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Ad aprile, torna anche Vanishing Point, secondo capitolo delle mie programmate, e mai completate, Cronache del Gorgo. Siccome sono passati 13 anni dalla sua ultima apparizione, vale la pena riprendere il filo. E dunque… dove eravamo rimasti?

Immagine elaborata con Copilot | DALL·E 3.

Tutto comincia con Orizzonte degli eventi, racconto pubblicato inizialmente sulle pagine della rivista telematica di fantascienza Continuum, fondata e curata da Roberto Furlani, e poi riproposto nell’antologia di racconti connettivisti Frammenti di una rosa quantica, curata da Lukha B. Kremo per Kipple Officina Libraria (2008). Era in quelle pagine che veniva introdottto l’ecosistema orbitale di Resurgam, un remoto avamposto della civiltà umana situato ai confini della galassia. In questo futuro, un network interstellare consente di superare le enormi distanze siderali attraverso dei portali quantistici, ma la rete non può arrivare dappertutto, sia per limiti fisici intrinseci che per ragioni che potremmo definire politiche, così ai suoi margini fioriscono delle comunità autonome, pressoché isolate, in grado di evolversi lontano dall’influenza della Trascendenza (come si è «umilmente» ribattezzata l’umanità del futuro).

Resurgam è uno di questi posti, la cui economia si trova a essere incentrata sullo sfruttamento energetico del buco nero intorno a cui orbita e sul recupero dei reperti archeologici di un’antica civiltà aliena estinta, che ha lasciato solo enigmatiche vestigia sugli asteroidi e i pianeti del sistema di Scylla-Niger. È in questo sottobosco postumano che si muovevano Jerry Lone, Ayesha e la Bruja, la più esperta tra i recuperanti ancora in circolazione. Ed è lì che li avevamo lasciati, in seguito al recupero di un sistema di navigazione che prometteva di stravolgere le conoscenze dell’umanità e le loro vite…

Molte cose sono cambiate nel frattempo, come scopriranno i lettori tornando alle pagine di Vanishing Point. Per cominciare, Jerry Lone è svanito nel nulla, gran parte dei recuperanti della sua banda hanno finito per dedicarsi ad altre imprese, ma Ayesha è ancora lì, alla disperata ricerca delle ultime tracce lasciate dal suo compagno, convinta che qualcosa possa essergli successo proprio a causa della sua straordinaria scoperta. Ed è a questo punto che approda a Resurgam anche un’emissaria della Trascendenza, nonché di una delle più spietate organizzazioni al suo servizio, la NERVE, portandosi dietro uno psiconauta arruolato per aiutarla a ritrovare il manufatto alieno scomparso insieme al recuperante…

Come Orizzonte degli eventi (che per chi volesse può essere recuperato in versione integrale su su questo blog), anche Vanishing Point è una storia che deve molto a Samuel R. Delany, M. John Harrison, Greg Egan e Alastair Reynolds, e sono felice che venga riproposta proprio in appendice a un romanzo del grande maestro britannico della new space opera: la novella è infatti pubblicata in appendice all’Urania Jumbo n. 54, che presenta ai lettori italiani il romanzo del 2022 Eversion con il titolo di Il ritorno della Demetra.

Enjoy! (E magari fatemi sapere cosa ve ne è sembrato…)

Immagine elaborata con Copilot | DALL·E 3.

L’antologia è lì fuori da poco più di tre mesi e mi rendo conto di non averne ancora parlato. Quindi direi che è arrivato il momento di rimediare.

La sindrome di Kessler e altri racconti è un campionario della mia scrittura dal 2004 al 2020. Mancano una manciata di titoli che mi sarebbe piaciuto includere, ma o per questione di diritti (è il caso di Al servizio di un oscuro potere, uscito lo scorso anno sul Millemondi dedicato alla distopia), o per la prospettiva di progetti antologici a tema (La vita nel tempo delle ombre, Orizzonte degli eventi e Vanishing Point), o per entrambe le ragioni (Maja, Il lungo ritorno di Grigorij Volkolak, Sulle ali della notte), sono rimaste fuori da questa raccolta. Per il resto, il volume, che include 28 racconti e conta la bellezza di 490 pagine, offre tutto il meglio di quello che mi è riuscito di scrivere in questo intervallo di tempo, dopo i primi timidi tentativi del 2003, e prima dell’ultimo anno che vedrà comunque uscire almeno una novità da qui a fine mese.

Il lettore più attento ci troverà molte storie che probabilmente già conosce, in particolare i racconti vincitori di premi (Viaggio ai confini della notte e Red Dust), i racconti ospitati da Robot (Cloudbuster) o Next/Next-Station (SIN: Stati Indotti di Narcolessia) o i microracconti usciti in precedenza sul blog (Novilunio, Orfani del cielo, Civiltà di prova), ma tutti sono passati sotto le amorevoli cure dell’accetta dell’editor, ed essendo trascorsi in alcuni casi più di quindici anni dalla loro precedente apparizione l’intervento è stato tutt’altro che indolore. Per tutti, ci saranno comunque delle sorprese, a cominciare da un inedito assoluto (Ruggine), sviluppato come tassello di un più ampio progetto steampunk su un’Italia fin de siècle alternativa che purtroppo, per varie vicissitudini editoriali, non ha mai visto la luce.

Organizzate tematicamente in sezioni, queste storie esplorano la frontiera tra connettivismo e cyberpunk (Connessioni) o tra postumanesimo ed esplorazione spaziale (Transizioni), oppure si addentrano in diversi filoni della letteratura di fantascienza, dall’ucronia al viaggio nel tempo al New Weird (Deviazioni), dalla discronia alla letteratura ricorsiva (Mutazioni). Completano il volume cinque racconti-bonsai che si spingono ai limiti del conte philosophique (Iterazioni). Insomma, rappresentano uno spaccato davvero eterogeneo rappresentativo credo non solo della mia scrittura, ma più in generale delle molteplici anime che convivono in questo calderone così difficile da definire che tutti sappiamo essere la fantascienza.

Anche per questo motivo, ogni racconto è preceduto da un’introduzione scritta ad hoc per inquadrarne il background: ho voluto in questo modo omaggiare i miei maestri e le mie fonti di ispirazione, e inoltre fornire ai lettori nuove coordinate per tracciare eventuali nuovi percorsi di lettura, che spesso finiscono per sconfinare fuori dal genere.

Il libro è uscito per Kipple Officina Libraria con una prefazione di Linda De Santi. La copertina è di Franco Brambilla. Se avete altre domande, lo spazio dei commenti è a vostra disposizione.

Tre mesi dopo esco dal cono d’ombra e il libro che annunciavo prima dell’ultimo silenzio radio è finalmente qui di fianco a me – e fa una certa impressione.

Nelle sue quasi 500 pagine sono condensati diciotto anni di racconti, spaziando dalla vena cyberpunk che esploro fin dal lontano 2003 ad ambientazioni interplanetarie, dal viaggio nel tempo alla discronia, dalle frontiere del postumanesimo alla fan fiction, fino ai racconti-bonsai che da qualche tempo mi diverto occasionalmente a scrivere per questo blog o per altre testate.

Non credo di esagerare sostenendo che è un libro che mette un punto a due decenni scarsi di scrittura. Anche se non vengono presentati in ordine cronologico, essendo il libro organizzato tematicamente in cinque sezioni (Connessioni, Deviazioni, Transizioni, Mutazioni, Iterazioni), i racconti sono preceduti da una introduzione e completati da notizie bibliografiche che aiuteranno il lettore interessato a inquadrarli meglio in relazione l’uno all’altro, o al piano più generale del discorso che attraverso di essi mi prefiggevo di volta in volta di portare avanti.

Il libro sarà acquistabile dal 30 agosto online e nelle librerie servite da Kipple, oltre che l’11 e il 12 settembre a Stranimondi, dove in qualche modo lo presenteremo ufficialmente. Se non finirò nuovamente risucchiato da un infundibolo cronosinclastico, è possibile che nei prossimi giorni vi dica qualcosa di più. Come vedete dalla splendida copertina, vent’anni di scrittura sarebbero valsi la pena già solo per potermi fregiare – ancora una volta – di una illustrazione di Franco Brambilla e – per la prima volta! – di una prefazione di Linda De Santi, che qui ringrazio pubblicamente.

Un sole di gomma fu squassato, e tramontò; e un nulla nero-sangue si mise a far girare un sistema di cellule intrecciate con cellule intrecciate con cellule intrecciate dentro un unico stelo. E spaventosamente nitida, sullo sfondo di tenebra, una candida fonte zampillò.
Vladimir Nabokov, Fuoco pallido, traduzione di Franca Pece e Anna Raffetto per l’edizione italiana Adelphi (2002)

Finalmente la mia copia del balenottero è venuta a spiaggiarsi qui di fianco e quindi quale occasione migliore per parlarvi un po’ del mio racconto? Il senso del post, come avrete capito, è quanto di più autoreferenziale si possa immaginare. Se decidete di andare avanti, sapete cosa aspettarvi.

1. Riferimenti letterari

Come fa giustamente notare il curatore del volume Franco Forte (che ringrazio oltre che per aver messo in luce il modello, anche per avermi dato la possibilità di comparire ancora una volta in un libro con diverse autrici e autori per cui non ho mai fatto mistero di nutrire da lettore – e a volte anche, nel mio piccolo, da curatore – un apprezzamento incondizionato), sul mio racconto aleggia l’ombra di Sergio “Alan D.” Altieri. Alla fine i conti tornano, no?

Anche lui forse avrebbe usato per questo racconto l’etichetta sci-fi action, che non so se merito, però mi avrebbe fatto senz’altro piacere.

Accanto a lui, altri riferimenti al mio personale pantheon letterario che fanno capolino tra le pagine sono meno scontati per un racconto di fantascienza quale Al servizio di un oscuro potere è, e in particolare penso a H. P. Lovecraft, Thomas Ligotti e Breece D’J Pancake.

2. Suggestioni e ispirazioni

Lo spunto di partenza, la scintilla che ha innescato la suggestione da cui è scaturito il racconto, è una sequenza di fotogrammi di Bologna, una mattina presto d’inverno di due o tre anni fa. In superficie la città deserta, spazzata da un vento gelido che strappava pioggia ghiacciata a un cielo di marmo. Nel sottosuolo, il labirinto multi-livello della stazione dell’alta velocità, con le sue lunghe passerelle di vetro sospese sui binari e immerse in un’atmosfera ovattata, altrettanto rarefatta, e le voci dei passeggeri in attesa che si perdono in lontananza, soffocate dai volumi delle navate sotterranee.

La cordiale voce registrata del sistema di annunci sonori diffusi dagli altoparlanti è stata da ispirazione per Mezereth. Con la complicità di un umore appena più torvo del solito, non è stato difficile delineare invece il personaggio di Maksim Bogdanov. Il nome è un omaggio ad Aleksandr Bogdanov, sulla cui figura è incentrato Proletkult dei Wu Ming, ma anche ad Arkady Bogdanov, uno dei personaggi più intriganti della Trilogia Marziana di Kim Stanley Robinson.

Osservatorio ALMA, Cile.

3. Storie dentro storie dentro altre storie

Keira è antecedente a entrambi, essendo ormai anni che medito di raccontarne la storia. Una storia che inizia in una città devastata dalla guerra, subito dopo il crollo della civiltà, e si conclude a bordo di un’astronave interstellare che si lascia alle spalle un sistema solare irreversibilmente sconvolto. In mezzo ci sono un annuncio del SETI a lungo atteso, ma che forse mai avremmo voluto sentirci dare sul serio, e il Programma Majestic. Di tutto questo si fa menzione in Al servizio di un oscuro potere, che va così a coprire con una prima tessera il mosaico di una storia più ampia e più antica. Il resto, prima o poi, lo scriverò.

Dimenticavo. Il personaggio che fa da contraltare a Maksim nella ricerca di Keira per conto di Mezereth si chiama… Irene Adler. Ovviamente, non quella Irene Adler.

4. World-building

Nel mondo post-apocalittico in cui vivono Maksim e Irene Adler, la società e le sue strutture di potere sono state commissariate dalle intelligenze artificiali. Amorevoli, altruistiche IA come Mezereth hanno preso in custodia il genere umano per il bene della civiltà. E gli umani, per lo meno quelli sopravvissuti all’ultima guerra totale, sono stati incasellati, per il loro bene, in ruoli predefiniti in virtù della loro classificazione in sedici tipi psicologici, che riprende lo schema messo a punto dalle psicologhe Myers e Briggs, per altro madre (la seconda) e figlia (la prima), nel secondo dopoguerra (per scoprire il vostro tipo MBTI, potete sottoporvi a test più o meno accurati, anche on line se ne trovano di diversi, tra cui questo in italiano).

Nel racconto mi diverto a giocare, come si sarà capito poco sopra, con i rischi esistenziali di Nick Bostrom, provando ad azzardare una risoluzione “artificiale” del dilemma del prigioniero, che porta a pagare un prezzo alto ma accettabile per evitare la distruzione assicurata. Questo dilemma, nel racconto, è legato al paradosso di Fermi, e a una possibile spiegazione che è stata già affrontata con eccellenti risultati da autori come Stephen Baxter, Alastair Reynolds e Liu Cixin.

Credit: Babylon 5.

5. Altri mondi, altre storie

Il nome della città in cui si apre e finisce il racconto, al-Hastur, è una citazione abbastanza trasparente di Robert W. Chambers, i cui racconti del ciclo del Re in Giallo sono andati a costituire il nucleo di un universo letterario di rimandi e citazioni che si è avvalso nel corso del tempo dei contributi, tra gli altri, di H. P. Lovecraft, sublimando nell’immaginario popolare anche grazie al lavoro di Nic Pizzolatto sulla prima stagione di True Detective.

