era stato semplicemente quello con i costumi migliori (per gentile concessione della Stark Industries, ovviamente…) e al più quello con… la zia May più giovane. Ma malgrado l’ottima alchimia tra i protagonisti, né Homecoming Far from Home avevano regalato molti elementi degni di nota, se si esclude per l’appunto il finale di quest’ultimo da cui deriva tutto questo terzo capitolo.

Serviva qualcosa di grosso, per rendere giustizia a quello che forse è il più amato dei supereroi, perlomeno in casa Marvel. E alla Marvel, come abbiamo imparato in questi anni, non ci si tira indietro quando bisogna pensare in grande. Così ecco un film che in qualche modo cancella tutti gli Spider-Man cinematografici precedenti, ma con la grazia di rendergli onore ed esaltare il meglio di ognuno di loro. Un film che fa un falò di tutte le convenzioni invalse nelle trasposizioni cinematografiche di fumetti, dal funerale al sacrificio dell’eroe, dalla storia d’amore tormentata al cattivo in cui si specchia il lato oscuro che ogni supereroe, malgrado tutto, si porta dentro. Stereotipi, vale la pena sottolinearlo, scolpiti nel nostro immaginario quasi tutti dalla mano di Raimi, con la sua trilogia capace di stabilire un canone per il mondo dei cinecomic (passatemi ancora una volta questo termine odioso, per favore).

E, anche qui, Spider-Man: No Way Home non si limita a cancellarli, ma in qualche modo li riscrive, spingendo tutto avanti di alcuni anni-luce, parlandoci di etica mentre stimatissimi cineasti liquidano i film con i supereroi come se fossero degli insulsi cinepanettoni, e allo stesso tempo riportandoci in quella piacevole e rassicurante comfort zone in cui basta avere un laboratorio di scienze del liceo a disposizione per una notte per sintetizzare il composto chimico adatto alle nostre esigenze. Senza tuttavia trasformare quella comfort zone in un riparo definitivo, ma anzi mostrandocene senza esitazioni la provvisorietà, prima sovvertendola nel perturbante abbraccio tra le tre versioni alternative di Peter Parker, in un trionfo solipsistico che è anche una malinconica presa d’atto della solitudine del supereroe, e poi, inevitabilmente, arrivando al completamento dell’incantesimo di Strange, con la rimozione di quell’abbraccio e di tutti i momenti vissuti insieme da Spider-Man con i suoi amici, perché appunto un supereroe si porta dietro, con i suoi grandi poteri, anche grandi responsabilità, da cui scaturiscono scelte non facili, e soluzioni tutt’altro che comode.

Ad aiutare il Peter Parker di Tom Holland nella sua coming of age, Maguire e Garfield sono i comprimari perfetti, e riescono a guadagnarci il primo l’uscita di scena che il suo personaggio avrebbe sempre meritato (qui poco manca a vederlo con la tunica e la spada laser da saggio maestro Jedi), e il secondo il salvataggio che lo ha tormentato dal 2014 a oggi.

La formula segreta del Multiverso

Come arrivino lo Spider-Man di Maguire e quello di Garfield nella New York di Holland appare chiaro, e le brevi note biografiche che i personaggi condividono con lo spettatore aiutano a colmare il gap che ci separa dalle rispettive ultime apparizioni. Meno chiaro è come abbiano fatto i villain a raggiungerla, visto che tutti sono finiti o stecchiti o redenti nelle loro precedenti manifestazioni, mentre qui preservano fin dalla loro entrata in scena la rivalità verso l’amichevole Uomo Ragno di quartiere che li ha resi suoi storici, indimenticati avversari. Forse solo i Peter Parker provengono dalle pellicole precedenti, mentre i loro avversari arrivano in realtà da storie alternative che non abbiamo mai visto sul grande schermo? Magari storie con esiti diversi? Poco importa.

Ciò che conta è che la storia funzioni e tenga incollati allo schermo dal primo all’ultimo fotogramma, regalando allo spettatore meraviglia anche nei dettagli più piccoli, come il cameo di Charlie Cox nella divisa da avvocato di Matt Murdock / Daredevil. Il merito, va detto, è anche di una formula che la Columbia Pictures porta in dote al progetto da una delle migliori (forse, diciamolo pure, la migliore in assoluto) avventure cinematografiche di Spidey. Il film, che finora non abbiamo citato non essendo un live action ma un lungometraggio di animazione, è quell’autentico gioiello di Spider-Man: Into the Spider-Verse (qui da noi Spider-Man – Un nuovo universo), pellicola del 2018 diretta da Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman, meritatamente premio Oscar, Golden Globe e BAFTA nella categoria miglior film d’animazione. In quel caso era l’adolescente Miles Morales, metà portoricano e metà afroamericano, a ereditare il testimone dell’Uomo Ragno e unire le forze ad altri Spider-colleghi richiamati nel suo universo da un esperimento di Kingpin. Insieme riusciranno a sventare i piani del signore del crimine e a fare ritorno nelle rispettive dimensioni.

Con animazioni pazzesche, un montaggio degno di una graphic novel merito di Robert Fisher Jr., una scrittura eccezionale firmata da Phil Lord e dal co-regista Rodney Rothman e una colonna sonora curata da Daniel Pemberton, Spider-Man: Into the Spider-Verse si è meritato all’uscita 375 milioni di dollari a fronte di un budget di 90, il plauso unanime della critica e in particolare degli artisti coinvolti nei progetti della Marvel Entertainment e, inevitabilmente, la luce verde per un sequel in due parti, in uscita tra la fine del 2022 e il 2023.

Sam Raimi: Homecoming

A quanto pare, la formula di Miles Morales ha funzionato ancora meglio per il caro vecchio Peter Parker, che con Spider-Man: No Way Home ha frantumato i precedenti record del caro vecchio Spidey, raggiungendo l’incasso stratosferico di 1.892.020.052 dollari nel mondo, con cui ha quasi decuplicato il budget di produzione di 200 milioni di dollari, arrivando ad attestarsi come il miglior incasso Sony nella storia, il terzo incasso nella serie dedicata al Marvel Cinematic Universe e il sesto in assoluto di sempre.

Naturale, quindi, che la produttrice Amy Pascal e Kevin Faige, presidente dei Marvel Studios e mente imprenditoriale dietro allo sviluppo dell’MCU (grazie a cui è diventato il recordman tra i produttori, con 25 miliardi di dollari incassati dai suoi film), abbiano da subito cominciato a parlare di nuovi progetti sullo Spider-Man di Tom Holland, anche se al momento il calendario delle uscite della Fase Quattro sembra escludere novità prima del 2024.

Intanto a maggio 2022 (il 6 negli USA, il 4 qui da noi) arriverà nelle sale Doctor Strange nel Multiverso della Follia, che molti punti in contatto ha proprio con l’ultimo Spider-Man, come già si può intuire dal titolo. Il film ha vissuto una gestazione travagliata e, dopo essere stato originariamente attribuito al regista del precedente Doctor Strange (2016) Scott Derrickson, a poco più di un anno dall’inizio dei lavori sulla sceneggiatura è stato riassegnato nientemeno che a sua altezza Sam Raimi, che non si siede dietro la macchina da presa dalla bellezza di nove anni. Michael Waldron, che già si è distinto per il lavoro su Rick and Morty e Loki, è stato chiamato a riscrivere la sceneggiatura e ha dichiarato che il film non rappresenterà solo il ritorno di Raimi all’universo dei supereroi, ma anche alle sue radici horror. Le premesse per un hype alle stelle, insomma, si sprecano.

Il tempo è un cerchio piatto, diceva qualcuno. L’inizio e la fine spesso si toccano. E a volte dalla collisione scaturiscono esiti imprevisti nella nostra dimensione, ma di certo non avulsi alla logica superiore del Multiverso. Provate a chiedere al vostro amichevole Uomo Ragno di quartiere: magari vive e combatte il crimine in un mondo che non si ricorda più di lui, senza più una tuta-armatura hi-tech fabbricata dalla Stark Industries e costretto a indossare una calzamaglia cucita a macchina nel suo minuscolo, spoglio, umido monolocale… ma adesso ha alle spalle una storia coi fiocchi tutta sua. Anzi, almeno tre.

