Ho scoperto Breece D’J Pancake che era già morto da quasi trent’anni, ma ho letto così tante volte i suoi dodici racconti, tutto ciò che ci ha lasciato, da maturare presto l’illusione di conoscerlo bene come un vecchio amico, se non proprio come me stesso. La qual cosa è appunto un’illusione, priva di qualsiasi fondamento, ma fa sì che non mi stranisca tanto il fatto che oggi ricorrano i quarant’anni dalla notte in cui si tolse la vita, o forse la perse accidentalmente con la complicità di una di quelle armi da fuoco che dovrebbero rendere le nostre vite più sicure (come no…), ma che siano trascorsi più di dieci anni da quando mi sono imbattuto per la prima volta nelle sue tracce.

Quando avrò finito qua tornerò nel West Virginia. C’è qualcosa di antico e profondamente radicato nella mia anima. Mi piace pensare di aver lasciato la mia anima su una di quelle colline, e non sarò mai davvero capace di partire finché non l’avrò trovata. E io non voglio cercarla, perché potrebbe capitare che la trovi e così sarei costretto a partire davvero.

[da una lettera scritta alla madre mentre era studente all’Università della Virginia]

In un certo senso è trascorsa una vita da quando attaccavo a leggere le prime righe di Trilobiti e non trovavo la forza di staccarmene, provando un raro bisogno una volta arrivato alla fine: quello di rileggere tutto daccapo. Sul vecchio blog come pure su Next Station trovate una vasta rassegna di riflessioni dedicate alla sua scrittura, ai suoi temi, al suo stile. Allo stesso tempo, ricordo bene l’impatto di quelle immagini, il senso di malinconia, la disperazione a tratti e quell’attaccamento viscerale a una terra che a migliaia di chilometri di distanza la sua penna riusciva a farmi sentire come se fosse la mia. Quella di Pancake è una memoria che si fa geologica, che assorbe dai luoghi la loro intrinseca essenza e la fa propria: nei suoi racconti non c’è mai una separazione netta tra i personaggi e l’ambiente, i primi sono dei pezzi del West Virginia e degli Appalachi non meno di quanto non lo siano le montagne devastate dalle miniere e i boschi impenetrabili, le gole scavate dai fiumi e le stazioni abbandonate, i binari della ferrovia e i villaggi disseminati lungo le valli.

La memoria di Pancake si confronta con il tempo profondo dei fenomeni naturali, dei processi che richiedono milioni di anni per produrre effetti misurabili. Un tempo di fronte al quale l’umano svanisce, si dissolve, come le nostre ambizioni davanti a una manifestazione kantiana del sublime; e un tempo che diventa naturalmente la pietra di paragone per gli accidenti della vita: tradimenti, fallimenti, cadute, ostacoli di qualsiasi natura, perdite, affanni. Nessuno dei suoi personaggi, che in alcuni casi sembrano dei veri e propri alter ego dello scrittore, ha una vita facile, ma tutti vivono in qualche misura una forma di rassegnazione che scaturisce da una consapevolezza istintiva, naturale, di una dimensione superiore: queste montagne, questi fiumi, questi boschi, saranno ancora qui tra un milione di anni, quando di noi non sopravvivrà nemmeno il ricordo, proprio come erano qui centinaia di milioni di anni fa, solo in forma diversa, magari sul fondo di un oceano primordiale, quando l’umanità non era nemmeno un sogno vago e confuso generato per caso dai semplici circuiti neurali di un trilobite.

South Branch Mountaing [source: Dixon Marshall].

E quindi, Breece, questo è il mio modo per rendere omaggio a quello che mi hai insegnato. Grazie per quello che ci hai lasciato.

Apro la porta del camioncino, scendo sulla stradina di mattoni. Guardo ancora una volta Company Hill, tutta consumata e logora. Molto tempo fa era davvero scoscesa e stava come un’isola nel fiume Teays. C’è voluto più di un milione di anni per fare questa piccola collina liscia e ho cercato dappertutto trilobiti. Penso a com’è sempre stata lì e a come ci starà sempre, almeno per tutto il tempo che importerà qualcosa. Quando arriva l’estate, l’aria si fa afosa. Un branco di storni fluttua sopra di me. Sono nato qui e non ho mai voluto andarmene davvero. Ricordo gli occhi di papà morto che mi guardavano. Erano molto secchi e mi portarono via qualcosa. Chiudo la porta, vado verso il caffè.
Vedo una toppa di cemento sulla strada. Ha la forma della Florida e mi ricordo che cosa avevo scritto nell’annuario di Ginny: «Vivremo di manghi e d’amore». E lei prese e partì senza di me, due anni è stata laggiù senza di me. Mi manda cartoline con tizi che lottano con gli alligatori e fenicotteri in primo piano. Non mi fa mai domande. Mi sento un idiota per aver scritto quella roba ed entrò nel caffè.
Il posto è vuoto e mi riposo nell’aria condizionata. La sorellina di Tinker Reilly mi versa il caffè. Ha dei bei fianchi. Sono tipo quelli di Ginny e si inclinano sulle gambe con delle piacevoli curve. Fianchi e gambe come quelli salgono le scalette degli aerei. Lei va alla fine del bancone e si fa fuori il resto del suo gelato. Le sorrido, ma è minorenne. Minorenni e serpenti neri sono due cose che non si toccano neanche con un fiore. Una volta ho usato come frusta un vecchio serpente nero, dopo avergli spezzato quella sua testa del cavolo, e papà lo ha usato per suonarmele. Penso a come papà riusciva a farmi proprio arrabbiare qualche volta. Sogghigno.
Penso a ieri sera che Ginny mi ha chiamato. Il suo vecchio l’ha accompagnata dall’aeroporto a Chesterton. Era già annoiata. Possiamo vederci? Certo. Magari andare a prendere una birra? Certo. Il solito vecchio Colly. La solita vecchia Ginny. Non chiudeva mai il becco. Volevo dirle che papà era morto e mamma era sul piede di guerra per vendere la fattoria, ma Ginny non chiudeva mai il becco. Mi ha messo i brividi.

[Traduzione di Ivan Tassi. Potete continuare a leggere la versione originale del racconto on-line su The Atlantic.]

Thurmond ghost railway station [source: Tendency to Wonder].