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Così ci siamo e in questo weekend lunare il mio pezzetto di Luna è apparso ieri, grazie all’invito e all’ospitalità delle pagine di Quaderni d’Altri Tempi.
Due parole sull’articolo: credo che sia dai tempi di questo profilo commemorativo di Harlan Ellison che un articolo non mi richiedeva un simile impegno. In quel caso, pur di fronte alla sterminata produzione di un autore immenso, si trattava più che altro di concentrare nello spazio di pochissimi giorni le letture e riletture necessarie a ricordarlo degnamente. In questo, invece, mi sono trovato davanti a una mole sconfinata di opere, di riferimenti e di omaggi, tanto che non esito a dire che è sicuramente più la roba rimasta fuori di quella che sono riuscito a far entrare nelle 16 cartelle del mio Mappe. Ma dopotutto di pezzi anche più completi del mio in queste settimane ne stanno uscendo parecchi (io vi segnalo quello di Carmine Treanni per Delos, che mi sono riservato di leggere solo dopo la chiusura del mio, sorprendendomi tanto davanti ai punti di contatto quanto alle differenze di approccio), per cui non è riduttivo sostenere che un pezzo di Luna appartiene a ciascuno di noi e ognuno l’ha fatta propria alla sua maniera.
Soprattutto, mi sarebbe piaciuto riuscire a fare entrare nel mio articolo molto più rock di ispirazione spaziale, da Rocket Man di Elton John a David Bowie (con l’imbarazzo della scelta, da Starman a Space Oddity), dall’inevitabile The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd ai Foo Fighters con Next Year, passando per Walking on the Moon dei Police. E così via: tutte influenze che hanno esercitato la loro attrazione gravitazionale sul mio immaginario tanto quanto i libri, i racconti, i film e i fumetti che ho incluso nella mia rassegna.
E quindi due parole anche sulla mia Luna. Quando sono nato erano ormai trascorsi quasi dodici anni da quando l’uomo vi aveva messo piede per la prima volta, e più di otto dall’ultimo sbarco. Per tutta la mia infanzia e adolescenza mi è sembrato assurdo che non vi fossero già basi lunari e voli di linea tra la Terra, la Luna e le stazioni orbitali, e altrettanto che non ci fosse una corsa agli altri pianeti del sistema solare. Adesso che qualcosa torna a muoversi, mi consolo con l’idea che probabilmente nell’arco di vita che mi rimane da percorrere è probabile che vedremo di nuovo uomini e donne calpestare le rocce lunari e magari anche le sabbie marziane.
Il cammino verso le stelle è lungo, ricco d’insidie e sarà sicuramente segnato da insuccessi e sacrifici, che renderanno epica quella che alla fine è l’impresa più eroica mai concepita dalla nostra civiltà. Ma in fondo, parafrasando Primo Levi, non siamo nati per accontentarci di quello che ci è stato dato. Non possiamo esser nati per restare.
Che basti il ricordo dei giganti di ieri a farci vergognare dei nani di oggi è una constatazione banale nella sua semplicità. Proviamo a immaginare queste parole sulla bocca di un politico dei nostri giorni, e non saranno più di due o tre i nomi che potrebbero venirci in mente, a fronte di uno o due ordini di grandezza di esempi contrari, casi negativi in grado di esaltare nient’altro che gli istinti più bassi della natura umana.
Abbiamo iniziato questo viaggio verso nuovi orizzonti perché vi sono nuove conoscenze da conquistare e nuovi diritti da ottenere, perché vengano ottenuti e possano servire per il progresso di tutti. […] Abbiamo deciso di andare sulla Luna. Abbiamo deciso di andare sulla Luna in questo decennio e di impegnarci anche in altre imprese; non perché sono semplici, ma perché sono ardite, perché questo obiettivo ci permetterà di organizzare e di mettere alla prova il meglio delle nostre energie e delle nostre capacità, perché accettiamo di buon grado questa sfida, non abbiamo intenzione di rimandarla e siamo determinati a vincerla, insieme a tutte le altre.