Mosso da un istinto rabdomantico, lo scorso gennaio ho comprato, approfittando dell’offerta dell’editore reiterata come da rito annuale, un libro mai sentito di un autore che non avevo mai letto prima, e in cui mi ero imbattuto solo dopo che negli ultimi anni mi sono deciso a colmare – per gradi – le mie vaste lacune sulla letteratura mitteleuropea (mancanza a cui il catalogo Adelphi offre facilmente l’opportunità di rimediare). Di Un sogno in rosso ad attirarmi al momento dell’acquisto era stata sicuramente la presentazione, che riprendo integralmente dal risvolto di copertina:

Terrifica la profezia pronunciata in un salotto di Mosca alla vigilia della Grande Guerra da un certo Ananchin: ciascuno dei presenti, aveva detto il mediocre scrittore, avrebbe assistito alla propria rovina e a quella della Russia intera, ciascuno avrebbe trovato una morte atroce – e la bella Wera Grocholska avrebbe partorito il Demonio. Vent’anni dopo, il conte Chlodowski, l’uomo che allora stava per sposarla, ha ormai visto realizzarsi ogni cosa: il vecchio mondo è stato travolto, lui stesso è ridotto in miseria, e a nulla è valso che Wera rinunciasse alle nozze e prendesse i voti. La guerra e la Rivoluzione l’hanno strappata al convento e sospinta, fra mille peripezie, nelle steppe dell’Asia – e là, dalla monaca violata da un assassino, è nato quel figlio che Chlodowski cerca in ogni maniera di tenere lontano da sé. Ma tutto sarà vano: come gli spiega Ananchin, che è ora al suo servizio, «il mondo intero è una trama sottile che il Diavolo continua diabolicamente a scompigliare e Dio, invece, con indicibile fatica – così almeno vogliamo sperare a sua gloria – si sforza senza posa di sbrogliare. Al momento, però, il più forte è certo il Diavolo». Per di più, «il Diavolo non ha affatto bisogno di avere corna e artigli, può anche avere charme, addirittura uno charme straordinario, e nutrire le migliori intenzioni, come un vero angelo, quale in realtà egli sarebbe». E sotto spoglie angeliche, infatti, si presenterà nella tenuta del conte, in Polonia, un bellissimo, dolente Anticristo, suscitatore di sventura… Un sogno in rosso è un intreccio inesorabile, dove il racconto di una divinazione passata (sulla Rivoluzione Russa) diventa divinazione dell’immediato futuro, dell’Anticristo hitleriano che avanza.

Argomenti più che sufficienti per indurmi alla lettura, a dispetto di tutta la coda di libri in attesa, nel momento in cui Vladimir Putin dava l’ordine di invadere l’Ucraina e alzare così la posta della sfida che da anni sta lanciando all’Occidente. Il romanzo di Alexander Lernet-Holenia prende avvio proprio in una tenuta polacca, crocevia tra oriente e occidente, contesa tra Varsavia, Vienna e Mosca. Fin dalla prima pagina, veniamo catapultati in un mondo sospeso tra passato e futuro, tra un massacro già compiuto e una catastrofe ancora peggiore ma dai contorni ancora incerti che si prepara all’orizzonte:

Tutte le finestre erano aperte, e l’aria entrava a fiotti. Chlodowski guardava oltre la corte e i tetti delle stalle, oltre il profilo delle colline. Queste ultime erano molto estese, arrivavano assai più lontano del suo sguardo: dietro le altrue della Galizia si stendevano quelle della Volinia, che si spingevano fin dentro l’Ucraina perdendosi nella steppa, e la steppa a sua volta arrivava nel cuore dell’Asia sterminata.

È proprio dal cuore di quell’Asia sterminata che una terribile minaccia si prepara a sconvolgere le vite dei protagonisti. Il conte Adam Chlodowski è un nobile caduto in disgrazia, non si sa bene quanto per demeriti propri e quanto per i tiri mancini del destino. In realtà, la tenuta di Rafalówka in cui gli eventi si dipanano non è nemmeno sua, ma vi abita per gentile concessione della sorella, la più avveduta Madeleine. Chlodowski, che ospita una comunità di esuli russi che hanno preferito emigrare all’avvento della Rivoluzione d’Ottobre, incolpa delle proprie sventure uno di loro, lo stalliere Sergej Gavrilovič Ananchin, ex funzionario di un non meglio precisato ministero dell’impero zarista nonché romanziere di scarso successo, che in occasione di un ricevimento svoltosi a Mosca alla vigilia della Prima Guerra Mondiale ebbe modo di profetizzare l’ascesa del bolscevismo, gettando nella costernazione più totale gli astanti, e in particolare lo stesso Chlodowski, che come conseguenza dei vaticini di Ananchin vide sfumare il sogno di un matrimonio con l’amata cugina Wera Grocholska. A lei Ananchin riservò la più terribile delle previsioni, profetizzandole il parto della sola creatura destinata a sopravvivere a tutti i presenti, “[…] ma quel bambino non sarà un essere umano, sarà un demonio“.

Tanto bastò a sgomentarla e indurla a rinunciare alla vita mondana: dopo una profonda depressione, la poveretta si ritirò in convento, ma le vicissitudini della guerra, gli intrighi politici e una fuga rocambolesca verso l’Oriente prepararono comunque le condizioni perché la previsione di Ananchin si avverasse e la transfuga Wera Grocholska, giacendo con Il’ja Aleksandrovič Ussurov, a sua insaputa nientemeno che “discendente diretto […] del conquistatore e distruttore del mondo Gengis khān, le cui guerre erano costate dieci milioni di morti“, mettesse al mondo l’Avversario.

Un sogno in rosso (Ein Traum in Rot, ed. italiana Adelphi, 2006, traduzione di Elisabetta Dell’Anna Ciancia) è il racconto dell’attesa dell’Anticristo che vide la luce tra le steppe dell’Asia, la cui venuta si compie tra presagi sempre più sinistri, peripezie rocambolesche, scambi di persona e apparizioni spettrali, realizzandosi infine in un’atmosfera da romanzo gotico che sembra preludere agli abissi di follia in cui il nazismo sprofonderà l’Europa e il mondo intero. Dopo aver giocato con le ossessioni tragicomiche della borghesia, la nostalgia farsesca della nobiltà decaduta, e averci fatto ridere amaramente dei loro vezzi, dopo averci intrattenuto con la sarabanda e l’esotismo del romanzo d’avventura, e averci stupito con l’erudizione degli excursus storici e filologici di Chlodowski, e intrigati con i battibecchi filosofici che lo contrappongono ad Ananchin, Alexander Lernet-Holenia risolve il suo sofisticato gioco a incastri con una crudele irruzione del caso nella placida e trasognata atmosfera di Rafalówka.

Ciò che di cogente e di ovvio accade in questo mondo, ciò che non può essere se non così, si compie per mezzo del caso e del malinteso. Perché il necessario e ovvio, di per sé, non sarebbe affatto in grado di imporsi alle altrettanto ovvie necessità che gli si contrappongono. Il necessario in sé non è altro che perpetua preparazione, disponibilità e tensione di cose che si fronteggiano, e infinite sono le necessità che soffocano in se stesse senza neppure cominciare ad agire. Solo dove la folle scintilla del caso dà fuoco alla miscela di conflitti in incubazione, prima che essa venga dispersa dal vento dei tempi, solo là gli eventi esplodono. In questo senso caso e malinteso sono le sole, supreme istanze. Il necessario in sé, infatti, abbonda sempre e ovunque. È solo nell’innesco di coincidenze causali, nel crudo malinteso che mette in moto elementi in principio neppure presi in considerazione ma in realtà dotati di un senso ben preciso – è in questo che si manifesta la volontà del destino.

Lernet-Holenia (1897-1976), che nel secondo dopoguerra fu riconosciuto come esempio di resistenza passiva opposta all’egemonia culturale nazionalsocialista (il suo Marte in Ariete, pubblicato nel 1947, è stato indicato come l’unica opera di opposizione al Terzo Reich scritta in Austria durante la guerra), modello e punto di riferimento negli ambienti della letteratura austriaca fino a subirne quasi il ripudio, trasformandosi nel simbolo di un’Austria inattuale e anacronistica per finire con l’isolamento in cui trascorse gli ultimi anni di vita, firma con Un sogno in rosso (1939) alcune delle pagine più dense e affascinanti che mi sia capitato di leggere, evocando nella dimensione ristretta e periferica della campagna galiziana la vertigine storica che separa la società della Belle Èpoque dal mondo emerso dalla catastrofe della Grande Guerra, e il solenne cupio dissolvi con cui questo mondo di mezzo si consegnerà al sacrificio della Seconda Guerra Mondiale.

Nel sofisticato gioco dei rimandi e delle allusioni che Lernet-Holenia imbastisce a beneficio del lettore, vale la pena rimarcare l’assonanza tra Ananchin e Ananke, la dea greca del destino e della necessità inalterabile, e in maniera altrettanto simbolica il parallelo autobiografico con la figura dell’orfano di incerti natali delineata nell’affascinante Michail Fëderovič Rosenthorpe. Lernet-Holenia propone una lettura gnostica della dimensione divina, da cui lo zampino del Diavolo è inseparabile, e condensa con impareggiabile forza narrativa questa funzione negli esiti via via sempre più distruttivi e catastrofici che comportano i disinteressati tentativi di Rosenthorpe di fare del bene, quasi in un’anticipazione di certo involontaria e del tutto estranea agli scopi dell’autore delle leggi che governano la teoria del caos e che condensano la complessità del mondo.