In effetti, con tutti questi link, sembra che non abbia dovuto fare altro che mettere un po’ di ordine nella cronologia del blog. Ma è stato un po’ più complessa di così.

Nella descrizione di al-Hastur come di una città mausoleo, uno spettrale sepolcro imbiancato, riverberano le sensazioni di Cuore di tenebra di Joseph Conrad, in cui si ritrova una descrizione di Bruxelles che gli permette di materializzare una critica all’imperialismo colonialista europeo (“Mi ritrovai nella città sepolcrale risentito alla vista di individui che si affrettavano nelle strade per sgraffignare un po’ di denaro l’uno all’altro, […] per sognare i loro sogni sciocchi e insignificanti. Calpestavano i miei pensieri. Erano intrusi e la conoscenza che avevano della vita mi appariva un’irritante finzione, perché mi sentivo così sicuro che non potessero certo sapere le cose che sapevo io“).

Ho aggiunto il prefisso al un po’ per un tocco di esotismo, un po’ per caricarlo di un vezzo demoniaco, e poi perché mi sono detto: con tutti questi riferimenti, perché non citare anche Jack Vance?

Credit: Carcosa, by Irrealist.

6. E il titolo?

Ok, adesso l’ultima e poi evito di importunarvi oltre. Il titolo, vi starete chiedendo, o forse no, ma ormai avrete capito che ho comunque intenzione di dirvelo.

Al servizio di uno strano potere è il titolo, preso in prestito da uno dei suoi racconti, di un’antologia di Samuel R. Delany pubblicata in Italia in un numero monografico di Robot (il 35, per l’esattezza, nel febbraio del 1979). Robot è la mia rivista preferita, Delany è uno degli autori di cui non potrei fare a meno (e tra i primi che citerei se mi venisse chiesto il nome di uno scrittore che tutti dovrebbero conoscere) e questa antologia è uno scrigno di pietre preziose (così parafrasiamo pure il suo titolo più bello).

Al servizio di un oscuro potere esiste anche grazie a Robot e a Delany. Ed è un’influenza che va al di là del titolo, ma che il titolo mette da subito in chiaro.

Buona lettura!

Che anno hanno avuto Holonomikon e il suo blogger? Da quando esiste (anno di grazia 2013), il 2019 è stato l’anno di maggiore attività del blog: una cosa che non avevo preventivato, ma che ho provato a pianificare in corso d’opera al meglio delle mie possibilità. Il che mi ha permesso, tra alti e bassi, di tornare a ritmi (quasi) confrontabili con quelli del glorioso, vecchio Strano Attrattore.

Questo è infatti il post numero 107 dell’anno solare, per un totale finora di 73.462 parole, con una media di 693 parole ad articolo. Sono particolarmente affezionato ad alcune delle cose che ho pubblicato quassù nell’ultimo anno. In particolare penso ai seguenti post:

A cui si aggiungono i post più apprezzati dai lettori, premiati dal numero di visite ricevute:

A mio insindacabile giudizio, è quanto di meglio ha offerto Holonomikon nel 2019. Sarà difficile ripetersi nel 2020 e per questo è inutile e dannoso fare dei propositi che finirei inevitabilmente per tradire.

Dimenticavo, il blog ha ospitato a puntate la riedizione di Orizzonte degli eventi, uno dei miei racconti più apprezzati dai lettori, ma ormai quasi introvabile, che è tornato finalmente disponibile a partire da questo link. Storia analoga per Red Dust, che è tornato disponibile grazie all’interessamento del Club GHoST in una nuova versione, ripulita e ripotenziata. Ma questo già non riguarda più il blog ed è quindi il caso di rimandarvi, per tutto il resto, al post di fine anno.

Siamo entrati nella finestra di lancio delle celebrazioni del cinquantennale dell’allunaggio, e ripensando alle parole di Alberto Moravia, che mi sono appena ritrovato a citare in un articolo che vedrà la luce venerdì prossimo 19 luglio, vigilia dell’anniversario, mi sono imbattuto in questa dichiarazione di Primo Levi, che con Italo Calvino si ritrovò in quegli anni a fronteggiare l’ostilità anti-scientifica, quando non proprio la chiusura dogmatica confinante con la superstizione, di intellettuali non meno illustri o influenti, come Pier Paolo Pasolini, Carlo Cassola o Anna Maria Ortese.

Di Calvino parlerò diffusamente nell’articolo in uscita. Qui dedichiamoci alle parole di Levi, che a proposito dello sbarco sulla Luna commentò così le sue sensazioni in un’intervista:

Alla base di tutti i possibili motivi del viaggio nello spazio, si intravede un archetipo; sotto l’intrico del calcolo, sta forse oscura obbedienza a un impulso nato con la vita e ad essa necessario, lo stesso che spinge i semi dei pioppo ad avvolgersi di bambagia per volare lontani nel vento, e le rane, dopo l’ultima metamorfosi, a migrare ostinate di stagno in stagno, a rischio della vita: è la spinta a disseminarsi, a disperdersi su un territorio vasto quanto è possibile.

Serve altro?

Chesley Bonestell, The Moon As It Should Have Been.

 

– Oh sì! Ancora… così! Più giù! Così! – stava dicendo Ayesha, scandendo i tempi della loro danza orgasmica. – Così…
Sotto le mani, Jerry Lone seguì il profilo regolare e snello dei suoi fianchi, percepì il fremito del suo ventre, immaginò i seni sussultare gonfi e turgidi. La percorse fino a incontrare le dune frementi delle costole. La pelle di Ayesha splendeva in un trionfo di ambra bruna sotto un velo di sudore. Quando si perse lungo la curva della sua schiena, sulla scala vertebrale di un crescendo sinfonico, comprese che era giunto il momento.
Colse l’attimo.
La freccia scivolò sulla cresta gravitazionale della singolarità, schizzando in un condotto a basso dispendio energetico a una frazione pari al 58% della velocità della luce, proiettando davanti a sé un campo a inversione di spinta. In un effetto domino l’inversione gravitazionale accelerò ulteriormente la loro corsa, lanciandoli all’inseguimento dell’ombra cosmica di una lepre fantasma.
– Va bene così – disse Jerry Lone. Lo stupore di Ayesha echeggiò nell’apparato. – Riportaci giù, ragazza. Facciamo un giro….

Avevano rallentato ed erano tornati in basso.
Stavano guizzando sulla distesa mineraria della Cintura, godendosi quella crociera che non si erano mai voluti concedere. Quando erano scesi nel Gorgo, era sempre stato per lavoro. Ma questa volta era diverso. Avevano trovato quello a cui, in fondo, avevano dato la caccia fin dal primo istante. Niente poteva ormai togliergli il futuro che Jerry Lone aveva sognato per loro due insieme. Dipendeva solo da lui, adesso… Dalla prossima mossa.
Poi, all’improvviso, si accorsero di non essere più soli.
Nella loro scia una freccia stava guadagnando velocità.
– Jerry…
– Ho visto – rispose lui nella connessione neurale, sforzandosi di mantenere la calma. Si sistemò la maschera da aviatore, che il sudore durante l’amplesso aveva appannato. Poi tornò ai dati trasmessi dall’Algebra: alfanumerici tridimensionali brillavano nell’ombra acuta che ristagnava nella freccia.
– Avevi in programma una festa a sorpresa, capo?
– Un party orbitale per te, mia cara? Magari tengo presente l’idea per il tuo compleanno…
– Che carino! Ma se vogliamo arrivare entrambi al mio prossimo compleanno, ci converrà pensare a qualcosa… e farlo subito!
– Uhm?
– Quei bastardi hanno appena finito di tracciarci.
– Merda! – Jerry Lone passò sbrigativamente in rassegna le informazioni snocciolate dall’Algebra.
Coordinate spaziali e relativi incrementi differenziali del primo e del secondo ordine, gradiente termico, intensità delle radiazioni e flusso ionico, distribuzione delle masse e curvatura proiettavano in tempo reale la rappresentazione dello spazio AdS così com’era percepito nell’ottica olografica del sistema di navigazione. Il segreto dell’Algebra consisteva nel semplificare al massimo il mondo, con il proposito di arrivare a capirlo meglio e, soprattutto, nel più breve tempo possibile.
– Torniamo ketch, Ayesha – decise Jerry. La freccia perse parte della sua aerodinamicità mentre la sua configurazione mutava per esaltare le doti delle strutture di controllo. – Avvia una scansione campionata nella banda di nessuno. – Se erano recuperanti (e dovevano esserlo, per spingersi nella Cintura) avrebbero usato le solite frequenze per comunicare.
– Già fatto, capo – lo informò Ayesha. – L’algoritmo di ricerca non ha trovato ancora niente… Aspetta! Forse c’è qualcosa.
La freccia nella loro scia stava guadagnando terreno. Li seguiva a distanza ravvicinata, troppo ravvicinata: voleva fargli sentire il fiato sul collo.
– Stronzi bastardi – imprecò Jerry a bassa voce. Manovrò all’improvviso, ma il più dolcemente possibile. La freccia si avvitò con grazia, sfruttando una corrente gravitazionale tangente per guadagnare velocità.
– Beccati! – annunciò Ayesha, mentre la freccia mutava in cutter.
– D’accordo, passameli.
La voce urticante del Ghost Rider risuonò nell’interfaccia radio. – Ehi, vecchiaccio! Vedo che ti stai godendo una bella crociera con la tua signora. – Sghignazzate, stupidi pivelli! – Non staremo mica disturbando?
– Dovevi chiedertelo prima di venire al mondo – replicò Jerry Lone, brusco. Poi
verso Ayesha pensò: – Preparati a ballare, ragazza…
nell’interfaccia radio disse: – Adesso è tardi per tornare indietro.
Prima di concludere la frase, azzardò una nuova manovra di evasione. Tieni basso il profilo, Jerry Lone. Se lo ripeté fino a trasformarlo nel suo mantra, accorgendosi che il Ghost Rider era ancora lì. Tieni basso il profilo…
Nell’interfaccia echeggiarono nuove risate di scherno. – Ehi, ehi! Dove credete di scappare? Passami in linea la signora, vecchio: voglio farle sapere che non è facile per noi, qui dietro, staccarci dal suo culetto…
Accecato di rabbia, scopertosi impotente, Jerry Lone si accorse troppo tardi che il Ghost Rider li stava affiancando. Adesso la sua freccia giocava con loro: avevano ingaggiato uno stupido valzer sulla pista gravitazionale di Niger RX-2047. Erano caduti in trappola come due dilettanti dell’Accademia…
– Che facciamo, Jerry? – chiese ansiosa la ragazza, dopo aver disattivato la modalità trasmissione.
– Imposta la rotta 992 su Niger – rispose Jerry Lone, ostentando la sicurezza del provetto suicida. – E chiedi all’Algebra delle oscillazioni di rotta casuali. È ora di portare un po’ a spasso questi coglioni.
– La 992 punta dritta nell’ergosfera, Jerry…
– Vai tranquilla, ragazza.
Ayesha esitò, poi gli accordò la sua fiducia. – Sei tu il capo, Jerry. Tienimeli occupati per qualche secondo, mentre correggo la rotta e controllo la configurazione. Ripristino trasmissione: tre due uno. Attiva.
– Sei ancora lì? – li incalzò la voce dall’interfaccia radio. – Vi abbiamo tenuti d’occhio per un po’, sai. Prima che vi concedeste la vostra meritata crociera. Siete tornati nella Cintura… Ci è sembrato strano, vecchio, tutto qua. Ci chiedevamo se fosse tutto a posto…
Tutto a posto un cazzo. – A meraviglia!
Il Ghost Rider spinse la freccia fino quasi a sfiorarli. Gli angeli del sogno di Jerry Lone incassarono la sollecitazione dai sensori della Silver Surfer e lo indussero a riprendere le distanze, di riflesso. Proprio in quel momento Ayesha gli fece cenno di aver acquisito la rotta. Avrebbero incontrato una corrente entrante pochi secondi più avanti.
– Hai voglia di ballare, fantasma? – chiese Jerry nell’interfaccia. – Allora vediamo se tieni il passo!
– Linea spenta – comunicò Ayesha. – Cinque secondi all’intersezione. Tre…
Prima di incrociare la corrente, la freccia di Ayesha e Jerry Lone si staccò dalla sua rotta e schizzò su una lunga parabolica, a volo radente sulla Cintura, per ricongiungersi più avanti alla corrente entrante. – Due, uno… presa! – La velocità in progressivo aumento spostava ora sempre più vicino il punto d’ingresso nelle fauci del mostro. All’attuale tasso di accelerazione, l’ingresso nell’ergosfera era previsto circa un minuto nel futuro. Jerry Lone avvertì l’eccitazione di Ayesha e provò un brivido.
– Ridammi la linea, ragazza.
– Ripristino trasmissione: tre due uno. Attiva.
– Sei ancora lì, pivello? – gridò Jerry nell’interfaccia.
– Ci vuole dell’altro, non credi? – rispose solerte il Ghost Rider, rifacendosi sotto dopo aver corretto la rotta.
– Stai diventando saggio, ragazzo – convenne Jerry.
– Lo sai? Stavo pensando che, beh, qui non c’è la vecchia strega a proteggerti le palle… Che ne diresti se ti facessi assaggiare un po’ di sano addestramento accademico?
– E perché no? – Con una decisione improvvisa, Jerry rallentò impercettibilmente la corsa, lasciò che la freccia del Ghost Rider li affiancasse e poi spinse al massimo lo scostamento del loro velivolo dalla rotta impostata. Quando le carlinghe delle due frecce si sfiorarono, rilasciò una manciata di angeli latenti sullo scafo del Ghost Rider.
Rivolto ad Ayesha, Jerry Lone disse: – Taglia la linea, ragazza.
– Linea spenta – gli fece eco la navigatrice. – Sei sicuro di quello che fai, Jerry?
Jerry non rispose. Era immerso nella sua manovra. Aveva escluso Ayesha dall’Algebra e vi si era calato anima e angeli. Conduceva le danze da solo, adesso, concedendosi solo alla lunga schermaglia con il Ghost Rider. Davanti a loro, l’orizzonte cupo di Niger RX-2047 sorgeva nella notte cosmica, latore di una tenebra assoluta e inappellabile, in fiera contrapposizione alla luminosità quasi accecante del plasma che vorticava nel Gorgo.
La ragazza lesse gli ologrammi. – Tredici secondi all’ingresso – disse.
Jerry le lisciò il collo. – Suonami il tempo, ragazza – disse. Poi tornò ai suoi numeri. Scariche elettriche cominciarono a condensarsi nel vuoto, lampi che si infrangevano sul grumo di densa oscurità sempre più vicino e minaccioso. La marea stava montando.
– Dieci, nove, otto…
Onde di un mare in tempesta contro una scogliera mortale. La vista dello spazio davanti a loro gli richiamò questa immagine, probabilmente acquisita ai tempi del suo corso, quando era ancora un ragazzino e divideva il suo tempo tra i simulatori di antiche battaglie navali e i sogni da spazio profondo.
– …quattro, tre, due…
– Ora! – decise Jerry e attivò la connessione. Gli angeli del sogno sganciati sul corpo della freccia del Ghost Rider si rianimarono. Mezzo secondo più tardi erano penetrati nella struttura nanotubolare del velivolo. Ancora qualche decimo e si erano interfacciati al suo sistema nervoso.
Jerry Lone si ritrovò a pilotare due schegge impazzite, due particelle d’innesco di una reazione nucleare. Lasciò che il Ghost Rider credesse di avere in mano la situazione. Nell’ergosfera, dimenticò le stelle e si concentrò sul buio. Restò in ascolto del canto gravitazionale della marea, sinfonia poderosa che andava scuotendo lo spazio e il tempo.
La tenebra guidò la sua mente. Mentre Ayesha tratteneva il respiro, gli angeli eseguirono impeccabilmente la missione.
La Silver Surfer si avvitò selvaggiamente. Jerry Lone dovette imporre all’Algebra di virare ignorando tutto il resto, per poi abbandonarsi semplicemente alle dinamiche gravitazionali uscenti. Una scossa viscerale si propagò lungo la sua intelaiatura adamantina, estendendosi al sensorium dei suoi occupanti. Ayesha ebbe un sussulto, poi cominciò a tremare. La marea non li avrebbe avuti. Non quel giorno.
La freccia mutò configurazione in clipper e cominciò a veleggiare lontano dall’orizzonte degli eventi, fuori dalle nere fauci del mostro. Visto dall’alto, il disco di accrescimento era un condensato di potenza, un distillato purissimo di annichilimento a venire, impossibile da scongiurare. Impressionava proprio per questa sua identificazione con il concetto di ineluttabilità.
– Ridammi la linea – disse Jerry. Ayesha eseguì.
Questa volta Ayesha non lo avvisò dell’attivazione. Non ce n’era bisogno.
Dall’interfaccia giunsero le imprecazioni del Ghost Rider e del suo navigatore. – Dammi l’Algebra… Riprendi l’assetto… Che cazzo sta succedendooo?
Parole perse nel vuoto, condannate a ristagnare in eterno nel limbo gravitazionale di Niger RX-2047. La consapevolezza si faceva largo nella voce del Ghost Rider man mano che il suo velivolo si faceva sempre più lungo: mutando oltre i limiti della tolleranza strutturale in un serpente di nanocarbonio proteso verso il nulla.
– Taglia – disse Jerry. – Tempo?
– Più cinque – scandì cupamente Ayesha. – Più sei…
6,7 secondi dopo l’ingresso nell’ergosfera, la freccia deformata del Ghost Rider si fermò sull’orizzonte degli eventi. Cristallizzata, rimase lì sospesa come il bastone di un equilibrista. Un brevissimo burst s’irradiò nell’infrarosso, appena più intenso della comune emissione di Niger RX-2047.
Ayesha non disse nulla. Jerry avrebbe voluto spiegarle che non aveva avuto realmente scelta. L’asteroide doveva restare il loro segreto, almeno fino al giorno in cui la Bruja non avrebbe trovato degli acquirenti e, grazie al sistema di navigazione e all’holoware ponte, organizzato la prima dimostrazione di guida di un vascello Y.
Dal successo della missione dipendeva il loro futuro.
Sollevò lo sguardo. Sullo sfondo delle stelle ammiccanti, la Stazione aveva intrapreso la sua orbita discendente. Sentì il corpo caldo e nudo di Ayesha stringersi contro di lui. Nell’oscurità della cabina, si era voltata a guardarlo direttamente negli occhi. La sua mano gli scivolava ora tra i capelli, dopo avergli sfilato l’anacronistica cuffia da aviatore, unico retaggio della sua gioventù.
Jerry represse un brivido. La gioia di essere ancora vivi urlò la sua rabbia dentro di lui. Il calore di un corpo umano non era la risposta, ma poteva servire a procrastinare il riflusso della marea.
– Torniamo a casa? – chiese ad Ayesha, nell’intimità del ventre di nanocarbonio della Silver Surfer.
– Non c’è fretta – rispose la ragazza, il respiro in fase di progressiva accelerazione. Jerry guardò per un attimo fuori, lo spazio locale sovrastato dalla notte stellata. Poi si perse nell’abbraccio di Ayesha.
Aveva ragione lei. Avevano davanti tutto il tempo dell’universo.

