You are currently browsing the tag archive for the ‘frontiera’ tag.
“Il cinema deve essere spettacolo, è questo che il pubblico vuole. E per me lo spettacolo più bello è quello del mito. Il cinema è mito.”
L’altro giorno, il 3 gennaio, Sergio Leone avrebbe compiuto 90 anni. Non ho mai fatto mistero della passione che nutro nei suoi confronti, una passione che sconfina nella venerazione per un maestro di queste proporzioni. Non citerò qui tutti i capolavori prodotti dalla sua fucina creativa, tanto li conoscete meglio di me e li avrete visti altrettante volte – abbastanza da perdere il conto (come nel mio caso per Il buono, il brutto, il cattivo o Per qualche dollaro in più o entrambi i C’era una volta…) – e se non è così… cosa state aspettando?
Nel corso di una carriera straordinaria, e per certi versi ineguagliabile, Sergio Leone (che da quando avevo sette o otto anni non ho mai imparato a pronunciare in maniera diversa da così, nome e cognome, un po’ come Giulio Cesare, Sandro Pertini o Jules Verne) ha dato prova di sapersi cimentare in generi del tutto estranei alla tradizione realista e neorealista a cui larga parte della critica nostrana, in particolare quella più influente (che scrive sulle riviste letterarie e sui periodici, che decide quali libri vadano letti e quali film vadano visti, decretandone in misura maggiore o minore non solo il successo o il fallimento, ma indirettamente la stessa legittimità alla pubblicazione/produzione), vorrebbe tipicamente ricondurre la cultura prodotta in Italia. Generi anche geograficamente molto ben circoscritti e caratterizzati come il western (che si rifà a uno dei miti fondativi della sensibilità americana come fu, tra luci e ombre, l’epopea della Frontiera) o come la crime story a tinte noir (ben prima che il fenomeno esplodesse anche in Italia e si cominciasse a catalogare sotto l’etichetta noir tutto e il contrario di tutto), spesso calati nella dimensione del cosiddetto historical period drama e sempre provvisti di un respiro epico (cosa peraltro abbastanza naturale, essendosi Leone formato alla scuola dei peplum — o come si usa dire di questi tempi… dello sword and sandal!).
Sergio Leone non fu l’unico regista italiano a cimentarsi con il western, né tanto meno fu il primo (ricordiamo tra gli altri Tonino Valerii, Sergio Corbucci, Lucio Fulci, E. B. Clucher, Enzo G. Castellari, Antonio Margheriti, Damiano Damiani). Ma il suo tocco, fatto di stile di regia e tempi di narrazione, reso peraltro magico dalle leggendarie musiche di Ennio Morricone, di fatto definì una scuola e impose uno standard: sullo spaghetti western trovate nella Wikipedia in lingua inglese una voce piuttosto ben curata e sul web archivi ricchi di informazioni e titoli come questo (tedesco) o questo (italiano). Sull’esempio dei suoi film fiorì un’intera cinematografia, non solo in Italia ma in tutto il resto d’Europa, e ovviamente i debiti nei suoi confronti sono stati riconosciuti dai cineasti che vi si sono cimentati nel seguito, perfino nell’ambito delle major e con alle spalle macchine produttive che Leone sudò sette camicie per riuscire a mettere in moto (non dimentichiamo, per esempio, Quentin Tarantino e Robert Rodriguez).
Oltre a realizzare un’ideale internazionale utopica del cinema western, l’esperienza degli anni ’60 e ’70 rappresentò anche forse uno dei primi esempi di contaminazione di generi, con numerosi casi di ibridazione del western con il fantastico a tinte weird (Ciakmull – L’uomo della vendetta), l’horror (prolifico fu il filone del cosiddetto western gotico: da Sentenza di morte a I quattro dell’Apocalisse, fino a Preparati la bara e Joko – Invoca Dio… e muori) e perfino la fantascienza. Insomma, non fu un cinema chiuso, settario, autoreferenziale, ma al contrario si aprì all’esterno, in tutti i sensi, e riuscì a produrre capolavori ancora oggi guardati e studiati con ammirazione in tutto il mondo (nel 2007 la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ha dedicato al filone una retrospettiva di 32 titoli).
In qualche modo, forse attraverso Clint Eastwood o John Carpenter (1997 – Fuga da New York) o forse perfino per vie più dirette, lo spaghetti western si è infilato anche nella fantascienza degli anni ’80 e ’90: l’antieroe di tanta letteratura cyberpunk altri non è che una versione urbana aggiornata ai tempi del cowboy solitario di Sergio Leone, come dimostrano i molteplici punti di contatto che possiamo ritrovare nelle opere di William Gibson (dai cowboy della consolle alla caratterizzazione di certi personaggi, come Turner, il mercenario di Giù nel cyberspazio, oppure il Berry Rydell di Luce Virtuale).
