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La perfetta visualizzazione della Città dei Trasporti per come me l’ero immaginata dalle prime pagine di Babel-17. A firma di J (via Instagram).

“Questa città è un porto.”

Siamo entrati da alcune settimane in quel mood un po’ nostalgico che fin dalle estati della nostra giovinezza si accompagna alla fine delle esperienze in cui abbiamo a lungo investito in termini emotivi. Non è una questione facilmente riducibile in termini quantitativi: per quanto possano sembrare tante in termini assoluti, una ottantina di ore spese a guardare una serie TV o una saga cinematografica finiscono per essere molto diluite quando vengono spalmate su un arco temporale di una decina di anni, ma questo non ne riduce affatto l’impatto qualitativo, perché tra un episodio e il successivo, tra una stagione o una fase e quella che ci aspetta, abbiamo speso una quantità non facilmente misurabile di tempo a farci domande e a parlarne con altri appassionati (o potenziali appassionati tra cui fare proseliti), che ha inevitabilmente contribuito ad aumentare le nostre aspettative e con esse il nostro investimento in quel particolare universo narrativo.

Il nostro mood mentre la fine si avvicina… [Lyanna Mormont (Bella Ramsey) in Game of Thrones, courtesy of HBO]

Dopotutto, non credo che sia un’esagerazione affermare che siamo le storie di cui ci nutriamo. Quindi, mentre portiamo avanti la discussione sulle conclusioni di quelli che sono probabilmente i due fenomeni culturali di proporzioni più vaste di quest’ultimo decennio, mi sono inevitabilmente ritrovato a riflettere sui momenti tristemente noti come finali. Sia su Game of Thrones che sul Marvel Cinematic Universe si è ineluttabilmente pronunciato Emanuele Manco, tra i maggiori esperti italiani di entrambi, e sebbene condivida il suo giudizio solo in parte (e più sul primo che sul secondo) vi rimando alle sue disamine dell’episodio 3 dell’ottava stagione di Game of Thrones e di Avengers: Endgame senza dilungarmi oltre. In ogni caso sono stati dei bei viaggi e, come per tutti i viaggi, forse non è così importante quello che troviamo alla fine rispetto a tutto quello che abbiamo avuto modo di apprezzare e imparare nel frattempo, anche (e forse soprattutto) su noi stessi.

Il nostro mood quando una storia finisce… [Marvel Studios’ AVENGERS: ENDGAME: Rocket (voiced by Bradley Cooper) and Nebula (Karen Gillan). Photo: Film Frame ©Marvel Studios 2019]

Però prendendo spunto da questa stagione di grandi e attesi finali, più o meno epici, più o meno riusciti, ho pensato di proporvi una lista, ispirata anche da questo montaggio di CineFix, e quindi, fatta questa doverosa premessa per scaldare i motori, eccoci a parlare di cinque finali su cui ancora oggi, a distanza di anni e in alcuni casi di decenni, continuiamo ancora a parlare, su cui continuiamo a fare ipotesi, costruire castelli teorici e alimentare un dibattito che contribuisce a prolungare la vita delle opere stesse ben oltre i confini temporali della loro fruizione (il che è un po’ la missione di ogni fandom che si rispetti). Sentitevi liberi di aggiungere le vostre considerazioni (e altre graditissime segnalazioni) nei commenti.

E adesso partiamo.

5. 2001: Odissea nello spazio (regia Stanley Kubrick, tratto da un racconto di Arthur C. Clarke, 1968)

Il film che ha consacrato la dimensione leggendaria di un regista già di culto come Stanley Kubrick. L’astronauta David Bowman (Keir Dullea) raggiunge l’orbita di Giove, destinazione della missione Discovery di cui è l’unico membro sopravvissuto, oltrepassa la soglia del monolito che è l’obiettivo della spedizione e si ritrova a esplorare una dimensione interiore, uno spazio psichico e psichedelico. Negli anni della New Wave (il seminale articolo di J. G. Ballard Which Way to Inner Space? apparve sulla rivista New Worlds nel 1962), ecco la prima e più incisiva rappresentazione visiva della rivoluzione concettuale che stava vivendo l’immaginario non solo di genere, proprio mentre l’uomo si apprestava a sbarcare sulla Luna e davvero il futuro era lì a portata di mano. Proprio come Ballard, anche Kubrick e, abbastanza sorprendentemente, il veterano Clarke suggeriscono che le vere frontiere dell’esplorazione non ci attendono lì fuori, ma sono sepolte dentro di noi, e l’ignoto spazio profondo non fa che avvicinarci a questo inner space, sbattendoci in faccia la sua intrinseca inconoscibilità. Se non conosciamo bene noi stessi (chi siamo? da dove veniamo?) come possiamo pretendere di capire ciò che ci attende alla fine del cammino (dove stiamo volando?)? Cosa è diventato Bowman, alla fine del suo viaggio oltre l’infinito? Quali implicazioni avrà la sua metamorfosi per il futuro della Terra e dell’umanità? Per affinità e assonanze, aggiungiamo non solo per dovere di cronaca che questa menzione non può che tirarsi dietro, come spesso accade quando si cita Kubrick in ambito sci-fi, anche Andrej Tarkovskij e i suoi altrettanto fondamentali Solaris (1972, tratto dal romanzo omonimo di Stanisław Lem) e Stalker (1979, tratto dal romanzo dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij Picnic sul ciglio della strada).