[7 – fine]

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Ancora al GO DEEP!, stavolta per festeggiare. Il test aveva dato esito positivo. Mancava ancora qualche messa a punto, ma il grosso del lavoro ormai era fatto.
Quando la cameriera di Kovacs portò le ordinazioni al loro tavolo, Larry Underground stava dicendo: – Cluster Jones, mio istruttore e mentore, era solito ripetere che un codice non è un buon codice se prima non si riduce a qualcosa di incomprensibile perfino per chi l’ha scritto.
– Parlava del codice implosivo – intervenne Jessie K.
Larry annuì. Morgan si voltò verso Wolfe e disse: – Ricordi quella teoria secondo cui dall’implosione di un holoware di intelligenza artificiale si sarebbe originata la prima forma di autocoscienza sintetica?
– La teoria di Teskeran – annuì Wolfe. – Come no? In realtà la faccenda resta ancora argomento di accese discussioni…
Jerry apprezzava l’immunità delle Logiche ai rischi di blasfemia comportati da qualsiasi seria speculazione ontologica. Era una qualità che molti discendenti dei terrestri non avevano mai imparato, neppure a seguito delle rivoluzioni culturali che ne avevano sconvolto le basi sociali. La propensione alla religiosità doveva essere una proprietà intrinseca delle autocoscienze biologiche.
– Teskeran, l’IA? – chiese la Bruja.
– Proprio lei – spiegò Wolfe. – Ma non sono il solo a sospettare che il Kernel degli Intelletti di Sintesi tenga nascosti molti più aspetti della vicenda di quanti si sia risolto a divulgarne…
– Trovo più oscure le ragioni per cui i ricercatori che lavoravano al progetto non siano riusciti a trovare una convergenza sull’evento, invece. – Ed era davvero così. Jerry Lone non era un teorico, ma ogni tanto si era trovato a riflettere su quella vicenda, più per una forma di curiosità personale che di reale desiderio di scoperta.
– Comunque sia andata – tagliò corto la Bruja – la nostra birra è arrivata e nessuna teoria scientifica è abbastanza importante da lasciarmela riscaldare…
Tutti sorrisero.
La Bruja sollevò il boccale per aria e disse: – Quindi, alle parole non dette degli Y…
– …e al codice implosivo! – aggiunse Ayesha, suscitando un nuovo coro di risa.
– Al codice implosivo! – ribadirono tutti all’unisono, dopodiché un diluvio di alcol piovve per pacificare la loro sete.
– Guarda, guarda! – disse inaspettatamente qualcuno dietro le loro spalle. – I vecchietti danno un party! Chi è che festeggia la pensione?
Tono saccente e presuntuoso, voce al limite della sopportazione umana e una innata tendenza a intromettersi negli affari altrui. Bastavano quegli elementi per individuare con un margine di errore minimo la fonte di quelle cazzate. Ghost Rider, si faceva chiamare, leader dell’Accademia degli Aviatori. Un sacco di merda, accompagnato da un manipolo di altri esemplari della stessa specie. Purtroppo, non era una di quelle minacciate dal rischio d’estinzione.
– Tua madre – replicò Morgan, pacatamente. – Ha appena avuto la buonuscita dal bordello di Mama Winthrop.
Un coro di approvazione divertita si alzò dal tavolo. Wolfe, impressionato, batté le mani con convinzione: il suo compiacimento era accresciuto dalla cognizione che l’ironia era stato uno dei parametri principali su cui era stata misurato il grado di consapevolezza delle prime Logiche.
L’unico a non gradire parve il diretto interessato. La sua cricca si unì allo sdegno più per riflesso che per vero spirito solidale.
– Ahi! – incalzò Larry Underground, rivolto al Ghost Rider. – Ti tocca pagare il prossimo giro, allora…
La banda dei pivelli mosse all’unisono un passo in avanti, ma fu lo stesso Ghost Rider a fermarli. Il loro gesto ricordava un obbligo formale, il momento di un rito collettivo che erano stati chiamati a condividere. Altrettanto rituale, nell’ordine delle cose, veniva il biblico richiamo alla pace e alla ragione del loro capo.
Incrociando le braccia a voler quasi ostentare un atteggiamento di superiorità, il Ghost Rider si esibì in un sorriso bovino e irritante. – Vi credete furbi, voi nonni. Non è così?
Nessuno rispose. Jerry continuò a bere la sua birra mostrando indifferenza per quell’interruzione: aveva tutta l’aria di tollerarlo come un male inaspettato ma passeggero. Se qualcuno all’oscuro delle dinamiche sociali di Resurgam avesse assistito alla scena, molto probabilmente avrebbe scambiato il Ghost Rider e i suoi scagnozzi per una banda di schizofrenici in vacanza-premio da un manicomio orbitale di massima sicurezza. Curiosamente, il loro aspetto tradiva maggiore esperienza della scolaresca raccoltasi intorno alla Bruja, che lì in mezzo era l’unica vera autorità nel settore recupero. La nuova leva, forse anche in virtù della più giovane età, non condivideva con gli anziani gli stessi vezzi, anche se non era difficile prevedere che di lì a una decina d’anni si sarebbero tutti rivolti alle cure di Withlock. La loro condotta sfrenata veniva per il momento ostentata nel modo stesso in cui si presentavano, come se gli effetti collaterali del vizio fossero premi alla sopravvivenza da esibire con fierezza.
– Tanto furbi – andò avanti il Ghost Rider – da potervi anche permettere di farvi vedere in giro con il più bel culetto della Stazione! – La strizzata d’occhio che lanciò ad Ayesha scatenò gli sghignazzi concordi dei suoi fiancheggiatori e un brivido freddo lungo la schiena di Jerry Lone.
Una rissa, ora come ora, non era quello di cui avevano bisogno. Jerry dovette imporsi la calma per non alzarsi e spaccargli il muso.
– Ehi, ehi! – intervenne Wolfe, coprendo Jerry mentre posava rumorosamente il boccale di birra sul tavolo. – Cerca di tornare nel tuo, dilettante!
– Dovresti iscriverti al corso con mio figlio, Ghost Rider – convenne Jessie K. – Per imparare tutte le buone maniere che ti sei perso nel Gorgo.
– Ragazzi, che dite? – disse Morgan. – Organizziamo una bella spedizione per vedere di recuperare un po’ di cervello? Deve averlo lasciato laggiù insieme alle buone maniere…
Risero nervosamente, ma il Ghost Rider pareva seriamente intenzionato a percorrere fino in fondo la via del suicidio. – Fate pure i buffoni, vecchietti. Tanto lo sappiamo tutti chi è che se ne va in giro con le puttane, qui. O no?
Fu allora che Jerry scattò in piedi ignorando il tentativo di Ayesha di fermarlo. Si proiettò di slancio contro quello stupido moccioso in un goffo tentativo di risolvere tutto con una bella scazzottata. Gli aviatori non ci misero molto a bloccarlo, trovandolo però pronto malgrado l’esplosione d’ira: appena le loro mani si posarono sulle sue braccia, gli angeli del sogno liberarono impulsi ad alta frequenza. Niente di troppo pericoloso, ma da come straniarono lo sguardo comprese che il suo messaggio d’avviso era giunto a destinazione, interferendo con il nervo ottico nello stesso modo in cui ci sarebbe riuscito un fascio di luce fortemente polarizzata.
Mentre farfalle di mercurio incandescente svolazzavano sulle loro retine, accecato di rabbia Jerry serrò le mani intorno al collo del Ghost Rider, facendosi trovare pronto alle sue difese subliminali, ma non al calcio che lo spinse indietro contro il tavolo. Fece per scagliarsi di nuovo contro di lui, ma si accorse che alle sue spalle la Bruja si era levata in piedi con occhi spiritati che non concedevano tregua al leader dell’Accademia. La Bruja gli stava già riversando addosso una tempesta di fuoco psichico. Il suo repertorio comprendeva i più terribili orrori derivati dallo studio del subconscio. I suoi angeli del sogno, attraverso il richiamo di figure ancestrali, stavano evocando dal continente sommerso della psiche del Ghost Rider le più ataviche forme di paura.
Bastarono due secondi di esercizio delle sue stregonerie per strappargli un urlo. Quando la tempesta neuro-angelica si placò, gli occhi atterriti del leader tradivano l’efficacia del colpo subito.
La Bruja parlò con un tono di voce tanto calmo da sembrare irreale. – Adesso forse è meglio che torni a casa, leader – disse riprendendo il suo posto tra Larry e Ayesha.
Mentre gli aviatori sfilavano lungo il bancone verso l’uscita, Morgan sollevò il suo boccale ormai quasi vuoto e ordinò a Kovacs un altro giro. Con quello che restava, propose un brindisi. – All’Accademia degli Aviatori! – disse ridendo.

