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Terence Fletcher (J. K. Simmons) è il direttore della principale orchestra dell’Istituto Shaffer di Manhattan. Il neoiscritto Andrew (Miles Teller) è disposto a tutto per affermarsi come batterista e punta subito all’orchestra di Fletcher per guadagnarsi un posto, riuscendo a farsi assumere come riserva. Per un colpo di fortuna provocato da una sua disattenzione, Andrew si trova a sostituirsi al batterista principale durante un concorso, esibendosi in un’esecuzione perfetta di Whiplash, brano del compositore jazz Hank Levy scelto dallo stesso Fletcher, e permettendo alla band di conquistare il primo posto. Ma Fletcher è rinomato per i suoi modi duri e per un lato oscuro che ne alimentano la fama come insegnante spietato: non appena Andrew viene ammesso nell’orchestra come primo batterista, Fletcher comincia a sottoporlo a prove sempre più difficili, cercando di spingerlo al limite per avere certezza non solo del suo talento, ma anche della sua determinazione ad acquisire la tecnica necessaria.

Inizia così una discesa sempre più veloce nelle ombre che si allungano sulla strada del successo: le buone intenzioni lasciano presto il posto a un’ossessione che non concede spazio a nient’altro che non sia lo sviluppo di una tecnica perfetta, in grado di esaltare il suo talento. E naturalmente, con un maestro come Fletcher abituato a divorare, masticare e sputare via le ossa dei suoi musicisti, la strada rivelerà una destinazione diversa e molto lontana dalla gloria. Andrew subisce un crollo nervoso da cui impiega diverso tempo per riprendersi, mentre anche grazie alla sua testimonianza Fletcher viene allontanato dal conservatorio.

Sennonché, a distanza di diversi mesi, Andrew s’imbatte di nuovo in Fletcher, che adesso suona in un club per guadagnarsi da vivere, e che si mostra conciliante in modo sospetto , proponendogli di unirsi alla sua nuova band. Andrew, che dopo aver lasciato a sua volta il conservatorio ha abbandonato del tutto le sue ambizioni scivolando in una routine ordinaria e monotona, si lascia attirare nella trappola del suo ex maestro. Ma il tempo non ha spento il fuoco che brucia in lui e alla fine, nonostante la scorrettezza di Fletcher che lo costringe a improvvisare senza spartito un pezzo che non conosce, riesce a mettere a frutto il suo talento innato, la tecnica acquisita e la sua assoluta dedizione alla musica imponendo al direttore d’orchestra un’esecuzione di Whiplash che non gli lascia altra possibilità che assecondare il suo batterista e accompagnarlo verso una prestazione memorabile.

Ossessione e talento si mescolano inestricabilmente nella parabola del personaggio di Andrew, seguendo un percorso in controfase rispetto a Fletcher ma che li troverà entrambi a convergere nel punto d’arrivo finale. E così Whiplash, che nel 2014 ha fatto conoscere agli addetti ai lavori Damien Chazelle prima che si imponesse anche all’attenzione del grande pubblico con La La Land (2016) e poi con First Man (2018), si trasforma in una storia sul prezzo che siamo disposti a pagare per inseguire i nostri sogni, ma anche per trasformare la passione in arte e, in ultima istanza, in successo.

Alla fine Chazelle, che qui si concede anche qualche tocco autobiografico, volutamente non scioglie tutti i nodi della trama, lasciando la figura di Fletcher sospesa nell’ambiguità tra la dimensione del tiranno piscopatico e il suo ruolo da mentore. E proprio per la sua straordinaria performance capace di conferire profondità e credibilità al personaggio, J. K. Simmons (che tutti ricorderemo per l’interpretazione del burbero direttore del Daily Bugle nella trilogia di Spider-Man diretta da Sam Raimi) si meritò il premio Oscar per il miglior attore non protagonista e una valanga di altri riconoscimenti. Al film andarono quell’anno altri due Oscar, per il montaggio a Tom Cross (che poi avrebbe collaborato con Chazelle anche nei successivi due film) e per il sonoro. Che siate o meno appassionati di jazz, questo è un film che dovreste vedere.