4. Blade Runner (regia di Ridley Scott, tratto dal romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep? di Philip K. Dick, 1982)

Più umano dell’umano, è lo slogan che demarca il target delle nuove linee di replicanti messi a punto dalla Tyrell Corporation per assistere il programma coloniale extra-mondo. E i Nexus 6 in fuga dalle colonie spaziali, sbarcati sulla Terra per ottenere un prolungamento delle loro vite artificialmente limitate a una durata di soli quattro anni, sono davvero indistinguibili dagli esseri umani di cui sono la copia, se non per il fatto di vantare una resistenza e una forza fisica perfino superiori. Il cacciatore di taglie Rick Deckard (Harrison Ford), richiamato in servizio dall’LAPD per un’ultima missione, riuscirà fortunosamente ad avere la meglio e portare a casa la pelle, anche grazie al provvidenziale ripensamento del leader dei replicanti ribelli Roy Batty (Rutger Hauer). Tornato a casa, deciderà di lasciare la città con l’ultimo replicante, un esemplare fuori serie che lo stesso creatore non ha esitato a definire “speciale” (Rachael Rosen, interpretata da Sean Young). Alla fine gli interrogativi lasciati aperti dalla pellicola, anche per via di un refuso di sceneggiatura (che menziona sei replicanti ribelli, mentre quelli effettivamente presenti o citati nel prosieguo della pellicola sono solo cinque) e poi attraverso i successivi editing di Ridley Scott (con montaggi alternativi che hanno incluso nuove scene, rimosso il finale e la voce fuori campo e apportato altri aggiustamenti minori), vertono tanto sulla figura del cacciatore di taglie (Deckard stesso è un umano o il replicante mancante?) quanto dell’androide che porta in salvo (cos’è che rende davvero speciale Rachael?). Dopo la vasta letteratura di seguiti ufficiali partoriti da K. W. Jeter, a entrambi gli interrogativi prova a dare una risposta con esiti decisamente più convincenti il sequel cinematografico diretto da Denis Villeneuve nel 2017, Blade Runner 2049, che tuttavia lascia aperti ulteriori spazi di indagine e di speculazioni sulle colonie extra-mondo e sul vero ruolo dei replicanti nei piani del magnate Niander Wallace (Jared Leto).

3. C’era una volta in America (regia di Sergio Leone, tratto dal romanzo The Hoods di Harry Grey, 1984)

Un film su cui si sono spese forse altrettante pagine di congetture da rivaleggiare con 2001. L’ultima impresa di Sergio Leone, a cui richiese uno sforzo produttivo durato tredici anni (e dieci mesi di riprese in USA, Canada, Francia e Italia) e che pose di fatto fine alla sua carriera. Allo stesso tempo, è il coronamento dell’opera di un autore straordinario, forse unico nel panorama della cultura italiana del ‘900 per l’influenza che è stato in grado di esercitare sulla cinematografia mondiale (e non solo nel western o nel cinema stesso: pensiamo anche alla fantascienza e ai debiti letterari riconosciuti da autori del calibro di William Gibson), la migliore conclusione possibile per la seconda trilogia di Leone (dopo quella del dollaro, quella del tempo). Un omaggio anche all’immaginario americano, con gli Stati Uniti rappresentati per quel generatore di miti che in effetti sono stati, il motore dell’immaginario del ‘900.  “Una sfilata di fantasmi nello spazio incantato della memoria”, come ha scritto Morando Morandini nel suo Dizionario, ma anche “un sogno di sogni”, in cui “la memoria del singolo tende a dissolversi in quella di un intero paese” (come ha scritto invece Gian Piero Brunetta nel suo Cent’anni di cinema italiano). E un noir su cui, disorientati dal sofisticato meccanismo narrativo che combina caoticamente analessi e prolessi, non siamo ancora stati capaci di decidere se la storia che stiamo guardando sia frutto di una rievocazione o di una proiezione immaginaria. Ma alla fine, è davvero così importante sapere se Noodles (Robert De Niro) vivrà (ha vissuto) o no quei famosi trentacinque anni che gli sono stati rubati dal suo socio di un tempo Max (James Woods)? In che modo un furto di tempo e di vita può risultare diverso dall’altro? I fumi dell’oppio non aiutano a fare chiarezza, ma continuano ad alimentare l’incanto di una pellicola che c’incolla allo schermo con la densità stilistica compressa in ogni singolo fotogramma.

