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In cerca di Klingsor (En busca de Klingsor) è un oggetto letterario misterioso. Pubblicato in Messico nel 1999, quando il suo autore, il messicano Jorge Volpi, era poco più che trentenne, fu oggetto di un’immediata traduzione italiana (a firma di Bruno Arpaia) e stampato in rapida successione da Mondadori in un pregevolissimo rilegato nel settembre dello stesso anno, ripreso a stretto giro da Mondolibri per i suoi soci e nell’ottobre del 2001 in edizione economica per la collana Oscar Bestsellers. Dopodiché, malgrado l’editore di Segrate abbia continuato a dedicare a Volpi l’attenzione che merita, dando alle stampe i successivi Non sarà la terra (2010) e Memoriale dell’inganno (2015), che nulla hanno a che fare con Klingsor, del suo libro d’esordio si perdono le tracce: nessuna ristampa, nessuna riedizione nelle collane tascabili della casa editrice, niente che possa ridare respiro a un lavoro che avrebbe giovato di una maggiore dedizione da parte del suo editore.
Non sono stato l’unico a incontrare difficoltà a reperirne una copia usata, come ho avuto modo di appurare nel seguito il libro appare e scompare dalle librerie on line con una certa costanza. È così che nel marzo di due anni fa sono entrato in possesso della mia copia, per la cifra vertiginosa di ben… 4,00 euro! Qualora voleste seguire le mie orme nell’impresa, non vi scombussolerà i piani sapere che su Amazon potrete rimediare la vostra copia a una somma poco più che doppia: non certo un salasso.
Volpi, il cui nome per esteso è Jorge Luis Volpi Escalante, oggi riconosciuto come uno degli autori dell’America Latina più influenti, nasce a Città del Messico il 10 luglio 1968 e negli anni Novanta è uno degli animatori della cosiddetta Generación del Crack, “un movimento di giovani scrittori e intellettuali deciso a segnare una rottura con la letteratura del Boom latinoamericano e in particolare con il realismo magico” (fonte: Treccani). Nel 1998 pubblica il saggio La imaginación y el poder, ma è l’anno successivo che si guadagna la notorietà internazionale con questo En busca de Klingsor, che gli ha richiesto cinque anni di ricerche e lavoro.
Ed è un riscontro, sia quello del pubblico che quello della critica, a dir poco meritato.
Se volessi concedermi un’iperbole, potrei accostare questo titolo a L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon (qui trovate un mio vecchio profilo dell’autore, con una rassegna dei capolavori che aveva pubblicato fino al 2005): l’uso metaforico della scienza, il gusto per le digressioni più o meno colte, un crescente senso di paranoia e un certo atteggiamento scanzonato e dissacrante nei confronti della materia trattata, sono tutti ingredienti che troviamo a piene mani nel postmodernismo, e a maggior ragione in quello che è considerato il suo culmine letterario, con cui In cerca di Klingsor condivide in parte anche l’ambientazione nella Germania nazista. A questo Volpi aggiunge una originale riflessione metanarrativa che lo spinge a imbastire una catena di paralleli che spazia dalle procedure investigative alla storiografia, sconfinando in una vera e propria teoria del romanzo giallo costruita a partire dagli strumenti della scienza del Novecento.
Fino a relativamente poco tempo fa, gli investigatori – i fisici – avevano a disposizione un ordinato manuale di tattiche per scovare delinquenti, scritto da un criminologo del XVII secolo chiamato Newton. Per decenni quel manuale ha funzionato alla perfezione, facendo scovare e punire i trasgressori. Sfortunatamente, l’elettrone è un criminale più astuto dei suoi predecessori e i metodi usati in precedenza non sono serviti a nulla quando si è cercato di catturarlo. Al suo confronto, gli antichi criminali erano banditi di second’ordine; diversamente da loro, l’elettrone non solo fugge e scompare, ma, nel farlo, infrange tutte le leggi conosciute. [pag. 337]
Il modello di Pynchon forse è un po’ contraddittorio per un autore che invitava gli autori messicani a guardare soprattutto alla letteratura del loro paese. Ma questa presa di posizione derivava in realtà da un progressivo allontanamento auspicato da Volpi e dagli altri autori della Generazione del Crack rispetto ai modelli (e agli stereotipi) della letteratura latinoamericana di successo. E non credo comunque che un autore possa sentirsi offeso da un accostamento alla figura di uno dei veri, autentici titani che hanno dominato la scena delle lettere dell’ultimo secolo.

