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Siamo entrati da alcune settimane in quel mood un po’ nostalgico che fin dalle estati della nostra giovinezza si accompagna alla fine delle esperienze in cui abbiamo a lungo investito in termini emotivi. Non è una questione facilmente riducibile in termini quantitativi: per quanto possano sembrare tante in termini assoluti, una ottantina di ore spese a guardare una serie TV o una saga cinematografica finiscono per essere molto diluite quando vengono spalmate su un arco temporale di una decina di anni, ma questo non ne riduce affatto l’impatto qualitativo, perché tra un episodio e il successivo, tra una stagione o una fase e quella che ci aspetta, abbiamo speso una quantità non facilmente misurabile di tempo a farci domande e a parlarne con altri appassionati (o potenziali appassionati tra cui fare proseliti), che ha inevitabilmente contribuito ad aumentare le nostre aspettative e con esse il nostro investimento in quel particolare universo narrativo.

Il nostro mood mentre la fine si avvicina… [Lyanna Mormont (Bella Ramsey) in Game of Thrones, courtesy of HBO]
Dopotutto, non credo che sia un’esagerazione affermare che siamo le storie di cui ci nutriamo. Quindi, mentre portiamo avanti la discussione sulle conclusioni di quelli che sono probabilmente i due fenomeni culturali di proporzioni più vaste di quest’ultimo decennio, mi sono inevitabilmente ritrovato a riflettere sui momenti tristemente noti come finali. Sia su Game of Thrones che sul Marvel Cinematic Universe si è ineluttabilmente pronunciato Emanuele Manco, tra i maggiori esperti italiani di entrambi, e sebbene condivida il suo giudizio solo in parte (e più sul primo che sul secondo) vi rimando alle sue disamine dell’episodio 3 dell’ottava stagione di Game of Thrones e di Avengers: Endgame senza dilungarmi oltre. In ogni caso sono stati dei bei viaggi e, come per tutti i viaggi, forse non è così importante quello che troviamo alla fine rispetto a tutto quello che abbiamo avuto modo di apprezzare e imparare nel frattempo, anche (e forse soprattutto) su noi stessi.

Il nostro mood quando una storia finisce… [Marvel Studios’ AVENGERS: ENDGAME: Rocket (voiced by Bradley Cooper) and Nebula (Karen Gillan). Photo: Film Frame ©Marvel Studios 2019]
Però prendendo spunto da questa stagione di grandi e attesi finali, più o meno epici, più o meno riusciti, ho pensato di proporvi una lista, ispirata anche da questo montaggio di CineFix, e quindi, fatta questa doverosa premessa per scaldare i motori, eccoci a parlare di cinque finali su cui ancora oggi, a distanza di anni e in alcuni casi di decenni, continuiamo ancora a parlare, su cui continuiamo a fare ipotesi, costruire castelli teorici e alimentare un dibattito che contribuisce a prolungare la vita delle opere stesse ben oltre i confini temporali della loro fruizione (il che è un po’ la missione di ogni fandom che si rispetti). Sentitevi liberi di aggiungere le vostre considerazioni (e altre graditissime segnalazioni) nei commenti.
E adesso partiamo.