2. Inception (scritto e diretto da Christopher Nolan, 2010)

Da un sogno di sogni a un altro, Inception è il film che probabilmente ha alimentato le discussioni più lunghe in quest’ultimo decennio, generando una quantità di infografiche esplicative che hanno cercato di districarne l’intreccio (forse l’unico film a poter rivaleggiare in questo con Primer di Shane Carruth). Tra il secondo e il terzo capitolo della trilogia dedicata al Cavaliere Oscuro, Christopher Nolan torna a coltivare il suo amore per le architetture narrative sofisticate e chiude il decennio della sua consacrazione autoriale così come lo aveva iniziato nel 2000 con Memento. Il film è un sogno ricorsivo che deve molto anche alla letteratura di fantascienza (non ultimo Roger Zelazny), ma con quel tocco personale che rende inconfondibili i film del regista londinese. Dominic Cobb (Leonardo Di Caprio) è un ladro psichico capace di estrarre segreti preziosi dalla mente dei suoi bersagli, ma un giorno viene arruolato da Mr. Saito (Ken Watanabe) per tentare un’operazione inedita: innestare un’idea nella testa dell’erede dell’impero finanziario con cui è in competizione. Per portare a termine l’impresa, Cobb progetta un meccanismo di sogni condivisi annidati a più livelli di profondità e arruola una squadra di professionisti, ma la missione lo pone davanti a ostacoli sempre maggiori, non ultimo l’interferenza del ricordo della defunta moglie Mal (Marion Cotillard). L’unico modo che hanno i sognatori per distinguere tra la realtà e il sogno è affidandosi a un totem, che nel caso di Cobb è una trottola metallica: in un sogno, non essendo soggetta alle leggi fisiche della gravità, contrariamente a quanto accade nel mondo reale la trottola è destinata a girare all’infinito. Quando alla fine Cobb riesce a tornare dai suoi figli, ricompensa per la buona riuscita dell’incarico, vuole avere la certezza che non sia ancora intrappolato nel limbo in cui è dovuto addentrarsi per salvare Mr. Saito, ma quando abbraccia i bambini la trottola sta ancora girando. Cobb si è davvero svegliato dal sogno o è ancora intrappolato nel limbo?

1. True Detective (ideato da Nic Pizzolatto, 3 stagioni, 2014 – in produzione)

Serie antologica della HBO, True Detective ha esordito nel 2014 con una stagione memorabile che si è indelebilmente impressa nella nostra memoria di spettatori grazie alle interpretazioni di Matthew McConaughey e Woody Harrelson e a una scrittura fortemente debitrice delle suggestioni horror e delle vertigini cosmiche dei maestri del weird, da Robert W. Chambers e H. P. Lovecraft fino a Thomas Ligotti. Una seconda stagione un po’ sottotono e incapace di tener fede alle altissime aspettative sembrava averla condannata al limbo delle produzioni cinetelevisive, ma nel 2018 una terza stagione (forte delle interpretazioni di Mahershala Ali, Stephen Dorff e Carmen Ejogo) si è dimostrata capace di rinverdire i fasti degli esordi (ne abbiamo parlato diffusamente anche su queste pagine). Come la prima stagione, anche quest’ultima ha uno dei suoi punti di forza nell’atteso twist finale e in entrambi i casi le implicazioni sottese alle scelte di sceneggiatura e regia hanno innescato una ridda di ipotesi e suggestioni. Cosa vede davvero Rustin Cohle pugnalato a morte dal Re Giallo? E Wayne “Purple” Hays riconosce o no Julie Purcell nella madre a cui riesce a risalire dopo decenni di indagini e solo ora che le sue facoltà cognitive sono irrimediabilmente compromesse dall’Alzheimer? Cos’è la giungla in cui si ritrova a vagare nella notte, come ai tempi delle sue missioni in Vietnam come recog? Un finale in grado di richiamare altri grandi classici della recente serialità televisiva, non ultimo la popolare Life on Mars prodotta dalla BBC, i cui enigmi sono poi stati sciolti nella successiva Ashes to Ashes.