In alto, da sinistra: John von Neumann, Albert Einstein, Georg Cantor, Kurt Gödel.
In basso, da sinistra: Max Planck, Niels Bohr, Erwin Schrödinger e Werner Heisenberg.
La trama, in estrema sintesi, prende le mosse dal programma nucleare del Terzo Reich per esplorare un’ipotesi romanzesca tanto suggestiva quanto inquietante: ovvero che durante le ultime fasi del regime, le ricerche scientifiche della Germania nazista fossero sotto il controllo di un unico misterioso individuo. Nelle trascrizioni delle audizioni dei gerarchi alla sbarra, il tenente Francis P. Bacon, ex studente di fisica, ex agente dell’OSS inviato in missione in Europa su consiglio di John von Neumann, appena giunto a Norimberga, legge: «Per ottenere i fondi, ogni progetto doveva avere il visto del consulente scientifico del Führer. Non sono mai riuscito a sapere chi fosse, ma si mormorava che si trattasse di una notissima personalità. Un uomo che godeva del favore della comunità scientifica e che si nascondeva sotto il nome di Klingsor» (pag. 37).
Bacon è incaricato di risalire all’identità di questo sfuggente plenipotenziario che avrebbe avuto un ruolo cruciale nei programmi di ricerca e, suo malgrado o forse no, nella sconfitta del regime. Siamo nell’ottobre del 1946 e inizia da qui una spirale narrativa che avvolge il lettore in un vortice dal movimento in principio ingannevolmente lento, ma che diventa presto inesorabile: le sue indagini si snoderanno avanti e indietro nel tempo, abbracciando un’epoca e uno spazio che si estendono dalla vita nel campus dell’Institute for Advanced Study di Princeton tra le due guerre alla Gottinga post-bellica, passando per il ruolo di Werner Heisenberg nel programma nucleare nazista e per il fallito attentato del 20 luglio 1944. La voce del narratore è quella di Gustav Links, un matematico tedesco (figura di fantasia), coinvolto nel programma nucleare e per questo reclutato da Bacon come consulente delle sue indagini. Links è in qualche modo l’eco dell’autore, che fa ripetutamente irruzione nel testo per commentare le azioni, le scelte, i comportamenti dei suoi personaggi, e il riflesso maturo e disincantato del giovane e sprovveduto Bacon, con cui intreccerà in un efficace contrappunto la propria storia personale.
I due, con i relativi limiti caratteriali che si trascinano dietro, formano sulla pagina una indimenticabile coppia di scienziati-investigatori, che offre il meglio quando devono sottoporre alla reciproca confutazione le rispettive ipotesi e teorie.

Il giardino del mago Klingsor, dal ciclo Parzival, Great Music Room, c.1883-84 (murale) di Christian Jank.
