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Di cosa parliamo quando parliamo di cyberpunk? La risposta è molto meno scontata di quanto potrebbe sembrare a un approccio superficiale. Il cyberpunk letterario è stato spesso accusato di scarsa originalità, monotonia di fondo e, col tempo, conformismo a tutta una serie di elementi divenuti un po’ dei cliché: il mondo distopico dominato dalle multinazionali, gli hacker solitari in lotta contro il sistema, la vita di strada nei bassifondi delle megalopoli… e potremmo continuare. Ma se prendiamo in considerazione i due titoli che hanno contribuito maggiormente a plasmare la nuova sensibilità della fantascienza dagli anni ’80 in avanti, ci accorgiamo di tutta una serie di differenze anche abissali legate non a elementi di contorno, che tutto sommato sono anche abbastanza sovrapponibili (*) – come dimostrano anche le dichiarazioni di William Gibson sulla sua esperienza come spettatore in sala all’uscita di Blade Runner – ma su un elemento che per il cyberpunk è tutto fuorché accessorio: la tecnologia.

(*) E che così di contorno, come vedremo tra poco, comunque non sono.

La tecnologia in Neuromante

Partiamo da Neuromante, il manifesto letterario del cyberpunk. Uscito nel 1984, è ambientato secondo le stime di Gibson intorno al 2035 (sebbene l’arco della trilogia copra 16 anni e quindi questa datazione vada presa molto con le molle, potendo oscillare, diciamo, tra il 2025 e il 2040… ma tutto sommato ancora dietro l’angolo, a differenza di quanto dedotto invece da un lettore su Vice basandosi su altri elementi interni ai romanzi ma probabilmente più dovuti a sviste dell’autore che non riconducibili alle sue reali intenzioni) e dipinge una tecnologia ormai smaterializzata, micro- e nanometrica, pervasiva.

Nel mondo di Case e Molly, la tecnologia si è ormai integrata in maniera indistricabile con i corpi e la psiche degli utenti: il cyberspazio è un piano dell’esistenza complementare alla realtà fisica, con cui si compenetra in declinazioni che assumono di volta in volta le forme di un’internet ante litteram, della realtà virtuale o di una realtà aumentata, e che assolve al ruolo di vero e proprio ecosistema, con le sue nicchie e i suoi agenti (virus informatici, ICE, costrutti di personalità riconducibili al mind uploading, intelligenze artificiali…).

Case, Molly e gli altri abitanti del futuro come loro non esitano a modificare i propri corpi attraverso impianti prostetici che ne aumentano le facoltà e attivano un feedback con il cyberspazio: non sono più solo agenti, ma la loro psiche e il loro organismo diventa un target su cui la rete e altri agenti possono produrre effetti tangibili. La strada ha trovato il suo uso per la tecnologia uscita dai laboratori, per dirla con Gibson. Anzi, ha trovato mille modi per utilizzarla e piegarla alle necessità dei singoli operatori, attraverso tutto un mercato nero di tecnologie trafugate dai centri di ricerca delle multinazionali o dell’esercito e messe in circolazione da una rete di contrabbandieri, corrieri, rigattieri…

La tecnologia in Blade Runner

La visione della Trilogia dello Sprawl prende forma tra la fine degli anni ’70 e i primissimi ’80, e nel 1982 arriva nelle sale Blade Runner. Un film che si inserisce nel solco di quella visione cupa e pessimistica del futuro che negli stesi anni si andava definendo grazie a pellicole epocali come Mad Max di George Miller (1979) e 1997: Fuga da New York di John Carpenter (1981), o Alien dello stesso Ridley Scott (1979). Ma, con la notevole eccezione di quest’ultimo, i film che stavano ridefinendo l’immaginario del futuro erano prevalentemente accomunati da un basso tasso tecnologico: la tecnologia era o ridotta al puro elemento meccanico (le automobili di Mad Max con cui vivono in simbiosi i sopravvissuti dell’outback australiano) o a strumento di controllo (le bombe miniaturizzate iniettate a Plissken per convincerlo a esfiltrare il presidente dal carcere di massima sicurezza di Manhattan).

Lo stesso Alien non è che brilli sotto il profilo dell’estrapolazione tecnologica, ma se non altro, sullo sfondo di una civiltà che è stata comunque in grado di mettere in campo lo sforzo necessario a esplorare rotte spaziali al di fuori del sistema solare, presenta personaggi che sono androidi meccanici indistinguibili dagli esseri umani e computer che rasentano, per autorità anche se non proprio per flessibilità (e qui torniamo alle forme di controllo già citate sopra a proposito di 1997: Fuga da New York), lo status delle IA. Elementi che, con le dovute variazioni, caratterizzano anche Blade Runner, dove ritroviamo appunto una tecnologia pesante: gli avanzamenti nella biotecnologia hanno permesso lo sviluppo di replicanti, androidi biologici indistinguibili dagli esseri umani (anzi, più umani dell’umano), destinati all’impiego in teatri di guerra extra-mondo e a farsi carico di mansioni che richiedono forza e resistenza fisica. L’uso più soft contemplato per i Nexus-6, i replicanti di ultima generazione, è per i modelli femminili, adibiti alla prostituzione nei bordelli delle colonie, non proprio un esempio di visione futuristica sull’impiego del più sofisticato prodotto della tecnologia umana.

In Blade Runner, la tecnologia è sempre separata dai corpi e dalle menti dei suoi utilizzatori umani: l’intermediazione tecnologica nelle relazioni umane è ridotta al minimo, i telefoni sono ancora in cabine pubbliche, i computer quasi nemmeno si vedono e – tralasciando volutamente, per il momento, qualsiasi grande o piccola retcon operata da Blade Runner 2049 – la rete nemmeno esiste. La tecnologia non è bassa, ma è sostanzialmente hard e ha a che fare con la programmazione/manipolazione biologica dei corpi, confinata all’interno di questi (alcune decine o centinaia di migliaia di replicanti sparsi sulle colonie extra-mondo, e pochissimi fuggitivi clandestini sulla Terra), mentre il mondo di fuori è sostanzialmente la fucina di catastrofi ambientali in cui ci troviamo a vivere oggi, con un downgrade della tecnologia attuale a quella degli anni ’80.

Blade Runner & Neuromancer: convergenze non accidentali

Per inciso, ricollegandoci a quanto dicevamo in apertura sulla sovrapponibilità degli elementi d’ambiente e le atmosfere, è interessante anche notare come Gibson e Scott condividessero una visione sostanzialmente comune su quella che l’autore di Neuromante definisce “la più caratteristica delle nostre tecnologie“: la città. Entrambi, Gibson sulla pagina scritta e Scott nei set di Blade Runner, compiono un’operazione che potrebbe apparire scontata (soprattutto a un europeo, sostiene Gibson): sovrapporre elementi del passato, del presente e del futuro nella rappresentazione delle città. In pratica: dare evidenza della stratificazione delle epoche attraverso il mélange architettonico che plasma l’estetica della città.

Ciò che Ridley Scott fa con Blade Runner, lo si ritrova nella stessa misura sia in Neuromante che nei precedenti racconti di Gibson: le strade delle loro città sono concentrati di archeologia urbana e per questo danno una misura incontestabile del tempo che è corso su quelle superfici e di ciò che è costato.

Blade Runner vs Neuromancer: dove saltano gli schemi

Tutto semplice, quindi? Forse no, perché il doppio finale di Blade Runner, con il problema della duplice interpretazione della natura di Deckard, complica significativamente lo schema fin qui delineato. A seconda delle letture che si vogliono dare al personaggio, il cacciatore di replicanti può essere un umano (chiave interpretativa prediletta dall’interprete del ruolo Harrison Ford) o un replicante lui stesso (lettura sostenuta a più riprese da Ridley Scott, almeno fino all’uscita nelle sale del sequel di Denis Villeneuve che invece opta per la versione di Ford).