– Credi davvero che lì dentro possa nascondersi una flotta?
Ayesha aveva scrutato con estrema attenzione la sua opera di modellamento di Scylla–Niger. Jerry Lone mugugnò pensieroso in segno d’assenso, continuando a scrutare l’ologramma mentre un ronzio insistente emergeva per interferire con il moto del sistema.
La lieve modifica nei parametri della Cintura che aveva appena impostato strappò un rapido brontolio al processore quantistico. Il sistema di raffreddamento pompò in risposta il flusso di azoto liquido per ripristinare l’equilibrio termico ottimo del nucleo. I valori delle prestazioni tornarono sui livelli ottimali e Jerry tentò uno zoom indietro. Perfetto. L’impressione di stabilità fu confermata dallo zoom avanti sul Gorgo, e poi dal comportamento locale in tre diversi settori della Cintura.
Un’ondata di soddisfazione attraversò le sue membra. Allungò una mano verso la spalla di Ayesha e la accarezzò bruscamente.
– Funziona? – chiese la ragazza, esibendosi nella migliore espressione del suo repertorio da paese delle meraviglie.
– Funziona – annuì Jerry Lone. – Per ora.
Ayesha sorrise, ipnotizzata da quella magica danza orbitale. – Posso provare?
Quando Jerry Lone fece un rapido cenno di assenso, lei sintonizzò i suoi angeli del sogno con il circuito di ricetrasmissione del processore quantistico. Nell’interfaccia, dove le loro percezioni estese si sovrapponevano, frange d’interferenza incresparono la funzione d’onda risultante. La sensazione s’irradiò lungo le direttrici neurali, veicolando un piacevole treno di creste. Ridacchiarono insieme, giocando con le dinamiche celesti di Klapeyron IV e delle sue lune, di Scylla, del Gorgo e della Cintura Asteroidale.
Repentini cambi d’inquadratura montarono la loro scorribanda siderale in un furioso dinamismo virtuale. La comunione evocata dall’interazione dei rispettivi apparati angelici, la melodia termica del Gorgo, la vertigine da spazio profondo, concorsero a creare l’illusione.
In un istante, si trovarono ancora una volta lì fuori, di notte. Immersi nella meraviglia cosmica della danza gravitazionale.

[6 – continua]

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Da due settimane la Bruja continuava ad analizzare il presunto sistema di navigazione. Aveva arruolato una squadra di veterani esperti del recupero e delle attività correlate (filologia Y, per esempio) e con loro si era raccolta nel suo locale per gli affari, che per tutto quel tempo aveva continuato a esibire sull’ingresso l’invito a non disturbare. La cueva de la Bruja restava chiusa, per cause non specificate. Un cartello di lavori in corso avrebbe destato meno sospetti…
C’erano voluti alcuni giorni, ma alla fine la teoria di Jerry Lone li aveva convinti tutti. Il dispositivo doveva essere parte di un sistema di guida, e l’informazione racchiusa al suo interno era molta di più di quanta non ne avessero scoperto Jerry e Ayesha nel loro esame preliminare. La qual cosa aveva fornito una bella mole di lavoro.
Almeno una volta al giorno, dalla costituzione di quel workshop, Ayesha e Jerry Lone vi si erano recati per aggiornarsi sullo stato dei lavori e, quando possibile, partecipare al dibattito filosofico alimentato da quello studio. Tra la gente reclutata dalla Bruja, figuravano addirittura Alex Morgan e Lynard Wolfe. Erano due Logiche specializzate nell’interpretazione del linguaggio e avevano aderito alla fazione degli Immersi, quella frangia di IA materialiste che avevano deciso di dotarsi di un corpo. Questo per quel che riguardava il loro orientamento politico. Quanto ai meriti, era loro la teoria linguistica più accreditata sugli Y, la cosiddetta ipotesi Morgan-Wolfe, che gli ambienti accademici del Consiglio della Sapienza valutavano attendibile al 79%. La chiave di volta della loro impresa era stata l’acquisizione di un vecchio trattato di mutua solidarietà tra gli Y e i Vedha, la più antica delle civiltà coesistenti all’Ecumene. Prima della loro misteriosa migrazione verso Niger RX-2047, gli Y avevano avuto modo di suggellare con i progenitori dei Vedha un lungo documento di cooperazione. La cosa doveva aver rivestito una certa importanza nel contesto politico della Galassia, vista la portata di certe clausole, ma non era durata a lungo. Gli Y si erano presto ritirati in isolamento nel loro eremo orbitale sull’orlo della singolarità, i progenitori dei Vedha avevano compiuto un balzo prigoginico verso il loro stato attuale, che li portava a essere poco meno che degli osservatori distaccati della scena galattica.
Morgan e Wolfe erano riusciti a scovare l’emissario di una setta dissidente dei Vedha su 800801, un remoto avamposto ecumenico la cui importanza strategica era quasi pari alla densità di caratteri alfabetici nella sua denominazione. Qui, nel corso di una riunione d’affari surreale, erano riusciti a strappare una copia del Trattato in cambio di un artefatto logico che avevano spacciato per il prototipo della prima IA. Il Vedha se n’era tornato contento dai suoi compagni di cospirazione, magari sognando di sovvertire l’ormai cronica stasi della sua cultura; Morgan e Wolfe erano rincasati a Resurgam pronti a cambiare mestiere e tentare l’impresa di decriptare il mistero degli Y.
Nel loro tentativo di tracciare una corrispondenza simbolica avevano passato al setaccio una mole immensa di materiale: dagli oggetti di uso domestico alle oloproiezioni, niente era stato tralasciato. Il loro Catalogo rappresentava un’opera poderosa, a testimonianza di uno sforzo di comprensione eccezionale. Naturalmente, malgrado i loro sforzi, la maggior parte del sistema linguistico degli Y restava avvolto nel mistero, ma grazie a quel lavoro si era per lo meno cominciato a gettar luce sulla loro civiltà.
Il corridoio su cui s’affacciava il locale era immerso in una penombra malaticcia. L’illuminazione alogena era integrata dalle insegne degli altri esercizi, ma il risultato non cambiava granché. Qualche spaziale passeggiava e scrutava le vetrine, qualcun altro se ne disinteressava e puntava dritto sull’Antro dell’Eros Polimorfico che occupava il maggior locale di quel settore. Quando Jerry bussò alla porta della Bruja, il riconoscimento genetico necessitò di qualche secondo. Poi la serratura scattò automaticamente e loro furono introdotti all’antro della sibilla.
La sala d’esposizione era disseminata di roba proveniente da Klapeyron e dalle sue lune, esposta su banconi appositi dietro teche infrangibili. C’era a mala pena lo spazio per girarsi, ma quella era solo l’anticamera della cueva. Seguito da Ayesha, Jerry Lone puntò verso il retro, da cui proveniva un mormorio continuo, interrotto da qualche risata o esclamazione di disappunto. Scostò una tenda ricamata con i colori di qualche antica associazione terrestre (Ayesha non avrebbe saputo dire se fossero di una nazione, un partito o una città, e d’altro canto non aveva mai ben compreso la distinzione tra quelle primitive forme di organizzazione) ed entrò nel laboratorio che la Bruja, non senza un certo spirito fisico, aveva denominato Y-Work.
– Ecco finalmente la punta di diamante del recupero all’antica! – li annunciò la Bruja, seguita da un coro di saluti sussurrati distrattamente. La scena sembrava quella di un corso per ragazzini: una maestrina circondata da quattro mocciosi. Molti della vecchia guardia ricorrevano al trattamento Withlock per cancellare gli anni in eccesso. Se la Bruja aveva optato per un’età metabolica intorno ai trent’anni, altri avevano osato spingersi fino alla fase tardo-adolescenziale.
La squadra era al lavoro, come sempre, e si sarebbe detto che dall’inizio del progetto non si fossero concessi un solo attimo di pausa. L’impianto olografico proiettava tutt’intorno a loro un’inconcepibile complessità di dati interferenziali. Seminudi, gli operatori manipolavano l’informazione custodita dai processori quantistici connessi in rete con l’oloproiettore. Insieme agli ormoni trattati dall’organo dell’umore di Penfield, nelle loro vene scorreva un assortimento impressionante di angeli del sogno. Era così anche per lui e per Ayesha: diversamente, non avrebbero potuto raggiungere quello stato di comunione delle anime che li assisteva a ogni discesa nel Gorgo. Diversamente, nemmeno la Bruja sarebbe forse riuscita a esercitare i suoi sortilegi sul corpo di Ayesha.
Erano gli angeli del sogno a permettere alla squadra di maneggiare, in tempo reale e senza ulteriori mediazioni, il codice dell’holoware inscritto nei circuiti quantistici delle loro consolle da combattimento.
Come Morgan e Wolfe, anche gli altri erano esponenti della vecchia scuola, esploratori di lungo corso del Gorgo e delle sue propaggini storiche o planetarie, esperti che la Bruja aveva voluto al suo fianco in quell’impresa ai limiti dell’impossibile. C’erano Larry Underground, probabilmente il maggiore esperto informatico della Stazione, uno che pareva cresciuto poppando holoware e masticando righe di codice fin dalla prima dentizione, e Jessie K Rubin, una della sua stessa generazione. Jerry Lone era rimasto sorpreso la prima volta che l’aveva trovata lì, nel vederla lavorare con loro, ma Jessie K sapeva il fatto suo e in più era una collaboratrice stretta di Morgan e Wolfe.
Intorno agli operatori vorticava instancabile una nube di codice olografico. Non era quello che si sarebbe definito un ambiente di lavoro formale. Ad Ayesha bastò fare un passo avanti, intenzionata a rendere il consueto saluto alla Bruja e a Jessie K, per ritrovarsi avvolta da righe ancora instabili.
Larry lavorava in preda a un’estasi quasi furibonda. Mimava azioni interiori e prettamente neuro-angeliche con le mani, mentre spostava blocchi di codice e aggiungeva di getto nuove righe per poi modificarle, in un ciclo interminabile, senza tregua; Jessie K lo assisteva con cura nel suo lavoro, mentre Morgan e Wolfe controllavano la coerenza algoritmica delle implementazioni. Erano una catena di montaggio perfettamente collaudata, quasi infallibile sotto la supervisione di Rosario Espinoza.
– Sembrate a buon punto – azzardò Jerry. Non era un esperto di holoware, ma scorrendo una riga di codice s’imbatté in una interruzione dovuta a un refuso e, intercettandola con i suoi marcatori neurali (una scarica elettrica gli solleticò le dita della mano destra), la corresse.
Siamo a buon punto – lo corresse la Bruja, con un sorriso soddisfatto. – Il test dell’altro giorno ci ha messi sulla direzione giusta. Ancora qualche ciclo di iterazione e poi saremo pronti a tentare il collaudo. Tu che dici, Larry?
– Settantadue ore – disse Larry, sovrappensiero. Rispose quasi di riflesso, senza nemmeno emergere dal flusso del codice. – Massimo novantasei e poi passiamo al test definitivo.
Jerry si scoprì profondamente colpito. – Cosa ne è stato di quella sezione tecnica su cui vi eravate incagliati?
– Ci hanno pensato il dottor Morgan e il dottor Wolfe – dichiarò burlescamente la Bruja.
Morgan distolse gli occhi dal codice il tempo necessario per schernirsi dietro un sorriso. Faceva una certa impressione parlare con due scienziati del loro calibro, e vedere invece due ragazzini. Era qualcosa che lo frustrava inconsciamente, come se la sua mente si ribellasse a quella spudorata manomissione dell’archetipo del Vecchio Illuminato.
Senza voltarsi, Wolfe disse: – Abbiamo rintracciato un frammento analogo, catalogato come Rubin-160999. Uno dei suoi primi recuperi. Da quello siamo riusciti a formulare un’ipotesi derivativa che riteniamo promettente…
– È stato un piacere – dichiarò Jessie K, strizzando loro l’occhio dall’altra parte del cuballoggio.
– Se le cose stanno così, allora non credo che posso fare altro – ammise Jerry. – Se comunque posso esservi in qualche modo d’aiuto…
– Una cosa che puoi fare ci sarebbe – proclamò dopo una breve pausa la Bruja. La sua voce si era fatta carezzevole e allusiva. – Porta a casa questo fiore – continuò, rivolgendo ad Ayesha un sorriso malizioso, – e tienicela un po’ fuori dai piedi. Qui abbiamo da lavorare.
La scolaresca sorrise senza arrossire.