La qual cosa, forse meglio di ogni altro pregio del romanzo, lo rende tuttora un’opera attuale e capace di parlare al lettore del XXI secolo, con la stessa autorevolezza ed efficacia con cui poteva rivolgersi ai lettori tedeschi alla sua prima edizione il 1° settembre 1939, lo stesso giorno in cui un altro Anticristo, di certo quanto di più distante ci potesse essere dall’ignaro, sfortunato, povero diavolo di Lernet-Holenia, ordinava l’invasione della Polonia.

Lo ammetto, avevo snobbato con sufficienza questa serie HBO baciata dal successo, liquidandola come l’ennesimo teen drama, appena più spinta sotto il profilo del sensazionalismo e della ricerca per la provocazione a tutti i costi. Poi, una sera di un paio di settimane fa, per puro caso mi sono imbattuto in una replica del primo episodio della seconda stagione, in onda su Sky Atlantic, e vuoi per la chimica tra i personaggi, vuoi per lo stile piacevolmente allucinatorio della regia che a tratta sembrava omaggiare nientemeno che David Lynch, vuoi per una colonna sonora – curata dal produttore londinese Timothy Lee McKenzie, in arte Labrinth – che mescola di tutto, dalla trap all’R&B, dall’indie rock al doo wop, passando per sperimentazioni elettroniche ed effetti psichedelici, mi è bastata quell’ora sulla giostra allestita da Sam Levinson per volerne immediatamente di più. E così, nel giro della settimana successiva, ho recuperato tutte le puntate della prima stagione (che per fortuna non sono tante, appena otto), riuscendo a mettermi in pari prima della messa in onda dell’episodio successivo.

E adesso posso dire due cose in più: la prima, che Euphoria non è affatto la solita serie adolescenziale, ma piuttosto una bomba che fa esplodere tutto quel nodo di cliché e pregiudizi che siamo soliti associare al filone; la seconda, che mai pregiudizio da parte mia fu più mal riposto di questa volta, visto che mi ritrovo a confessare di essere diventato a tutti gli effetti un fan di questa serie, che sulla carta dovrebbe essere lontana anni luce dai miei gusti.

Basata su una miniserie omonima israeliana del 2012, ideata dallo scrittore e sceneggiatore Ron Leshem, Euphoria è stata scritta e co-prodotta dal figlio d’arte Sam Levinson (suo padre Barry è il regista, tra gli altri, del piccolo cult Piramide di paura, sulla prima avventura apocrifa dei giovani Sherlock Holmes e John Watson, e di film di successo come Good Moorning, Vietnam, Rain Man – L’uomo della pioggia e Sleepers), che ne ha diretto anche diversi episodi. Parte come una serie incentrata sulla tossicodipendenza della protagonista, la diciassettenne Rue Bennett interpretata da Zendaya (vista e apprezzata negli Spider-Man della Marvel e nel Dune di Denis Villeneuve) e doppiata da Emanuela Ionica, ma ben presto si sviluppa per includere nel raggio d’azione dei suoi episodi tutto ciò che una stagione di passaggio e maturazione come l’adolescenza si porta dietro, dal bisogno di riconoscimento al conflitto generazionale, dall’accettazione di se stessi ai continui attriti tra la ricerca di indipendenza e il conformismo imperante a modelli di bellezza, schemi familiari, relazioni sociali. Traumi, abusi fisici e psicologici, si susseguono mentre avanziamo sul sottile filo teso tra fiducia e tradimento, venendo continuamente presi a pugni da improvvise esplosioni di violenza, lungo il percorso accidentato che conduce i protagonisti fuori da un’adolescenza che sa essere sia una prigione dorata che una giungla spietata.

La prima stagione segue il ritorno a casa di Rue dopo alcuni mesi trascorsi in riabilitazione a seguito di un’overdose. Rue e sua sorella Gia (Storm Reid) vivono con la madre dopo che il padre è morto a causa di un tumore, ma quando si trova a fare i conti con il trauma della perdita Rue, che reagisce in maniera molto diversa da Gia, ha la lucidità di ammettere che la sua dipendenza ha radici forse più profonde e non necessariamente legate al lutto. Il caso gioca un ruolo cruciale nella sua vita e in quella delle sue coetanee: è per caso che Rue s’imbatte in Jules Vaughn (Hunter Schafer), una ragazza in transizione appena arrivata in città, e una fortuita serie di coincidenze fa venire a galla, puntata dopo puntata, i segreti che i loro compagni di scuola nascondono dietro la superficie di vite apparentemente perfette.

Lealtà, identità e ossessioni private completano la ricetta a base di dipendenze di varia natura (psicologica o fisica, da alcol, da droghe, dal sesso), mettendo in pratica una formula che tiene incollati allo schermo dal primo all’ultimo minuto, avvalendosi di continui cambi di registro e di una furia ipercitazionista di stampo molto postmoderno. Il finale della prima stagione culmina in una sequenza girata come un musical sulle note di All for Us e ci lascia appesi alla scogliera del ricatto emotivo in uno dei cliffhanger più riusciti che si siano visti in TV.

Della colonna sonora curata da Labrinth abbiamo detto, ma forse vale la pena sottolineare che i pezzi del produttore britannico (Still Don’t Know My Name, When I R.I.P., The Lake, la già citata All for Us) si alternano con tracce che spaziano dai Bronski Beat (Smalltown Boy) agli Arcade Fire (My Body is a Cage), dagli INXS (Mystify) a Charlotte Day Wilson (Work) a Orville Peck (Dead of Night), tutti scelti con chirurgica precisione per catturare il momento dei personaggi sullo schermo. La musica è uno dei due meccanismi adottati per intensificare l’empatia dello spettatore con i protagonisti. L’altro è il riuscitissimo espediente di iniziare ogni puntata con una digressione su uno di loro, una sorta di origin story che ci racconta il loro background personale attraverso la voce e il punto di vista di Rue, che solo ed esclusivamente in questi momenti si erge a una onniscienza totalizzante ma mai giudicante, con una ricchezza di particolari e uno stile documentaristico che non lesinano effetti paradossali, quando non proprio esilaranti.

La seconda stagione si apre esattamente dove la prima si era bruscamente interrotta, e promette uno spazio maggiore per alcuni dei personaggi più interessanti, il cui minutaggio complessivo era finito per essere necessariamente sacrificato alla parabola del rapporto tra Rue e Jules: e se nel giro di un paio di puntate la loro storia si trasforma in un triangolo amoroso raccontato con sensuale delicatezza, alle mesmerizzanti interpretazioni di Zendaya (premiata con un Emmy nel 2020) e Hunter Schafer si affiancano quelle dell’anomalo duo Angus Cloud / Javon Walton nei panni dei giovani fratelli spacciatori Fezco e Ashtray, di Maude Apatow nel ruolo di Lexi Howard, un’amica d’infanzia di Rue, e di Eric Dane (volto noto del piccolo schermo grazie a Grey’s Anatomy, ma con un ruolo anche nel peggiore dei film dedicati agli X-Men), qui nei panni di un padre di famiglia non proprio irreprensibile.

Grazie al meccanismo dei flashback di inizio puntata, il progressivo svelamento delle loro storie aggiunge spessore a personaggi che nella prima stagione erano poco più che abbozzati, e permette a Levinson di realizzare un ulteriore scatto in avanti nel rilancio delle ambizioni della serie, mettendo in discussione il facile schematismo della contrapposizione tra protagonista buono e antagonista malvagio e portando allo scoperto le ambiguità che aggiungono ombre alla luce, ma che permettono allo stesso tempo anche di cogliere la luce tra le ombre.

La serie in uno scambio di battute

Ali: – Quello che provi per lei ti ricorda qualcosa?
Rue: – Che vuoi dire?
Ali: – Intendo l’ossessione… i sentimenti, l’astinenza…
Rue: – Come la droga?
Ali: – Bingo!
Rue: – Ok, ma questa è una cosa positiva.
Ali: – E la droga? Non era bella appena l’hai provata?

[Dalla puntata 1×04 “Sali sulla giostra”]

Come sa ogni appassionato, Blade Runner è il frutto di un lungo, incessante lavoro di adattamento, iniziato da Hampton Fancher, che per primo riuscì ad assicurarsi un’opzione per i diritti cinematografici di Do Androids Dream of Electric Sheep?, e successivamente proseguito sotto le cure di David Webb Peoples, quando Ridley Scott pretese e ottenne dalla produzione un maggior controllo sulla sceneggiatura, insoddisfatto dei risvolti a suo dire eccessivamente sentimentali delle riscritture di Fancher. In questo processo di riscrittura molte cose furono tagliate via dal materiale di partenza: benché il romanzo non fosse particolarmente lungo (210 pagine nel rilegato della prima edizione Doubleday, perfettamente in linea con gli standard degli anni Sessanta e Settanta), era pur sempre una storia di Philip K. Dick, infarcita di idee, suggestioni, ossessioni, mutuate sia dallo spirito della sua epoca che dalle sue personali fissazioni, troppo per far entrare tutto in 124 minuti di film.