Insomma, i generi, anche quelli apparentemente più distanti tra loro, parlano e dialogano tra di loro in un discorso continuo, che la critica se ne accorga o meno. E dai loro ambiti d’origine, talora almeno in apparenza anche molto settari e autoreferenziali, finiscono per insinuarsi altrove e, per effetto di una sorta di inerzia memetica, possono arrivare anche molto lontano. Il caso di Sergio Leone e di tutto il western all’italiana lo dimostra, a quarant’anni di distanza.
A quando una stagione della spaghetti sci-fi?
PS: Qualche anno fa la Cineteca di Bologna dedicò una mostra sontuosa al dietro le quinte degli spaghetti western, allestendo una mostra con 141 foto di scena scattate da Angelo Novi su alcuni dei più grandi classici del filone, e anche su alcune produzioni meno note. Sul sito si trova purtroppo ben poco di quella mostra, ma se vi capita di passarci magari riuscite ancora a rimediare uno degli splendidi booklet realizzati per l’occasione.
“Gli uomini sulle frontiere, siano esse spaziali o temporali, abbandonano le loro vecchie identità. I vicinati danno identità. Le frontiere le strappano via.”
Mi sono imbattuto in questa citazione di Marshall McLuhan scorrendo nei giorni scorsi le pagine del vecchio blog. E le sue parole hanno subito innescato una catena di associazioni mentali. La Nuova Frontiera a cui ho già fatto spesso riferimento è quella dello spazio, “the High Frontier” nell’accezione resa popolare da Gerard K. O’Neill a partire dalla metà degli anni ’70, ripresa in tempi più recenti dalla Highest Frontier di Joan Slonczewski e da Charles Stross in un suo intervento a proposito dell’esplorazione spaziale. La frontiera è dunque quella che attende Samantha Cristoforetti, la prima astronauta italiana, in partenza proprio nelle ore in cui scrivo questo post a bordo di una Soyuz con destinazione la ISS.
Ma le frontiere sono anche quelle digitali del cyberspazio, che stanno rendendo obsoleti i confini tra gli stati nazionali e sempre più permeabili le barriere tra culture anche molto distanti nello spazio. E, perché no, prima o poi il processo potrebbe estendersi anche alla dimensione temporale, come prospetta William Gibson nel suo ultimo romanzo, The Peripheral. E sempre di frontiere parliamo quando ci interroghiamo sui contorni di concetti come l’identità, la coscienza e l’etica, specie in un’epoca di proliferazione delle tecnologie emergenti come quella che stiamo vivendo. E che obbliga futuristi e scrittori di fantascienza a confrontarsi con gli sviluppi, gli effetti e le ricadute di un progresso frenetico, anticipando i tempi.
Non credete anche voi che, oltre che come letteratura del cambiamento alle prese con gli effetti culturali di un mutamento, la fantascienza possa essere definita sinteticamente anche come una letteratura della frontiera? Anzi, per essere più specifici, la letteratura delle nuove frontiere, dove vengono meno le certezze acquisite, i dogmi sono messi in discussione e dubbi e dilemmi cominciano a moltiplicarsi, generando nuovi quesiti, nuove ipotesi, in una cascata di biforcazioni.
Quella dei bordi, dei margini, dei limiti, è un’idea fondante del connettivismo, che fin dal manifesto codifica programmaticamente il proposito del loro superamento.
Il mondo in cui viviamo ci obbliga a misurarci continuamente con noi stessi. Per tenere il passo dei cambiamenti in corso non possiamo fare a meno di riconsiderare le certezze acquisite e da quelle muovere verso la prossima conquista, attraverso un processo dinamico. La frontiera di oggi non è quella di ieri, non sarà quella di domani.
Mi piace considerare la fantascienza come la letteratura del cambiamento, intendendo il raggio di questo cambiamento nella sua accezione più ampia. Se è vero che il richiamo alla scienza è dichiarato fin dalla prima formulazione di Hugo Gernsback (quel scientifiction derivato nel 1926 da scientific fiction, che si sarebbe infine evoluto nell’attuale science fiction), è altrettanto vero che nel corso del tempo il genere ha inglobato territori di frontiera che possono anche non avere un aggancio diretto con l’estrapolazione scientifica e tecnologica. Pensiamo per esempio al ricco e celebrato filone delle ucronie, ai viaggi nel tempo, alle opere di fantapolitica o anche alle distopie, che non necessariamente presuppongono il ricorso a tematiche scientifiche per dispiegare al meglio le dirompenti potenzialità del genere.
Qualcuno ritiene per questo preferibile sostituire alla science fiction la denominazione più “neutra” di speculative fiction, soprattutto in riferimento agli esiti letterari più alti. Nel mio piccolo ho invece fatto mia un’altra crociata, ovvero quella di sottolineare l’essenza del genere, esaltando l’ampiezza e la varietà del suo campo d’azione. La fantascienza elabora gli effetti del cambiamento sui parametri culturali che gli autori decidono di volta in volta di declinare: non solo la scienza, ma anche la storia, la sociologia, la politica.
Questo è per me la fantascienza. E per questo vale la pena leggerla e scriverla.