[5 – continua]

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Il GO DEEPER! era un locale anonimo e perennemente saturo di fumo, frequentato dai peggiori campioni di sopravvivenza impegnati nella difficile arte del recupero. Jerry Lone ricordava ancora quando vi aveva messo piede la prima volta: era accaduto un giorno imprecisato di – quanto? – sedici anni prima! Non riusciva a crederci: ricordava tutto come se fosse accaduto solo la settimana scorsa…
Laggiù aveva incontrato personaggi del calibro di Billy Holotropic Long e Rosario Espinoza detta “la Bruja”, autentiche leggende del giro. Aveva trascorso un sacco di serate a temporeggiare fino all’orario di chiusura, bevendo la birra annacquata di Kovacs e tendendo l’orecchio alle storie dei veterani del circuito. Aveva imparato lì dentro tutti i trucchi del mestiere che non era stato il campo a insegnargli con le sue maniere brusche e scorbutiche; i modi dei decani non erano stati certo più concilianti.
Quando era arrivato al punto di potersi accontentare, con abbastanza credito da strappare un passaggio a un incrociatore mercantile e prendere il largo, cercare un posto nuovo in cui costruirsi una nuova vita, Jerry Lone aveva preferito restare. Era stato allora che aveva vissuto il suo momento di maggior splendore, che comunque era durato il tempo di un paio di sbronze al tavolo dei grandi.
La generazione di recuperanti che era venuta dopo si era mostrata molto più intraprendente e ardimentosa. Gli stupidi principianti che non finivano stritolati nella morsa di Scilla e Cariddi facevano ritorno con meraviglie che quelli della sua scuola non avevano mai neppure sognato. Nessuno aveva sospettato dove potessero andare a scovare quelle sorprese, finché un moccioso troppo sensibile ai vapori dell’alcol non aveva confessato, nel corso di una sbronza colossale opportunamente sollecitata, che gli idioti della sua banda avevano cominciato a spingersi sempre più oltre, fino a sfiorare l’orlo di Niger RX-2047, a caccia di memorabilia sui sassi orbitali e le piattaforme abbandonate che il lento accrescimento del buco nero aveva ormai quasi portato a lambirne il limite statico.
Stupidi pivelli da quattro soldi!
La metà ci aveva lasciato le penne al primo volo e il tasso di sopravvivenza tendeva a logorarsi man mano che le incursioni si susseguivano. Ma quelli che tornavano portavano indietro oggetti straordinari, quotati per cifre pazzesche. E i volti si susseguivano con una rapidità sconcertante. Si era entrati in una fase di ricambio annuale, nel cui corso aveva assistito a una vera e propria escalation di follie.
Un grande del calibro di Holotropic si era lasciato prendere la mano e ci aveva rimesso le penne. Giunto al punto di non reggere più la pressione del confronto, sentendo il suo mito appannato era tornato sul campo per un ultimo volo dopo diversi anni di inattività. Le fauci di Niger RX-2047 non avevano avuto pietà di lui.
Jerry Lone aveva pianto per lui e quelle erano state le prime lacrime dopo molto tempo. Si era subito sentito uno stupido. Da qualche parte dell’Ecumene c’era sicuramente qualche ersatz derivato dallo stesso Zero di Billy Long. I miracoli della replicazione quantistica dispensavano a un costo accettabile le più assurde illusioni che avevano costellato ventimila anni di evoluzione dell’uomo: l’immortalità e l’ubiquità erano incluse nel prezzo.
Diversamente da Holotropic Long, Jerry aveva comunque preferito seguire i consigli della Bruja. Aveva continuato a volare, per tutti quegli anni, imparando a tenersi basso. Missioni di basso profilo e magri bottini erano stati il suo pane quotidiano per tutti quegli anni, ma anche la ragione per cui era diventato il più vecchio recuperante ancora in attività che continuasse a frequentare il GO DEEPER!
– Dimmi qualcosa di bello, ragazza – chiese la Bruja ad Ayesha, con la stessa voce suadente che aveva accarezzato Jerry Lone quando si erano trovati per la prima volta faccia a faccia, loro due soli. – Per i tuoi occhi sarei disposta a tornare nel Gorgo!
Era successo dopo che Nick Yellowbabe aveva deciso di mollarlo e tornarsene all’impiego meno impegnativo di lupo siderale. Per qualche giorno Jerry se n’era restato seduto al suo solito tavolo, un angolo in penombra del locale. Kovacs gli portava la birra ghiacciata necessaria al suo sostentamento e lui non azzardava una parola. Ignorava i vecchi amici, non si degnava neppure di salutare le vecchie glorie. Era stato Holotropic ad avvicinarlo per primo. Jerry era tuttora convinto che sarebbe stato capace di prendere a calci in culo chiunque altri avesse osato distrarlo dalla sua missione di autocompatimento. Ma non Holotropic.
HOLOTROPIC (con il consueto tono canzonatorio): Cosa c’è, chicco? La mammina ti ha lasciato?
JERRY (ancora quasi a digiuno del gergo dei recuperanti, malgrado il tempo trascorso nel Gorgo): Peggio. Il mio navigatore se n’è tornato a casa.
HOLOTROPIC (dopo aver soffocato una risata): Non mi dire!
JERRY (con una scrollata di spalle): E la cosa peggiore è che se ne va senza avere imparato un cazzo!
HOLOTROPIC: Così sei rimasto solo…
JERRY (dopo aver mandato giù un sorso di birra): Lasciati dire una cosa: ho intenzione di tornare là fuori appena avrò smaltito questa sbronza. Lo farò, ci puoi giurare. E se dovesse essere necessario, lo farò da solo!
HOLOTROPIC (senza trattenersi, stavolta, esplode in una risata fragorosa, poi tossisce): Jerry il Solitario! Così ti abbiamo trovato anche un nome, chicco. Era ora… Jerry Lone.
JERRY (dopo averci riflettuto un po’): Jerry Lone? Mi piace, suona bene… Può andare.
HOLOTROPIC (ricomponendosi): Ecco, Jerry Lone, adesso che ti abbiamo trovato un nome, cerca di dimostrarti all’altezza. Quindi, per favore, tieni a freno il tuo generatore di cazzate.
JERRY (colpito e affondato): Hmm?
HOLOTROPIC (sorride di nuovo): Il nome puoi pure tenertelo, ma lasciati dire una cosa, Jerry Lone: ci siamo passati tutti. Non fartene un problema, il suo abbandono potrebbe aver fatto la tua fortuna. Non ci hai pensato, chicco? Personalmente, a volte, mi capita di rendermi conto come le nostre vite non siano altro che trame intessute in un ordito più vasto. Stando così le cose, non è il caso di prendersela più di tanto…
JERRY (con aria sospettosa): Non vorrai riattaccare con quella storia che siamo tutti ologrammi, spero…
HOLOTROPIC (senza scomporsi): Ci sono ancora molte cose che devi imparare, chicco. E credo che una maestra arcigna che si fa passare per strega possa insegnartene almeno una buona parte…
JERRY (incredulo): La Bruja?
HOLOTROPIC (con aria sicura e compiaciuta): Proprio lei. Si dà il caso che proprio ieri sera ho saputo che la piccola Fiore di Loto ha deciso di mettersi in proprio, così la Rosa Spinata non se la sta passando meglio di te. Al momento viaggiate sulla stessa lunghezza d’onda, la sintonia può fare miracoli…
JERRY (non ancora convinto): E io dovrei farle da navigatore?
HOLOTROPIC (esibendosi nel ghigno di superiorità di chi si diverte a capovolgere le argomentazioni): Sei ancora un pivellino, ma potrebbe accettarti. Come ti ho detto, è un po’ giù di corda in questo periodo. È la tua occasione per farti le ossa: fossi in te ci penserei.
E Jerry ci aveva pensato. Arrivando al punto di convincersi che non avrebbe potuto rifiutare e poi continuare a credere di non essere un coglione. Anche la Bruja aveva accettato. Era stato l’inizio della loro amicizia, un sodalizio artistico interrotto solo tredici anni più tardi. Era stato quando la Bruja aveva deciso di ritirarsi. Jerry Lone non era rimasto solo a lungo. Aveva tenuto d’occhio un nuovo arrivo del Bordello di Mama Winthrop, abbastanza da scoprire che era arrivata su Resurgam con il sogno di entrare nel giro dei recuperanti. Era stata la sua grande occasione. E la Bruja aveva mostrato un debole per lei fin dalla prima volta che aveva incrociato i suoi occhi color notte.
Maman Rosario – disse Ayesha, nel tono ammiccante che aveva ostentato nei suoi confronti fin dal loro primo incontro. – I tuoi occhi non hanno nulla da invidiare ai miei.
La Bruja afferrò una mano di Ayesha senza distogliere gli occhi dai suoi e se la portò alle labbra. La baciò continuando a guardarla fissa negli occhi.
Jerry Lone continuò a sorseggiare la sua birra ghiacciata corretta con della tequila, lanciando occasionali occhiate all’ingresso del locale. Si sentiva irrequieto, come davanti a un appuntamento con il destino.
– Non capisco come fai a seguire questo schizzato nei suoi tentativi di suicidio – la provocò la Bruja, scherzosamente.
– Perché sono tentativi artistici di suicidio, Maman – replicò Ayesha, strappando un mezzo sorriso dalle labbra umide di Jerry Lone. Dal fremito che percepì nella sua voce, comprese che la Bruja stava interferendo con i suoi impulsi nervosi. Il semplice contatto le permetteva di interfacciarsi agli schemi neurali della ragazza agendo sui suoi angeli del sogno. La connessione empatica indusse in visibilio i nanosomi che Ayesha aveva in circolo. La Bruja, probabilmente, la stava sommergendo di stimoli di natura sessuale. Era un po’ il suo vizio.
Quando vide Ayesha mordersi il labbro inferiore e passarsi una mano tra i capelli, Jerry capì di aver colto al volo la situazione.
Ayesha si sentiva un fuoco. Fiumi di lava le scorrevano nelle vene. Il respiro stava accelerando. Sempre di più… Indugiò, poi una scarica di umido piacere le si liberò nel ventre.
Solo allora Jerry Lone si accorse del principio di erezione che gli premeva tra le gambe.
– Non cambia molto – replicò la Bruja, la sua voce che tradiva un certo compiacimento. – Lascialo e scappa via con me!
– Già stanca del paradiso, Rosario? – s’intromise a quel punto Jerry Lone. Gli occhi della Bruja, contornati di kajal, guizzarono sul suo volto. Jerry sentì qualcosa agitarsi dentro di lui, in fondo a un pozzo che credeva prosciugato.
La Bruja. S’era convinto che il suo epiteto, Rosario Espinoza se lo fosse ampiamente meritato coi fatti. Era una megera, una encantadora, una strega di lungo corso. Le aveva visto fare cose, nel Gorgo, che probabilmente nemmeno il più audace della nuova leva sarebbe stato capace di imitare in mille anni di tentativi. Come quando lo aveva spinto a rasentare per due intere circumnavigazioni l’orizzonte degli eventi. E adesso gli sbarbati s’illudevano di essere dei ganzi solo perché rischiavano di bruciarsi il culo sul limite statico. Dopo aver provato sulla pelle ciò di cui era capace, Jerry era arrivato a credere che il Gorgo fosse il suo habitat naturale e la Bruja rappresentasse la prima (o forse l’ultima) forma di vita completamente adattata al suo ecosistema quantistico. Una forma di vita dell’Orizzonte, per una metà parte del mondo esterno degli uomini, per l’altra radicata invece nella termodinamica del buco nero. La Bruja sapeva evocare le maree gravitazionali con la perizia di un rabdomante o un profeta, cavalcandone l’onda con la grazia di un delfino.
– Forse – ribatté la Bruja, laconica. Poi, tornando seria (gli affari erano affari, e la Bruja era pur sempre la più esperta operatrice nel settore della compravendita dei manufatti Y), aggiunse: – Ma prima di passare a parlare del futuro remoto, occupiamoci di quello prossimo. Non ti fai vivo spesso, Jerry… – Era per caso di rimprovero quella nota che ammiccava nel suo tono di voce? – Quando lo fai è sempre per lavoro. Allora, di cos’è che volevi parlarmi?
– Non mi scivolerai sul sentimentale? – la provocò Jerry Lone, notando come Ayesha si fosse nel frattempo stretta al corpo giovanile e procace della Bruja. Adesso era lei ad accarezzarle la mano, con estrema delicatezza, proprio come un’amante soddisfatta dopo l’orgasmo. Brava bambina, pensò. Continua a lavorartela così, dai… Poi, abbassando la voce di un’ottava, azzardò: – Forse siamo sulle tracce di una nave.
– Anche voi volete lasciare la fogna… Non ci vedo niente di particolarmente straordinario – giudicò la Bruja. Jerry scommise che stesse cercando di ignorare la sua dichiarazione. – Tutti, prima o poi, se ne vanno. I più fortunati lo fanno con la loro testa, gli altri la testa ce la rimettono insieme alle palle…
Jerry scosse il capo, con un ghigno. – Hai capito bene di cosa parlo, Rosario. Quindi, per favore, non fare la furba!
La Bruja s’irrigidì. – Ti avevo sempre dato per matto, Jerry. Matto come un cavallo, dicevano i nostri antenati. Ti giuro che è così. Ma tu sei una fonte di continue sorprese: hai trovato il modo più efficace per dimostrarmelo! Grazie per la collaborazione… ma al momento ho altre priorità.
Ayesha si portò la mano della Bruja alle labbra e le baciò la pelle frutto di un numero ormai incalcolabile di terapie rigenerative. – Ascoltalo, Maman Rosario. Sta dicendo la verità.
La Bruja tornò a scrutarlo, incredula. Dietro le sue pupille, la fiamma di un desiderio irrefrenabile le accendeva la retina. Le rispose tenendo gli occhi fissi su di lui: – Una nave Y? Non ci crederei nemmeno se la vedessi con i miei occhi, ragazza…
– Nemmeno io ho detto di averla vista – ammise Jerry Lone.
– Non dal vivo, almeno – rilanciò Ayesha. Stavolta la Bruja fu davvero sul punto di alzarsi e piantarli lì al tavolo.
– Abbiamo un sistema di navigazione – disse Jerry. – O, per lo meno, quello che crediamo sia un sistema di navigazione…
– Maledetto bastardo – esplose la veterana. – Ma ti rendi conto di cosa vai blaterando?
– Credo proprio di sì – annuì Ayesha. – Se vuoi ti porteremo il manufatto, ma non lo metterai in vendita…
– Ci aiuterai invece a capirne il funzionamento – aggiunse Jerry. – Hai gli agganci giusti. Del buon holoware ponte è quello che ci serve per leggere l’interfaccia e capirla…
– Sei un pazzo suicida e questo è il tentativo di suicidio più stupido di cui abbia mai sentito parlare!
– È un azzardo, hai perfettamente ragione. Non dico che riusciremo a portare in porto il nostro piano…
– Però ci aiuterai. Non è vero, Maman Rosario?