5. 2001: Odissea nello spazio (regia Stanley Kubrick, tratto da un racconto di Arthur C. Clarke, 1968)
Il film che ha consacrato la dimensione leggendaria di un regista già di culto come Stanley Kubrick. L’astronauta David Bowman (Keir Dullea) raggiunge l’orbita di Giove, destinazione della missione Discovery di cui è l’unico membro sopravvissuto, oltrepassa la soglia del monolito che è l’obiettivo della spedizione e si ritrova a esplorare una dimensione interiore, uno spazio psichico e psichedelico. Negli anni della New Wave (il seminale articolo di J. G. Ballard Which Way to Inner Space? apparve sulla rivista New Worlds nel 1962), ecco la prima e più incisiva rappresentazione visiva della rivoluzione concettuale che stava vivendo l’immaginario non solo di genere, proprio mentre l’uomo si apprestava a sbarcare sulla Luna e davvero il futuro era lì a portata di mano. Proprio come Ballard, anche Kubrick e, abbastanza sorprendentemente, il veterano Clarke suggeriscono che le vere frontiere dell’esplorazione non ci attendono lì fuori, ma sono sepolte dentro di noi, e l’ignoto spazio profondo non fa che avvicinarci a questo inner space, sbattendoci in faccia la sua intrinseca inconoscibilità. Se non conosciamo bene noi stessi (chi siamo? da dove veniamo?) come possiamo pretendere di capire ciò che ci attende alla fine del cammino (dove stiamo volando?)? Cosa è diventato Bowman, alla fine del suo viaggio oltre l’infinito? Quali implicazioni avrà la sua metamorfosi per il futuro della Terra e dell’umanità? Per affinità e assonanze, aggiungiamo non solo per dovere di cronaca che questa menzione non può che tirarsi dietro, come spesso accade quando si cita Kubrick in ambito sci-fi, anche Andrej Tarkovskij e i suoi altrettanto fondamentali Solaris (1972, tratto dal romanzo omonimo di Stanisław Lem) e Stalker (1979, tratto dal romanzo dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij Picnic sul ciglio della strada).
4. Blade Runner (regia di Ridley Scott, tratto dal romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep? di Philip K. Dick, 1982)
Più umano dell’umano, è lo slogan che demarca il target delle nuove linee di replicanti messi a punto dalla Tyrell Corporation per assistere il programma coloniale extra-mondo. E i Nexus 6 in fuga dalle colonie spaziali, sbarcati sulla Terra per ottenere un prolungamento delle loro vite artificialmente limitate a una durata di soli quattro anni, sono davvero indistinguibili dagli esseri umani di cui sono la copia, se non per il fatto di vantare una resistenza e una forza fisica perfino superiori. Il cacciatore di taglie Rick Deckard (Harrison Ford), richiamato in servizio dall’LAPD per un’ultima missione, riuscirà fortunosamente ad avere la meglio e portare a casa la pelle, anche grazie al provvidenziale ripensamento del leader dei replicanti ribelli Roy Batty (Rutger Hauer). Tornato a casa, deciderà di lasciare la città con l’ultimo replicante, un esemplare fuori serie che lo stesso creatore non ha esitato a definire “speciale” (Rachael Rosen, interpretata da Sean Young). Alla fine gli interrogativi lasciati aperti dalla pellicola, anche per via di un refuso di sceneggiatura (che menziona sei replicanti ribelli, mentre quelli effettivamente presenti o citati nel prosieguo della pellicola sono solo cinque) e poi attraverso i successivi editing di Ridley Scott (con montaggi alternativi che hanno incluso nuove scene, rimosso il finale e la voce fuori campo e apportato altri aggiustamenti minori), vertono tanto sulla figura del cacciatore di taglie (Deckard stesso è un umano o il replicante mancante?) quanto dell’androide che porta in salvo (cos’è che rende davvero speciale Rachael?). Dopo la vasta letteratura di seguiti ufficiali partoriti da K. W. Jeter, a entrambi gli interrogativi prova a dare una risposta con esiti decisamente più convincenti il sequel cinematografico diretto da Denis Villeneuve nel 2017, Blade Runner 2049, che tuttavia lascia aperti ulteriori spazi di indagine e di speculazioni sulle colonie extra-mondo e sul vero ruolo dei replicanti nei piani del magnate Niander Wallace (Jared Leto).