Abbastanza programmaticamente, le tre parti di cui si compone il romanzo si aprono con capitoli intitolati nell’ordine: Leggi del movimento narrativo, Leggi del moto criminale, Leggi del moto traditore. E, altrettanto ricorsivamente, si concludono con capitoli che fanno riferimento ai tre atti del Parsifal di Richard Wagner, l’ultimo dramma del compositore tedesco, in cui a Klingsor spetta il ruolo dell’antagonista nella contesa del Santo Graal. In mezzo, una valanga di spunti e di suggestioni, che comprendono: la figura enigmatica di Heisenberg, la sua rivalità con Erwin Schrödinger per la formalizzazione della fisica quantistica, il suo iniziale sodalizio con il fisico danese Niels Bohr e il loro successivo allontanamento causato dalla politica espansionista e dalla persecuzione antisemita della Germania nazista, verso cui Heisenberg tenne sempre un atteggiamento quanto meno ambivalente, il ribasso della sua popolarità a causa della Deutsche Physik di Johannes Stark, una campagna nel più ampio orizzonte della guerra dichiarata dal vecchio mondo della fisica alla nuova meccanica dei quanti, e decine di altre mirabili pagine dedicate alle figure di fisici e matematici. Tra le pagine di Volpi incontreremo anche un tormentato Max Planck, uno scanzonato Albert Einstein, un fugace ritratto di Georg Cantor e, impossibile da dimenticare, un Kurt Gödel che va in pezzi proprio nel bel mezzo di una conferenza a Princeton interrotta dalla furia incontenibile scatenata contro Bacon dalla sua promessa sposa, appena resasi conto della sua condotta libertina.
Alla fine, malgrado la sete di spiegazioni del lettore resti in parte insoddisfatta, le sue aspettative saranno al contrario ampiamente ripagate da una conclusione tanto spietata quanto logica, inevitabile conseguenza dei presupposti narrativi sapientemente tracciati fin dalla prima pagina e degli indizi disseminati lungo tutto l’arco del romanzo.
Mi scuserete, allora, se ricorro a questa odiosa volgarizzazione, ma in quei momenti non riuscivo a non pensare che il tenente Bacon e io eravamo in preda a qualcosa di molto simile al principio di indeterminazione. Poco importava, in fondo, se gli atomi non avevano molto a che fare con le nostre ricerche. Klingsor ci faceva sentire in un mare di dubbi. Stavamo seguendo la pista giusta? Si trattava di una trappola? O nemmeno di questo, ma solo di un semplice errore? E da lì in avanti le domande si sarebbero fatte sempre più ansiose e disperate. Potevamo fidarci degli altri? Irene era un’amante devota? E Bacon era un uomo fedele? Io dovevo continuare a credere nell’ingenuità e nella goffaggine di quell’uomo? Era prudente che lui seguisse le mie indicazioni? Stavo manipolandolo a mio favore, come diceva Irene? O era lei a manipolarlo? Chi giocava con chi? Chi tradiva chi? E perché? Eravamo, in un modo o nell’altro, pedine sulla scacchiera di Klingsor? O peggio, Klingsor era solo un’astrazione delle nostre menti, una proiezione della nostra incertezza, un modo di colmare il nostro vuoto? [pagg. 359-360]
Interrogativi a cui le ricerche di Bacon e Links forse non troveranno una risposta, ma che condurranno comunque i due a soddisfare le rispettive aspirazioni: l’inganno eterno, e l’eterno castigo.
Il soprannaturale è la controparte metafisica della follia, e ciò rende il genere dell’orrore soprannaturale il miglior veicolo possibile per esprimere l’incubo misterioso di una mente cosciente naufragata in questa casa infestata che è il mondo, e portata alla pazzia dal suo incredibile raccapriccio. Questo tipo di orrore non ha niente a che vedere con la disumanità dell’uomo verso l’uomo, ma è una demenza necessaria, un ordine superiore di bizzarria e desolazione incorporato nel sistema in cui noi tutti funzioniamo.
Tratto da Thomas Ligotti. Nato nella paura, a cura di Matt Cardin
(Il Saggiatore, 2019 – traduzione di Luca Fusari, pag. 95)
Il più grande sogno della letteratura del soprannaturale è rappresentare con il massimo grado di intensità l’immagine dell’universo come una sorta di incubo incantatore.
Su Quaderni d’Altri Tempi recensisco la raccolta delle interviste a Thomas Ligotti selezionate da Matt Cardin: Nato nella paura.