Quando John F. Kennedy pronuncia queste parole di fronte a 40.000 persone raccolte alla Rice University (Texas) è il 12 settembre 1962 e deve convincere il 58% della popolazione americana che la Luna rappresenta un valido motivo per investire i circa 25 miliardi di dollari dell’epoca (corrispondenti a circa 100 miliardi di dollari di oggi) necessari a farvi sbarcare un uomo entro la fine del decennio e – proposito non meno importante – farlo tornare sulla Terra sano e salvo.
Il 1962 è lo stesso anno in cui John Glenn completa la prima orbita intorno alla Terra (il 20 febbraio), grazie anche allo sforzo di figure rimaste per decenni nell’ombra, come Katherine Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson, matematiche, informatiche e ingegnere riscoperte solo più di mezzo secolo più tardi grazie a un libro di Margot Lee Shetterly e al bel film che Theodore Melfi ne ha tratto nel 2016: Hidden Figures, appunto (in italiano: Il diritto di contare). La loro storia è una delle tante che si intrecciano dietro le quinte di quello che diventerà il Programma Apollo, coinvolgendo solo nel primo anno ben 500.000 persone tra tecnici, ingegneri, scienziati e impiegati. Tra gli altri, ricordiamo anche il direttore del programma Rocco Petrone, figlio di immigrati italiani provenienti da Sasso di Castalda (in provincia di Potenza), sbarcati negli anni ’20 a New York: una storia di puro e semplice sogno americano, dall’incidente ferroviario in cui rimase coinvolto suo padre al servizio militare grazie al quale riuscì a laurearsi e in seguito ad accedere al MIT.
Il cosmonauta sovietico Jurij Gagarin aveva posto la bandiera rossa dell’URSS sul primo storico volo spaziale nel 1961, e gli USA non si erano rassegnati a rimanere a guardare. Addirittura, come racconta Simone Petralia in questo informatissimo pezzo per Oggi Scienza, si pensa di unire gli sforzi della corsa allo spazio. Con l’assassinio di Kennedy nel 1963 e l’uscita di scena del Primo Segretario del PCUS Nikita Chruščëv l’anno dopo, l’ipotesi di una convergenza dei programmi spaziali delle due superpotenze perse definitivamente consistenza, lasciandoci il rimpianto per quello che avrebbe potuto significare soprattutto in termini di presenza e sviluppo dell’industria spaziale.
Kennedy non vide mai Neil Armstrong toccare il suolo lunare, non sentì le sue parole storiche, non lo vide rincorrersi tra le distese di sassi e polvere senza vita del deserto lunare con Buzz Aldrin, ma meno di sette anni dopo quel discorso il suo sogno diventava realtà, unendo l’umanità intera davanti agli schermi per assistere a quella che è stata sicuramente la più grande impresa tecnologica, scientifica e politica del Novecento. Perché può bastare poco per concepire un sogno, ma occorrono anni di fatica, perseveranza e programmazione per trasformarlo in realtà. E a volte capita anche che non siamo lì per assistere alla loro realizzazione e per prendercene i meriti. Ma le grandi idee restano e amplificano il ricordo di chi le ha messe in pratica. Gli uomini piccoli tendono a sparire nella prospettiva storica, insieme alle loro meschinità.
Come dichiarò Petrone in un’intervista: “Credo che il maggior merito dell’esplorazione spaziale sia stato quello di aver dato all’umanità un obiettivo comune, un motivo d’orgoglio e di esaltazione che non conosce frontiera. L’impresa di Armstrong, Aldrin e Collins sarà sempre ricordata non come una conquista degli Stati Uniti, ma di tutti gli uomini.”
Ancora oggi, cinquanta anni dopo, ci basta alzare lo sguardo al cielo in queste sere di luna piena, rese ancora più indimenticabili dall’eclissi, come se le stelle avessero tramato per regalarci tutti gli allineamenti possibili in occasione dello storico anniversario, per ricordarci cosa ha significato quell’impresa e farcene sognare una uguale. Perché dopotutto, come insegnano gli astronauti immaginari di J. G. Ballard, da quel luglio 1969 la Luna è davvero di tutti, appartiene a ognuno di noi e a nessuno. Proprio come la Terra. E non dovremmo dimenticarlo mai.