3. C’era una volta in America (regia di Sergio Leone, tratto dal romanzo The Hoods di Harry Grey, 1984)
Un film su cui si sono spese forse altrettante pagine di congetture da rivaleggiare con 2001. L’ultima impresa di Sergio Leone, a cui richiese uno sforzo produttivo durato tredici anni (e dieci mesi di riprese in USA, Canada, Francia e Italia) e che pose di fatto fine alla sua carriera. Allo stesso tempo, è il coronamento dell’opera di un autore straordinario, forse unico nel panorama della cultura italiana del ‘900 per l’influenza che è stato in grado di esercitare sulla cinematografia mondiale (e non solo nel western o nel cinema stesso: pensiamo anche alla fantascienza e ai debiti letterari riconosciuti da autori del calibro di William Gibson), la migliore conclusione possibile per la seconda trilogia di Leone (dopo quella del dollaro, quella del tempo). Un omaggio anche all’immaginario americano, con gli Stati Uniti rappresentati per quel generatore di miti che in effetti sono stati, il motore dell’immaginario del ‘900. “Una sfilata di fantasmi nello spazio incantato della memoria”, come ha scritto Morando Morandini nel suo Dizionario, ma anche “un sogno di sogni”, in cui “la memoria del singolo tende a dissolversi in quella di un intero paese” (come ha scritto invece Gian Piero Brunetta nel suo Cent’anni di cinema italiano). E un noir su cui, disorientati dal sofisticato meccanismo narrativo che combina caoticamente analessi e prolessi, non siamo ancora stati capaci di decidere se la storia che stiamo guardando sia frutto di una rievocazione o di una proiezione immaginaria. Ma alla fine, è davvero così importante sapere se Noodles (Robert De Niro) vivrà (ha vissuto) o no quei famosi trentacinque anni che gli sono stati rubati dal suo socio di un tempo Max (James Woods)? In che modo un furto di tempo e di vita può risultare diverso dall’altro? I fumi dell’oppio non aiutano a fare chiarezza, ma continuano ad alimentare l’incanto di una pellicola che c’incolla allo schermo con la densità stilistica compressa in ogni singolo fotogramma.
2. Inception (scritto e diretto da Christopher Nolan, 2010)
Da un sogno di sogni a un altro, Inception è il film che probabilmente ha alimentato le discussioni più lunghe in quest’ultimo decennio, generando una quantità di infografiche esplicative che hanno cercato di districarne l’intreccio (forse l’unico film a poter rivaleggiare in questo con Primer di Shane Carruth). Tra il secondo e il terzo capitolo della trilogia dedicata al Cavaliere Oscuro, Christopher Nolan torna a coltivare il suo amore per le architetture narrative sofisticate e chiude il decennio della sua consacrazione autoriale così come lo aveva iniziato nel 2000 con Memento. Il film è un sogno ricorsivo che deve molto anche alla letteratura di fantascienza (non ultimo Roger Zelazny), ma con quel tocco personale che rende inconfondibili i film del regista londinese. Dominic Cobb (Leonardo Di Caprio) è un ladro psichico capace di estrarre segreti preziosi dalla mente dei suoi bersagli, ma un giorno viene arruolato da Mr. Saito (Ken Watanabe) per tentare un’operazione inedita: innestare un’idea nella testa dell’erede dell’impero finanziario con cui è in competizione. Per portare a termine l’impresa, Cobb progetta un meccanismo di sogni condivisi annidati a più livelli di profondità e arruola una squadra di professionisti, ma la missione lo pone davanti a ostacoli sempre maggiori, non ultimo l’interferenza del ricordo della defunta moglie Mal (Marion Cotillard). L’unico modo che hanno i sognatori per distinguere tra la realtà e il sogno è affidandosi a un totem, che nel caso di Cobb è una trottola metallica: in un sogno, non essendo soggetta alle leggi fisiche della gravità, contrariamente a quanto accade nel mondo reale la trottola è destinata a girare all’infinito. Quando alla fine Cobb riesce a tornare dai suoi figli, ricompensa per la buona riuscita dell’incarico, vuole avere la certezza che non sia ancora intrappolato nel limbo in cui è dovuto addentrarsi per salvare Mr. Saito, ma quando abbraccia i bambini la trottola sta ancora girando. Cobb si è davvero svegliato dal sogno o è ancora intrappolato nel limbo?