Così ecco ridimensionarsi il ruolo di J.R. Isidore, che nel romanzo dava voce a un alter ego dell’autore (Jack Isidore è anche il nome del protagonista di Confessions of a Crap Artist, scritto nel 1959 e unico tra i suoi numerosi romanzi mainstream che Dick riuscì a pubblicare in vita, nel 1975), spartendosi la scena quasi equamente con Rick Deckard, mentre nel film (dove cambia anche nome in J.F. Sebastian e viene interpretato da William Sanderson) vede il proprio minutaggio ridursi a quello di personaggio secondario. Sorte peggiore tocca ad altri personaggi, tra cui Iran (la moglie di Deckard) e Irmgard (la compagna di Roy Baty), depennate dalla sceneggiatura, così come anche Garland, un altro dei replicanti fuggiaschi. Max Polokov viene in parte adattato nella figura di Leon Kowalski (Brion James), Luba Luft (la cantante d’opera protagonista di uno dei ritiri più struggenti del romanzo, il momento in cui Deckard comincia a nutrire dubbi sulla reale necessità della propria missione e sulla legittimità del ruolo dei cacciatori a premi) confluisce parzialmente in quella di Zhora/Salomé (Joanna Cassidy). Solo Pris (Daryl Hannah) rimane più o meno fedele al romanzo, dove in realtà è una replica di Rachael, e con quest’ultima incarna l’archetipo della donna dickiana, e finisce per assimilare anche alcune caratteristiche di Irmgard; e ovviamente Roy (Rutger Hauer), che da Baty (re pipistrello) si trasforma in Batty (re folle).

In realtà non è del tutto corretto dire che Roy Batty e Pris rimangono fedeli al romanzo, in quanto il film opera un capovolgimento prospettico che da un lato avvicina la storia allo spettatore, e dall’altro conferisce uno slancio quasi romantico ai replicanti. Se nel romanzo Dick era infatti interessato a sviscerare i temi a lui cari dell’alienazione e della reificazione, anche attraverso la figura di un protagonista che non si distacca mai dalla sua dimensione di burocrate, di servitore monodimensionale di una sinistra forza di polizia che ha ramificazioni ovunque nel mondo, e come lui le altre figure umane danno prova (con l’unica eccezione appunto dello «speciale» Isidore) di scarsissima umanità, in una parabola nichilista che si risolve in un orizzonte cupo e disilluso; nella pellicola di Scott abbiamo invece un ribaltamento del punto di vista, con Deckard costretto a confrontarsi, più che con delle minacce letali, con l’umanizzazione esasperata dei replicanti, non solo capaci di spacciarsi per umani, ma di esprimere autentiche qualità umane.

Empatia e entropia sono i due grandi concetti intorno a cui si snoda il romanzo di Dick. Ma mentre nel romanzo l’empatia è una qualità estranea agli androidi e che Deckard sospetta sia sempre più rara e difficile da identificare anche tra gli esseri umani, in Blade Runner l’empatia diventa il comune terreno d’incontro tra l’umanità superata e obsoleta di Deckard e la nuova umanità di Rachael e Roy Batty.

Quanto all’entropia, è un’altra vittima illustre che allunga la lista delle modifiche apportate da Ridley Scott al materiale di partenza. In Blade Runner scompaiono gli animali, così centrali nel romanzo da meritarsi un’esplicita menzione nel beffardo gioco con il lettore che è il titolo scelto da Dick. Scompare San Francisco, sostituita da Los Angeles (pare che una delle prime intenzioni di Scott fosse di trasferire l’ambientazione sulla East Coast, motivo per cui la L.A. di Blade Runner somiglia così poco alla metropoli orizzontale californiana, e invece molto di più alla megalopoli verticale del Mid-Atlantic, o Nord-Est che dir si voglia). E spariscono soprattutto le due principali novità fantascientifiche introdotte da Dick nel romanzo, insieme al tema già molto più convenzionale, anche per l’epoca, degli androidi, ovvero il Mercerismo e il kipple.

Il Mercerismo è una delle trovate più inquietanti dell’intera opera di Dick, una religione basata sull’identificazione dei fedeli con il loro profeta, in una sublimazione della liturgia eucaristica cristiana spinta all’estremo grazie al supporto di una tecnologia capace di rendere la realtà virtuale più reale del reale (così come lo slogan della Tyrell Corporation, a cui nel film corrisponde la Rosen Association del romanzo, è “più umano dell’umano“). Durante la condivisione con Mercer, attraverso la misteriosa scatola empatica gli adepti di questo culto del futuro sperimentano le sofferenze e il dolore inflitti al loro predicatore; e, proprio come succederà di lì a una quindicina d’anni con il cyberspazio di William Gibson (il romanzo di Dick, non dimentichiamolo, è del 1968), durante la fusione/connessione possono riportare ferite anche fisiche, come capita allo stesso Deckard (“È vero […]. Io sono Wilbur Mercer, mi sono fuso con lui per sempre. Non riesco più a staccarmi da lui“, dirà nel capitolo 21).

Il kipple è invece la manifestazione letterale dell’entropia, la massa di rifiuti autoreplicanti che ormai assedia le città terrestri insieme alla polvere radioattiva lasciata in eredità dall’Ultima Guerra Mondiale, un’entità contro cui è inutile qualsiasi resistenza (“Nessuno può battere la palta […] tranne che per un po’ di tempo e forse in un posto solo, come nel mio appartamento per esempio, dove ho creato una specie di equilibrio tra la pressione della palta e della nonpalta, finché dura. Ma poi morirò e me ne andrò, e allora la palta riprenderà il sopravvento. È un principio universale valido in tutto l’universo; l’intero universo è diretto verso uno stato finale di paltizzazione totale e assoluta“, spiega Isidore a Pris nel capitolo 6, dove palta è la traduzione scelta da Riccardo Duranti nell’ultima edizione Fanucci del romanzo) e a cui siamo tutti destinati ad arrenderci (“Lui e le altre migliaia di speciali del pianeta Terra erano tutti destinati a confluire nel mucchio della spazzatura. A trasformarsi in palta vivente“, capitolo 7). Del kipple in Blade Runner rimane un più generico e indefinito senso di decadenza, reso in particolare nell’accumulo di vecchi giocattoli di Sebastian e nello stato di semiabbandono della sua dimora.

Scompare anche un’ulteriore folgorante anticipazione dickiana, di quelle che hanno reso il maestro californiano in qualche modo un profeta del nostro tempo, e per cui si è ogni volta tentati di parlare di realtà dickiana a proposito del mondo in cui viviamo: ovvero la centralità dei mass media nella vita delle persone, che nel romanzo è efficacemente rappresentata attraverso il talk show di Buster Friendly.

E scompare soprattutto un’intera sezione del romanzo, che include alcuni dei capitoli chiave del Cacciatore di androidi. Ma di questo parleremo la prossima volta.

A proposito di nostalgia… Per rispondere al quesito sollevato da AV Club e rilanciato da Rivista Studio, non sarà proprio per il suo flirtare senza contegno con la nostalgia per un mondo antico e probabilmente mai davvero esistito, che Yellowstone risulta allo stesso tempo in vetta alle classifiche degli ascolti e tra le ultimissime serie televisive in grado di generare dibattito o per lo meno small talk sulla rete?

La quarta stagione, conclusasi da poco, ha frantumato i record messi a segno con la stagione precedente, arrivando a raddoppiare la media di spettatori USA e a registrare il primato di quasi dieci milioni con l’episodio finale. Niente male per una produzione partita tra mille incertezze e senza la sicurezza di poter dare un seguito alle innumerevoli sottotrame messe in piedi con i primi nove episodi, nonostante la presenza di star del calibro di Kevin Costner negli stivali del protagonista John Dutton (nonché nel ruolo di produttore esecutivo) e Kelly Reilly (la cui interpretazione era tra le poche cose da salvare della seconda stagione di True Detective) in quelli di sua figlia Beth. Da allora pare che non solo la critica mainstream ma nemmeno la platea degli spettatori, solitamente incapaci di sottrarsi alla spirale convulsiva della ripetizione memetica che nell’ultimo decennio ha suggellato qualsiasi esperienza collettiva di successo, abbiano dedicato alla serie di Taylor Sheridan (già sceneggiatore di Sicario di Denis Villeneuve e del suo seguito, Soldado, e qui anche regista di tutti gli episodi della prima stagione) e John Linson (tra i produttori esecutivi di Sons fo Anarchy) l’attenzione che ci si sarebbe aspettati da un prodotto con i suoi numeri. E tra le ragioni di questa contraddizione lampante c’è forse la natura stessa dello spettacolo messo in scena tra le valli del Montana.