Se Deckard è un umano, la sua fuga finale con Rachael assume le valenze metaforiche di un matrimonio tra la sfera umana e quella artificiale, una sorta di romantica conciliazione tra la natura e la tecnologia. Poco plausibile forse, sicuramente suggestiva, estrinsecata in particolare nella sequenza dell’auto che attraversa i boschi a nord di Los Angeles sulle note incalzanti della leggendaria colonna sonora di Vangelis. Si tratta del finale voluto dallo sceneggiatore Hampton Fancher e realizzato da Scott su input della produzione “riciclando” le sequenze girate per Shining scartate da Stanley Kubrick.

Se Deckard al contrario è un replicante, la sua scoperta finale (molto in linea con la sensibilità di Philip K. Dick benché non fedele alla lettera al romanzo), suggellata dalla chiusura delle porte dell’ascensore scelta come final cut dal regista, diventa l’agnizione lacerante dell’incompatibilità della propria esistenza con la natura, l’anamnesi sul proprio essere – esattamente come i replicanti a cui il cacciatore ha finora dato la caccia – una contraddizione in atto, la prova «vivente» che la realtà ha ormai raggiunto un livello di falsificazione da cui è impossibile tornare indietro: non sono solo i ricordi a essere contraffatti, ma l’effetto si estende inevitabilmente alla percezione stessa della realtà. La natura è destinata a scomparire, sostituita da repliche che si credono originali e reali. Le superiori capacità mimetiche dei simulacri renderanno infine vano qualsiasi tentativo di resistenza.

La versione di Ford (e di Fancher) chiude in qualche modo un cortocircuito con la visione tecnologica di Neuromante, dove la sintesi tra organico e sintetico viene subita ma a cui non ci si sforza di resistere, cercando piuttosto di piegarla alle esigenze dei protagonisti: sotto questa luce, Blade Runner prospetta un’accettazione perfino ottimistica di questa sintesi, facendo quindi un ulteriore passo avanti.

La versione di Scott (e di Dick), invece, stabilisce che non c’è ragione di sposare ciò che è fuori con ciò che è dentro, l’organico e l’inorganico. Semplicemente, l’inorganico, l’artificiale, il sintetico, il simulacro, ormai più umano dell’umano, è destinato a soppiantare l’organico, il naturale, l’originale. Non c’è scampo, non esiste via di fuga, la partita è segnata.

Siamo sotto scacco, a una mossa di distanza dallo scacco matto. Solo che non ce ne siamo ancora resi conto.

Tra le cose che nel frattempo ho fatto e scritto, una di quelle che mi ha tenuto maggiormente impegnato negli ultimi mesi è sicuramente questo Mappe dedicato alla saga di Dune, ospitato da Quaderni d’Altri Tempi. Il ciclo di Frank Herbert mi ha tenuto compagnia durante i miei primissimi anni universitari, monopolizzando le mie letture per diversi mesi, mentre saltellavo disordinatamente da un libro all’altro sulla base degli interessi e dei gusti, trascurandone alcuni che proprio adesso mi accingo ad affrontare tenendo fede a un proposito di lettura/rilettura di tutta la saga originale.

Photo credit: Jaxson Pohlman.

Nel frattempo, per scrivere l’articolo ma anche un po’ per diletto, mi sono riguardato il primo tentativo di adattamento cinematografico, arrischiato da Dino de Laurentiis e David Lynch nel lontano 1984, che esce ammaccato e zoppicante dalla prova del tempo, e mi sono sciroppato il documentario di Frank Pavich incentrato sul progetto – ambizioso, visionario, ma anche molto personale, bizzarro e al limite della lesa maestà, e per questo fortunatamente mai completato – di Alejandro Jodorowsky. Forse anche per via di queste visioni, oltre che per la contemporanea rilettura del romanzo di Herbert che inaugurò una delle saghe di maggior successo nella storia della letteratura di fantascienza (20 milioni di copie vendute nel mondo nel 2016, un record mantenuto per decenni, prima di essere surclassato dalla trilogia dei Tre Corpi di Liu Cixin), ho potuto apprezzare particolarmente la fedele, quasi filologica, trasposizione dedicata da Denis Villeneuve all’esule Paul Atreides e alla sua faida con gli Harkonnen, al cui inevitabile seguito è stato da poco dato il via libera e che probabilmente (incrociamo le dita) finirà per articolarsi in una trilogia, coprendo tutto l’arco narrativo del personaggio di Muad’dib.

Rebecca Ferguson è Lady Jessica, nel Dune di Denis Villeneuve (2021).

In maniera analoga al Dune di Lynch, non si può dire che la scrittura di Herbert non abbia risentito del trascorrere del tempo. Forse, almeno in questo caso, più per colpa «nostra» che sua: il suo approccio stilistico, la tecnica nel montaggio delle scene e le soluzioni nella gestione del punto di vista appaiono oggi ben poco conformi alle prescrizioni vigenti sui manuali di scrittura, come pure al gusto che col tempo è prevalso tra i lettori educati alle convenzioni, rendono oggi questa serie un oggetto molto più alieno di quanto dovesse sembrare alla sua uscita, a partire dal 1965. Ma oggi come vent’anni fa, al tempo della mia prima lettura, mi sono bastati pochi capitoli per essere completamente trascinato dal maelstrom di visioni e concetti innescato da Herbert, un affresco cosmico che infrange le barriere dello spazio e del tempo, e in cui possiamo trovare passaggi dalla carica immaginifica dirompente, come i due campioni che seguono:

Basta questo, forse, per capire che non abbiamo mai davvero lasciato Arrakis in questi anni. Eravamo sempre lassù, in attesa che qualcosa ci ricordasse dove eravamo davvero. Qualcosa come il film di Villeneuve, appunto: grandioso, crudele, stratificato e complesso, come l’opera di Herbert che onora con la prima trasposizione efficace e riuscita dopo oltre mezzo secolo di tentativi.

Roy Batty, nell’interpretazione artistica di Christopher Shy.

Non è molto sportivo sparare su un avversario disarmato. Io pensavo che tu dovessi essere bravo. Non eri tu quello bravo? Vieni Deckard. Fammi vedere di cosa sei fatto.

È a un crudele scherzo del destino che tutti avremo pensato apprendendo la scorsa estate la notizia che Rutger Hauer ci aveva lasciati dopo una breve malattia. L’uomo che aveva dato un volto e una voce a Roy Batty ci lasciava proprio nell’anno che era stato fatale al suo personaggio più memorabile. Ma la sorte si era dimostrata perversamente beffarda con Hauer ben prima del 19 luglio 2019: se si eccettua forse il magnetico Navarre in Ladyhawke di Richard Donner (1985), nessun’altra performance aveva saputo replicare il successo, la carica iconica e la persistenza nell’immaginario del suo secondo ruolo per Hollywood.

E questo benché molti di noi ne avessero apprezzato la presenza in film di seconda categoria, che proprio grazie alla sua partecipazione hanno sviluppato col tempo un alone di culto: pellicole di serie B come Giochi di morte (1989) o Detective Stone (1992) o produzioni televisive come Fatherland (1994), così come anche film se vogliamo ancor più privi di pretese come Sotto massima sorveglianza (sempre del 1989) o di categoria perfino inferiore come Arctic Blue (1993), Omega Doom (1996), Hemoglobin – Creature dell’inferno o Redline (entrambi del 1997). Pronunciate un titolo a caso tra gli oltre cento a cui ha preso parte nell’arco della sua carriera, e troverete da qualche parte un club di estimatori disposti a cantarne le lodi al di là dei limiti che sarebbero evidenti a chiunque. Chiamatelo, se volete, effetto Hauer, e sappiate che funzionava da molto prima che l’attore olandese cominciasse a capitalizzarlo in produzioni rispettate come Confessioni di una mente pericolosa di George Clooney (2002), Sin City di Robert Rodriguez e Frank Miller e Batman Begins di Christopher Nolan (2005).