La visione di Ad Astra (James Gray, 2019), recentemente approdato nelle sale, mi ha riportato alla mente un paio dei temi già proposti in un altro film prodotto dalla Plan B Entertainment di Brad Pitt: The Tree of Life, l’ultimo grande film di Terrence Malick (2011). Il rapporto con i propri affetti, in particolare quello padre-figlio visto nel cambio di prospettiva che si accompagna alla crescita e al passaggio dall’infanzia all’età adulta, e l’incomunicabilità di fondo che si annida nelle nostre relazioni, erano infatti due dei punti cardinali che guidavano la rotta concettuale di Malick. Spulciando negli archivi dello Strano Attrattore ho quindi ritrovato questa vecchia recensione, che vi ripropongo qui in forma leggermente rivista, ma a cui vi rimando per l’approfondimento/confronto sviluppato nei commenti con Iguana Jo tra due modi sostanzialmente agli antipodi di apprezzare il film.
Palma d’oro al Festival di Cannes 2011, The Tree of Life arriva a sei anni di distanza dal precedente lavoro di Terrence Malick, The New World (2005), e precede di poco più di un anno il successivo To the Wonder (2012) a cui è legato da un gioco di riflessi e rimandi tematici ed estetici. Molto meno dei vent’anni intercorsi tra I giorni del cielo e La sottile linea rossa (1978-1998), con un infittirsi della produzione che denota da solo l’entrata del cineasta texano in una nuova fase della sua carriera. Sfuggente al pari di Stanley Kubrick, Malick ci regala un’opera impressionista di forte impatto visivo, che ha proprio nel sontuoso 2001: Odissea nello Spazio l’unico termine di paragone possibile nel cinema che lo ha preceduto. A onor di cronaca va detto che il confronto, ripetuto da più parti, nuoce soprattutto alla pellicola di Malick, non rendendo appieno giustizia a un’opera con l’ambizione di raccontare l’origine della vita e, forse, condensare in 138 minuti un tentativo personale – uno dei tanti possibili, ma qui con esiti sicuramente convincenti – di definirne il senso.
Le domande alla base del film sono le stesse che rincorrono l’uomo dalla notte dei tempi: chi siamo? Cosa ci facciamo al mondo? Cosa ci aspetta dopo? Quesiti filosofici contro cui ben più di un liceale (e se è per quello anche di un pensatore) ha sbattuto la testa, ma a Malick va riconosciuto l’indiscutibile merito di riproporli con un garbo che scongiura il rischio di degenerare nel facile didascalismo o nell’assolutismo dogmatico, risparmiando all’autore la trappola della retorica e allo spettatore quella della noia. Se 2001: Odissea nello Spazio può essere letto, tra le altre cose, come la storia della comparsa dell’intelligenza nel cosmo, proiettando la celebrazione della ragione verso un orizzonte transumano di fronte al quale l’uomo non può che uscire annichilito, The Tree of Life propone delle origini e del senso della vita una lettura che mi sento di definire più “empatica”.
In fondo a Kubrick poco interessava di condire di correlati emotivi la storia evolutiva della vita senziente, e il compito di appagare gli spiriti oltre alle menti viene interamente delegato agli effetti psichedelici oltre l’orbita di Giove e alle partiture sinfoniche della colonna sonora Malick si cimenta invece nell’operazione opposta: la parabola familiare degli O’Brien nella profonda provincia degli anni ‘50 (Waco, Texas) è il microcosmo che mette a fuoco il suo sguardo. Tra complicità, scoperte, dispetti, incomprensioni, conflitti, castighi, punizioni, frustrazioni, delusioni e disastri piccoli e grandi, perdite e lutti, la sua camera è l’occhio attentissimo di un osservatore che interagisce con i destini dei protagonisti, seguendone i movimenti a ogni passo, con piena e incondizionata partecipazione.