La trama, in breve, segue le vicende della famiglia Dutton, da più di un secolo proprietaria di uno dei ranch più grandi dello stato. John Dutton e i suoi figli sono gli ultimi esponenti di una famiglia che ha partecipato alla costruzione del mito della frontiera americana, e che deve vedersela con le numerose minacce che rischiano di spezzare la loro egemonia su Yellowstone e sulla politica dello stato, di cui controllano le massime cariche. Dopo gli iniziali attriti con gli abitanti della vicina riserva indiana, speculazioni edilizie e faide familiari monopolizzano nelle stagioni successive le loro preoccupazioni, in una escalation di antagonisti e di conflitti che non solo arricchisce di volta in volta la loro collezione di lutti e ferite, ma porta gradualmente a galla i numerosi segreti sepolti nel loro passato. Il senso di appartenenza (alla terra, alla famiglia) e lo scontro tra progresso e tradizione sono i due meccanismi narrativi che innescano tutti i conflitti che riverberano nelle 39 puntate fin qui mandate in onda, sottolineate da un continuo richiamo al senso del dovere che non di rado si trasforma in un ricatto quando non in un alibi.

L’apparente disinteresse mostrato dalla critica non si spiega con una sceneggiatura sì non brillantissima e non del tutto avulsa da plot hole – a volte risolti sbrigativamente, altre semplicemente lasciati lì nella speranza di non essere notati o almeno di essere velocemente dimenticati – ma anche capace di intessere una trama sempre più fitta tra i molti personaggi, accompagnandoli in una crescita che il più delle volte si traduce in un consolidamento della loro caratterizzazione di partenza. Potrebbe sembrare uno schema statico, avverso alle buone regole di qualsiasi manuale di scrittura, e invece è una scelta del tutto funzionale a questo grande mondo antico, costruito sull’esempio della progenie a cui John Dutton appartiene: uomini tutti d’un pezzo, in grado di imporsi contro una natura tanto spettacolare quanto ostile, e di affrontare le insidie disseminate sul loro cammino per volontà di altri uomini come loro, se non peggiori. Ma la sceneggiatura riesce anche a compensare lo scarso dinamismo dei personaggi con un ritmo che da una parte tiene lo spettatore incollato alle vicende dei personaggi e dall’altra esalta i momenti di distensione immortalati dalla fotografia di Ben Richardson, con l’impareggiabile bellezza delle Montagne Rocciose resa ora con lo sguardo attento di un documentarista, ora non senza un certo gusto agiografico nella luce delle albe e dei tramonti.

Date le premesse, il rischio di scadere nella ripetizione fine a se stessa e nel già visto è un confine sottile su cui la serie della Paramount si muove con noncuranza episodio dopo episodio. Ma è un rischio che anche lo spettatore ama correre, perché in fondo è un prezzo che si è disposti a pagare in attesa di scoprire il prossimo passo sulla strada per l’inferno che sono intenzionati a percorrere i protagonisti (in particolare la Beth di Kelly Reilly). È così che Yellowstone, pur senza essere niente di memorabile, si attesta come un ottimo prodotto di massa, espressione di una cultura popolare forse sottorappresentata, ma comunque capace di avvincere l’audience regalando personaggi per cui parteggiare e alimentando quel senso pruriginoso per lo svelamento del mistero che trae conforto dalla sua stessa prevedibilità.

E allora perché se ne parla così poco?

A frenare gli entusiasmi che innescano l’impennata delle condivisioni social è forse principalmente il suo schematismo. Non si tratta di vero e proprio manicheismo, poiché le sfumature dei personaggi sono sufficienti a riconoscere le ombre delle colpe e degli errori che si annidano in ognuno di loro, ma di una più generale tendenza all’omissione che è inevitabile per la riuscita dello spettacolo. Mettere in scena un mondo sospeso fuori dal tempo, in cui il senso di appartenenza a un luogo può convivere pacificamente con un senso della giustizia declinato secondo le usanze e la volontà di un singolo uomo, in cui il mito della frontiera perdura inalterato nella vastità dei panorami senza preoccuparsi troppo del genocidio perpetrato ai danni delle popolazioni indigene su cui quel mito si regge, ma in una versione edulcorata che ovviamente espunge ogni controversia dalla narrazione dei vincitori, è una formula che probabilmente non crea problemi alla maggior parte del pubblico. Ma sicuramente lo diventa l’esito scontato del conflitto: non ci sorprenderemmo di ritrovarci qui tra quindici anni a seguire la ventesima stagione o giù di lì di Yellowstone, con una nuova generazione di Dutton impegnata a difendere il ranch da nuovi nemici, che poi sono i nemici di sempre. E se da una parte questo è proprio ciò che lo spettatore di Yellowstone in fondo chiede, non c’è niente di più distante da quel senso di precarietà e incertezza che condensa il vero potere di una storia.

La serie in una battuta

“L’amara verità è che vogliono i terreni, e, se li ottengono, non sembrerà mai più la nostra terra. Questo è il progresso nel linguaggio moderno, perciò se cercate il progresso non votate per me: io sono l’opposto del progresso. Sono il muro contro cui il progresso va a sbattere. E non sarò io a spezzarmi.”

John Dutton

Devo ammettere che mai avrei pensato di scrivere parole gentili su un film interpretato da Sergio Castellitto, ma alcuni giorni fa mi sono imbattuto in un film che avevo distrattamente adocchiato alla sua uscita, scotomizzandolo all’istante probabilmente anche per via della sua presenza nel cast. Invece la messa in scena, la fotografia, il ritmo della scena in cui ero inciampato per caso mi hanno convinto a dargli una possibilità. Il film, intitolato Il talento del calabrone, ha un’idea e uno sviluppo ben più solidi di un titolo che, per quanto funzionale alla trama, appare anche abbastanza fuorviante, echeggiando la stessa fucina aforistica che ha partorito perle del calibro dell’Eleganza del riccio o La solitudine dei numeri primi: al di là del valore intrinseco delle opere, la formula dei titoli mi dà l’impressione – giusta o sbagliata che sia – di una industrializzazione del prodotto editoriale/cinematografico, che trovo stucchevole e disturbante. In questo caso, alla base del film non c’era tuttavia un libro, come inizialmente sospettavo, ma un soggetto di Lorenzo Collalti.

A rinvigorire il mio intento ci si è messa pure una coincidenza illuminante. Il talento del calabrone è infatti l’esordio italiano di Giacomo Cimini, regista e sceneggiatore romano (classe 1977) con all’attivo un cortometraggio che non poteva essere passato inosservato agli appassionati di fantascienza (e infatti questo non l’avevo scotomizzato): The Nostalgist, da un racconto di Daniel H. Wilson. Questa volta Cimini dirige su una sceneggiatura sviluppata a quattro mani con Collalti, partendo da un soggetto che si presenta come un bizzarro ibrido tra Talk Radio, Speed e Zodiac, per trasformarsi ben presto però in qualcosa di diverso e di piuttosto originale. E si può tranquillamente dire che tutto il peso della riuscita dell’impresa poggi sulle spalle di Castellitto, che per una volta recita senza strafare, per sottrazione più che per enfasi.

L’ultima telefonata di una trasmissione radiofonica notturna mette in contatto un presunto mitomane con DJ Steph (Lorenzo Richelmy), e prima con il pretesto di un suicidio imminente, poi con azioni dimostrative che partono con un attentato dinamitardo e arrivano alla presa di controllo della rete elettrica attraverso un worm modellato sull’esempio reale di Stuxnet, il misterioso radioascoltatore prende il controllo della trasmissione e guida lo speaker e gli inquirenti che intanto si sono messi sulle sue tracce verso la scoperta di un segreto che affonda nel passato e unisce i due uomini in un vincolo indissolubile. Una storia di violenze e umiliazioni mette in moto un meccanismo vendicativo orchestrato come una partita a scacchi, accompagnata dall’esecuzione di brani di musica classica che si riveleranno funzionali allo scioglimento del mistero, in cui flash del passato irrompono attraverso le crepe di una mente corrotta dalla follia gettando luce sul movente.

Una curiosità per gli annali: il protagonista è un ex-professore di fisica di nome Carlo De Mattei, con tanto di parentesi sull’equazione di Dirac e lezione annessa sulla propagazione di versioni adulterate della scienza e di pseudoscienze varie grazie alla cassa di risonanza dei social. Nella messinscena che ha allestito a uso e consumo della sua vittima, De Mattei diventa un fantasma che si aggira per le strade notturne di una Milano fotografata a regola d’arte dal veterano Maurizio Calvesi. Alla sua ricerca si muovono le forze dell’ordine coordinate dal tenente colonnello Rosa Amedei, resa con efficacia e la giusta dose di partecipazione umana da Anna Foglietta, a cui la sceneggiatura affida la battuta più riuscita del film (“Penso che i fantasmi hanno sempre qualcosa che li trattiene su questa terra“).

Risultando centrali o comunque funzionali alla trama, tematiche quanto mai sensibili come bullismo e cybersecurity ricevono per una volta un trattamento all’altezza da parte di una produzione nostrana. Anche per questo Il talento del calabrone è un noir atipico nel panorama cinematografico italiano e, dopo l’esito di The Nostalgist, lascia ancora più con la curiosità di scoprire cosa potrebbe fare Cimini con un budget all’altezza e un nuovo soggetto fantascientifico a disposizione.