Siamo entrati nella finestra di lancio delle celebrazioni del cinquantennale dell’allunaggio, e ripensando alle parole di Alberto Moravia, che mi sono appena ritrovato a citare in un articolo che vedrà la luce venerdì prossimo 19 luglio, vigilia dell’anniversario, mi sono imbattuto in questa dichiarazione di Primo Levi, che con Italo Calvino si ritrovò in quegli anni a fronteggiare l’ostilità anti-scientifica, quando non proprio la chiusura dogmatica confinante con la superstizione, di intellettuali non meno illustri o influenti, come Pier Paolo Pasolini, Carlo Cassola o Anna Maria Ortese.
Di Calvino parlerò diffusamente nell’articolo in uscita. Qui dedichiamoci alle parole di Levi, che a proposito dello sbarco sulla Luna commentò così le sue sensazioni in un’intervista:
Alla base di tutti i possibili motivi del viaggio nello spazio, si intravede un archetipo; sotto l’intrico del calcolo, sta forse oscura obbedienza a un impulso nato con la vita e ad essa necessario, lo stesso che spinge i semi dei pioppo ad avvolgersi di bambagia per volare lontani nel vento, e le rane, dopo l’ultima metamorfosi, a migrare ostinate di stagno in stagno, a rischio della vita: è la spinta a disseminarsi, a disperdersi su un territorio vasto quanto è possibile.
Serve altro?
Chesley Bonestell, The Moon As It Should Have Been.
C’è un culto dell’ignoranza […], e c’è sempre stato. Lo sforzo dell’anti-intellettualismo è stato una traccia costante che si è spinta nella nostra vita politica e culturale, alimentata dalla falsa nozione che la democrazia significhi che “la mia ignoranza è tanto giusta quanto la tua conoscenza”.
Isaac Asimov
Con la partecipazione di Samantha Cristoforetti alla 42ma missione di lunga durata sulla ISS sarebbe stato lecito attendersi una presa di coscienza da parte degli organi d’informazione in Italia. Invece quello a cui stiamo assistendo è un florilegio di idiozie assortite (dall’ISS che si trasforma in ISIS al menù dell’astronauta e così via). La sindrome lunare continua evidentemente a scuotere la sua coda lunga, ha raggiunto l’orbita terrestre e si è fatta sindrome spaziale. Da un po’ di tempo mi sto convincendo che l’adagio “bene o male, l’importante è che se ne parli” ha fatto il suo tempo. In presenza di temi complessi – e mi domando cosa possa esserci di più complesso di una missione spaziale – non sarebbe possibile affidarsi a tuttologi e commentatori da salotto, dovrebbe essere lapalissiano. Andrebbero interpellate e coinvolte le professionalità adatte: divulgatori scientifici, scienziati, ingegneri. Specialisti che sappiano di cosa stanno parlando. E invece la stampa cortocircuita il “senso comune” dell’uomo di strada, generando tsunami di idiozia che finiscono per travolgere ogni serio tentativo di affrontare il tema.
L’Italia non è un paese per giovani, e questo lo abbiamo capito. Ma adesso che stiamo appurando che non è nemmeno un paese per ricercatori, per tecnici, per giornalisti, dovremmo tutti domandarci un po’ di chi sarebbe davvero, questo benedetto paese. Dei politici che si dividono le luci dei riflettori con i conduttori televisivi? Ormai anche calciatori e veline sono stati scalzati dal palcoscenico mediatico. O magari dei complottisti che sommergono i social network di inutili (quando non insulse) campagne di sensibilizzazione a questo o a quel problema?