Le voci fuori campo del trio dei protagonisti (il signor O’Brien, la sua consorte e il loro primogenito Jack, a cui Sean Penn presta le fattezze da adulto) evidenziano l’importanza delle emozioni individuali come chiave interpretativa delle situazioni vissute. Lo spirtualismo panteistico di Malick risulta in questo modo proposto in maniera tutt’altro che invadente: il tema della fede – rappresentato attraverso la sua maturazione, la crisi, la riscoperta – si tinge perfino di sfumature laiche quando il tocco sapiente del regista, nelle sequenze oniriche che s’intensificano verso il finale, sembra ribadire che dopotutto l’atto di fede più grande che si possa chiedere a un essere umano è fidarsi – fino in fondo, fino all’ultimo – di un altro essere umano.
“Se non ami, la tua vita passerà in un lampo”, sostiene la figura materna della Signora O’Brien, personaggio centrale, un po’ musa e un po’ angelo, interpretata da Jessica Chastain. L’amore è l’unica ragione in grado di rallentare lo scorrere del tempo. E grazie all’amore, Jack ormai adulto rivive la sua personale scoperta del mondo e della vita da bambino attraverso il ricordo del fratello scomparso in guerra, contrastando quindi con la memoria il flusso inesorabile dell’universo. Le digressioni cosmiche fotografate da Douglas Trumbull (il maestro degli effetti speciali che da 2001 fino a Blade Runner ha dato forma, colore e sostanza al nostro immaginario fantascientifico), dal Big Bang alla comparsa della vita sulla Terra al procedere delle dinamiche siderali, inesorabili e incuranti delle disgrazie umane, riescono così ad amalgamarsi alla perfezione nella trama della narrazione, offrendo delle parentesi in cui il microcosmo individuale racchiude la complessità della dimensione macrocosmica, come se ognuno di noi non fosse altro che un frammento di un universo olografico.
“Esistono due vie per affrontare la vita”, annuncia sempre la voce fuori campo della signora O’Brien nelle prime battute del film: “La via della natura e la via della grazia”. Lei sceglie quella della grazia e plasma la sua esistenza su questo stampo. Non c’è dubbio su quale sia stata la scelta dello stesso Malick, che percorre dal primo all’ultimo minuto questo film escatologico che potremmo definire, con un po’ di audacia, come il primo film di un’ipotetica era post-connettivista, capace di tirare ponti e connessioni tra immaginario, scienza e metafisica senza lasciarsi imbrigliare dagli schemi di nessun genere in particolare. Ma andando oltre, ancora una volta al di là anche delle orbite dei satelliti di Giove.
Si direbbe che ci stiamo prendendo gusto. Dopo aver rielaborato un pezzo già uscito su Robot per il volume Filosofia della fantascienza (a cura di Andrea Tortoreto, Mimesis Edizioni), con Salvatore Proietti ci siamo candidati lo scorso anno rispondendo a questa call for papers della rivista di filosofia contemporanea Philosophy Kitchen, dedicata ancora una volta ai rapporti tra l’immaginario di fantascienza e la filosofia, proponendo un pezzo inedito sui modelli e le declinazioni del concetto di eterotopia (ed eterocronia) nella fantascienza contemporanea.