No, il titolo non è un’epigrafe tombale, ma la formula più sintetica che mi è venuta in mente per commemorare il grande anniversario che si celebra quest’anno. Il 25 giugno di 40 anni fa arrivava infatti nelle sale d’oltreoceano Blade Runner, un film destinato a condizionare profondamente il nostro immaginario, ridefinendo probabilmente anche le coordinate stesse del futuro verso cui ci muovevamo.

Questo blog ha sempre dedicato un’attenzione particolare alla pellicola di Scott e alle diramazioni che ha originato a partire dall’universo narrativo di Dick. Per amor di statistica, ad oggi, con questo post, si contano 37 tag per Blade Runner (circa il 10% dei contenuti totali), oltre a 20 per Ridley Scott (5%) e ben 38 per Philip K. Dick (che, ok, sono rientrati sicuramente anche in altre discussioni con le rispettive produzioni), a testimonianza della centralità che il film gioca nella mia (de)formazione personale e nella mia visione non solo del futuro, ma oserei direi del mondo.

Il mio amore per il cyberpunk e la fantascienza, probabilmente anche per il cinema e il postmodernismo, per le contaminazioni, per Philip K. Dick, per il noir, e potrei continuare a lungo, nascono da questo film, che come poche altre esperienze ha rappresentato uno spartiacque nella mia crescita. Prima di vederlo, la mia dieta culturale era rappresentata in prevalenza da B-movie di fantascienza e horror, dagli anni ’50 ai primi anni ’90. Dopo averlo visto, i miei orizzonti si sono ampliati a dismisura, fino ad abbracciare fumetti, letteratura, videogame, non sempre, non tutti, necessariamente riconducibili al capolavoro di Scott & Co., ma di certo entrati nel mio radar solo dopo aver settato i parametri di riconoscimento sulle caratteristiche di quello che per me, da quel momento, è diventato la pietra di paragone per tutto il resto.

Oggi, nell’era dello streaming e della pay TV, dei contenuti on-line raggiungibili con qualche click e al massimo previa corresponsione di una fee di una manciata di euro per l’acquisto o il noleggio, potrà sembrare un’assurdità, ma nel 1994, quando riuscii per la prima volta a vederlo durante una messa in onda notturna, registrandolo su una VHS che avrei poi consumato, avrebbero potuto trascorrere anni tra la scoperta di un titolo e la sua visione, specialmente se, come me: a. si viveva in una provincia di Bassitalia; b. la città più vicina distava più di cinquanta chilometri da casa tua; c. non si avevano nemmeno quattordici anni; d. non si aveva la fortuna di avere un genitore o un fratello/sorella maggiore con la passione per l’ambito specifico di quel genere.

[Sembrano trascorse epoche intere, e invece era la nostra infanzia. Il che mi spinge a riflessioni sul tempo e la mia età che vi risparmio.]

La mia scoperta di Blade Runner fu sulle pagine del primo, storico Almanacco della Fantascienza (di cui non a caso conservo oggi non una, ma due copie, una per il valore affettivo e l’altra per necessità di consultazione). Dalla lettura degli articoli che lo menzionavano al momento in cui riuscii a intercettarlo tra i Bellissimi di Rete 4 (quelli che venivano introdotti dalla sigla di Tina Turner, come ricorderanno i veterani in circolazione) passarono forse quindici o diciotto mesi, e la prima volta che lo vidi… mi addormentai per svegliarmi di soprassalto nel bel mezzo di un sogno in cui la pioggia e il mood della Los Angeles del 2019 erano filtrati attraverso la soglia del dormiveglia sulle note della colonna sonora di Vangelis.

Da allora, ho rivisto il film decine e decine di volte, a voler mantenere una stima conservativa e senza voler dare l’impressione di essere sprofondato nella palude della monomania… per quanto, per un certo periodo della mia vita, Blade Runner sia sicuramente stato una fissazione. L’interesse ossessivo per tutto ciò che circonda la pellicola resiste ancora oggi e nelle ultime settimane mi è capitato in diverse occasioni di riguardarne degli spezzoni, ogni qual volta mi è capitato di adocchiarne i fotogrammi durante lo zapping notturno o antelucano.

Va da sé che non potevo lasciar correre la ricorrenza senza organizzare un qualche tipo di festeggiamento. Per cui, a partire da oggi e con una cadenza al momento indefinita – e che con ogni probabilità rimarrà tale – nel corso di quest’anno in maniera più assidua che mai mi troverete su queste pagine a parlare del film, del suo background, delle opere derivative che ha prodotto, e di tutto ciò che mi passa per la mente quando ripenso al mondo di Dick a cui Fancher, Peoples, Scott, Mead e Vangelis, tra gli altri, hanno dato forma. Anche – perché no? – attraverso il recupero della mole sterminata di materiali che ho scritto negli anni.

In una città non precisata di un paese che non viene mai specificato, un ispettore è chiamato a indagare su una serie di misteriosi omicidi che stanno scuotendo la quiete pubblica e, così facendo, minando il prestigio delle autorità. Le indagini, inizialmente condotte senza particolari pressioni per via dell’orientamento e delle abitudini sessuali delle vittime, ricevono una visibilità improvvisa quando un terzo caso si aggiunge ai precedenti, ricevendo risonanza sulla stampa come “il Massacro”. Ma il problema vero, come ci sarà spiegato, è che quel Massacro non era previsto nello schema delle cose e non avrebbe mai dovuto accadere, non rispondendo ai piani dell’Ordine che governa questo mondo.

Visioni simultanee di un ispettore e di un assassino è un racconto di Lucio Besana, seconda uscita della nuova collana delle meritorie Edizioni Hypnos di Andrea Vaccaro affidata alle cure di Andrea Gibertoni, Strane Visioni Digital. Vi ritroviamo tutto il mestiere dell’autore, che avevamo già potuto apprezzare nello straordinario Subotica, racconto vincitore della settima edizione del Premio Hypnos. Anche in questo caso ci troviamo a esplorare i meandri del perturbante, attraverso un congegno narrativo pressoché perfetto che si diverte a giocare con le coordinate mentali del lettore, invertendo spesso ciò che accade nei ricordi, nei pensieri e nelle fantasie contorte del protagonista con ciò che accade al di fuori.

La bravura di Besana (sceneggiatore degli horror The Nest (Il nido) e A Classic Horror Story, nonché autore di un’antologia da poco uscita sempre per i tipi di Hypnos, Storie della serie cremisi) sta nel rendere credibili storie e universi che ci appaiono sprovvisti di qualsiasi logica. Attraverso i suoi narratori poco meno che inaffidabili, anonimi a riprova del fatto che siamo tutti – i personaggi, in particolare l’Ispettore e l’Assassino, ma anche, con uno sforzo minimo di astrazione dal piano del racconto alla dimensione metatestuale, lo stesso autore e noi lettori – nient’altro che delle funzioni (narrative, verrebbe da aggiungere) al servizio dei più vasti piani dell’Ordine, ci consegna storie dal sapore amaro, che lasceranno sicuramente interdetti alcuni lettori, mentre invece trascineranno in un vortice di visioni morbose, «infette», corrotte, tutti gli altri.

L’attrito tra la precisione chirurgica delle descrizioni (prendete per esempio questo passaggio da Visioni simultanee: “Attraverso le crepe nei muri di mattoni intravidi scorci di macchinari in funzione, componenti ricurve e concentriche come gli archi di un sestante che volteggiavano nel buio polveroso, ghiere di erogatori e trapani che roteavano e scartavano in contrazioni secche come spasmi“) e i contorni sempre vaghi e sfumati delle ambientazioni (“il nostro Paese” non viene mai citato con il suo nome, come accade pure per “la vecchia città industriale” che fa da sfondo alla strage dell’Assassino e alle indagini dell’Ispettore) produce scintille in grado di innescare il fuoco di inquietudini sempre più profonde ed estese.

In ogni caso, la delusione non è un’opzione contemplata. Alla fine, proprio come Subotica, anche Visioni simultanee di un ispettore e di un assassino lascia il lettore in uno stato sospeso, tra ciò che è stato raccontato e quanto di ben peggiore potrebbe essere accaduto ed è stato intenzionalmente lasciato fuori dalle pagine. Ma come insegna Jean-Baptiste Rondelet, “il vero scrittore non mette mai tutto nel suo libro; il meglio del suo lavoro si compie nell’anima dei lettori”, e Lucio Besana è una delle penne più lucide al servizio della letteratura di genere ad averlo capito a fondo.

Immaginate un futuro in cui l’80% della popolazione mondiale è stato cancellato e i sopravvissuti vivono asserragliati in città che alternano distretti turistici concepiti alla stregua di un parco divertimenti (a Londra il Cheapside è stato riportato all’epoca vittoriana) e gated community sottoposte a una rigida sorveglianza per garantire la sicurezza dei loro abitanti. In questo futuro la tecnologia ha talmente stravolto le abitudini e lo stile di vita da spingere l’umanità oltre la frontiera del postumano e l’economia è nelle mani di sciacalli senza scrupoli, al cui cospetto perfino i cleptocrati della mafia russa (klepts, per usare uno dei neologismi cari all’autore) finiscono per sembrare degli onesti uomini d’affari.