D’altro canto, il contributo di Rutger Hauer alla pellicola di Ridley Scott fu incommensurabile. Le sue qualità attoriali furono determinanti tanto per caratterizzare il leader dei replicanti ribelli, quanto per contribuire a renderlo una figura senza precedenti nel nostro immaginario. Anzi, mi spingerò oltre affermando che è grazie a lui se abbiamo avuto un Roy Batty diametralmente opposto alla fredda, spietata e inesorabile macchina da guerra che era il Roy Baty di Philip K. Dick. Il personaggio da cui partiva era infatti un grigio epigono della creatura del dottor Frankenstein, del tutto privo di qualsiasi afflato romantico e meno interessante di tutti gli altri androidi con cui il cacciatore a premi Deckard entra in contatto nel corso della sua battuta di caccia.

Rutger Hauer in una scena del film Blade Runner, 1982. (Photo by Stanley Bielecki Movie Collection/Getty Images)

Nelle mani di Hauer, invece, il processo di crescita già intrapreso con il passaggio di consegne tra Hampton Fancher e David Peoples alla sceneggiatura giunge a compimento e produce un frutto forse inatteso: un personaggio che è in grado di eclissare qualunque altro personaggio con cui si trovi a condividere la scena, che si tratti del suo creatore Eldon Tyrell (che proprio tra le sue mani finisce immolato in un truculento rituale teocida) o del protagonista Rick Deckard (peraltro interpretato dall’astro nascente Harrison Ford). E Roy Batty diventa l’antagonista con cui lo spettatore non può fare a meno di solidarizzare, l’anti-Frankenstein per eccellenza: una creatura sintetica, creata dall’uomo e superiore a esso per intelligenza, forza e resistenza fisica, ma che si spoglia di qualsiasi componente perturbante con una metamorfosi finale, rivelandosi superiore agli stessi esseri umani nell’unica facoltà che davvero dovrebbe tracciare la linea di demarcazione tra le due condizioni, ovvero l’empatia. E come se non bastasse, in virtù di questa evoluzione, in aggiunta a tutti i parallelismi con il martirio cristiano che sono fin troppo facili da individuare nel corso di Blade Runner, la ribellione dei replicanti ai loro creatori assume anche una inattesa dimensione politica, sviluppando una dialettica di chiaro stampo marxista. Emblematica a questo proposito la battuta-chiave:

Bella esperienza vivere nel terrore, vero? In questo consiste essere uno schiavo.

Roy Batty è stato davvero il primo esemplare di una nuova umanità, o se volete della postumanità, sul grande schermo. La migliore tra le creature artificiali ma “più umane dell’umano” che si fa paladina di un ideale di giustizia e libertà, e che si mostra davvero più umana degli esseri umani al culmine di un percorso che ha scavato nel cuore di tenebra di una dimensione che pensavamo essere la psicologia deviata dei replicanti, ma che in realtà non era nient’altro che il riflesso fin troppo fedele della condizione umana.

Sui replicanti come simulacri nell’accezione di Jean Baudrillard molto si è scritto. Qui aggiunto solo che l’assenza di Rutger Hauer e del suo Batty rappresenta forse l’unica macchia che si può contestare allo straordinario lavoro svolto da Denis Villeneuve con il seguito Blade Runner 2049. L’importanza di Roy Batty era stata intuita da K. W. Jeter nei suoi seguiti ufficiali, ma senza che neanche lui riuscisse a mio avviso a sviscerare bene le risorse offerte ai possibili sviluppi narrativi da una dimensione tanto complessa: l’immane riserva di carisma, profondità, problematicità anche (quale il rapporto di Batty con l’umano di cui aveva ereditato i ricordi e almeno parte del patrimonio genetico?), rimane del tutto inesplorata.

E la dipartita dell’uomo che era Roy Batty rende ormai del tutto speculativa qualsiasi ipotesi di futuri sviluppi in quella direzione.

Rutger Hauer, 23 gennaio 1944 – 19 luglio 2019. In memoriam.

Sono trascorsi due anni dall’arrivo nelle sale di Blade Runner 2049 (era il 6 ottobre 2017) e, se da una parte i risultati definitivi al botteghino sembrano aver dato ragione a chi prevedeva il mancato pareggio del budget (gli incassi si sono fermati a 259 milioni di dollari, a cui bisognerebbe ora aggiungere ora i ricavi dalla distribuzione in DVD e Blu-ray), dall’altra è trascorso tempo a sufficienza per trarre un bilancio meno condizionato emotivamente sull’esito della pellicola. Siamo sempre nella sfera del gusto soggettivo, ma a distanza di due anni posso scrivere che nel mio caso il senso di appagamento visivo e di stupore, di meraviglia e di coinvolgimento innescato dalle prime visioni non è andato scemando, anzi ogni volta che se ne presenta l’occasione (nei passaggi televisivi, in home video), non mi lascio scappare l’occasione per tornare sotto la neve sporca di Denis Villeneuve. E la magia si rinnova.

C’è da dire anche che questo film ha rimesso in marcia delle rotelle che non giravano da un po’. Se è presto per dire quale sarà il risultato in questo caso, intanto quanto scrivevo sopra mi sembra un risultato degno di nota, soprattutto rispetto a quanti sostenevano che il film non sarebbe durato oltre l’orizzonte degli eventi degli entusiasmi iniziali. Blade Runner 2049 è ancora lì e per me resta il film migliore di questi ultimi anni. E sono convinto che sia destinato a restare.

Ana Stelline: I Replicanti vivono vite dure, creati per fare quello che noi preferiamo non fare. Non posso aiutarli con il futuro, ma posso darvi dei bei ricordi a cui ripensare, per cui sorridere.
K: È bello.
Ana Stelline: È più che bello. Sembra autentico. E se hai dei ricordi autentici allora puoi avere vere reazioni umane. Non pensa anche lei?

Se ti interessa puoi recuperare la mia recensione o l’articolo scritto per Delos SF, oltre a tutti i pezzi che puoi trovare negli archivi storici di Holonomikon.

Siamo entrati da alcune settimane in quel mood un po’ nostalgico che fin dalle estati della nostra giovinezza si accompagna alla fine delle esperienze in cui abbiamo a lungo investito in termini emotivi. Non è una questione facilmente riducibile in termini quantitativi: per quanto possano sembrare tante in termini assoluti, una ottantina di ore spese a guardare una serie TV o una saga cinematografica finiscono per essere molto diluite quando vengono spalmate su un arco temporale di una decina di anni, ma questo non ne riduce affatto l’impatto qualitativo, perché tra un episodio e il successivo, tra una stagione o una fase e quella che ci aspetta, abbiamo speso una quantità non facilmente misurabile di tempo a farci domande e a parlarne con altri appassionati (o potenziali appassionati tra cui fare proseliti), che ha inevitabilmente contribuito ad aumentare le nostre aspettative e con esse il nostro investimento in quel particolare universo narrativo.