Nuove Eterotopie reca un sottotitolo altisonante ma abbastanza ingannevole: “l’antologia definitiva del connettivismo“. Ora, sappiamo tutti quanto i proclami siano per loro natura destinati a essere smentiti dalla realtà, e quel sottotitolo non fa eccezione: esprime in forma scaramantica tutta la nostra volontà (dei curatori, certo, ma siamo abbastanza sicuri anche di tutti gli autori coinvolti nel connettivismo, oltre che dell’editore stesso) di andare avanti almeno per altri dieci anni.

In effetti, lavorando a questo libro con Sandro Battisti, ci siamo resi conto della mole sterminata di lavori di ottima qualità che avrebbero meritato di essere inclusi in un best of come questa antologia in fondo aspira a essere. Niente di meglio, quindi, per guardare con fiducia ai prossimi dieci anni in cui abbiamo già messo un piede. Nuove Eterotopie può pertanto presentarsi come una vetrina e allo stesso tempo una porta spalancata su un movimento ancora in fieri, un work in progress che va avanti da 13 anni e che non ha nessuna intenzione di lasciarsi imbalsamare per essere esposto in un museo. Gli autori e le autrici che lavorano con noi, coinvolti nei numerosi progetti della pipeline editoriale della Kipple Officina Libraria, devono quindi sentirsi investiti e sfidati a dare il loro meglio in maniera da rendere ancora più complicate le scelte dei prossimi curatori per un’eventuale – ma nemmeno troppo ipotetica a questo punto – futura raccolta (chiamiamola pure Nuove Eterotopie 2, ma avremmo già un titolo d’impatto, nel caso, e questo titolo non potrebbe essere che Nuove Eterocronie!).

Ma adesso è di Nuove Eterotopie che vorrei parlarvi, riprendendo il discorso iniziato in occasione della presentazione del volume tenutasi a Stranimondi.

Innanzitutto, perché Nuove Eterotopie? Il titolo è un omaggio, neanche a dirlo, a Samuel R. Delany, che scelse di intitolare uno dei suoi romanzi più ambiziosi e rappresentativi Trouble on Triton: An Ambiguous Heterotopia (1976). Benché il libro sia stato poi ripetutamente dato alle stampe con il titolo più immediato e sintetico di Triton, la scelta originaria di Delany denunciava la sua intenzione di proseguire il discorso iniziato da Ursula K. Le Guin con il suo capolavoro del 1974 The Dispossessed (in italiano I reietti dell’altro pianeta, ma anche Quelli di Anarres), sottotitolato An Ambiguous Utopia. E non è un caso se sia Delany che Le Guin, voci fuori dal coro di una letteratura di idee dalla forte carica politica e dalla convinta vocazione a infrangere gli schemi precostituiti, potrebbero essere visti come due dei più significativi numi tutelari di tutta questa operazione che va sotto il nome di connettivismo.

Ovviamente, la parola eterotopia, che come spiega Wikipedia sta tanto per “altro spazio” quanto per “spazio delle diversità“, è un prestito dal filosofo francese e “archeologo dei saperi” Michel Foucault, che per primo adottò il termine nel suo saggio del 1967 Spazi Altri per descrivere quei luoghi che si pongono al di là delle convenzioni sociali stabilite, o – citando testualmente – “quegli spazi connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi designano, riflettono o rispecchiano“. Secondo Foucault la storia della civiltà inanella fin dalle società primitive esempi di eterotopie, che continuano a sopravvivere nelle nostre società moderne e postmoderne in forme sempre diverse: come eterotopie di crisi (esempi ne sono i collegi e le caserme), come eterotopie di deviazione (ospizi e ospedali), o come repliche delle nostre città (quali l’altra città per definizione, ovvero il cimitero, in cui vengono trasferiti al sopraggiungere del passaggio finale gli abitanti della città dei vivi, oppure le colonie delle potenze europee in Africa o America Latina, con gli spazi che replicano fedelmente lo schema degli equilibri dei poteri coinvolti – l’autorità coloniale e la Chiesa – e i tempi della giornata che vengono da questi rigorosamente scanditi).

Ma le eterotopie che ci circondano sono innumerevoli e comprendono anche le prigioni, i manicomi, i giardini, le camere d’albergo, i treni, e in qualche misura si sovrappongono ai nonluoghi teorizzati dall’antropologo ed etnologo Marc Augé (anch’egli francese) per definire quegli spazi con la prerogativa di non essere identitari, relazionali o storici: le stazioni, gli aeroporti, i centri commerciali. I più attenti di voi avranno notato le numerose affinità con alcuni degli spazi evocati nel nostro manifesto. Nel suo saggio, Foucault fa un esempio ancora più illuminante per spiegare l’eterotopia, mettendola in relazione appunto con l’idea a noi più familiare di utopia. Le utopie sono consolatorie, le eterotopie inquietanti: “minano segretamente il linguaggio”, “spezzano e aggrovigliano i luoghi comuni”. Come capita con le immagini che vediamo riflesse in uno specchio, in cui ci vediamo dove non siamo.