Quella sera, mentre faceva l’amore con Ayesha, Jerry Lone immaginò di scoparsi la Bruja: staccò il contatto neurale dalla ragazza – come facevano di tanto in tanto, per concedersi un diversivo – sintonizzò occhi e olfatto sui valori del corpo della donna che aveva memorizzato durante l’incontro e, come ai vecchi tempi, la cavalcò con impeto selvaggio. I gemiti di Ayesha si confusero alla fantasia originando una confusione di sensi ibridi che si dissolse nell’orgasmo.
Più tardi, riscorrendo la registrazione, Jerry Lone rivide nelle linee scattanti e armoniose del vascello Y la grazia del corpo di Ayesha. Possono le due cose essere collegate? si chiese accarezzando un fianco della ragazza che, girata verso il transpex, era scivolata lentamente nel sonno.
Doveva essere ormai al termine della sua discesa, lungo i settanta gradini che conducevano alla Caverna della Fiamma, anticamera alle meraviglie delle Terre del Sogno. Jerry si chiese se i sogni di uno spaziale, in orbita attorno a un buco nero lontano qualche migliaio di parsec dalle Terra, potessero essere in qualche misura simili a quelli di un terrestre addormentato, per esempio, a Providence, Rhode Island. Le Terre del Sogno circondavano i mondi oppure erano l’intersezione di tutte le proiezioni oniriche dell’universo?
Il respiro placido di Ayesha lo richiamò dal suo delirio lisergico. S’infilò i visori Y e tornò a guardare la nave aliena offrire l’ennesima dimostrazione delle sue straordinarie funzionalità. Le sue forme erano tanto aggraziate da sembrare perfino naturali, come se la nave Y non fosse un conglomerato di avanzatissima tecnologia aliena, ma il risultato di una linea evolutiva sconosciuta, il prodotto di un ecosistema. L’associazione lo folgorò: il vascello sembrava adattarsi in maniera fin troppo sospetta – a meno delle proporzioni di scala – alle conformazioni minerali che popolavano la Cintura.
Potevano gli asteroidi essere solo dei gusci per i vascelli Y? E se le cose stavano in quel modo, quante navi aliene erano sepolte nel cimitero orbitale di Niger RX-2047?

[4 – continua]

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– Cosa credi che sia? – gli chiese Ayesha.
Avevano visto, riavviato e rivisto l’ologramma almeno quattro volte. Poi Jerry aveva perso il conto. Ogni volta Ayesha aveva distolto i suoi occhi dalla magia della luce solo per rivolgergli uno sguardo interrogativo, che lui aveva intuito sebbene nascosto dalle lenti opache del visore Y.
Finora Jerry Lone si era limitato a una mimica fatta di smorfie e scrollate di spalle, ma all’ennesima richiesta sentì un’epifania prendere forma dal suo buio interiore. – Un sistema di navigazione…
Ayesha si sfilò il visore Y e lo scrutò incredula. Nello spazio vuoto davanti a loro, sullo sfondo della scenografia titanica e terribile del sistema di Scylla–Niger, il veicolo di luce manovrò nel cielo di Klapeyron evocando un grappolo di didascalie incomprensibili: albero imponente sospeso sulla punta di un vento ionico e circondato di parole, oltrepassò una luna, manipolò lo spazio e si aprì una fuga sotto il tessuto connettivo della realtà. Senza lenti, Ayesha non riuscì a cogliere il dettaglio frattale dell’ologramma, quella filigrana che compattava in ogni produzione artistica degli Y una densità d’informazione straordinaria. Ma anche senza lenti lo spettacolo era comunque straordinario.
Il vascello ruotò solennemente sul proprio asse. Poi, come ogni altra volta, evaporò in una pioggia di serpenti elettrici.
– Non può essere solo una registrazione? – obiettò Ayesha, quando tutto fu finito. – Come un documentario, oppure un kino
Jerry Lone scosse il capo. – Non mi convince. Se è come dici, perché avrebbero dovuto introdurre tutte quelle annotazioni?
– Sottotitoli?
– Troppo circostanziati, troppo precisi per essere solo le battute di un film muto.
Jerry Lone non era stupito dall’assenza di attori. Se c’era una cosa che gli umani avevano appreso sugli Y era la loro innata avversione all’iconografia. In nessuno dei manufatti culturali rinvenuti tra le rovine era stato trovato un accenno, anche minimo, alla loro individualità. Dalle prove indirette che erano state raccolte, si sapeva che gli Y dovevano avere avuto un aspetto umanoide, appendici manuali, statura media un po’ più alta della media degli spaziali. Si sapeva anche che dovevano aver avuto degli occhi per guardare in una gamma spettrale più estesa di quella che la natura aveva concesso agli umani, e delle orecchie per ascoltare musiche dalla vaga connotazione religiosa.
Quello che più lo aveva colpito della proiezione, era stata proprio l’assenza di un accompagnamento sonoro, che in tutti gli olofilmati recuperati dagli archivi degli Y rappresentava senza dubbio un elemento di primo piano nella creazione artistica. Ne deduceva quindi che l’ologramma che avevano appena contemplato non doveva essere nato con finalità artistiche. D’altro canto, tradurre l’intero corredo delle didascalie al filmato avrebbe richiesto diversi giorni di lavoro anche per uno specialista.
– È vero – s’illuminò Ayesha. – Manca completamente la musica.
Jerry Lone si sfilò il visore Y.
– Hai visto la distorsione?
Ayesha annuì.
– Può voler dire solo una cosa…
Almeno una cosa – lo corresse Ayesha.
– Curvatura – disse Jerry Lone.
– O aberrazione ottica – rilanciò Ayesha. – Un apparato mimetico, una tecnica disindividuante – ma neanche lei si sentiva di appoggiare una di queste ipotesi.
– Finora potevamo solo tirare a indovinare sulla loro tecnologia dei viaggi spaziali, ma adesso abbiamo le prove. Gli Y avevano la curvatura! – La voce di Jerry Lone divenne concitata. – Immagini cosa possono essersi inventati, con la curvatura e un buco nero?
Ayesha sbarrò gli occhi. Visioni di un abisso di tenebra che si spalancava da scariche di elettricità violenta, la forza di Alcubierre che deformava il continuum a quattro dimensioni piegando le linee di campo: uno tsunami gravitazionale che si propagava lungo le pareti di un cunicolo spazio-temporale esadimensionale, verso un punto di fuga situato in un universo adiacente.
– Un wormhole violerebbe il principio di causalità ristretta – osservò Ayesha, senza riuscire però a raffreddare l’entusiasmo di Jerry Lone.
Nella teoria dell’olomovimento di David Bohm, che poi era il substrato su cui si fondava l’intero sapere umano, il tempo non esisteva se non come proprietà locale dell’universo: non una dimensione aggiuntiva alle estensioni spaziali, ma un’illusione prodotta dalle interazioni della materia, o meglio degli “archetipi” della materia, informazione relegata su una superficie fotografica bidimensionale. Smesse le vesti di una grandezza assoluta, il tempo si riduceva a una proprietà relativa al nostro universo sensoriale, il quale nella realtà esisteva al di là di ogni processo evolutivo e di ogni dinamica, come una collezione di istantanee statiche simultanee, tutte indifferentemente concrete, tutte astratte da ogni logica evolutiva. Il problema connesso alla teoria era che essa restava per definizione inverificabile. Per questo ne era stata approntata una versione ridotta, in accordo con le osservazioni e le misure, capace di conciliare dati sperimentali e pura teoria attraverso un semplice passaggio al limite: il principio di causalità ristretta, che ne era la colonna portante, ripristinava la dialettica di causa-effetto come necessità nel nostro universo percepito. Nessuna violazione poteva essere tollerata, nemmeno localmente, a livello di materia ed energia. Ed ecco il dogma: la nostra realtà era strutturata nella totale obbedienza a questo principio, escludendo nel modo più assoluto i viaggi nel tempo, e limitando i viaggi a velocità iperluce alla pura informazione.
In quest’ottica, per via della loro natura singolare e stravagante, i buchi neri erano degli oggetti da maneggiare con cura: in una realtà a due dimensioni, un buco nero era la porta d’accesso all’altra faccia della realtà, oppure a un wormhole che sfociava sulla superficie di un universo completamente diverso. Alieno, pensarono simultaneamente Ayesha e Jerry Lone. Quel pensiero spalancò sotto i loro piedi la vertigine di un abisso siderale.
– Al contrario – replicò Jerry Lone. – Non ci sarebbe nessun paradosso. Un cunicolo spazio-temporale sarebbe solo la dimostrazione che la realtà è più complessa e meravigliosa di quanto vorrebbero farci credere gli scienziati e le Logiche, con i loro enormi cervelli strapieni di formule e equazioni integrali.
– Uhm – fece Ayesha, pensierosa.
– Forse l’olomovimento di Bohm è più complesso di quanto si siano ostinati a credere finora – riprese Jerry Lone. – Forse possiamo davvero accedere alla cosa che sta dietro al velo: la realtà ultima, definitiva…
– Lo credi davvero?
Le implicazioni di quell’idea erano evidenti a entrambi.
– È una possibilità – disse Jerry Lone.
Possibile, però, che fosse stata compresa anche dai misteriosi inquilini precedenti di Scylla–Niger? Tra le rovine della civiltà Y, era stato trovato un po’ di tutto: dispositivi quantistici, pseudo-libri, armi di ogni tipo, oggetti d’uso comune e di ogni foggia. Mai, però, qualcosa di più complesso. Gli Y non si erano lasciati dietro una sola nave, a quanto pareva. Tutto doveva essere stato imbarcato sugli immensi incrociatori ad albero che l’ologramma gli aveva mostrato. La loro consapevolezza si era dispersa nel vuoto interstellare. Ma un sistema di guida poteva voler dire, forse, un vascello nascosto da qualche parte.
La prima nave Y.
Era un’idea sconvolgente e Ayesha si sentì ribollire il sangue nelle vene al solo pensiero. Un vascello alieno nascosto chissà dove, magari in un hangar sotterraneo che centinaia di operazioni di recupero avevano sfiorato negli anni, senza mai arrivare a violarlo. All’interno di un asteroide.
– Ricordi dove l’abbiamo trovato?
Ayesha annuì. A differenza della maggior parte dei recuperanti – pivelli! – che si riversavano nelle città abbandonate o sugli asteroidi maggiori, come sciacalli famelici, Jerry Lone accordava da tempo le sue preferenze agli insediamenti più piccoli. Lo aveva imparato dalla Bruja, che lo aveva tenuto a battesimo: era lontano dai grossi centri che si concentravano le sorprese più interessanti; il che, considerato il carico ridotto che poteva essere imbarcato su una freccia – per ovvie ragioni di economia algebrica – e il desiderio di novità dei collezionisti, significava coniugare spesso il miglior bottino con la caccia più breve. Era stato proprio un asteroide insignificante, immerso nell’oceano di detriti spaziali che orbitava intorno a Niger RX-2047, la meta del loro ultimo recupero.
Dallo sguardo pianificatore di Jerry Lone, Ayesha comprese che sarebbe stata anche la loro prossima destinazione.

[3 – continua]

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Jerry Lone si accese un sigaro di marijuana e tabacco e lasciò che il fumo riempisse i suoi polmoni e la stanza. Allungata nella rete da letto, Ayesha fiutò l’aroma ricco e intenso e tossì. Jerry Lone amava quando lei arricciava il naso: quel gesto donava al suo viso un’espressione di grazia bizzarra, ed era ormai diventato un’abitudine in occasione delle sue fumate post-orgasmiche, se non altro fuori servizio.
Le aveva raccontato che quella strana usanza era stata molto in voga sulla Cara Vecchia Terra: il sigaro aveva avuto cultori e luoghi e occasioni sociali specifiche per il consumo. Ayesha aveva finito per figurarsi riunioni segrete di minuscole cellule cospiratrici, dove si discuteva di piani sovversivi in sotterranei impregnati di fumo (per qualche strana ragione, associava istintivamente le abitazioni urbane della CVT a cunicoli sotterranei, come se le città terrestri fossero dei veri e propri formicai…).
Jerry Lone le aveva raccontato anche di come aveva scoperto quel cimelio prezioso. Sulla Rotta 7 per Crazy Horse, quando era ancora un giovane dirottatore senz’arte né parte, lui e Yellowbabe avevano agganciato un vecchio cargo dell’IRA. Ayesha non sapeva molto delle prime fasi dell’esplorazione spaziale, così Jerry Lone le aveva spiegato che nei primi tempi la colonizzazione era stata condotta preminentemente da mani militari. L’Interplan Rescue Agency era il conglomerato economico-militare che aveva guidato l’impresa nel periodo immediatamente successivo alla Prima Transizione.
All’epoca, una nutrita guarnigione di uomini d’arme era stanziata su ogni avamposto coloniale. Dai registri di bordo il cargo diretto a Crazy Horse risultava essere un vascello d’appoggio, destinato agli approvvigionamenti della locale comunità IRA. Durante la traversata qualcosa era andato storto. Un’avaria tra un salto e il successivo, o forse un incidente provocato da una tempesta. Tutti gli occupanti erano morti congelati e l’intelletto di bordo sembrava flatlineato. Nella stiva, l’impianto di termoregolazione autonoma aveva salvato, insieme a un volume rilegato di carta autentica dal prezzo inestimabile (una copia della Cosmogonia di A. J. Specktowsky integrata dalle note del Reverendo Jacob Blake), una intera partita di vecchi Cuesta Ray Deluxe. E se allora Jerry Lone non aveva mai sentito nominare né Specktowsky né tantomeno Blake e adesso il libro se ne stava abbandonato in un angolo del loro cuballoggio in attesa di un acquirente, seppellito tra le altre cianfrusaglie, i sigari rappresentavano per Ayesha una minaccia continua. Rischiava di morire ammazzata dal fumo mefitico.
– Fumarli è meno pericoloso che respirarli? – si chiese.
Guadagnando coraggio, si protese ad aspirarne una boccata direttamente dalla mano di Jerry Lone. Il tentativo si risolse in un violento attacco di tosse.
Quando si riprese, se ne stette per un po’ a fissare l’espressione catatonica e soddisfatta di Jerry Lone. Cosa ci trovasse in quegli stravaganti reperti archeologici di un’epoca perduta, era un mistero di cui lei doveva rinviare l’illuminazione.

