Il momento clou della puntata finale dell’ultima stagione di Game of Thrones viene toccato, secondo me, in una scena di minor pathos rispetto alla scena che sarà rimasta impressa nella mente di tutti o quasi, ma di importanza perfino maggiore nell’economia narrativa dell’episodio e dell’intera serie. Inevitabili, di qui in avanti, gli spoiler, quindi proseguite oltre solo nel caso aveste già visto la puntata (o non foste particolarmente sensibili alle anticipazioni, anche di un certo rilievo).
Il Folletto, condotto al cospetto dell’assemblea dei Lord di Westeros (o almeno di quelli sopravvissuti alle ecatombi di quest’ultima stagione), si ritaglia un altro momento di grande cinema, come spesso gli è toccato nel corso di questa serie, tra i cui protagonisti rappresenta sicuramente il personaggio più sottovalutato e bistrattato, almeno a giudicare dal numero di vessazioni, prove e pericoli mortali che gli impone la sorte fin dalla primissima stagione e dall’egual numero di volte in cui è riuscito a portare a casa la pelle dopo che tutti o quasi lo avevamo dato per spacciato. Qui, chiamato a pronunciarsi su una questione vitale per il futuro dei Sette Regni, il figlio rinnegato del casato dei Lannister (che, ricordiamo, è interpretato da uno straordinario Peter Dinklage) tiene un discorso breve ma fulminante, capace di racchiudere in poche battute una dichiarazione di poetica:
“What unites people? Armies? Gold? Flags? Stories. There’s nothing more powerful in the world than a good story. Nothing can stop it. No enemy can defeat it. And who has a better story than Bran the Broken? The boy who fell from the High Tower and lived. He (Bran, NdA) is our memory, the keeper of all our stories. Who better to lead us into the future?”
“Cosa unisce le persone? Eserciti? Ricchezze? Vessilli? Storie. Non c’è niente di più potente a questo mondo di una buona storia. Niente riesce a fermarla. Nessun nemico può sconfiggerla. E chi può vantare una storia migliore di Bran Lo Spezzato? Il ragazzo che è precipitato dall’Alta Torre ed è sopravvissuto. È lui la nostra memoria, il custode di tutte le nostre storie. Chi meglio di lui può guidarci verso il futuro?”
Il discorso che gli sceneggiatori (per l’occasione anche registi) David Benioff e D. B. Weiss, probabilmente gli showrunner più odiati del momento, hanno riservato al beniamino dei fan più anarchici, è una sorta di manifesto, in cui possiamo ritrovare uno dei leitmotiv della terza stagione di True Detective. È come se HBO stesse trasmettendo un messaggio agli spettatori, attraverso le parole di Tyrion, ed è un messaggio che riecheggia da più parti, anche in maniera più sinistra (come quando il CEO di Netflix si spinge a sostenere che la vera concorrenza che devono affrontare è il sonno). Siamo – tutti, senza distinzione – le storie di cui ci nutriamo. In misura più o meno marcata sono le storie che guardiamo, che leggiamo, che ascoltiamo, a cui ci affezioniamo al punto da programmare le nostre giornate sugli orari degli spettacoli, da pensare alle nostre vacanze per vedere in prima persona i luoghi in cui si sviluppano o prendono forma, a definire chi siamo. Ed è un discorso sulla nostra identità che fa anche il paio con la memoria e con il futuro, perché ciò che tratteniamo dentro di noi dopo i titoli di coda finisce inesorabilmente per cambiarci.
Siamo le storie che ci vengono raccontate e possiamo farci ben poco. A parte sceglierle responsabilmente.
4 commenti
Comments feed for this article
21 Maggio 2019 a 11:23
zoon
un post che mi fa riflettere profondamente. ciò che fai notare ha implicazioni notevoli, in effetti.
21 Maggio 2019 a 15:48
Il potere di una storia | Holonomikon | HyperHouse
[…] blog di Giovanni De Matteo una considerazione netta e precisa che parte dal finale di Games of Thrones e che affonda nella […]
29 dicembre 2019 a 19:37
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24 gennaio 2022 a 01:01
Il grande mondo antico di Yellowstone | Holonomikon
[…] A frenare gli entusiasmi che innescano l’impennata delle condivisioni social è forse principalmente il suo schematismo. Non si tratta di vero e proprio manicheismo, poiché le sfumature dei personaggi sono sufficienti a riconoscere le ombre delle colpe e degli errori che si annidano in ognuno di loro, ma di una più generale tendenza all’omissione che è inevitabile per la riuscita dello spettacolo. Mettere in scena un mondo sospeso fuori dal tempo, in cui il senso di appartenenza a un luogo può convivere pacificamente con un senso della giustizia declinato secondo le usanze e la volontà di un singolo uomo, in cui il mito della frontiera perdura inalterato nella vastità dei panorami senza preoccuparsi troppo del genocidio perpetrato ai danni delle popolazioni indigene su cui quel mito si regge, ma in una versione edulcorata che ovviamente espunge ogni controversia dalla narrazione dei vincitori, è una formula che probabilmente non crea problemi alla maggior parte del pubblico. Ma sicuramente lo diventa l’esito scontato del conflitto: non ci sorprenderemmo di ritrovarci qui tra quindici anni a seguire la ventesima stagione o giù di lì di Yellowstone, con una nuova generazione di Dutton impegnata a difendere il ranch da nuovi nemici, che poi sono i nemici di sempre. E se da una parte questo è proprio ciò che lo spettatore di Yellowstone in fondo chiede, non c’è niente di più distante da quel senso di precarietà e incertezza che condensa il vero potere di una storia. […]