Il nostro mood mentre la fine si avvicina… [Lyanna Mormont (Bella Ramsey) in Game of Thrones, courtesy of HBO]

Dopotutto, non credo che sia un’esagerazione affermare che siamo le storie di cui ci nutriamo. Quindi, mentre portiamo avanti la discussione sulle conclusioni di quelli che sono probabilmente i due fenomeni culturali di proporzioni più vaste di quest’ultimo decennio, mi sono inevitabilmente ritrovato a riflettere sui momenti tristemente noti come finali. Sia su Game of Thrones che sul Marvel Cinematic Universe si è ineluttabilmente pronunciato Emanuele Manco, tra i maggiori esperti italiani di entrambi, e sebbene condivida il suo giudizio solo in parte (e più sul primo che sul secondo) vi rimando alle sue disamine dell’episodio 3 dell’ottava stagione di Game of Thrones e di Avengers: Endgame senza dilungarmi oltre. In ogni caso sono stati dei bei viaggi e, come per tutti i viaggi, forse non è così importante quello che troviamo alla fine rispetto a tutto quello che abbiamo avuto modo di apprezzare e imparare nel frattempo, anche (e forse soprattutto) su noi stessi.

Il nostro mood quando una storia finisce… [Marvel Studios’ AVENGERS: ENDGAME: Rocket (voiced by Bradley Cooper) and Nebula (Karen Gillan). Photo: Film Frame ©Marvel Studios 2019]

Però prendendo spunto da questa stagione di grandi e attesi finali, più o meno epici, più o meno riusciti, ho pensato di proporvi una lista, ispirata anche da questo montaggio di CineFix, e quindi, fatta questa doverosa premessa per scaldare i motori, eccoci a parlare di cinque finali su cui ancora oggi, a distanza di anni e in alcuni casi di decenni, continuiamo ancora a parlare, su cui continuiamo a fare ipotesi, costruire castelli teorici e alimentare un dibattito che contribuisce a prolungare la vita delle opere stesse ben oltre i confini temporali della loro fruizione (il che è un po’ la missione di ogni fandom che si rispetti). Sentitevi liberi di aggiungere le vostre considerazioni (e altre graditissime segnalazioni) nei commenti.

E adesso partiamo.

5. 2001: Odissea nello spazio (regia Stanley Kubrick, tratto da un racconto di Arthur C. Clarke, 1968)

Il film che ha consacrato la dimensione leggendaria di un regista già di culto come Stanley Kubrick. L’astronauta David Bowman (Keir Dullea) raggiunge l’orbita di Giove, destinazione della missione Discovery di cui è l’unico membro sopravvissuto, oltrepassa la soglia del monolito che è l’obiettivo della spedizione e si ritrova a esplorare una dimensione interiore, uno spazio psichico e psichedelico. Negli anni della New Wave (il seminale articolo di J. G. Ballard Which Way to Inner Space? apparve sulla rivista New Worlds nel 1962), ecco la prima e più incisiva rappresentazione visiva della rivoluzione concettuale che stava vivendo l’immaginario non solo di genere, proprio mentre l’uomo si apprestava a sbarcare sulla Luna e davvero il futuro era lì a portata di mano. Proprio come Ballard, anche Kubrick e, abbastanza sorprendentemente, il veterano Clarke suggeriscono che le vere frontiere dell’esplorazione non ci attendono lì fuori, ma sono sepolte dentro di noi, e l’ignoto spazio profondo non fa che avvicinarci a questo inner space, sbattendoci in faccia la sua intrinseca inconoscibilità. Se non conosciamo bene noi stessi (chi siamo? da dove veniamo?) come possiamo pretendere di capire ciò che ci attende alla fine del cammino (dove stiamo volando?)? Cosa è diventato Bowman, alla fine del suo viaggio oltre l’infinito? Quali implicazioni avrà la sua metamorfosi per il futuro della Terra e dell’umanità? Per affinità e assonanze, aggiungiamo non solo per dovere di cronaca che questa menzione non può che tirarsi dietro, come spesso accade quando si cita Kubrick in ambito sci-fi, anche Andrej Tarkovskij e i suoi altrettanto fondamentali Solaris (1972, tratto dal romanzo omonimo di Stanisław Lem) e Stalker (1979, tratto dal romanzo dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij Picnic sul ciglio della strada).

4. Blade Runner (regia di Ridley Scott, tratto dal romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep? di Philip K. Dick, 1982)

Più umano dell’umano, è lo slogan che demarca il target delle nuove linee di replicanti messi a punto dalla Tyrell Corporation per assistere il programma coloniale extra-mondo. E i Nexus 6 in fuga dalle colonie spaziali, sbarcati sulla Terra per ottenere un prolungamento delle loro vite artificialmente limitate a una durata di soli quattro anni, sono davvero indistinguibili dagli esseri umani di cui sono la copia, se non per il fatto di vantare una resistenza e una forza fisica perfino superiori. Il cacciatore di taglie Rick Deckard (Harrison Ford), richiamato in servizio dall’LAPD per un’ultima missione, riuscirà fortunosamente ad avere la meglio e portare a casa la pelle, anche grazie al provvidenziale ripensamento del leader dei replicanti ribelli Roy Batty (Rutger Hauer). Tornato a casa, deciderà di lasciare la città con l’ultimo replicante, un esemplare fuori serie che lo stesso creatore non ha esitato a definire “speciale” (Rachael Rosen, interpretata da Sean Young). Alla fine gli interrogativi lasciati aperti dalla pellicola, anche per via di un refuso di sceneggiatura (che menziona sei replicanti ribelli, mentre quelli effettivamente presenti o citati nel prosieguo della pellicola sono solo cinque) e poi attraverso i successivi editing di Ridley Scott (con montaggi alternativi che hanno incluso nuove scene, rimosso il finale e la voce fuori campo e apportato altri aggiustamenti minori), vertono tanto sulla figura del cacciatore di taglie (Deckard stesso è un umano o il replicante mancante?) quanto dell’androide che porta in salvo (cos’è che rende davvero speciale Rachael?). Dopo la vasta letteratura di seguiti ufficiali partoriti da K. W. Jeter, a entrambi gli interrogativi prova a dare una risposta con esiti decisamente più convincenti il sequel cinematografico diretto da Denis Villeneuve nel 2017, Blade Runner 2049, che tuttavia lascia aperti ulteriori spazi di indagine e di speculazioni sulle colonie extra-mondo e sul vero ruolo dei replicanti nei piani del magnate Niander Wallace (Jared Leto).

3. C’era una volta in America (regia di Sergio Leone, tratto dal romanzo The Hoods di Harry Grey, 1984)

Un film su cui si sono spese forse altrettante pagine di congetture da rivaleggiare con 2001. L’ultima impresa di Sergio Leone, a cui richiese uno sforzo produttivo durato tredici anni (e dieci mesi di riprese in USA, Canada, Francia e Italia) e che pose di fatto fine alla sua carriera. Allo stesso tempo, è il coronamento dell’opera di un autore straordinario, forse unico nel panorama della cultura italiana del ‘900 per l’influenza che è stato in grado di esercitare sulla cinematografia mondiale (e non solo nel western o nel cinema stesso: pensiamo anche alla fantascienza e ai debiti letterari riconosciuti da autori del calibro di William Gibson), la migliore conclusione possibile per la seconda trilogia di Leone (dopo quella del dollaro, quella del tempo). Un omaggio anche all’immaginario americano, con gli Stati Uniti rappresentati per quel generatore di miti che in effetti sono stati, il motore dell’immaginario del ‘900.  “Una sfilata di fantasmi nello spazio incantato della memoria”, come ha scritto Morando Morandini nel suo Dizionario, ma anche “un sogno di sogni”, in cui “la memoria del singolo tende a dissolversi in quella di un intero paese” (come ha scritto invece Gian Piero Brunetta nel suo Cent’anni di cinema italiano). E un noir su cui, disorientati dal sofisticato meccanismo narrativo che combina caoticamente analessi e prolessi, non siamo ancora stati capaci di decidere se la storia che stiamo guardando sia frutto di una rievocazione o di una proiezione immaginaria. Ma alla fine, è davvero così importante sapere se Noodles (Robert De Niro) vivrà (ha vissuto) o no quei famosi trentacinque anni che gli sono stati rubati dal suo socio di un tempo Max (James Woods)? In che modo un furto di tempo e di vita può risultare diverso dall’altro? I fumi dell’oppio non aiutano a fare chiarezza, ma continuano ad alimentare l’incanto di una pellicola che c’incolla allo schermo con la densità stilistica compressa in ogni singolo fotogramma.