La battuta di caccia aveva fruttato una coppia di termopile, maneggevoli dispositivi capaci di convertire il calore in elettricità, un cratere forgiato in una strana lega metallica (secondo l’analizzatore, una lega intermetallica di sostituzione a base di alluminio e carbonio, con percentuali inferiori di tantalio e cromo, qualunque cosa significasse) e alcuni monili, raffiguranti simboli arcani per qualche incomprensibile rito religioso.
Quello che era parso da subito evidente ai primi esploratori, era stata la complessità imperscrutabile delle usanze di culto degli Y. Klapeyron IV doveva avere assistito, un tempo, a cerimonie di massa tanto solenni quanto laboriose, con luoghi sontuosi a fare da sfondo. Quale dio o bizzarro pantheon alieno gli Y adorassero, era ancora argomento di acceso dibattito. Ma a giudicare dall’importanza assegnata al vuoto nella loro iconografia, non sembrava priva di fondamento l’ipotesi che l’assenza, il nulla, lo Zero, potessero rivestirvi un ruolo primario.
A voler compilare un bilancio, era stata una buona caccia. Viste le abitudini ormai consolidate di Jerry Lone, non si spingevano spesso nella Cintura, praticamente sulle labbra gravitazionali del buco nero. Quella era ormai riserva di caccia quasi esclusiva dei recuperanti di ultima generazione, quasi tutti psichicamente instabili. Da tempo loro preferivano la superficie sconfinata, anche se meno fruttuosa in termini monetari, di Klapeyron IV.
Stavolta, invece, Jerry Lone aveva voluto spingersi fino a un asteroide senza nome, una roccia irregolare sospesa appena al di sopra della nube di plasma incandescente che vorticava nel Gorgo verso le fauci quantistiche di Niger RX-2047. Se si teneva conto della crescente difficoltà incontrata dagli altri recuperanti negli ultimi tempi, già il fatto di essere rientrati senza un graffio poteva essere considerato alla stregua di un successo. La complicata danza gravitazionale di Niger RX-2047 e della sua compagna, la luminosa subgigante azzurra Scylla, distante solo una manciata di unità astronomiche, produceva un effetto devastante sullo spazio locale del sistema. Increspature e frange d’interferenza nel continuum spazio-temporale potevano degenerare in vere e proprie tempeste gravitazionali. Per non parlare delle complicazioni elettromagnetiche… Persino in momenti di calma relativa diventava un’impresa controllare l’effetto reciproco delle due grandi masse in orbita, quando queste interagivano con gli altri oggetti del sistema. Oltre a Klapeyron IV e alle sue lune, lo spazio orbitale ospitava anche una nana bruna, due giganti gassosi e altri quattro pianeti di classe T. Tutti orbitavano intorno al comune centro di massa dei due oggetti stellari. La fascia asteroidale che cingeva Niger RX-2047 doveva essere tutto ciò che restava di un quarto gigante, fatto a pezzi dalle maree ancor prima che gli Y approdassero nel sistema.
Per via della danza gravitazionale Resurgam doveva percorrere un’orbita fortemente inclinata sul piano dell’eclittica, imperniata sul fulcro gravitazionale dei due titani. E per questo ogni tuffo nel sistema, a caccia di reliquie tra le rovine di Klapeyron IV e ancor più nella Cintura, assurgeva alle proporzioni di un’impresa epica. Equivaleva a calarsi nel maelstrom di Niger RX-2047, perennemente in agguato, pronto a violentare da un momento all’altro la temeraria Scylla e distruggere chiunque altri si fosse interposto all’oggetto delle sue attenzioni, in una trasfigurazione cosmica del mito classico di Cariddi.
– Credo che dovresti vedere questa cosa, Jerry – disse ad un tratto Ayesha. Stava passando in rassegna il bottino per l’inventario. Pur avendone completato la scansione, da qualche minuto si stava rigirando tra le mani il cratere di lega.
– Cosa c’è che non va? – chiese Jerry Lone, continuando a lavorare sul progetto olografico. Una delle attività a cui si dedicava con maggiore trasporto nei tempi morti, era il modellamento planetario. Fin dal suo arrivo lassù, si era occupato di un unico sistema: la coppia Scylla–Niger. Sperava che quell’ulteriore studio si rivelasse complementare alle sue attività di recupero, aiutandolo a pianificare con la massima cura possibile le incursioni tra le macerie degli Y. Le discese erano ancora affidate in larga misura all’istinto di pilota e navigatore: persino l’intuizione dell’Algebra della freccia necessitava di una programmazione adeguata, in aggiunta alla mediazione di Ayesha. A quel modo era come lanciarsi in una corsa al buio lungo un corridoio gravitazionale: tremendamente pericoloso. Significava vivere in uno stato perenne di precarietà.
– Vieni a dare un’occhiata – insistette Ayesha. In quell’esatto momento, come un riflesso deformato e ingigantito del suo modello olografico, dall’anfora emerse il Gorgo, imponente flusso di gas incandescenti che da Scylla spiraleggiava nelle fauci invisibili di Niger RX-2047, avvolgendosi in un disco di accrescimento che celebrava su scala stellare l’attitudine della Natura alla violenza.
Quello che si parò ai loro occhi fu il trionfo della morte.
Ne furono ipnotizzati prima ancora che Ayesha recuperasse un paio di visori Y da una sacca. Senza batter ciglio guardarono la proiezione come bambini davanti al loro primo ologramma.

Gli Y si erano stanziati attorno a Niger RX-2047 presumibilmente al termine di una lunga traversata cosmica. Vi avevano impiantato il nucleo di una civiltà avanzatissima. Avevano vissuto il loro rinascimento – magari l’ennesimo – e poi, da un giorno all’altro, erano svaniti nel nulla. Era accaduto in un momento storico antecedente alla comparsa delle prime civiltà mesopotamiche sulla Terra. L’analisi del carbonio-14 e del radio-226 aveva permesso di fissare una data piuttosto precisa per quell’evento al 9960 avanti Cristo, anno più anno meno. A quell’epoca risalivano i più recenti manufatti rinvenuti nel sistema, per la precisione sugli asteroidi.
Nessun’altra traccia degli Y era stata ancora riportata alla luce altrove. Per via delle sue rovine, disseminate di tecnologia aliena, archeologia e raffinate opere d’arte, Klapeyron IV era apparso fin dal primo istante uno scrigno di ricchezze, il paradiso dei recuperanti. Ma le meraviglie più straordinarie parevano concentrate nella Cintura.
Era stato quindi piuttosto naturale che bande di espatriati, fuorilegge e desperados scegliessero Scylla–Niger come approdo di ventura per le loro peregrinazioni galattiche. Qualcuno dei primi coloni aveva azzardato un esperimento in proprio di conversione energetica, che aveva condotto alla nascita della Cattedrale. I suoi adepti e discendenti si erano coalizzati nella classe degli Estrattori, casta elitaria nell’attuale scenario sociale del sistema. I recuperanti erano giunti più tardi e avevano assemblato una città spaziale dal nulla. Sulla Vecchia Terra si sarebbe detto “un mattone dopo l’altro”. Ma lassù, in mezzo al vuoto siderale, a due passi da un vortice di dimensioni stellari e a qualche migliaio di parsec dal Sole, si parlava di tubi.
I tubi erano i moduli abitativi standard che, opportunamente interconnessi tra loro, erano alla base delle strutture complesse degli habitat orbitali: anelli, fusi, alveari. E tubi erano anche i componenti primari dell’ossatura solida dei moduli: nanotubuli di carbonio, per l’esattezza, materiale compatto e malleabile, robusto e intelligente. Così, un tubo dietro l’altro, era venuta fuori Resurgam, una sorta di escrescenza tumorale nata da una cellula impazzita della Cattedrale, un sogno orbitale degenerato in incubo. Simulacro vivente di una città spaziale, organismo impazzito e fuori controllo, vagava sull’abisso di Scylla–Niger come il cadavere di un’ape regina trascinata alla deriva dalla corrente.
Vista dall’esterno, la Stazione era una struttura notevolmente sbilanciata, un paradosso tenuto insieme dalle preghiere dei suoi abitanti. Nessuno conosceva il numero esatto degli Estrattori, ma come ogni clan industriale autosufficiente doveva essere inferiore alle stime più prudenti. Di recuperanti, invece, ce n’erano decine, centinaia. E con le loro famiglie e le attività economiche che prosperavano intorno al business del recupero (commercianti, rigattieri, restauratori, ricercatori, tecnici aerospaziali, operatrici ricreative), la popolazione di Resurgam ammontava a qualche migliaio di abitanti. Tutti concentrati in una bagnarola scricchiolante e azzoppata, come una sorta di avanguardia proletaria del suicidio sistematico.

[2 – continua]

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Furono i gemiti a scatenare violente fluttuazioni di stato nel suo spazio delle fasi. La realtà oscillò mentre i parametri cercavano la chiave d’accesso di un’altra possibilità, verso un equilibrio nuovo. Con tutte le variabili in gioco – pressione sanguigna, pulsazione cardiaca, tracciato delle onde Beta e relativi salti di frequenza nella banda 13-30 Hz, a veicolare coordinate spaziali e relativi incrementi differenziali del primo e del secondo ordine, gradiente termico, intensità delle radiazioni e flusso ionico – non era un compito di facile risoluzione.
Si trovavano ad attraversare la zona di fetch, dove si generano le onde gravitazionali in prossimità di una concentrazione significativa di massa e in presenza di venti di particelle intensi; una regione in cui la superficie dello spazio anti-de Sitter che descrive l’universo come una superficie iperbolica appare confusa e i processi che vi si svolgono sono soggetti a un andamento disordinato, con forti oscillazioni indotte nella schiuma quantistica del vuoto dalle continue transizioni energetiche che alimentano le cosiddette onde di swell o di «cosmo morto», che allontanandosi lungo le direttrici tangenti alla superficie della singolarità crescono e si regolarizzano; e loro erano proprio lì, nella zona critica, quando dal reticolo dello spazio anti-de Sitter emersero configurazioni mutanti contro un orizzonte sempre più vasto. Il segnale di generazione dell’onda affiorò dalla superficie a massima entropia con il suono di un corno da postiglione. La configurazione ribollente dello spazio liberò dal Gorgo un treno di onde di mare morto.
Jerry Lone non si fece trovare impreparato. Catturarle era l’aspetto più divertente del suo lavoro: come sempre, brividi e fremiti percorsero le sue membra, evocando un piacere viscerale…
Un attimo prima: sotto di lui Ayesha stava sospirando, mentre assecondava il ritmo incalzante dell’amplesso. Jerry Lone addentava il piacere con un misto di furia fremente e di rabbiosa vitalità. Un’istantanea di brevissima durata gli fissò nella mente l’analogia della fanciulla con le seducenti forme argentate di un incrociatore militare della NERVE…
Un attimo dopo (nell’accezione di Planck, esattamente 10-43 secondi più tardi): il carbonio nanotubolare che componeva la struttura intelligente della loro freccia mutava per adattarsi al cambiamento delle condizioni operative. Sentì il vento di particelle, là fuori, accarezzargli lo scafo con dolcezza. Avvertì il ruggito della singolarità in agguato, appena sotto il ventre della Silver Surfer.
Quando il tempo accelerò bruscamente, assestandosi nuovamente nello spettro delle percezioni umane, Jerry Lone confuse il flusso ininterrotto dei dati tecnici con il forte, sensuale afrore ormonale di Ayesha.
– Oh sì! Ancora… così! Più giù! Così! – stava dicendo Ayesha, scandendo i tempi di una danza orgasmica. – Così…
Sotto le mani Jerry Lone seguì il profilo regolare e snello dei suoi fianchi, percepì il fremito del suo ventre, immaginò i seni sussultare gonfi e turgidi. La percorse fino a incontrare lungo il crinale del piacere le dune sussultanti delle costole. La pelle di Ayesha splendeva in un trionfo di ambra bruna sotto un velo di sudore come rugiada terrestre. Quando si perse sulla curva della sua schiena – la scala vertebrale di un crescendo sinfonico – Jerry comprese che era giunto il momento.
Colse l’attimo.
La freccia scivolò sulla cresta gravitazionale della singolarità, schizzando in un condotto a basso dispendio energetico a una frazione pari al 58% della velocità della luce, proiettando davanti a sé un campo a inversione di spinta. In un effetto domino l’inversione gravitazionale accelerò ulteriormente la loro corsa, lanciandoli all’inseguimento dell’ombra cosmica di una lepre fantasma.
Lontano dalla stazionarietà non c’è modo per controllare su lunghi intervalli una dinamica non-lineare. In quei frangenti, Jerry Lone rimetteva la loro sorte nelle mani dell’istinto.