1. True Detective (ideato da Nic Pizzolatto, 3 stagioni, 2014 – in produzione)
Serie antologica della HBO, True Detective ha esordito nel 2014 con una stagione memorabile che si è indelebilmente impressa nella nostra memoria di spettatori grazie alle interpretazioni di Matthew McConaughey e Woody Harrelson e a una scrittura fortemente debitrice delle suggestioni horror e delle vertigini cosmiche dei maestri del weird, da Robert W. Chambers e H. P. Lovecraft fino a Thomas Ligotti. Una seconda stagione un po’ sottotono e incapace di tener fede alle altissime aspettative sembrava averla condannata al limbo delle produzioni cinetelevisive, ma nel 2018 una terza stagione (forte delle interpretazioni di Mahershala Ali, Stephen Dorff e Carmen Ejogo) si è dimostrata capace di rinverdire i fasti degli esordi (ne abbiamo parlato diffusamente anche su queste pagine). Come la prima stagione, anche quest’ultima ha uno dei suoi punti di forza nell’atteso twist finale e in entrambi i casi le implicazioni sottese alle scelte di sceneggiatura e regia hanno innescato una ridda di ipotesi e suggestioni. Cosa vede davvero Rustin Cohle pugnalato a morte dal Re Giallo? E Wayne “Purple” Hays riconosce o no Julie Purcell nella madre a cui riesce a risalire dopo decenni di indagini e solo ora che le sue facoltà cognitive sono irrimediabilmente compromesse dall’Alzheimer? Cos’è la giungla in cui si ritrova a vagare nella notte, come ai tempi delle sue missioni in Vietnam come recog? Un finale in grado di richiamare altri grandi classici della recente serialità televisiva, non ultimo la popolare Life on Mars prodotta dalla BBC, i cui enigmi sono poi stati sciolti nella successiva Ashes to Ashes.
Dopo aver toccato l’apice della sua carriera nel film culto di Terry Gilliam L’esercito delle 12 scimmie (1995), Bruce Willis torna a confrontarsi con i paradossi del viaggio nel tempo, uno dei capisaldi dell’immaginario fantascientifico. Ad assisterlo, il suo alter ego Joseph Gordon-Levitt, attore feticcio di Rian Johnson fin dal suo film d’esordio (Brick – Dose mortale, 2005), che dopo le collaborazioni con Christopher Nolan in Inception e Il Cavaliere Oscuro – Il ritorno proprio sotto la regia di Johnson approda finalmente con questa pellicola al ruolo di protagonista in una produzione sci-fi. Trent’anni più giovane e sulla cresta dell’onda nella sua fulminante carriera di sicario, il giovane Joe a cui Gordon-Levitt presta il cipiglio si trova alle prese con l’ingrato incarico di eliminare il suo futuro se stesso. Per sua (s)fortuna, il vecchio Bruce si conferma un osso ancora duro. Peccato per il giovane Joe che il vecchio Joe non si accontenti di salvare la pelle, ma sia anche intenzionato a portare a termine una missione privata: eliminare il bambino che crescendo diventerà il futuro Sciamano, un boss del crimine a capo di un’organizzazione ramificata in ogni angolo del pianeta, prevenendo in questo modo l’uccisione della persona a lui più cara.
Joe è un looper: nel 2044, attende che i suoi clienti del futuro gli mandino le vittime da eliminare senza lasciare traccia nel loro mondo, per eseguire spietatamente l’incarico. Ogni eliminazione gli vale un carico d’argento: una parte viene subito vaporizzata in stupefacenti ad assunzione oculare, il resto finisce a incrementare la sua scorta per il futuro ritiro. Tra la routine omicida del presente e la meritata pensione c’è però un ultimo ostacolo da superare: l’eliminazione del vecchio Joe, come da prassi rispedito indietro di trent’anni dal 2074 a definitiva chiusura del contratto con i suoi mandanti. Da questione di sopravvivenza, il ritorno al passato del vecchio Joe si trasforma presto in qualcosa di più complesso, sviluppandosi in una linea narrativa parallela che finisce per fagocitare la trama, asservendo il tema abusato del viaggio nel tempo al semplice ruolo di assunto di partenza, per virare su un ben più interessante punto di vista sulla diversità, la responsabilità e l’abuso dei poteri – e delle occasioni – che ci sono concessi.
E in effetti con Looper siamo dalle parti di Terminator più che di Terry Gilliam. Il tempo è una forma plastica, da modellare a piacimento con la pressione delle proprie scelte. Di certo ha giovato la consulenza speciale di Shane Carruth, autore eclettico e artefice nel 2004 di un piccolo capolavoro come Primer (per la cronaca, questa pellicola indie costata appena 7.000 dollari, alla cassa ha moltiplicato per 60 il suo budget di produzione), a cui Looper sembra strizzare l’occhio fin dal titolo. Rian Johnson, proveniente come Carruth dal cinema indipendente, si avvale qui di un budget di 30 milioni di dollari e riesce a farlo fruttare fino all’ultimo centesimo: meritatamente nel 2012 Looper ha spopolato al box office in tutto il mondo, incassando una cifra sei volte più alta del suo costo di produzione. Non male, per un film di fantascienza che non si accontenta di un unico tema forte, ma accanto al classico topos del cronoviaggiatore mette sul piatto anche il carico delle facoltà telecinetiche e condisce il tutto con una efficace atmosfera noir e uno stile hard-boiled che non risparmia piombo ed effetti granguignoleschi.