2. Inception (scritto e diretto da Christopher Nolan, 2010)

Da un sogno di sogni a un altro, Inception è il film che probabilmente ha alimentato le discussioni più lunghe in quest’ultimo decennio, generando una quantità di infografiche esplicative che hanno cercato di districarne l’intreccio (forse l’unico film a poter rivaleggiare in questo con Primer di Shane Carruth). Tra il secondo e il terzo capitolo della trilogia dedicata al Cavaliere Oscuro, Christopher Nolan torna a coltivare il suo amore per le architetture narrative sofisticate e chiude il decennio della sua consacrazione autoriale così come lo aveva iniziato nel 2000 con Memento. Il film è un sogno ricorsivo che deve molto anche alla letteratura di fantascienza (non ultimo Roger Zelazny), ma con quel tocco personale che rende inconfondibili i film del regista londinese. Dominic Cobb (Leonardo Di Caprio) è un ladro psichico capace di estrarre segreti preziosi dalla mente dei suoi bersagli, ma un giorno viene arruolato da Mr. Saito (Ken Watanabe) per tentare un’operazione inedita: innestare un’idea nella testa dell’erede dell’impero finanziario con cui è in competizione. Per portare a termine l’impresa, Cobb progetta un meccanismo di sogni condivisi annidati a più livelli di profondità e arruola una squadra di professionisti, ma la missione lo pone davanti a ostacoli sempre maggiori, non ultimo l’interferenza del ricordo della defunta moglie Mal (Marion Cotillard). L’unico modo che hanno i sognatori per distinguere tra la realtà e il sogno è affidandosi a un totem, che nel caso di Cobb è una trottola metallica: in un sogno, non essendo soggetta alle leggi fisiche della gravità, contrariamente a quanto accade nel mondo reale la trottola è destinata a girare all’infinito. Quando alla fine Cobb riesce a tornare dai suoi figli, ricompensa per la buona riuscita dell’incarico, vuole avere la certezza che non sia ancora intrappolato nel limbo in cui è dovuto addentrarsi per salvare Mr. Saito, ma quando abbraccia i bambini la trottola sta ancora girando. Cobb si è davvero svegliato dal sogno o è ancora intrappolato nel limbo?

1. True Detective (ideato da Nic Pizzolatto, 3 stagioni, 2014 – in produzione)

Serie antologica della HBO, True Detective ha esordito nel 2014 con una stagione memorabile che si è indelebilmente impressa nella nostra memoria di spettatori grazie alle interpretazioni di Matthew McConaughey e Woody Harrelson e a una scrittura fortemente debitrice delle suggestioni horror e delle vertigini cosmiche dei maestri del weird, da Robert W. Chambers e H. P. Lovecraft fino a Thomas Ligotti. Una seconda stagione un po’ sottotono e incapace di tener fede alle altissime aspettative sembrava averla condannata al limbo delle produzioni cinetelevisive, ma nel 2018 una terza stagione (forte delle interpretazioni di Mahershala Ali, Stephen Dorff e Carmen Ejogo) si è dimostrata capace di rinverdire i fasti degli esordi (ne abbiamo parlato diffusamente anche su queste pagine). Come la prima stagione, anche quest’ultima ha uno dei suoi punti di forza nell’atteso twist finale e in entrambi i casi le implicazioni sottese alle scelte di sceneggiatura e regia hanno innescato una ridda di ipotesi e suggestioni. Cosa vede davvero Rustin Cohle pugnalato a morte dal Re Giallo? E Wayne “Purple” Hays riconosce o no Julie Purcell nella madre a cui riesce a risalire dopo decenni di indagini e solo ora che le sue facoltà cognitive sono irrimediabilmente compromesse dall’Alzheimer? Cos’è la giungla in cui si ritrova a vagare nella notte, come ai tempi delle sue missioni in Vietnam come recog? Un finale in grado di richiamare altri grandi classici della recente serialità televisiva, non ultimo la popolare Life on Mars prodotta dalla BBC, i cui enigmi sono poi stati sciolti nella successiva Ashes to Ashes.

L’invito di Quaderni d’Altri Tempi a partecipare con alcune segnalazioni alla lista degli imperdibili dell’anno che si conclude oggi mi offre il pretesto per condividere con voi una lista più ampia, che abbraccia tutto quello che ho visto e ho letto nel 2017 (sarei stato bravo a leggere tutto, ma ammetto che in alcuni casi si tratta di titoli che avrei voluto/dovuto leggere, ma ancora non sono riuscito a farlo… ma c’è tempo per rimediare!) e che porto con me nell’anno nuovo.

Se volete, nei commenti aggiungete pure le vostre segnalazioni: titolo, autore ed editore, con l’unico vincolo che si tratti di cose uscite nel corso dell’anno solare (prime edizioni o ristampe dopo una lunga assenza). A differenza di Quaderni, separerò le mie segnalazioni per canale. Quindi eccovi i miei consigli, in ordine sparso e del tutto casuale:

Letture

  1. Eymerich risorge, Valerio Evangelisti (Mondandori)
  2. Nottuario, Thomas Ligotti (Il Saggiatore) [ne abbiamo parlato approfonditamente, qui e su Quaderni]
  3. Le venti giornate di Torino, Giorgio De Maria (Frassinelli) [anche questo recensito]
  4. Autonomous, Annalee Newitz (Fanucci)
  5. La ferrovia sotterranea, Colson Whitehead (Sur)
  6. Ucronia, Elena Di Fazio (Delos Books)
  7. Carnivori, Franci Conforti (Kipple Officina Libraria)
  8. Elysium, Jennifer Marie Brissett (Zona 42)
  9. Laguna, Nnedi Okorafor (Zona 42)
  10. New York 2140, Kim Stanley Robinson (Fanucci) [per ora solo brevemente qui]
  11. Il problema dei tre corpi, Cixin Liu (Mondadori)
  12. Inverso, William Gibson (Mondadori)
  13. Einstein perduto / Nova, Samuel R. Delany (Mondadori)
  14. Domani il mondo cambierà, Michael Swanwick (Mondadori)
  15. Sirene, Laura Pugno (Feltrinelli)
  16. Atlantide e i mondi perduti, Clark Ashton Smith (Mondadori)
  17. Lacerazioni, Anne-Sylvie Salzman (Hypnos)
  18. Entanglement, Vandana Singh (Future Fiction) [per ora solo brevemente qui]
  19. Jerusalem, Alan Moore (Rizzoli)
  20. Il racconto dell’ancella, Margaret Atwood (Ponte alle Grazie)
  21. L’invenzione di Morel, Adolfo Bioy Casares (Sur)
  22. Universi paralleli, Roberto Paura (Cento Autori)
  23. Black Monday di Jonathan Hickman e Tomm Coker (Mondadori) [brevemente qui]
  24. Arcangelo di William Gibson (Magic Press) [brevemente qui]
  25. Nameless di Grant Morrison (Saldapress)
  26. Mio padre la rivoluzione, Davide Orecchio (Minimum Fax)
  27. Schiavi dell’Inferno, Clive Barker (Independent Legions Publishing)