La Stazione orbitava alta nel cielo sopra il Gorgo. La complessa configurazione gravitazionale del sistema la obbligava a una danza senza sosta, un comportamento non-lineare che immancabilmente colpiva l’osservatore esterno con la sua bizzarria.
Ayesha era capace di restarsene ore davanti al transpex, a contemplare quel valzer cosmico senza sosta. Guardava il convoglio degli Estrattori scivolare puntuale sulla sua orbita: lo scafo lucido brillava nella notte cosmica, riflettendo la luce gelida di Scylla e quella del Gorgo che spiraleggiava attorno al buco nero, immenso disco di accrescimento di polveri e plasma incandescente. Il convoglio scivolava su binari invisibili che lo spingevano oltre il limite statico di Niger RX-2047, dentro l’ergosfera, da cui emergeva dopo aver barattato un carico di scorie e rifiuti (avidamente inghiottito dall’orizzonte degli eventi) con un utile di energia angolare. Avvitandosi, il treno transitava poi nella cosiddetta Cattedrale, che provvedeva a estrarre il guadagno energetico convertendolo in forma utilizzabile, per soddisfare il fabbisogno di tutta la Stazione. Il surplus veniva rivenduto sulla proficua borsa dell’energia, a distributori che giungevano da ogni parte dell’Ecumene per acquistare la linfa del buco nero, imbrigliarla nei loro megalitici accumulatori e rivenderla a prezzi competitivi sui mondi dell’uomo.
Gli Estrattori la mercanteggiavano con compilatori di ultima generazione, ricambi per gli apparati della Cattedrale, materiale genetico, know-how e, talvolta, opere d’arte. Antichi volumi rilegati o tascabili sgualciti altrettanto venerandi, installazioni, oggetti d’antiquariato; ma anche statue, manufatti e bigiotteria di qualche civiltà aliena. Le quotazioni migliori toccavano, paradossalmente, all’archeologia Y, disponibile in quantità generose poche unità astronomiche sotto di loro, sulla superficie ormai morta di Klapeyron IV, delle sue lune e della cintura asteroidale.
Gli umani non erano stati i primi a stanziarsi nel sistema. Prima di loro, molto tempo prima, era stata la volta di quelli che i successori avrebbero chiamato “gli Y”. La curiosa denominazione era stata ispirata ai primi esploratori dai manufatti disseminati su Klapeyron IV: nelle incisioni, la somiglianza di alcuni simboli ai vecchi alfabeti terrestri sembrava raggiungere picchi d’affinità inaspettati proprio in corrispondenza della lettera Y. Che quell’appellativo, poi, avesse una connotazione enigmatica per via della sua assonanza con una tipica interrogativa inglese, era un bizzarro scherzo del destino.
Se era ormai abbastanza chiaro che la civiltà degli Y era giunta sull’orlo del buco nero proprio come qualche millennio più tardi avrebbero fatto gli umani, la loro fine restava ancora avvolta nelle spire di un fosco mistero.
Inghiottiti nel nulla. Era possibile un’altra definizione per la loro sorte?
Gli avamposti lunari, come pure le città su Klapeyron IV e le installazioni orbitali, non recavano altri segni che non l’usura del tempo. Ci si sarebbe aspettati di imbattersi nelle tracce di un violento conflitto interplanetario, magari non crateri e sabbia vetrificata ma almeno tecnologia distrutta e resa inservibile, edifici rasi al suolo, resti di cadaveri alieni (scheletri, oppure fossili). Invece, niente di tutto questo. La tecnologia era ancora in funzione. Le case, ancora in piedi, aspettavano forse che i vecchi proprietari rientrassero nelle stanze abbandonate da tempo, riempiendo quel vuoto con il rumore dei passi, con il suono di antiche parole impronunciabili. Era tutto come se, un bel giorno, un’intera civiltà avesse fatto i bagagli e fosse partita per un week-end fuori città. Poteva essergli capitato qualcosa lungo la strada del rientro?
Ad ogni buon conto, il mistero forniva linfa vitale al commercio di Resurgam. Squadre di recuperanti setacciavano le rovine di Klapeyron IV e delle sue lune a caccia di reperti. Il recupero era la principale fonte di collocamento nello spazio locale di Niger RX-2047. Se il traffico in energia era un’esclusiva degli Estrattori, gli altri inquilini di Resurgam erano quasi tutti recuperanti.

[1 – continua]

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Milan M. Cirkovic è un ricercatore serbo dell’Osservatorio Astronomico di Belgrado che da tempo si occupa di astrobiologia e SETI. In un famoso articolo del 2008, pubblicato sul Journal of the British Interplanetary Society, si sofferma sulle possibili evoluzioni delle società post-biologiche, sia postumane che extraterrestri. L’articolo può essere consultato su Arxiv.org e si intitola, in maniera molto evocativa per chi ha confidenza con un certo immaginario fantascientifico, Against the Empire.

In quello studio Cirkovic considerava due possibili modelli di società post-biologiche, applicabili a società sia postumane che extraterrestri: l’impero e la città-stato. Il primo si basa sulla spinta all’espansione e alla colonizzazione, il secondo sul contenimento delle dimensioni mirato all’ottimizzazione delle risorse. L’autore pone l’accento sul fatto che quasi sempre si analizzano i possibili comportamenti delle società post-biologiche senza tener conto del fatto che in tali società gli imperativi derivanti dalla biologia perderanno la loro importanza. Muovendo da questa considerazione arriva alla conclusione che il modello della città-stato ha ottime probabilità di successo in una società post-biologica, mentre il modello dell’impero non sarebbe così diffuso come siamo spinti a credere per effetto dei bias alimentati dalle nostre letture e visioni fantascientifiche, specialmente quelle più popolari, divenute quasi mainstream (pensiamo a Star Trek o Star Wars, che malgrado la varietà di specie portate in scena rappresentano modelli piuttosto omogenei).

Da tempo sono spinto dalle mie letture e scritture a riflettere sulle possibili caratteristiche delle società postumane. E ormai da diversi anni la fantascienza va elaborando scenari sempre più contaminati, eterogenei, meticci. Tanto che, sicuramente condizionato da queste rappresentazioni (penso a Kim Stanley Robinson, ad Alastair Reynolds, a M. John Harrison, ad Aliette de Bodard), ormai faccio fatica a concepire una società dalla costituzione monolitica e omogenea e anzi, devo ammettere, gran parte del piacere del world-building nasce dalla complessità degli scenari che si vanno elaborando.

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Proviamo a vedere da quali considerazioni scaturiscono queste ipotesi?

1. Diversificazione e postumanesimo. In prima battuta dovrebbe risultare sempre meno plausibile, o quanto meno “bizzarro”, che nel vasto ventaglio delle soluzioni possibili possa prevalere un’unica tecnologia postumanizzante, a meno che questa tecnologia non sia un particolare tipo di intelligenza artificiale, nel qual caso ricadremmo nella fattispecie di problemi che abbiamo già esaminato un po’ di tempo fa e che smorzerebbe sul nascere ogni ulteriore discussione sul merito della faccenda. Quindi ipotizziamo che l’intelligenza artificiale si sviluppi in parallelo con altre tecnologie emergenti (nano- e bio-, genetica, cognitive augmentation, etc.) portando a un’esplosione di intelligenza, spingendo la curva del progresso oltre l’orizzonte percepibile della Singolarità Tecnologica, e innescando tutta quella catena di eventi che su periodi sempre più brevi renderanno sempre più complessa la società in cui viviamo, innescando il meccanismo a orologeria delle contraddizioni irrisolte che si annidano in essa, e rendendo ogni possibile scelta una questione di sopravvivenza. La diversificazione sarebbe funzionale alla resilienza (concetto ultimamente abusato e sempre più diffuso a sproposito), ma non trascuriamo neanche – per dirla con Nassim Nicholas Taleb – i vantaggi dell’antifragilità in contesti dalla spiccata incertezza.

Potrebbe infatti anche essere semplicemente una questione di filosofia: in altre parole, l’umanità potrebbe non essere così compatta da mettere a punto un piano di soluzioni condivise per affrontare i rischi esistenziali che si porranno. Eventi più o meno catastrofici potrebbero mettere l’umanità davanti a bivi più o meno drammatici, fungendo anche da banco di prova per le soluzioni escogitate. E una strategia quanto più diversificata potrebbe essere una risposta possibile (oltre che alquanto probabile) da parte del genere umano in una situazione di forte pericolo. E siccome non è detto che ogni problema abbia un’unica soluzione, eccoci mentre ci addentriamo nel giardino dei sentieri che si biforcano. Un luogo molto particolare, nel quale ad ogni passo corrispondono ore del tempo a cui siamo abituati. E poi giorni. E poi anni…

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2. Diaspora e disgregazione. In seconda battuta, su un periodo sufficientemente lungo (diciamo una prospettiva di qualche decennio, ma volendo stiamo pure larghi e diamoci l’orizzonte temporale del secolo in corso), non riesco a disaccoppiare l’evoluzione postumana dalla colonizzazione spaziale. I due concetti mi sembrano diventare sempre più inestricabilmente correlati man mano che ci addentriamo nell’uno o nell’altro. La Nuova Frontiera Spaziale potrebbe rappresentare quel punto di svolta capace di promuovere la diffusione di numerose tecnologie emergenti. Ho studiato anch’io Kim Stanley Robinson, negli ultimi anni me ne sono occupato diffusamente e ovviamente ho bene in mente questo suo articolo fondamentale, tuttavia non riesco a non pensare a un futuro a medio-lungo termine in cui l’umanità resta confinata sulla Terra.

Non prevedo lo sviluppo di una civiltà interstellare, ma trovo istintivamente poco credibile uno scenario in cui da qui alla fine del XXI secolo non ci siano delle colonie umane nello spazio: habitat artificiali nella cintura asteroidale, o sulla Luna e su Marte, magari anche solo come forma di presidio scientifico se non proprio di sfruttamento minerario, renderanno la frontiera spaziale un po’ quello che nel XX secolo è stato l’Antartide. Sicuramente poco per parlare di una vera e propria civiltà interplanetaria, ma a mio parere un’esperienza fondamentale per dotarsi di quelle conoscenze necessarie a elaborare sistemi di supporto vitale in grado di assicurare agli habitat artificiali un’autonomia dal pianeta madre. Qui mi rendo conto di calpestare un terreno piuttosto scivoloso, però nel 1919 conoscevamo già tutto quello che nella seconda metà del secolo scorso avrebbe reso possibile lo sviluppo di internet, dai laboratori della DARPA alle nostre case (e ancora una manciata di anni dopo alle nostre tasche): il limite era di natura tecnica, non scientifica. Quindi non trovo così astruso pensare a ecosistemi chiusi sempre più efficienti per sostenere piccole comunità di coloni spaziali.

Volendo spingerci più avanti di qualche secolo, senza timore di sconfinare nel dominio delle fantasticherie, la diaspora umana su altri pianeti esterni al sistema solare non farebbe altro che indebolire i reciproci legami e influssi tra le varie comunità. Le distanze in gioco sarebbero tali da comportare una drastica riduzione della banda di comunicazione e un lag culturale di una certa rilevanza. Anche limitandoci a considerare solo i sistemi stellari più vicini (una cinquantina nel raggio di 5 parsec, ovvero 16 anni-luce), senza un qualche tipo di collegamento più veloce della luce (FTL) ci troveremmo di fronte a separazioni dell’ordine di decine di anni di attraversamento (ricordate Interstellar? Allo stato attuale: “La stella più vicina è lontana migliaia di anni…“). La Nuova Frontiera risulterebbe così estremamente incentivante sul fronte della “postumanizzazione” come anche della disgregazione della matrice dell’umanità. A questo proposito sono esemplari i lavori di Samuel R. Delany (che in Babel 17 mette in scena una frammentazione di tipo linguistico e culturale), di Bruce Sterling (che nel sontuoso universo della Matrice Spezzata parte dalla frattura dell’umanità in Mechanist e Shaper per progredire nella disintegrazione tra cladi e fazioni fino a livelli parossistici) e di Alastair Reynolds (che allestisce uno scenario intrigante e piuttosto problematico, con numerose fazioni politiche a contendersi lo scacchiere interstellare del Revelation Space).

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A meno di qualche scoperta o invenzione che ci permetta di infrangere la barriera della luce e contrarre così le distanze tra i diversi avamposti della postumanità, la colonizzazione interstellare condurrà a una crescente frammentazione che potrebbe semplicemente rappresentare la naturale evoluzione della situazione già disgregata di partenza, in uno scenario che richiama l’organizzazione in città-stato a cui si riferisce Cirkovic. In una sorta di gioco frattale di autosomiglianza di scala, le differenze potrebbero ripetersi a livello planetario, stellare e interstellare.

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Mi chiamo Giovanni De Matteo, per gli amici X. Nel 2004 sono stato tra gli iniziatori del connettivismo. Leggo e guardo quel che posso, e se riesco poi ne scrivo. Mi occupo soprattutto di fantascienza e generi contigui. Mi piace sondare il futuro attraverso le lenti della scienza e della tecnologia.
Il mio ultimo romanzo è Karma City Blues.

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