La Expedition 42 non ci avrà dato la risposta finale sull’argomento, ma di certo sta portando allo scoperto molta della spazzatura che in questi anni e decenni ci siamo così operosamente affannati a nascondere sotto il tappeto. Su Qualcosa di Sinistra Davide Clementi scatta una fotografia impietosa del peggio che sta venendo fuori. Ma in questi giorni basta farsi un giro su Facebook per toccare con mano lo squallore delle esternazioni più becere e triviali. C’è da rimanere sconcertati e basiti di fronte agli abissi di ignoranza espressi da così tanti nostri connazionali. Lasciamo da parte le battute sessiste (dimenticavo, l’Italia forse è un paese per comici con le pezze al culo!), e ignoriamo senza ripensamenti gli articoli di tenore analogo pubblicati da Libero e altre frattaglie, ma quello che mi lascia più sconvolto è imbattermi in commenti di persone che sproloquiano sul “sogno di Samantha” come se tutta la missione fosse stata organizzata per lei, e snocciolano cifre senza fonte di quanto ci sia costato, tutti soldi che ovviamente avremmo potuto investire in qualcosa di più utile e più immediato per la collettività.
La collettività…
Al di là del populismo, della demagogia e dell’assenza di qualsiasi senso della prospettiva, sconvolge la somiglianza di certi argomenti con quelli che furono esercitati da uno sprovvedutissimo Alberto Moravia, partito alla volta del Goddard Space Center per documentare sul campo l’impresa dell’Apollo 11 senza mettere nel bagaglio nient’altro che una penna, della carta, qualche cambiata d’abito e tanto sano scetticismo. Dovendo rientrare nei limiti di peso per l’imbarco, l’acume dimostrato in altre occasioni preferì lasciarlo in Italia, oppure gli era già stato rubato.
La normale ricerca scientifica e tecnologica in certo modo è fine a se stessa. Ma allorché un paese come gli Stati Uniti investe nel programma spaziale la somma di 25 miliardi di dollari, la questione del fine o teleologica si pone con prepotenza. Che la questione dello “scopo” sia importante, del resto lo dimostra se non altro il gran numero di critiche che da ogni parte sono piovute sui programmi della Nasa. Prima della Luna, la priorità non avrebbe dovuto essere accordata al risanamento della natura americana violentata e avvelenata nella sua flora, nelle sue acque, nella sua fauna dagli spurghi industriali? Alla ricostruzione delle città invecchiate, miserabili, fatiscenti nei quartieri più poveri? All’elevazione culturale economica e sociale dei circa cinquanta milioni di poveri degli Stati Uniti? Alla soluzione del problema della gioventù in rivolta, delle minoranze etniche disperate?
Parole scritte nel 1969 per L’Espresso, che avrebbero dovuto essere scolpite nella memoria del paese a monito contro l’ignoranza delle future generazioni. Bene ha fatto io9 a raccogliere un campionario di quelle che sono le invenzioni messe a punto dall’industria aerospaziale che usiamo tutti i giorni. Il culto dell’ignoranza condannato da Isaac Asimov nella lapidaria citazione che apre questo articolo non si è mai estinto. Forse è impossibile da sconfiggere, forse accompagnerà per sempre l’umanità, anche nel suo cammino tra le stelle. Eppure ritrovare nel 2014, sparsa a piene mani, la stessa ignoranza che quasi mezzo secolo poteva orgogliosamente esibire Moravia è sintomatico dell’inutilità di certe lezioni. Perché teste di rapa incapaci di realizzare le ricadute della ricerca sulla nostra vita quotidiana dovrebbero essere certificate come inadatte a esprimere qualsiasi parere sul benessere comune. E invece questa è tutta gente che se ne va in giro libera di far danni, magari insegna nelle scuole oppure copre posti di responsabilità nel settore pubblico o privato, e magari esercita pure con disciplina il diritto di voto, offrendo un contributo quotidiano a rendere questo paese degno della sua fama da Terra dei Cachi.
Ci resta una magra consolazione. Il modo in cui decidiamo di affrontare argomenti come questo è un’utile discriminante, oggi come oggi, per riconoscere chi è parte del problema di chi sta lottando per una soluzione. Ma possiamo accontentarci di piccoli passi?
Se volete seguire Samantha nella sua missione, l’Agenzia Spaziale Italiana ha pensato di aprire un sito web che funga da linea diretta con la ISS, quindi potete collegarvi direttamente con Avamposto 42. Sicuramente sarà più utile della metà (o qualcosa in più) dei servizi messi in onda o pubblicati in questi giorni.
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