Non sono un intenditore di musica e non è solo una questione di modestia: è proprio che la musica suona alle mie orecchie come un linguaggio alieno, un idioma criptico, un codice di cui non mi è stata fornita la chiave. Ed è proprio per lo stesso motivo che su di me la musica esercita una fascinazione irresistibile: ho le mie band preferite, le mie artiste e i miei artisti preferiti, e penso di poter dire anche i miei generi musicali preferiti, anche se non dispongo degli strumenti di base necessari a capire e spiegare cosa distingua un genere da un altro. Se così si può dire, vivo poche cose come la musica in maniera istintiva. Forse solo il calcio, ma quella è un’altra storia.

Tornando alla musica, è stato con immenso piacere e una dose di incoscienza che alcuni mesi fa ho accettato l’invito di Mario Gazzola di contribuire a un progetto che solo a descriverlo sembra oggi impossibile che possa essere arrivato in libreria: S.O.S. – Soniche Oblique Strategie è una jam session di scrittura combinatoria: un naufragio nell’inconscio musicale del nuovo millennio, una full immersion in un immaginario ibrido, contaminato, futuribile e inquietante. E fin dal primo momento ho vissuto la mia partecipazione al progetto come una sfida.

Innanzitutto per il protagonista, un musicista jazz del futuro che vive in una Lagos irriconoscibile.

In secondo luogo per l’ambientazione: una Lagos irriconoscibile, appunto, soprattutto per me che non vi ho mai messo piede e che ho quindi dovuto fare di necessità virtù, stravolgendone (come spesso mi capita con le cose che scrivo) la geografia e l’atmosfera, preservando alcuni elementi di toponomastica per disegnare una città completamente nuova, una megalopoli inesistente, l’immaginaria capitale di un’utopia afrofuturista.

E in terza battuta per la musica, appunto. Un musicista di strada, che vive la scena di questa città del futuro e che con la sua musica innesca un effetto domino che produce effetti su scala globale, una reazione a catena che gli ritorna addosso in un fallout emozionale del tutto indesiderato, è una bella sfida da gestire. E lo è ancora di più dare credibilità all’ambiente in cui si muove, alle emozioni che prova, al sapere che possiede, considerando, come dicevo in apertura, che la lingua che parla era e continua a essere per me un idioma extraterrestre. Ho provato quindi a intrecciare la trama, che è anche la storia di un complotto corporativo e di un doppio – forse triplo – gioco dietro le quinte dell’ipercapitalismo globale, con una rete di riferimenti ad alcuni titoli di brani per creare il giusto mood.

E così, cercando di mescolare un po’ le carte, Cat Power figura accanto a Janis Joplin, Nina Simone accanto ai The Parliaments, John Coltrane a Miles Davis, Dizzy Gillespie a Chet Baker. E tra gli altri, tra le citazioni di David Bowie e quelle di Echo & the Bunnymen, tra Freddie Mercury e Annie Lennox, appare fugacemente anche il fantasma di Thelonious Monk, di cui ieri ricorreva appunto l’anniversario della nascita, come mi ha ricordato questo bellissimo articolo di Stefano Vizio uscito sul Post, e che quindi voglio cogliere l’occasione per omaggiare condividendo con voi l’ascolto di ‘Round About Midnight, da cui ho preso in prestito il titolo per un capitolo del racconto. Da cui prendo ora in prestito il brano che segue:

‘Round About Midnight

Per sei mesi avevo bazzicato l’Absolute Beginners coltivando la speranza privata di rivederla e quella sera, quando finalmente capitò laggiù con i suoi amici, mi accorsi che Safiya non significava più niente per me. Fino a poche settimane prima avrei perso un paio di battiti del cuore alla sua vista, e invece adesso era come rivedere una cosa a cui si è tenuto per un certo periodo e da cui ci si è dovuti separare: come uno strumento impegnato o una casa venduta. Era stata metà del mio cielo per due anni e non rinnegavo un solo secondo speso con lei, anche se la maggior parte delle volte che non eravamo a letto il nostro tempo insieme era uno scambio ininterrotto di accuse, sintomo di un malessere che spaziava dal fastidio sotterraneo alla guerra dichiarata delle sue sfuriate. E quando non ci azzuffavamo come sciacalli idrofobi sulla carcassa dei nostri sogni sfumati, in genere era perché stavamo facendo del sesso di ottima qualità per suggellare i nostri armistizi di breve durata. Il sesso, col senno di poi, era stato forse l’unico collante che ci aveva tenuti insieme per tutto quel tempo. Ma adesso era finita e lo capii mentre la guardavo ridere e scherzare con i suoi amici senza provare quella fitta di gelosia che mi ero aspettato trafiggermi il costato. Non provavo niente. Niente di niente.