E immaginate poi un altro futuro, un paio di secoli precedente a quello e un decennio al massimo davanti a noi, in cui l’America continua a essere impegnata su diversi fronti di guerra esterni, a cui i giovani senza prospettive della provincia profonda offrono un continuo ricambio di reclute, dove larghe fette del paese sono di proprietà delle multinazionali (ma non i tech titans che tutti immagineremmo, quanto colossi a bassa intensità tecnologica come la catena di supermercati Hefty Mart, ricalcata piuttosto su Walmart), se non dei trafficanti di droga, ovviamente con la complicità dei funzionari del DHS che fanno affari con loro. Questo futuro, che si distingue dal nostro solo per la diffusione delle stampe 3D e per l’adozione di innesti neurali per potenziare i riflessi dei soldati in programmi militari sperimentali, potrebbe essere una sorta di terzo mondo rispetto al futuro remoto della Londra postumana.

A separare le due epoche c’è stato il Jackpot, che come apprendiamo dopo quasi 350 pagine è un «evento antropico», ovvero provocato dagli esseri umani, “che avevano causato il problema senza averne l’intenzione e senza capire cosa stavano facendo”. Il cambiamento climatico era stato solo l’inizio, poi le cose erano andate sempre peggio, coinvolgendo l’estinzione di specie animali vitali per l’ecosistema e la diffusione di epidemie sempre sul punto di trasformarsi in grandi pandemie. Ma mentre la curva demografica veniva affossata, la tecnologia aveva vissuto un nuovo rinascimento, con l’invenzione di nuovi farmaci, la maturazione delle nanotecnologie, l’ideazione di cibo sintetico e, non ultima, l’ascesa di un nuovo costoso passatempo basato sul viaggio nel tempo.

Dilungarsi sulla trama di The Peripheral di William Gibson, romanzo del 2014 arrivato da noi con il titolo di Inverso nella traduzione – a tratti distratta, per non dire svogliata – di Daniele Brolli, è pressoché inutile. Anche se stavolta il Nostro ci concede il piacere adrenalinico di scene dall’azione concitata che per molti versi sembrano riportarci alle origini, e in particolare a quello spartiacque che la trilogia dello Sprawl rappresentò per la fantascienza, l’alienità del futuro post-Jackpot e gli effetti che i suoi «entusiasti del continuum» sono in grado di determinare nel futuro dissestato che porterà al tracollo della società sono talmente estremi da richiedere al lettore uno sforzo aggiuntivo di decodifica, per non parlare di un vero e proprio atto di fede. In fondo, è il patto che Gibson chiede sempre al lettore: lasciarsi condurre a spasso alla scoperta di invenzioni ora astruse, ora bizzarre, ora semplicemente inconcepibili per un lettore provvisto di un minimo di buon senso, riuscendo in cambio ogni volta a ripagarlo per la pazienza. Tra le trovate più degne di nota, stavolta possiamo annoverare sicuramente i neurorganici, le periferiche del titolo originale, usate per trasmettere a distanza la propria coscienza in corpi bioingegnerizzati allo scopo, oppure le Michikoidi, bambole robot con impianti militari che riscuotono un ideale credito di riconoscenza dalle bambole assassine di Ghost in the Shell, coniando un neologismo che invece fa il verso alla spietata critica Michiko Kakutani, già affilatissima penna del New York Times.

I capitoli si susseguono brevi, ricalcando anche qui lo il montaggio incrociato seguito in Giù nel cyberspazio (1986) o Monna Lisa Cyberpunk (1988), ma poi ripreso anche nella successiva trilogia del Ponte, e la scelta ha una sua ragion d’essere dal momento che ci permette di seguire il dipanarsi dell’intrigo dal doppio punto di vista dei protagonisti che vivono nelle due epoche: Flynne, la ragazza della frazione, e Wilf Netherton, il suo committente dal futuro post-Jackpot. La soluzione si rivela però anche uno dei limiti del libro, costringendo l’autore, man mano che avanza nella storia, a dedicare la prima parte di ciascun capitolo a un riassunto di quanto accaduto nel frattempo senza venire percepito dal protagonista del capitolo precedente, con una conseguente perdita di immediatezza per il lettore. Sarà interessante vedere come questa alternanza dei punti di vista sarà gestita nella serie TV messa in produzione da Amazon e affidata ai produttori di Westworld Lisa Joy e Jonathan Nolan.

Nelle dinamiche e nel titolo scelto per l’edizione italiana, sembra curiosamente di cogliere qualche risonanza con Tenet: anche in The Peripheral come nel capolavoro di Christopher Nolan abbiamo un futuro che dichiara guerra al passato, portando alle estreme conseguenze la logica predatoria del capitalismo. La componente politica è particolarmente accentuata nel romanzo di Gibson, che comunque si discosta completamente da qualunque cosa si sia vista fin qui (e quindi anche nell’innovativo Tenet) nelle dinamiche del viaggio nel tempo: al di là della strana coincidenza del titolo italiano, infatti, le due storie hanno ben poco in comune. The Peripheral mette in scena un viaggio nel tempo che è in sostanza basato solo su un trasferimento di informazioni, comunque sufficiente a determinare effetti anche su scala macroscopica, come per esempio la scalata a compagnie del passato o l’interferenza con l’economia dell’epoca. Di fatto, quello che fanno i manipolatori di mondi del futuro non è altro che traferire il colonialismo imperialista dallo spazio al tempo.

Ci sarebbe tanto da scrivere su questo libro, e non escludo di farlo un giorno. Intanto, mi piace constatare un’ulteriore interessante punto di contatto con «la Macchina di Whiterose» vista in Mr. Robot. E così è davvero come se, una volta ancora, Gibson andasse a riannodare i fili con tutto l’immaginario scaturito dalla mitopoiesi cyberpunk di cui il suo Neuromante è stato nel 1984 epicentro e punto d’origine. Questo The Peripheral, seguito nel 2020 da The Agency con il ritorno di Wilf Netherton, va a costituire il primo volume della sua quarta trilogia, del cui capitolo finale ha già anticipato (e poi smentito) il titolo, che avrebbe dovuto essere The Jackpot. Comunque si svilupperà la serie, possiamo comunque già dire di essere davanti alla sua prova migliore almeno dai tempi di Pattern Recognition.

Terence Fletcher (J. K. Simmons) è il direttore della principale orchestra dell’Istituto Shaffer di Manhattan. Il neoiscritto Andrew (Miles Teller) è disposto a tutto per affermarsi come batterista e punta subito all’orchestra di Fletcher per guadagnarsi un posto, riuscendo a farsi assumere come riserva. Per un colpo di fortuna provocato da una sua disattenzione, Andrew si trova a sostituirsi al batterista principale durante un concorso, esibendosi in un’esecuzione perfetta di Whiplash, brano del compositore jazz Hank Levy scelto dallo stesso Fletcher, e permettendo alla band di conquistare il primo posto. Ma Fletcher è rinomato per i suoi modi duri e per un lato oscuro che ne alimentano la fama come insegnante spietato: non appena Andrew viene ammesso nell’orchestra come primo batterista, Fletcher comincia a sottoporlo a prove sempre più difficili, cercando di spingerlo al limite per avere certezza non solo del suo talento, ma anche della sua determinazione ad acquisire la tecnica necessaria.

Inizia così una discesa sempre più veloce nelle ombre che si allungano sulla strada del successo: le buone intenzioni lasciano presto il posto a un’ossessione che non concede spazio a nient’altro che non sia lo sviluppo di una tecnica perfetta, in grado di esaltare il suo talento. E naturalmente, con un maestro come Fletcher abituato a divorare, masticare e sputare via le ossa dei suoi musicisti, la strada rivelerà una destinazione diversa e molto lontana dalla gloria. Andrew subisce un crollo nervoso da cui impiega diverso tempo per riprendersi, mentre anche grazie alla sua testimonianza Fletcher viene allontanato dal conservatorio.

Sennonché, a distanza di diversi mesi, Andrew s’imbatte di nuovo in Fletcher, che adesso suona in un club per guadagnarsi da vivere, e che si mostra conciliante in modo sospetto , proponendogli di unirsi alla sua nuova band. Andrew, che dopo aver lasciato a sua volta il conservatorio ha abbandonato del tutto le sue ambizioni scivolando in una routine ordinaria e monotona, si lascia attirare nella trappola del suo ex maestro. Ma il tempo non ha spento il fuoco che brucia in lui e alla fine, nonostante la scorrettezza di Fletcher che lo costringe a improvvisare senza spartito un pezzo che non conosce, riesce a mettere a frutto il suo talento innato, la tecnica acquisita e la sua assoluta dedizione alla musica imponendo al direttore d’orchestra un’esecuzione di Whiplash che non gli lascia altra possibilità che assecondare il suo batterista e accompagnarlo verso una prestazione memorabile.