Quella sugli spazi è una riflessione che coinvolge la fantascienza fin dalle origini. Con le utopie, certo, ma poi anche con la contrapposizione in chiave New Wave tra inner space (lo spazio interno ballardiano) e outer space (la frontiera esterna dell’esplorazione spaziale), declinata da J. G. Ballard nel saggio Which Way to Inner Space pubblicato da Michael Moorcock nel 1962 sul numero di maggio di New Worlds. Per proseguire poi sulla frontiera elettronica del cyberspazio, portato alla ribalta all’inizio degli anni ’80 dagli autori cyberpunk. E se i racconti e i romanzi di William Gibson, il futuro informatizzato che prende forma nelle pagine di Neuromancer (1984) e Burning Chrome (1986), sono il principale motivo per cui mi sarei trovato, qualche anno dopo aver letto e riletto i suoi lavori, a scriverne di miei sulla stessa falsariga, se c’è una comune passione che ha decretato la convergenza del mio personale cammino con il percorso artistico di Sandro Battisti prima, e poi di Marco Milani, è stata senza ombra di dubbio quella per i rutilanti scenari postumani dipinti da Bruce Sterling nel suo ciclo della Matrice Spezzata (Schismatrix, 1985). Sterling è stato uno dei capifila della nuova fantascienza degli anni ’80, riconosciuto presto come il teorico del movimento sia per il lavoro con la zine Cheap Truth, sia per la sua sintesi come curatore dell’antologia-manifesto del cyberpunk, Mirrorshades (1986). Ma la sua carica non si è esaurita in quel decennio, continuando a esercitare un’influenza magmatica anche sui decenni successivi, attraverso la transizione dal cyberpunk al post-cyberpunk (e di qui a tutto il filone postumanista), attraverso le sue incursioni in altri territori contigui come lo steampunk o lo slipstream, per non parlare dei suoi progetti collaterali come il Dead Media Project o il Viridian Design Movement (date un’occhiata alla sua pagina su Wikipedia per credere). In definitiva, non potevamo chiedere un regalo migliore per un’antologia come Nuove Eterotopie di un contributo di Sterling, e se avevamo qualche timore nel chiedergli una postfazione, siamo rimasti sbigottiti quando è stato lui stesso a proporci di sua iniziativa di contribuire con il suo primo racconto connettivista!

Sterling ha avuto fin dall’inizio parole molto lusinghiere per il nostro lavoro, ma forse niente batte le sue considerazioni sulla nostra consapevolezza sul mondo in cui viviamo. E in effetti, se c’è una cosa che ci ha distinti fin dall’inizio, è stata proprio quella di scrivere come se il cyberpunk fosse accaduto sul serio, e come se dopo la singolarità del cyberpunk fosse esplosa la galassia del post-cyberpunk, che sono tutte cose accidentalmente successe davvero, mentre alla metà del decennio scorso ci sembrava che molti intorno a noi volessero fingere a tutti i costi che non fossero mai capitate. I connettivisti si sono impegnati fin da subito in uno sforzo comune di sintesi, cercando di mettere in relazione approcci anche molto diversi tra di loro, ma che condividevano un interesse di fondo per l’altro, quello che oggi – con una parola forse inflazionata – viene fatto ricadere sotto l’ombrello della diversità. Abbiamo sempre rivendicato il valore della diversità come ricchezza: formalmente, con la nostra attitudine alle contaminazioni di genere (con il noir e l’horror, per esempio, ma anche con il romance, il weird, e da qualche anno con un progetto di infiltrazione del mainstream attraverso quelle espressioni che potremmo ricondurre a un ideale di fantascienza ripotenziata, vale a dire quella fantascienza ridotta all’essenza del suo immaginario di riferimento e applicata a una dimensione meno epica e più umana); e tematicamente, con la nostra curiosità per tutto ciò che si muove sulla frontiera dell’immaginario, come testimoniano anche le nostre frequenti incursioni nel campo del postumano, quando non proprio del post-biologico.