Il numero della rivista, a cura di Antonio Lucci e Mario Tirino, annunciato lo scorso anno, ha visto la luce l’altro giorno sotto il titolo denso di suggestioni di Filosofia e fantascienza. Spazi, tempi e mondi altri (può essere scaricata anche in un comodo PDF da questo link) e propone un sommario ricchissimo, con contributi – tra gli altri – di Adolfo Fattori (a cui devo un ringraziamento particolare per avermi segnalato l’iniziativa e avere insistito con garbo) e Gianluca Didino (che non vedo l’ora di leggere). Come scrivono i curatori nella loro introduzione:
Nel nostro piccolo, nel presente fascicolo di Philosophy Kitchen abbiamo cercato di portare ad evidenza, facendo “parlare” le narrazioni, alcuni nuclei di questo portato filosofico presente dietro alle narrative sci-fi. Tra i tanti tagli e approcci possibili, e tra le moltissime direttive presenti nelle suddette narrative fantascientifiche, ne abbiamo privilegiate due: una tematica e una mediologica. A livello mediologico abbiamo cercato di rendere il più possibile amplio lo spettro degli “strumenti del comunicare” analizzati, nella convinzione che i media digitali (in particolare cinema, videoclip, videogioco e serialità televisiva) offrano nuove, ed estremamente importanti, possibilità di sviluppo del conglomerato narrazione-medium-teoria che è al centro degli interessi di noi curatori. […] A livello tematico, appunto, abbiamo privilegiato la lente offerta della triade utopia/distopia/eterotopia, su cui abbiamo invitato a contribuire gli autori che compongono il presente numero. La dimensione spazio-temporale “altra” delle utopie e delle distopie, infatti, ci ha permesso di aprire il ventaglio di opzioni discorsive a nostra disposizione al fine di offrire visioni dell’umano e dell’umanità, dello spazio, del tempo e dell’interazione uomo-macchina, che sfuggissero (senza per questo mancare di rigore) alle griglie della forma-trattato e che aprissero scorci, e visioni, utili – di ritorno – a un sapere filosofico che non sia pregiudizialmente chiuso alle provocazioni della multimedialità e della narratività.
In particolare il nostro pezzo, che abbiamo voluto intitolare Altri spazi, in controtempo: letture e visioni dalle nuove frontiere della fantascienza (e che può essere scaricato anch’esso in PDF cliccando sul link), viene presentato dai curatori come “una lunga ricostruzione tanto teorica quanto attenta alla storia sia romanzesca quanto cinematografica della sci-fi“, volta a offrire “un panorama dei punti di forza teorici (il postumano, le utopie e le eterotopie) che nelle narrative di fantascienza saldano immaginario utopico e tensioni sovraumaniste, mirate alla ricerca di mondi altri e potenziamenti dell’umano”.
Sono poco meno di 9.000 parole e 60.000 battute, in cui a partire da Michel Foucault e Rosi Braidotti parliamo di Ursula K. Le Guin e Samuel R. Delany, di William Gibson e del cyberspazio (ma anche della Trilogia del Ponte), di Pat Cadigan e di Kim Stanley Robinson, di Blade Runner 2049 e di Westworld, di The Man in the High Castle e di tutto quello che siamo riusciti a infilare in queste 30 pagine corredate da una settantina di titoli in bibliografia. Per stuzzicarvi ulteriormente l’appetito, eccovi un abstract in italiano:
La dicotomia tra utopie e distopie in tempi recenti è stata sempre più spesso riveduta in forma di continuum, composto di visioni che vanno dal positivismo acritico al pessimismo apocalittico, e che affrontano il rapporto con la modernità e la postmodernità, e superata nella fantascienza degli ultimi decenni in costruzioni narrative definite di volta in volta come utopie o distopie critiche – affini alle eterotopie di Foucault.
A partire dal cyberspazio di William Gibson (Neuromancer, 1984), lo «spazio altro» per eccellenza in cui le coscienze disincarnate dei cowboy dell’interfaccia compiono le loro scorribande nei territori virtuali della nuova frontiera elettronica, le eterotopie di Michel Foucault ricevono un’attenzione crescente in letteratura come anche nel cinema e nella serialità televisiva.
Per una nuova generazione di autori e autrici, con il cyberspazio Gibson fornisce nuove formulazioni (già esplorate in Philip K. Dick) del confine tra natura e simulazione e sulla convergenza tra umano e artificiale, e in tempi recenti abbiamo visto l’eterotopia rinnovarsi continuamente e assumere forme sempre nuove. Gli ambienti urbani vanno dalla trilogia del Ponte di Gibson al collasso ecologico di Blade Runner 2049; i contesti spaziali rielaborano un topos classico come l’astronave generazionale in Paradises Lost di Ursula K. Le Guin, mentre in serie TV come Battlestar Galactica e Farscape l’astronave funge al contempo da microcosmo e da laboratorio politico e sociale; gli scenari planetari diventano un’epica futura nell’acclamata trilogia di Marte di Kim Stanley Robinson.