Ossessione e talento si mescolano inestricabilmente nella parabola del personaggio di Andrew, seguendo un percorso in controfase rispetto a Fletcher ma che li troverà entrambi a convergere nel punto d’arrivo finale. E così Whiplash, che nel 2014 ha fatto conoscere agli addetti ai lavori Damien Chazelle prima che si imponesse anche all’attenzione del grande pubblico con La La Land (2016) e poi con First Man (2018), si trasforma in una storia sul prezzo che siamo disposti a pagare per inseguire i nostri sogni, ma anche per trasformare la passione in arte e, in ultima istanza, in successo.

Alla fine Chazelle, che qui si concede anche qualche tocco autobiografico, volutamente non scioglie tutti i nodi della trama, lasciando la figura di Fletcher sospesa nell’ambiguità tra la dimensione del tiranno piscopatico e il suo ruolo da mentore. E proprio per la sua straordinaria performance capace di conferire profondità e credibilità al personaggio, J. K. Simmons (che tutti ricorderemo per l’interpretazione del burbero direttore del Daily Bugle nella trilogia di Spider-Man diretta da Sam Raimi) si meritò il premio Oscar per il miglior attore non protagonista e una valanga di altri riconoscimenti. Al film andarono quell’anno altri due Oscar, per il montaggio a Tom Cross (che poi avrebbe collaborato con Chazelle anche nei successivi due film) e per il sonoro. Che siate o meno appassionati di jazz, questo è un film che dovreste vedere.

Che il 2021 si preannunciasse come un annus mirabilis per l’immaginario fantascientifico e per quello cyberpunk in particolare lo avevamo anticipato mentre eravamo ancora agli albori, nella scia dell’uscita di Cyberpunk 2077, in piena marea montante di una serie di iniziative editoriali che potrebbero configurare quello che mi ero arrischiato a definire un nuovo rinascimento cyberpunk, per proseguire poi al cinema con Dune e il ritorno di Matrix (e mettiamoci anche l’imminente Spider-Man: No Way Home), e in streaming con il nuovo buco dell’acqua (il secondo di una certa entità dopo il flop dell’attesissimo Altered Carbon) rappresentato dal tentativo – per fortuna effimero – di dare una seconda vita live action a una pietra miliare che non ne aveva certo bisogno come Cowboy Bebop (forse ne parleremo, ma forse anche no).

L’anno è proseguito tra celebrazioni e anniversari, alcuni passati quasi del tutto inosservati, come i quarant’anni dall’uscita del racconto Johnny Mnemonico di William Gibson, che avrebbe posato la prima pietra nel castello di ghiaccio nero del cyberspazio, una fortezza attorno a cui, tra alti e bassi, corsi e ricorsi, si sono concentrate le forze dell’immaginario dei decenni successivi, proiettando la sua ombra fino a noi. Noi ne abbiamo parlato su Quaderni d’Altri Tempi, ripercorrendo anche la genesi del racconto e tracciando un parallelo con la sua trasposizione cinematografica, che se non altro ebbe il grosso merito di lanciare Keanu Reeves come icona fantascientifica.

A non passare sottotono è stato invece l’altra grande ricorrenza di quest’anno. Il 2021 ha visto compiere quarant’anni anche a un’altra delle colonne portanti della nuova fantascienza distopica degli anni ’80 e anche in questo caso ne abbiamo scritto sulle pagine di Quaderni: riguardare a distanza di anni 1997: Fuga da New York per scriverne è servito anche a constatare la grandezza del capolavoro di John Carpenter, un film che non è invecchiato minimamente nel suo ritratto di un potere sordo e corrotto e di un mondo dominato da un individualismo sfrenato, in cui l’incontro con il prossimo può servire al massimo a instaurare brevi alleanze in un’ottica di utilitarismo tribale, e nel caso peggiore a cercare di trasformarlo nella propria cena – in senso letterale.

In quarant’anni, siamo sempre lì, sull’orlo dell’abisso. Solo un po’ più incoscienti e pronti a spiccare il salto nel vuoto che ci separa dal grande destino che aspetta tutti noi. Non è vero, Plissken?

Un’inquietante presenza si annida dietro le pareti di un vecchio stabile alla periferia di una metropoli non meglio precisata. Una presenza sinistra e malvagia, che sembra nutrirsi del dolore degli inquilini, delle loro frustrazioni e paure, dei loro traumi, e che sempre più famelica non si accontenta di questo, ma richiede periodicamente un dazio da pagare in sacrifici umani. Come scopre Juri (Tristan Göbel), un sedicenne appena arrivato nel condominio al seguito di suo padre Jaschek Grundmann (Charly Hübner), che ne ha assunto l’incarico come custode manutentore, è una storia che va avanti dal 1979, l’anno in cui il condominio fu inaugurato. Time is a flat circle, direbbe Rustin Cohle, e in effetti il cerchio è un simbolo che ricorre anche lungo le otto puntate di questa miniserie tedesca, creata da Till Kleinert, Anna Stoeva e Thomas Stuber, diretta da quest’ultimo e co-prodotta da Sky Studios e Lago Film.

Hausen, come spiega Hübner, è una parola che non sta per casa ma per abitare, e che qui assume diverse valenze, in relazione alle condizioni di vita degli abitanti del palazzo, uno spaccato della società con le sue gerarchie di potere, l’immutabilità dei ruoli, le logiche di sopraffazione e sottomissione declinate sia fuori che all’interno dello stesso nucleo familiare. Nel lugubre affresco che riunisce i residenti di questo squallido casermone, il registro del racconto spazia dal grottesco all’inquietante, senza risparmiare un tocco di Unheimlich che ripagherà i cultori delle visioni più estreme. La sintesi finale armonizza alla perfezione il discorso sociologico sul nostro tardo capitalismo, con l’emarginazione, le derive autoritarie, le dipendenze e la violenza che ne sono espressione, e suggestioni che richiamano, abbastanza sorprendentemente, l’orizzonte metafisico di un orrore cosmico normalmente appena sfiorabile, e qui invece ritratto in tutta la sua monumentale grandiosità.

Così, attraverso gli otto episodi – densissimi di riferimenti ma anche esigentissimi nei confronti dello spettatore, al quale sono richieste pazienza nella visione e attenzione ai dettagli, spesso annegati nella distesa di ombre che domina ogni inquadratura – si articola un percorso immaginifico che va di pari passo con quello salvifico di alcuni personaggi, tra cui il giovane e inizialmente insicuro Juri. Proprio quest’ultimo, grazie all’incontro con altre anime disastrate come la sua, tra cui un tetro spacciatore soprannominato Ninja (Béla Gabor Lenz) e la solitaria Loan (Andrea Guo), coinvolta in una relazione di cui lei stessa ignora i contorni con il suo insegnante di scacchi, finirà per acquisire gradualmente consapevolezza del segreto dell’edificio, e per primo comincerà a distinguere gli spettri del passato che perseguitano lui e suo padre dalle minacce ben più letali che albergano nelle viscere del palazzo, facendosi chiave di volta per la soluzione del mistero e il rito di purificazione e rinascita finale.

Hausen fotografa il disagio e le inquietudini dei personaggi con tonalità livide che si aprono a malapena la strada attraverso le tenebre che hanno preso il sopravvento sulle loro vite, esaltando la claustrofobia dei set ricreati con cura magistrale dalla scenografa Jenny Rösler in un ospedale abbandonato nella periferia nord di Berlino. Il condominio, che estremizza le patologie già intercettate da J. G. Ballard, richiama alla memoria le case di Suspiria e Inferno catalizzatrici di un male metaumano. Ma l’immaginario di Hausen non si ferma di fronte all’irrazionale che segnava anche il limite del cinema estetizzante di Dario Argento, ma anzi corteggia con insistenza e coraggio gli orrori innominabili, capaci di condurre alla follia per il solo fatto di essere contemplati o pensati, su cui si fonda una gloriosa tradizione del genere che possiamo far risalire a H. P. Lovecraft. Gli effetti speciali privilegiano poi l’approccio analogico che esalta i richiami, forse involontari ma certamente d’impatto, alle flesh interfaces già incontrate nella prima stagione di Stranger Things, così come anche la fisicità del fluido nero che trasuda dalle pareti del palazzo e gorgheggia intorno ai residenti, evocando gli spettri del passato con i suoi vapori mefitici. E al termine di una transizione psichedelica che non può non richiamare Kubrick e il suo 2001: Odissea nello Spazio regalano allo spettatore il più appagante, benché – o magari proprio perché – annunciato, dei finali.

Trasmesso in anteprima la scorsa primavera da Sky Atlantic e passato un po’ in sordina, Hausen è una visione obbligata per tutti gli amanti dell’horror, del weird e più in generale del fantastico fuori dagli schemi.

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Mi chiamo Giovanni De Matteo, per gli amici X. Nel 2004 sono stato tra gli iniziatori del connettivismo. Leggo e guardo quel che posso, e se riesco poi ne scrivo. Mi occupo soprattutto di fantascienza e generi contigui. Mi piace sondare il futuro attraverso le lenti della scienza e della tecnologia.
Il mio ultimo romanzo è Karma City Blues.

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