Eterotopie, in relazione a tutto questo, ci sembrava davvero il termine più appropriato per descrivere lo spazio in cui si sono sviluppate le traiettorie delle nostre ricerche, analisi, esplorazioni e proiezioni, tutto quello che generalmente e genericamente facciamo passare sotto la parola di “scritture”. Non mi soffermo sui singoli racconti inclusi nell’antologia, ma ci tengo a sottolineare che nella reciproca diversità provano le differenze nell’approccio seguito da ogni singolo autore, e allo stesso tempo risuonano tra di loro attraverso gli echi reiterati di sensibilità comuni e comuni passioni. Questo in fondo è quello che il connettivismo ha voluto essere fin dalla sua nascita: un laboratorio, un incubatore, un terreno di coltura su cui far fiorire idee aliene, sforzandoci di coinvolgere anche autori che mai e poi mai vorrebbero essere incasellati sotto un’etichetta. Questo è quello che facciamo.

Nel saggio citato di Foucault, non a caso le eterotopie fornivano il gancio per parlare anche di eterocronie, in merito a quei luoghi in cui il tempo si accumula all’infinito (musei e biblioteche, per esempio) oppure viene sospeso ed esaltato nelle sue manifestazioni più futili (i luna park, altro esempio di convergenza con i nonluoghi di Augé). Il nonluogo in cui l’eterotopia si fonde idealmente con l’eterocronia, in cui il tempo si ripiega sullo spazio e annulla ogni distanza, è il non-spazio in cui tutto si svolge in tempo reale, la perfetta sintesi di eterotopia/eterocronia della nostra epoca, qualcosa che Foucault non poteva immaginare e che non ha fatto in tempo a vedere: Internet, lo specchio del mondo in cui viviamo. E questo ci fornisce l’occasione per parlare un po’ anche delle nostre origini, perché senza il web difficilmente ci sarebbe stato il connettivismo, e quindi difficilmente avrebbe potuto esistere un’antologia come Nuove Eterotopie o come tutte quelle che l’hanno preceduta.

I primi connettivisti solevano riunirsi intorno al primo storico blog di Sandro Battisti, Cybergoth, ospitato dalla piattaforma ormai dismessa di Splinder. Un blog che brillava come un faro nella notte quanto i social network erano al più l’embrione di un sogno notturno ancora ben lontano dall’avverarsi, e su cui ci ritrovavamo a-periodicamente per svolgere delle vere e proprie sessioni di scrittura istantanea nello stile delle jam session da cui prese forma il bebop, non a caso richiamato come ideale parallelo culturale anche dagli autori cyberpunk. E con la rete siamo maturati, stringendo connessioni, consolidando legami, esplorando orizzonti che in assenza di questa potente mediazione tecnologica non avremmo mai potuto conoscere. Siamo forse il primo movimento nato nell’era del web, di certo il primo in Italia, e siamo ancora qui dopo tutti questi anni. Non abbiamo intenzione di sparire, quindi sentitevi liberi di trattarci come un fenomeno reale.

 Foto di Marcus Broad Bean, al cui reportage sulla nostra presentazione a Stranimondi rimando per una versione altrettanto appassionata, ma più lucida e meno coinvolta, sul progetto connettivista.

 

UC148_Beta-2Con colpevolissimo e ingiustificato ritardo, vi segnalo l’uscita, ormai da un paio di settimane, del nuovo numero di Quaderni d’Altri Tempi, con l’intervento che vi avevo annunciato su Samuel R. Delany e La Ballata di Beta-2: s’intitola in maniera un po’ altisonante, ma consistente con l’argomento di fondo del romanzo, che può essere letto come una trasposizione della narrazione cristiana della Passione. Il libro contiene, come sempre accade con Delany, anche molto di più.

Anche questo numero di QdAT contiene molto di più. Non ho ancora finito di leggerlo, ma spulciando nel sommario ne troverete sicuramente a sufficienza da soddisfare i vostri gusti. Personalmente, ho davvero molto apprezzato le riflessioni di Roberto Paura e Valerio Pellegrini innescate da due dei migliori film dell’ultima stagione, rispettivamente Ex Machina (di cui mi riprometto di parlarvi a mia volta) e Mad Max: Fury Road.

Concludo invitando chi si fosse lasciato sfuggire il romanzo di Delany in edicola a recuperarlo in formato elettronico (per esempio qui). Gli e-book sono la salvezza dell’appassionato e questa ne è la prova.

E adesso che abbiamo messo una toppa anche su questa triste vicenda dei cookie, proviamo a riprendere anche le trasmissioni. Dopo un paio di mesi vissuti intensamente sul piano personale, mi preme aggiornarvi sulle ultime uscite che mi interessano da vicino. Partiamo con una riedizione, e proseguiamo con due inediti.