Insieme alla letteratura, nei media visivi è la serialità televisiva, piuttosto che il cinema, a riservare l’offerta più ricca e interessante, spaziando dal parco giochi tematico sul cui sfondo vediamo consumarsi gli effetti della Singolarità Tecnologica (Westworld) all’ucronia distopica in grado di sovvertire la rassicurante familiarità della storia (The Man in the High Castle).
In ambito letterario, negli ultimissimi anni autrici come Ann Leckie e Aliette De Bodard stanno contribuendo a ridefinire le coordinate dell’immaginario di genere, operando un’inattesa fusione degli scenari di più ampio respiro della space opera con una riflessione sui temi dell’identità e della persona, come anche della memoria storica e della tradizione.
L’intenzione di questo saggio è approfondire, anche alla luce delle più recenti elaborazioni teoriche e femministe sul postumano, le connessioni interne all’immaginario di genere e le risonanze che queste instaurano con i temi di più stringente attualità affrontati nel dibattito scientifico e filosofico di inizio secolo, dai cambiamenti climatici agli interrogativi etici sollevati dallo sviluppo delle intelligenze artificiali. Il nostro approccio rifiuta le macronarrazioni top-down prevalenti nella critica italiana e ci proponiamo, attraverso il loro superamento, di sviluppare un’analisi letteraria e culturale più rispettosa dell’autonomia del genere.
E a beneficio dei naviganti anglofoni che capitano da queste parti (e che negli ultimi tempi rappresentano misteriosamente il grosso del traffico del blog) ne riporto anche la traduzione in inglese:
The utopia-dystopia dichotomy, a continuum which may summarize the range of visions (from uncritical positivism to apocalyptic pessimism) vis-à-vis modernity and postmodernity, has been more and more challenged and superseded in the science fiction of the latest decades through narrative constructions variously described as critical utopias and dystopias – akin to Michel Foucault’s notion of heterotopia.
Starting with William Gibson’s 1984 Neuromancer, the «other space» par excellence in which the disembodied consciousness of interface cowboys perform their raids in the virtual territories of the new electronic frontier, heterotopias receive growing attention, in manifold variants across literature, film, and television.
For a new generation of authors, Gibson’s cyberspace has reformulated interrogations (already explored in Philip K. Dick) on the boundaries between nature and simulation, as well as on the convergence between the human and the artificial, and in recent times readers/viewers have witnessed heterotopias assuming new shapes, across all media. Urban environments range from Gibson’s Bridge trilogy to the eco-collapse of Blade Runner 2049; space-travel settings rework the classic motif of the generation starship in Ursula K. Le Guin’s Paradises Lost while in TV series such as Battlestar Galactica and Farscape, the spaceship is a microcosm and a socio-political testing ground; planetary scenarios become an epic of the future in Robinson’s own Mars trilogy.
Along with print fiction, among visual media television, rather than film, seems to provide the deepest sources of interest, from the theme park affected by the Technological Singularity in Westworld to the subversion of history’s reassuring familiarity in the dystopian alternate history of The Man in the High Castle.
In the very latest years, the original voices of women writers such as Ann Leckie and Aliette de Bodard are redefining the genre’s imaginary, with their fusion between far-future space opera and a meditation on identity, personhood, gender, memory, and tradition
In this essay, in the light as well of the recent theoretical and feminist work on the notion of the posthuman, we intend to explore the inner connections of the genre’s iconography as it resonated with some of the most urgent topics in contemporary scientific and theoretical debates, from climate change to the ethical debates raised by the emergence of artificial intelligences. Our approach, beyond all-too-frequent top-down macronarratives, is meant as a contribution to cultural-literary analysis that does not do away with respect for the genre’s own autonomy.
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