Ero guarito. O forse avevo solo preso un’altra malattia. Una malattia diversa, ma non meno insidiosa.

Tutta la sera non ebbi occhi che per lei, mentre ripeteva il rito del venerdì insieme agli altri Absinner, come uno sciame di falene confluite laggiù sotto il richiamo notturno del nostro sound. La vidi ballare sulle note della new afrotech wave, la osservai tradurre in movenze sinuose la musica della band, la contemplai mentre catalizzava l’esplosione di energia dell’AB – e per la prima volta da anni mi sentii parte di qualcosa che andava al di là dei confini del mio corpo e della mia identità, qualcosa che trascendeva la mia esistenza come singolo individuo e mi rendeva parte di qualcosa di più grande, di più complesso, di più prezioso.

Più tardi, quella sera stessa, ricevetti la telefonata di Nacho. Il cellulare usa e getta che gli avevo comprato quel pomeriggio da una rivendita automatica alla stazione della metropolitana di Liverpool gli permetteva di non perderla di vista mentre io lo raggiungevo. Mi disse dove si trovava e gli raccomandai ancora una volta di non perderla di vista.

Mi feci prestare la bici da Jamal, mi misi a tracolla la custodia con la tromba e spinsi sui pedali come un forsennato, pregando che il ragazzo non si facesse scoprire come la prima volta. La notte equatoriale mi soffiava sulla faccia col suo alito di umidità salmastra e ozono e io non vedevo l’ora di essere lì, sebbene ancora non avessi idea di cosa avrei fatto, né tantomeno di cosa avrei potuto dirle. Alle mie spalle il fronte temporalesco di una nuova tempesta tropicale si stava avvicinando alla città e a giudicare dall’elettricità che ristagnava nell’aria avrebbe rilasciato il suo carico d’acqua nel giro al massimo di mezz’ora.

Pedalai nella notte, evitando le auto che schizzavano a tutta velocità nel traffico rarefatto, mentre il sudore m’incollava addosso la camicia e i pantaloni.

Nacho mi aspettava nascosto dietro un muretto, poco distante dall’incrocio che mi aveva indicato. Mi fece segno di avanzare con calma e io lasciai la bici sul marciapiede e mi avvicinai a lui ingobbito e piegato sulle ginocchia, prestando attenzione a non fare rumore. Il ragazzo mi indicò la direzione in cui guardare e quando mi sporsi oltre il nostro riparo la vidi: a piedi nudi su alcune casse da imballaggio, mentre spargeva i suoi colori su un pilone della sopraelevata.

[continua su S.O.S – Soniche Oblique Strategie]

Mentre il lavoro dietro le quinte va avanti, qualcuno si chiederà cosa bolle in pentola. E allora ecco le prime portate arrivare dalla cucina… Cominciamo con ordine.

La prima importante novità è la nuova antologia di Kipple Officina Libraria curata da Sandro Battisti, che s’intitola La prima frontiera e nelle parole del curatore si annuncia come un’esperienza di lettura lontana dai canoni ordinari (come per altro la casa editrice ci ha abituati):

Da pochi giorni ho terminato di lavorare sulla curatela di una nuova antologia, uno strano weird con ambientazioni non umane, poste oltre le dimensioni del conosciuto e totalmente distanti dall’antropocentrismo imperante, in uscita nel prossimo autunno. Il progetto esplora cosa può spaventare l’inumano, lo strano, il diverso; nomi meravigliosi, molto importanti, sono coinvolti nel progetto.