Nutro da sempre una fascinazione ossessiva per le città, intese sia come aggregati statistici di dati che come modelli sociali in evoluzione. Nell’esperienza di tutti noi, la città si situa probabilmente più vicino all’idea di un esperimento sociale scappato fuori controllo che alla nozione di laboratorio e spazio creativo in cui elaborare stili di convivenza sempre più funzionali ed efficaci. Ovviamente, è naturale che all’aumentare della complessità dell’organismo urbano la minaccia dell’entropia diventi più consistente e insidiosa.
Anche per questo è interessante notare l’emergere di schemi matematici dall’organizzazione urbana. Già alla fine degli anni ’90 l’economista Xavier Gabaix aveva individuato una interessante corrispondenza tra i modelli di distribuzione della popolazione e una legge empirica descritta nel 1949 dal linguista statunitense George Kingsley Zipf e che da allora porta il suo nome. All’applicazione della Legge di Zipf alle statistiche urbane ha offerto il proprio contributo anche Paul Krugman, come spiega Annalee Newitz in questo articolo che ripercorre su io9 gli ultimi progressi compiuti nel campo. A voler mettere la questione in termini semplicistici ma intuitivi, alla base del fenomeno ci sarebbero la concentrazione dei servizi offerti, la richiesta di risorse necessarie per sostenere un compito (come può essere una funzione amministrativa su scala regionale o nazionale) o la capacità produttiva necessaria per reggere un ruolo economico (tipico delle città a vocazione finanziaria o industriale).
Altrettanto interessante è il concetto di città distribuita di cui parla con cognizione di causa Carl Abbott su Clarkesworld. Abbott, docente di urbanistica alla Portland State University, si occupa da tempo della rappresentazione della città nell’immaginario di genere, con contributi che spaziano dalla frontiera al cyberpunk, passando per Jack London e Kim Stanley Robinson. La città distribuita offre un’alternativa alla ben nota proliferazione urbana incontrollata dello sprawl, e contrappone la nozione di decentralizzazione massiva alla megalopoli che si diffonde senza soluzione di continuità, cannibalizzando i piccoli e medi centri a favore di un numero limitato di metropoli che assurgono al ruolo di centri nervosi e nodi della rete. Il governo scozzese ha recentemente proposto un simile modello di sviluppo per le Highlands e le isole, usando i seguenti termini:
[una città distribuita è il modo in cui] risorse in apparenza eterogenee – intellettuali, fisiche, sociali e materiali – possono essere correlate e integrate proficuamente tra di loro per creare iniziative motivazionali distribuite in una ecologia regionale di attività culturali ed economiche.
E se siamo d’accordo che la mia traduzione può non servire al meglio il già involuto gergo della burocrazia statale, il senso di fondo dovrebbe essere comunque chiaro. Per quanto la fantascienza pulluli al contrario di rappresentazioni efficaci di ecosistemi urbani congestionati, città-alveare, arcologie monumentali, dobbiamo la prima teorizzazione della “città distribuita” al sociologo sovietico Mikhail Okhitovich, che già nel 1929 teorizzava la disurbanizzazione, intuendo prima di chiunque altri – nel saggio “Il problema della città” – la possibile ricaduta benefica della tecnologia sull’organizzazione di uno spazio urbano alternativo alla centralizzazione della città capitalistica. In linea con i dettami del Costruttivismo, le nuove città sarebbero state strutturate sulle relazioni sociali e non più sulle caratteristiche del territorio, cancellando dallo spazio fisico le diverse funzioni di una città. In uno slogan: “il mondo intero sarà al nostro servizio”. Ma la fortuna non arrise al teorico russo e le sue critiche al culto della gerarchia e alla centralità dello stato stalinista furono all’origine della sua deportazione in un gulag, dove un colpo di fucile mise fine ai suoi giorni nel 1937. Le sue teorie furono ripescate negli anni ’80, nel clima di generale riscoperta dei principi dell’architettura costruttivista.
E nella fantascienza? Qualcosa si è visto anche nel nostro amatissimo genere. Abbott ci ricorda la “città distribuita” che Iain M. Banks rappresenta nel romanzo Surface Detail, penultimo nella sequenza della Cultura. Oppure Cascadiopolis, nel racconto di Jay Lake “Forests of the Night”, incluso nell’antologia Metatropolis, edita da Tor Books. Ma la migliore rappresentazione di una città distribuita è forse arrivata dalla televisione, grazie ancora una volta a Battlestar Galactica: cosa è in fondo la flotta coloniale che si muove in un esodo imponente attraverso la notte siderale, cercando di seminare gli inseguitori cyloni e alla ricerca di un nuovo ecosistema naturale per poter assicurare un futuro all’umanità?
E così l’innovativa idea di smart city che sta prendendo piede negli ultimi tempi si ritrova a essere in qualche modo già superata – o, per meglio dire, aumentata. Da un’idea vecchia di 85 anni, ma alla quale – come Abbott ci invita a fare nella chiusura del suo articolo – siamo tutti chiamati a offrire un contributo.
Interazioni recenti