Certo, il film di Johnson non è perfetto. La tenuta del ritmo non è impeccabile, i momenti di stanchezza irrompono all’improvviso in una struttura che avrebbe potuto essere resa più solida bilanciando meglio i pesi narrativi, e a tratti l’intreccio sembra complicarsi inutilmente, come nella parte di svolta compresa tra il lungo (ma necessario) antefatto e la storia portante che occupa i restanti due terzi della pellicola. Ma Looper si lascia soprattutto apprezzare per i suoi diversi elementi di innovazione. Innanzitutto offre un punto di vista anticonformista, underground, del viaggio nel tempo, prospettando l’utilizzo che un’ipotetica tecnologia del genere potrebbe sviluppare nelle mani della criminalità organizzata, discostandosi meritoriamente dai luoghi comuni della science fiction, dominata dalle speculazioni finanziarie e dalle guerre segrete per l’egemonia politica. In aggiunta, ha il coraggio di mixare in maniera tutto sommato riuscita almeno tre temi forti, benché classici della sci-fi, quali sono appunto il viaggio nel tempo e la psicocinesi, suggerendo inoltre cupi scenari distopici per il futuro da cui proviene il vecchio Joe: un orizzonte su cui la sceneggiatura ha il pregio di non insistere, riuscendo comunque a massimizzarne l’effetto grazie ad accenni mirati, disseminati lungo la pellicola con una precisione chirurgica. E per finire, sceglie felicemente di ambientare la storia in una futuribile cittadina del Sud, che la trama vorrebbe situare tra le piantagioni di mais del Kansas, in cui viene trasfigurata la campagna della Louisiana alle porte di New Orleans, effettiva sede delle location per le riprese in esterni. Lo spostamento dell’azione nella Corn Belt crea un interessante giochi di specchi con il bayou di Déjà Vu – Corsa contro il tempo, film di Tony Scott del 2006 che sfruttava l’ambito del viaggio nel tempo per muoversi su binari completamente diversi, in rotta di collisione con la cronaca recente, laddove Looper si mantiene invece su un piano più sganciato dall’attualità, finendo per consumare l’epilogo in un’atmosfera rurale quasi fiabesca.
Ottime le interpretazioni di Bruce Willis e Joseph Gordon-Levitt, la cui identificazione nel protagonista è avvalorata da un trucco credibile ed efficace. Bravi anche i comprimari, da Emily Blunt a Jeff Daniels, al piccolo Pierce Gagnon nel ruolo più inquietante di tutti. Forse un po’ troppo stereotipato l’esito degli scagnozzi, ma a mio giudizio anche questa gestione dei registri giova al risultato finale, stemperando le esplosioni di violenza nel distacco delle caricature. Nota di merito per le scenografie del veterano Ed Vereaux e per la fotografia di Steve Yedlin (sporca in città, calda in campagna, gelida nella Cina potenza egemone del futuro). Oltre che per Johnson, che proprio con questa pellicola attira l’attenzione della Disney, che lo ingaggia per dirigere Gli Ultimi Jedi e per curare una nuova trilogia dell’universo di Star Wars, con buona pace per tutti i troll che stanno intossicando il fandom e che meriterebbero una gita nell’epoca dello Sciamano.
Da rivedere il meccanismo della capsula del tempo, che in maniera non dissimile da Timecop (Peter Hyams, 1994) resta ancorata allo spazio fisico del proprio tempo, mentre è solo il suo contenuto a essere proiettato nel passato. Qui, se non altro, il viaggio è di sola andata, risparmiandoci così le complicazioni filosofiche ed esistenziali di un ritorno in autostop sulle autostrade perdute del tempo.
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