Numerosi sono i nomi noti coinvolti nel progetto, con alcune sorprese e due ospiti d’eccezione: Danilo Arona e Bruce Sterling (tradotto da Salvatore Proietti). Il mio racconto incluso nell’antologia s’intitolerà Dharma Connection e avrà a che fare con uno strano intrigo in un mondo futuro prossimo che sta affrontando l’apocalisse cosmica e metafisica di un’invasione di mostruose creature. Sono alieni, demoni o messaggeri di una dimensione superiore? Se il punto di partenza è senz’altro una via di mezzo tra Neon Genesis Evangelion (un mio pezzo sulla nuova ondata di animazione seriale giapponese degli anni ’90 lo trovate in un numero di Robot di qualche tempo fa) e Pacific Rim, andando avanti altre suggestioni si stratificano sulla trama. Il racconto mescola così atmosfere surreali e meccanismi da spy story, sullo sfondo di una macchinazione capital-finanziaria che fornisce una chiave di lettura del racconto in termini di… iperoggetti. Più strano di così non avrei saputo cosa offrire. Se siete fan di Cigarette Burns e John Carpenter, di Alan D. Altieri e del suo techno-weird, della serie The Black Monday Murders di John Hickman e Tomm Coker, troverete probabilmente pane per i vostri denti e easter eggs a volontà.

Seconda novità, ma non meno weird, è S.O.S. – Soniche oblique strategie. Immaginario fantastico, trovate fantascientifiche e suggestioni musicali convergono nell’ultimo progetto di Mario Gazzola, che senza tema di smentita mi spingo a definire senza precedenti: un progetto folle, quello di comporre un’antologia di 8 racconti ispirati a un gioco di ruolo ideato dal produttore musicale Brian Eno durante le sessioni di registrazione di 1. Outside, uno degli album più singolari di David Bowie. Gazzola ha delineato una cornice metanarrativa che tiene insieme il tutto e va al di là delle pagine del volume edito da Arcana, che si ramifica fino al web con un sito dedicato all’eminenza occulta che muove le trame dei racconti: il produttore Brain One.

Il curatore ne parla su Posthuman.it e su Facebook potete trovare anche una pagina ricca di contenuti extra.

Per quanto mi riguarda, il mio racconto s’intitola Un grande del crack rhythm a Lagos e mi ha offerto l’occasione di giocare con un’ambientazione inedita: per questo ne ho approfittato per ridisegnare la megalopoli nigeriana nella seconda metà del XXI secolo, aggiungendo un tocco di cyberpunk e afrofuturismo, e facendone uno dei nuovi nodi strategici del panorama economico globale. Anche qui, come in Dharma Connection, c’è un intrigo dietro le quinte che vede scontrarsi due (o forse più) entità in una lotta senza esclusione di colpi per l’egemonia dei nuovi mercati. Quando una variabile imprevista entra nelle equazioni finanziarie, si genera un effetto domino che in linea con le ineludibili leggi della teoria del caos finisce per sconvolgere la vita del protagonista.

E per finire, last but not least, arriviamo a una novità che terrà banco al prossimo Strani Mondi il 12-13 ottobre… e, temo, si tirerà dietro uno strascico di polemiche infinite. L’impavido Carmine Treanni, direttore di Delos Science Fiction, si è preso la briga di selezionare quello che secondo lui rappresenta il meglio del racconto di fantascienza italiano apparso nel 2018 presso piccoli e medi editori. Un lavoro immane che ha portato alla selezione di 15 racconti per Altri Futuri, in cui il mio Cryptomnesiac apparso lo scorso anno in Next-Stream. Visioni di realtà contigue si ritrova in ottima compagnia.

Questa che vedete qui sotto è la superba copertina di Franco Brambilla.

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Mi chiamo Giovanni De Matteo, per gli amici X. Nel 2004 sono stato tra gli iniziatori del connettivismo. Leggo e guardo quel che posso, e se riesco poi ne scrivo. Mi occupo soprattutto di fantascienza e generi contigui. Mi piace sondare il futuro attraverso le lenti della scienza e della tecnologia.
Il mio ultimo romanzo è Karma City Blues.

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