La riedizione riguarda Riti di passaggio: uscito lo scorso autunno inFF_Storie_dal_futuro_ebook e-book sotto il marchio Future Fiction, che si sta facendo molto apprezzare in Italia e non solo, il racconto, sempre disponibile sugli store on-line, è stato anche incluso nell’antologia che raccoglie in un unico volume le opere uscite nel corso del 2014 nella collana digitale curata da Francesco Verso e Francesco Mantovani. Storie dal domani rappresenta una ghiotta occasione per avere in un unico volume le storie pubblicate da Future Fiction, con racconti a firma di pesi massimi del calibro di Robert J. Sawyer, Ian McDonald, James Patrick Kelly, Paul McAuley e David Marusek, senza dimenticare gli autori non anglosassoni che la collana sta contribuendo a far apprezzare anche al pubblico italiano: il nigeriano Efe Tobunko, il romeno Cristian M. Teodorescu e il greco Michalis Manolios. Storie dal domani è acquistabile sia in cartaceo (prezzo di copertina 16,50 euro) che in e-book (ePub o mobi, per 4,99 euro).

FF_Storie_dal_futuro
Veniamo quindi al primo inedito. L’antologia Il prezzo del futuro, curata da Gian Filippo Pizzo e Vittorio Catani per i tipi di La Ponga Edizioni, raccoglie quindici racconti incardinati su un unico tema, per quanto ampio e declinabile secondo molteplici sensibilità: l’economia del domani. Dalla prefazione a firma di Valerio Evangelisti:

La fantascienza è un genere letterario “massimalista”, per cui può avere per oggetto interi sistemi politici, economici e sociali. La fantascienza è anche un genere che, quando parla del futuro, molte volte allude al nostro presente, lo distorce, lo satireggia, lo critica.

Da queste due premesse discende questa antologia di racconti di fs a sfondo economico. Ci si pensi: sarebbe stata possibile una raccolta del genere, e di tale forza, nel quadro della narrativa corrente, o di altri filoni della cosiddetta “paraletteratura”? No, è evidente. Lo spazio sarebbe stato troppo limitato. Tanti romanzi senza etichetta, o fin troppo etichettati, mettono in scena l’economia. Ma si tratta di singoli aspetti, di ricadute localizzate o individuali.

Solo la fantascienza può rendere protagonista l’economia tutta intera, e affrontare più problemi alla volta fino a delineare uno scenario completo. Gian Filippo Pizzo e Vittorio Catani (che in “fantaeconomia” è particolarmente versato, come si nota dalla sua bibliografia) hanno confezionato una summa destinata a rimanere in vista sugli scaffali domestici, per complessità e intelligenza. Una chiave per leggere, sotto forma appena appena allegorica, i tempi che stiamo vivendo e quelli che verranno.

Tutti autori italiani, e non a caso: l’Italia è tra le vittime di una crisi finanziaria che non pare avere fine, cui si risponde con soluzioni arruffate e discutibili. In un tale contesto, la fantascienza lancia, con questo volume, la sua sfida volutamente arrogante al resto della narrativa, e soprattutto a quella mainstream. Noi, i presunti sognatori volti al futuro, ci occupiamo di ciò che ci accade attorno. E voi, i supposti realisti, che fate?

Su Carmilla on line potete inoltre leggere l’introduzione di Pizzo.

Nel mio racconto In caduta libera mi sono “divertito” (si fa per dire) a immaginare una storia di rivendicazioni sindacali sullo sfondo di un cantiere orbitale. La colonizzazione spaziale innesca le contraddizioni intrinseche del turbocapitalismo e nelle linee lasciate scoperte s’insinua il germe della rivolta, se non proprio dell’utopia. Quello che mi sono soprattutto sbizzarrito a manipolare è la gloriosa tradizione dell’anarcosindacalismo americano, con i wobblies della Industrial Workers of the World (ricordate One Big Union proprio del magister Evangelisti?) che confluiscono in una nuova federazione: la Industrial Workers of the Solar System.

Anche in questo caso il libro è disponibile sia in edizione cartacea (prezzo di copertina 16,90 euro) che digitale (a 4,49 euro).

LaPonga_Prezzo_del_futuro

E completiamo questa breve rassegna con un volume da poco giunto in edicola. Si tratta di un classico della New Wave, firmato da Roger Zelazny, un maestro visionario e poliedrico, lucido anticipatore di temi che sarebbero diventati maggioritari decenni più tardi, e anche per questo gigante tra i più lungimiranti che hanno dato il loro apporto negli anni ’60 alla maturazione della fantascienza. Il romanzo s’intitola Il signore dei sogni e risale proprio a quella fortunatissima stagione. Alcune immagini di Blade Runner e Inception (ma non solo), a distanza di anni, mi sembrano ancora ispirate alle sue descrizioni. Ne parlavo in maniera più circostanziata la bellezza di sette anni fa su Next Station. Ma anche se mi sembra trascorsa un’epoca geologica e più da allora, ricordo ancora il carattere innovativo della lettura, a dimostrazione della sua persistenza.