Serie

  1. Taboo, di Tom Hardy, Edward “Chips” Hardy, Steven Knight (Scott Free Productions, Hardy Son & Baker
  2. Legion, di Noah Hawley (Marvel Television, FX Productions, 26 Keys Productions)
  3. Fargo, di Noah Hawley (FX Productions, The Littlefield Company, MGM Television)
  4. Mindhunter, di Joe Penhall (Denver and Delilah, Jen X Productions, Panic Pictures / No. 13)
  5. Twin Peaks – La serie evento, di Mark Frost e David Lynch (Rancho Rosa Partnership Production, Lynch/Frost Productions)
  6. Gomorra, di Giovanni Bianconi, Stefano Bises, Leonardo Fasoli, Ludovica Rampoldi, Roberto Saviano (Sky, Cattleya, Fandango, LA7, Beta Film)
  7. Quarry, di Graham Gordy e Michael D. Fuller (HBO Entertainment, Anonymous Content, Night Sky Productions, One Olive)
  8. The Young Pope, di Paolo Sorrentino (Wildside, Haut et Court TV, Mediapro)
  9. Babylon Berlin, di Henk Handloegten, Tom Tykwer, Achim von Borries (X-Filme Creative Pool, Beta Film, Sky Deutschland, Degeto Film)

Cinema

  1. Arrival, regia di Denis Villeneuve, sceneggiatura di Eric Heisserer da un racconto di Ted Chiang (produzione Lava Bear Films, 21 Laps Entertainment, FilmNation Entertainment)
  2. The War – Il pianeta delle scimmie, regia di Matt Reeves, sceneggiatura di Mark Bomback e Matt Reeves (produzione Chernin Entertainment)
  3. Dunkirk, regia e sceneggiatura di Cristopher Nolan (produzione Syncopy Inc., RatPac-Dune Entertainment, Warner Bros. Pictures)
  4. Blade Runner 2049, regia di Denis Villeneuve, sceneggiatura di Hampton Fancher, Michael Green e Ridley Scott [non accreditato] (produzione Alcon Entertainment, Thunderbird Entertainment, Scott Free Productions) [ne abbiamo parlato diffusamente su Fantascienza.com, su Delos e qui, ma una delle cose migliori che ho letto sul film è apparsa ieri a firma di Luca Giudici]

Avvertenza. Questa lista è inevitabilmente parziale e viziata dalla mia prospettiva distorta: sicuramente ci sono numerosi altri titoli meritevoli di segnalazione che non vengono qui menzionati, perché passati sotto il mio radar oppure semplicemente perché le mie idiosincrasie non mi permettono di pronunciarmi prima di un’occhiata più approfondita. Ma per fortuna abbiamo tutto il futuro per rimediare. Intanto portiamoci questo nel 2018 e cercheremo di recuperare il resto.

Sono trascorsi trentacinque anni dal capolavoro di Ridley Scott che ridefinì la nostra percezione del futuro. Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve non aspira a tanto, ma moltiplica le prospettive di un mondo che ci eravamo illusi di conoscere fin troppo bene.

Hollywood non ama particolarmente le sfide aperte, preferisce andare sul sicuro. Riportare al cinema un titolo che alla sua uscita lasciò i produttori in cattive acque, per quanto poi col tempo abbia finito per attestarsi come caposaldo imprescindibile, non era di certo quella che può definirsi una scommessa facile. Per questo nel 2011 in molti, tra semplici appassionati e addetti ai lavori, avevamo accolto con un certo scetticismo la notizia che i diritti di Blade Runner erano stati rilevati per una somma imprecisata dalla Alcon Entertainment, in circolazione da una quindicina d’anni e, se si eccettua Insomnia (remake di un film norvegese affidato a un promettente regista anglo-americano, che sarebbe diventato il banco di prova per saggiare le future ambizioni di Christopher Nolan), mai coinvolta fino ad allora in produzioni degne di nota.

D’altronde era risaputo come Ridley Scott avesse sempre tenuto la porta aperta per un eventuale seguito, ma i suoi piani più o meno vaghi si erano andati a scontrare ogni volta contro difficoltà produttive, sovrapposizioni d’impegni e, last but not least, inestricabili nodi legali sui diritti, come nel caso dell’annunciata webseries prequel Purefold, sviluppata con il fratello Tony Scott e poi congelata a tempo indeterminato. È innegabile che la prospettiva di un possibile ritorno all’universo narrativo di Blade Runner abbia sempre solleticato anche la fantasia degli appassionati oltre a quella del suo creatore, ma in pochi sarebbero stati disposti a scommettere qualcosa sui piani di rilancio della Alcon. E invece in questi anni la casa di produzione di Broderick Johnson e Andrew A. Kosove non solo è riuscita ad assemblare una squadra produttiva di prim’ordine, coinvolgendo Columbia Pictures, Thunderbird Films e Scott Free Productions, per raccogliere il budget più alto della sua storia (ben 150 milioni di dollari, che secondo alcune fonti potrebbero invece essere stati addirittura 185), ma con la benedizione di Ridley Scott ha saputo anche assicurarsi il talento di uno dei più apprezzati cineasti in circolazione, il canadese Denis Villeneuve, reduce dal successo di Arrival (2016) e autore di piccoli grandi capolavori come La donna che canta (2010), Prisoners (2013), Enemy (2013) e Sicario (2015).

Con lui la Alcon ha ingaggiato professionisti di prim’ordine, il cui apporto sarebbe stato non meno importante o decisivo nella riuscita dell’operazione. A cominciare dallo sceneggiatore Michael Green (arruolato nel 2013, quando aveva all’attivo solo il copione di Green Lantern, nel frattempo ha visto realizzarsi altre due sceneggiature di un certo prestigio, per l’acclamato ritorno di Wolverine in Logan e per il nuovo adattamento di Assassinio sull’Orient Express firmato da Kenneth Branagh, senza dimenticare il suo ruolo di produttore e showrunner di American Gods, tratto dal romanzo di Neil Gaiman), che è andato ad affiancare Hampton Fancher, l’uomo che per primo colse le potenzialità cinematografiche di un romanzo di fantascienza intitolato Do Androids Dream of Electric Sheep?; per proseguire con Joe Walker (Blackhat, Arrival) al montaggio e Dennis Gassner (recentemente al servizio del nuovo corso di 007) alla scenografia; e per finire con la fotografia di Roger Deakins, plurinominato all’Oscar e punto di riferimento per i fratelli Coen, che è qui già alla terza collaborazione con Villeneuve dopo Prisoners e Sicario. Dell’esito artistico dei relativi contributi abbiamo già parlato diffusamente nella recensione apparsa su queste stesse pagine, quindi non ci dilungheremo oltre.

Il lettore che ha avuto pazienza di arrivare fin qui ci perdonerà di esserci dilungati sui retroscena, ma per un’operazione come questa le vicissitudini produttive non rappresentano un semplice corollario da ridimensionare al rango di curiosità, come d’altro canto insegnano anche le traversie in cui incorse la realizzazione di Blade Runner (si veda a questo proposito l’ottimo libro di Paul M. Sammon Blade Runner. Storia di un mito, purtroppo non più in catalogo, ma sarebbe ora che qualche editore si decidesse a riproporlo ai lettori italiani). Il processo di costruzione di Blade Runner 2049, come dimostra la sua trama stratificata, ricca di rimandi al capolavoro di Ridley Scott, rispecchia la necessità di fare i conti con un rompicapo matematico: riprodurre quel mix di stupore e malinconia, di meraviglia e inquietudine, di speranza e dannazione, di riscatto e castigo, che ha reso Blade Runner un’opera unica nel panorama cinematografico mondiale. Il risultato finale omaggia nella misura giusta il precursore e allo stesso tempo dischiude allo sguardo dello spettatore e dell’appassionato nuovi orizzonti, il tutto con uno sforzo immaginifico che riesce a reinventare l’estetica di Blade Runner tenendosi paradossalmente fedele all’originale.

2019-2049: le cicatrici del futuro

Trent’anni non sono passati invano. Il mondo del 2049 che ci viene presentato appare fin da subito come una credibile derivazione del 2019 impresso indelebilmente nella nostra memoria di spettatori e appassionati, ma è anche il prodotto di una netta discontinuità che, se vogliamo, riprende anche molti dei nostri attuali motivi di preoccupazione.

Il tempo trascorso dal 1982 ha infatti comportato un graduale slittamento della distopia di Ridley Scott nei territori dell’ucronia, o se vogliamo della discronia, aggiungendo straniamento a straniamento: il Giappone non ha soggiogato il mondo e nemmeno la West Coast e, anche se mancano meno di due anni alla data fatale, la robotica comincia sì a muovere i primi passi, così come il dibattito sull’intelligenza artificiale tiene banco sulle pagine dedicate a scienza e tecnologia, e magari la scalata alla frontiera spaziale inizia pure a essere tentata da imprese private disposte ad annunciare lo sbarco su Marte entro il prossimo decennio, ma non c’è purtroppo traccia dei replicanti “più umani dell’umano”, né di colonie spaziali pronte ad accogliere l’esodo dei terrestri in fuga da un pianeta al collasso. Non era insomma esente da rischi l’idea di sviluppare un mondo che in molti avrebbero potuto cogliere come già superato, o comunque contraddetto dai fatti. Ma né i produttori né Denis Villeneuve si sono lasciati scoraggiare e in qualche modo Blade Runner 2049 ha saputo costruire un nuovo futuro sulle fondazioni del vecchio futuro immaginato da Scott.

[Prosegue su Delos SF 192.]

[È on line il nuovo numero di Delos Science Fiction, il 192. Tra le altre cose, il direttore Carmine Treanni ha assemblato uno speciale dedicato al film sulla bocca di tutti, che alla fine pare dovrà aspettare l’home video per pareggiare le spese. Oltre all’articolo-recensione di Arturo Fabra, anche due pezzi del vostro bla bla bla. Questo è il primo.]

Forse non lo sapevate, ma Blade Runner 2049 non è la prima volta che vengono ripresi i personaggi e l’ambientazione di Blade Runner. Ecco una veloce panoramica di quello che è successo in questi trentacinque anni.

Blade Runner 2049 non rappresenta il primo e unico tentativo di dare un seguito alle vicende di Rick Deckard, il cacciatore di androidi ideato da Philip K. Dick nel romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? e poi entrato nel nostro immaginario collettivo con il volto e i modi spicci di Harrison Ford, protagonista del film che Ridley Scott ne ricavò nel 1982. Prima dell’opera di Denis Villeneuve, si contano almeno quattro tentativi ufficiali, ed è interessante notare che se tre di questi sono dei romanzi, il quarto è un videogioco. Ma procediamo per gradi.

I libri

Nel 1995 K. W. Jeter dà alle stampe Blade Runner 2: The Edge of Human (in italiano Blade Runner 2 per i tipi di Sonzogno, traduzione di Sergio Mancini, ultima edizione 1999): un tentativo di sposare e in qualche modo risolvere le divergenze tra il romanzo originale e l’adattamento cinematografico, ma che si traduce in realtà in un’esplosione di contraddizioni ancora maggiori. Basti dire che Pris in questo universo non è morta (e anzi, a un certo punto, il romanzo suggerisce che non sia nemmeno una replicante), così come pure J.F. Sebastian, che per di più convive con il suo prototipo letterario J.R. Isidore, addetto in una clinica veterinaria che in realtà aiuta i replicanti fuggiti sulla Terra a costruirsi delle identità di copertura.

La trama vede Deckard tornare in azione per le strade di una Los Angeles devastata da un sisma catastrofico e investita da un’ondata di caldo. Il suo incarico è quello di ritrovare il sesto replicante, ma dietro alla missione si cela una manovra segreta di Sarah Tyrell, nipote del magnate della Tyrell Corporation, ai danni proprio dell’impero costruito da suo zio Eldon. Come se non bastasse, Deckard si ritrova presto di nuovo invischiato in una caccia all’uomo, inseguito dall’originale umano di Roy Batty, uno schizofrenico incapace di provare paura per via di un’alterazione naturale dell’amigdala e deciso a vendicare la morte del suo replicante (resta da spiegare perché un essere umano debba provare una simile affezione per qualcuno/qualcosa che non ha mai visto in vita sua). L’intreccio, sofisticato e in sostanza terribilmente complicato, coinvolge tra gli altri anche il vecchio collega di Deckard Dave Holden, visto nella sequenza di apertura di Blade Runner mentre sottoponeva Leon al Voight-Kampff per poi beccarsi una pallottola in pieno petto. Non si può parlare di un libro memorabile, come si sarà capito, ma Jeter (che oltretutto propone un’inutile etimologia per il termine blade runner, facendolo risalire all’espressione tedesca “bleib ruhig”, ovvero “mantenere la calma”) ha il merito se non altro di introdurre la suggestiva idea della Curva di Wambaugh, “l’indice del disgusto di sé”:

“I cacciatori di replicanti lo raggiungono più malridotti, e più in fretta, degli altri poliziotti. Viene a furia di stare sul campo. […] Alla fine la Curva diventa ripida quanto basta e uno cade”.

Ed è quello che capita al personaggio di Deckard, che nelle mani di Jeter diventa un personaggio decisamente più instabile di quanto già non fosse nella tormentata caratterizzazione di Philip K. Dick.

In Blade Runner 3: Replicant Night (1996, in Italia dato alle stampe da Fanucci con il titolo Blade Runner. La notte dei replicanti, nella traduzione di Gianni Montanari, ultima edizione 1998), ritroviamo Deckard qualche anno più avanti su Marte, dove è fuggito con Sarah Tyrell dopo i fatti del libro precedente. Il pianeta rosso è una stazione di transito per gli umani che lasciano la Terra diretti alle colonie extra-mondo, e vengono ospitati in rifugi sovrappopolati e malmessi in attesa di ricevere dall’ufficio delle Nazioni Unite il permesso a emigrare. Bloccato in questo limbo, Deckard sbarca il lunario offrendo una consulenza a Urbenton, regista di un film che si propone di ricostruire la notte di caccia raccontata in Blade Runner. Il risultato è molto postmoderno, ma ancora una volta ben lontano da riprodurre lo spessore e il mood sia del romanzo di Dick che del film di Ridley Scott. Tuttavia, ancora una volta Jeter regala al lettore qualche motivo di interesse: in questo caso, Deckard finisce coinvolto in un complotto interplanetario e scoprirà suo malgrado che – per qualche effetto riconducibile ai campi morfogenetici o alla risonanza morfica teorizzata da Rupert Sheldrake – lontano dalla Terra l’umanità ha sviluppato una sterilità che rischia di condannarla all’estinzione, mentre paradossalmente i replicanti hanno acquisito la facoltà di procreare. Un tema che come sappiamo diventerà centrale in Blade Runner 2049.

Nel 2000 esce Blade Runner 4: Eye and Talon, tuttora inedito in Italia, il primo seguito a non mettere in scena Deckard come protagonista, bensì Iris, una delle migliori blade runner del dipartimento di polizia di Los Angeles. Ormai pochi replicanti fuggono clandestinamente sulla Terra e sul dipartimento aleggia il timore di un’imminente riorganizzazione. Iris viene incaricata dal suo superiore, Meyer, di rintracciare un gufo – lo stesso gufo che ha assistito al primo incontro tra Deckard e Rachael presso il quartier generale della Tyrell Corporation.

[Prosegue su Delos SF.]

Su Blade Runner 2049 mi sono già espresso in questa recensione, anche se presto torneremo a parlarne per approfondire alcuni aspetti che in una recensione non potevano trovare spazio. Qui mi interessa tuttavia ricostruire un po’ le basi dell’operazione mitopoietica che la Alcon Entertainment, dopo aver rilevato i diritti per lo sviluppo di sequel, sidequel, prequel (e chi più ne ha…) del media franchise da Bud Yorkin, sta mettendo in atto per far fruttare la popolarità di Blade Runner.

Piccola premessa: dall’andamento del botteghino, malgrado la delusione della Warner (che ne cura la distribuzione sul mercato nordamericano) per la partenza al rilento, che ha spinto anche la Sony (che invece cura la distribuzione estera) a cavalcare l’hype anticipando di una settimana l’uscita in Cina (fissata adesso proprio per oggi), Blade Runner 2049 sembra destinato a pareggiare i costi di produzione e distribuzione. Costato intorno ai 150 milioni di dollari (secondo alcune fonti 155, ma un interno della produzione avrebbe confermato che Denis Villeneuve ha saputo rientrare abbondantemente nel budget originariamente previsto), fino allo scorso week-end il film aveva incassato 74 milioni di dollari sul mercato domestico, e ulteriori 120 dal resto del mondo (ma è bene ricordare che i dati dall’estero affluiscono con un certo ritardo, e al computo globale mancano ancora appunto la Cina e anche il Giappone). Ma se è plausibile che Blade Runner 2049 rientri dei costi e magari distribuisca anche qualche ricavo ai finanziatori, non è ancora chiaro se questo utile sarà sufficiente a giustificare il proseguimento del franchise.

Quel che è certo, e lo dico da fan integralista e poco incline ai compromessi quando è in gioco il suo feticcio, è che la Alcon ha deciso di muoversi nel modo migliore che un appassionato avrebbe potuto aspettarsi. L’approccio a una pietra miliare come Blade Runner è stato estremamente rispettoso, quasi reverenziale. E la cura con cui il sequel è stato pianificato, ponendo la giusta distanza dal capostipite e riprendendo i fili narrativi che in tutti questi anni hanno appunto tenuto in vita il dibattito tra gli appassionati determinando l’ascesa della pellicola di Ridley Scott al rango di film di culto, è testimoniata dal modo in cui la produzione si è preoccupata di colmare i buchi, unendo tutti i punti che dal 2019 portano al 2049 ora nelle sale.

Al Comic-Con di San Diego, lo scorso luglio, la Warner ha rilasciato una timeline molto utile a inquadrare cronologicamente gli eventi del film di Villeneuve:

  • 2019: Deckard lascia Los Angeles con Rachael, un modello Nexus di ultima generazione.
  • 2020: Dopo la morte di Eldon Tyrell viene messo in produzione il nuovo modello Nexus 8, senza limite di vita impostato a quattro anni e provvisto di un codice di riconoscimento impresso sugli impianti oculari.
  • 2022: L’evento noto come Black Out “spegne” la West Coast. Azzeramento dei database su scala globale.
  • 2023: I replicanti sono messi al bando e in conseguenza del loro divieto di produzione la Tyrell Corporation fallirà di lì a breve. I replicanti che riescono si rifugiano nella clandestinità.
  • 2025: Il successo della Wallace Corporation con le colture sintetiche risolve la crisi alimentare su scala globale.
  • 2028: Niander Wallace rileva ciò che rimane della Tyrell Corporation.
  • 2036: Niander Wallace riesce a far abrogare il divieto di produzione dei replicanti e mette in commercio i Nexus 9, provvisti di impianti di memoria perfezionati che li rendono più obbedienti e facilmente controllabili. Alcuni di questi replicanti sono usati come blade runner per scovare e ritirare i vecchi modelli ancora in circolazione.
  • 2049: La società è divisa in due classi: gli umani da una parte, i replicanti dall’altra.

Ma per un progetto ambizioso come l’attesissimo seguito di un capolavoro come Blade Runner questo non poteva bastare. E allora la produzione ha anche sviluppato una serie di tre cortometraggi per introdurre alcuni personaggi e fornire uno sfondo agli eventi al centro della nuova pellicola. E così ecco uscire il 30 agosto scorso 2036: Nexus Dawn e 2048: Nowhere to Run, entrambi scritti da Hampton Fancher e Michael Green (sceneggiatori anche del lungometraggio di Villeneuve) e diretti da Luke Scott.

In 2036: Nexus Dawn facciamo la conoscenza di Niander Wallace (interpretato da Jared Leto), il magnate che con la sua compagnia è riuscito a scongiurare sulla Terra il collasso della società sviluppando un sistema di coltivazioni sintetiche che ha risolto il problema globale della fame. Con la sua Wallace Corporation, Niander ha quindi rilevato ciò che rimane della Tyrell Corporation, condannata al fallimento per via delle restrizioni sulla produzione e vendita dei replicanti stabilite all’inizio del decennio precedente. Wallace vuole che il commercio dei replicanti sia nuovamente legalizzato e per questo si confronta con dei legislatori a cui mostra un nuovo modello di replicante Nexus-9.

In 2048: Nowhere to Run facciamo un salto in avanti di dodici anni e andiamo a conoscere, attraverso il punto di vista di Sapper Morton (Dave Bautista), la situazione in cui vivono i “lavori in pelle” per le strade dei bassifondi di Los Angeles. Morton ha bisogno di soldi e mentre cerca di piazzare i suoi prodotti sul mercato nero cittadino, s’imbatte in una banda di violenti. L’incontro degenera in un corpo a corpo durante il quale Morton stende i teppisti, ammazzandone diversi dopo aver perso il controllo. Un testimone lancia quindi una soffiata alla polizia.

Infine abbiamo Blade Runner Black Out 2022, rilasciato il 27 settembre scorso, scritto e diretto dal maestro dell’animazione giapponese Shinichiro Watanabe, autore tra gli altri del capolavoro Cowboy Bebop. Diversamente dai precedenti è un film di animazione. Diversamente dai precedenti, non coinvolge personaggi che vedremo nel lungometraggio, ma scava alle origini della nuova società che vediamo nel film, così diversa da quella che avevamo lasciato nella pellicola di Scott. I fatti narrati sono collegati alla distruzione degli archivi in cui sono registrati tutti i dati sensibili sui replicanti e vi ritroviamo un’atmosfera molto noir, debitrice dello splendido lavoro svolto da Watanabe con il suo Cowboy Bebop, probabilmente la cosa migliore partorita fuori dalla letteratura in ambito cyberpunk insieme a Ghost in the Shell.

Sarebbe estremamente interessante che gli incassi di Blade Runner 2049 ripagassero gli sforzi produttivi anche per vedere come evolverà l’esplorazione del nuovo mondo delineato da Villeneuve e soci attraverso questi prodotti minori che sono comunque di per sé dei piccoli capolavori. Non ci resta quindi che tenere le dita incrociate e rimandare magari a una futura occasione l’approfondimento sulle ragioni che stanno tenendo il film in bilico sulla sottile lama del payoff.

Intanto, godetevi questi cortometraggi e, se non l’avete già visto, cercate una delle ultime sale che ha mantenuto il film in programmazione.

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Neppure di fronte all'Apocalisse. Nessun compromesso. -- Rorschach (Alan Moore, Watchmen)

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Mi chiamo Giovanni De Matteo, per gli amici X. Nel 2004 sono stato tra gli iniziatori del connettivismo. Leggo e guardo quel che posso, e se riesco poi ne scrivo. Mi occupo soprattutto di fantascienza e generi contigui. Mi piace sondare il futuro attraverso le lenti della scienza e della tecnologia.
Il mio ultimo romanzo è Karma City Blues.

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