Cosa c’entro io con Zelazny? È presto detto. Il volume pubblicato da Urania Collezione, che rimarrà in edicola ancora per una settimana o due (quindi, consiglio interessato, affrettatevi a recuperare la vostra copia se siete ancora affezionati alla carta), include in appendice un romanzo breve firmato dal sottoscritto in collaborazione con Lanfranco Fabriani, un veterano che non ha certo bisogno di presentazioni. S’intitola YouWorld e fa chiaramente il verso alla piattaforma di video sharing che ha aperto la strada ai nuovi consumi delle nostre vite digitali, sociali o solitarie. Si tratta di una storia nata su un terreno abbastanza distante dai percorsi narrativi che ci erano familiari, e penso di poter parlare anche a nome del mio socio, anche se mi auguro di tornarci sopra nei prossimi giorni per poter mettere a pubblico confronto le nostre rispettive esperienze.

Se siete in cerca di etichette per classificare un lavoro di questo tipo, penso che fantascienza sociologica, postcyberpunk, satira di costume, postmoderno e action thriller siano tutte, ciascuna alla sua maniera, adatte allo scopo. Ci sono delle Intelligenze Artificiali stanche di farsi sfruttare dalla società dello spettacolo 2.0. C’è un citazionismo che mi auguro troverete simpatico. E soprattutto ci sono un bel ritmo e tante sorprese. È stato divertente, per quanto faticoso, scriverlo. Ma credo che la lettura possa risultare altrettanto divertente, e sicuramente meno faticosa. Ma solo voi potrete dircelo.

Il libro è in edicola fino alla prima decade di luglio al prezzo di 6,50 euro e in e-book a 3,99 euro.

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In un articolo bellissimo ed essenziale di Vittorio Catani, apparso su Delos lo scorso anno, trovo illustrate idee, a sostegno di una visione specifica della fantascienza e del romanzo contemporaneo, che mi trovano del tutto d’accordo. Si parla di livelli di comprensibilità e veridicità del genere, ed è indiscutibile che molte delle difficoltà con cui la fantascienza si ritrova a fare i conti presso i lettori derivano proprio dalle sue caratteristiche intrinseche.

Rendere credibile uno scenario futuro o comunque alternativo impone una serie di scelte e obbliga alla ricerca di un equilibrio. In casi limite, come il racconto di futuri più o meno remoti o di universi paralleli, comprensibilità e veridicità possono giocare l’una a scapito dell’altra: più la storia si attiene a principi di veridicità, più risulterà aliena all’esperienza comune del lettore, a scapito quindi della comprensibilità; di contro, più ci si sforzerà di essere comprensibili, fruibili, a vantaggio del misterioso profilo di un lettore standard (ingiustamente livellato verso il basso per il pregiudizio editoriale legato alla spendibilità commerciale dell’opera), minori pretese di veridicità si potranno nutrire.

La necessità di risultare comprensibili non dovrebbe mai venire meno in un’opera letteraria, che per definizione nasce come canale di comunicazione tra l’autore e i lettori. Tuttavia non bisognerebbe nemmeno essere troppo facilmente disposti a mettere da parte i criteri di veridicità a beneficio di una presunta maggiore fruibilità dell’opera. È un dilemma familiare a ogni scrittore di fantascienza. E anche in relazione al discorso sullo straniamento culturale che facevamo qualche giorno fa, trovo illuminanti le parole di Norman Spinrad con cui Catani conclude l’articolo:

Ciò che tutti questi scrittori hanno in comune è il fatto di lavorare in modo del tutto indipendente e al di fuori di qualsiasi influenza massificante (…) Di tutti i movimenti letterari possibili, quello che comporta uno spostamento verso sempre più ampie diversità di stile, tematiche, forma e filosofia, sarà sempre il più difficile da accettare per i tradizionalisti (…) In fondo la New Wave non è una vera e propria corrente, ma una eterna marea antica quanto l’anima dell’uomo.

Parole che volendo potrebbero avere una risonanza ancora più vasta.

Giovanni Agnoloni ha sintetizzato per PostPopuli alcune sue riflessioni sull’Altro, che presto confluiranno in un saggio più strutturato sul connettivismo, conducendo una panoramica su Corpi spenti e la serie della psicografia in cui si inserisce. Con l’occasione mi ha rivolto anche alcune domande su argomenti di cui si è molto discusso in rete – anche da queste parti – negli ultimi tempi: i “realisti di una realtà più grande” di Ursula K. Le Guin, il congresso di futurologia e lo stato della fantascienza in Italia. E così l’articolo è diventato una sorta di termometro della situazione. Ve lo consiglio anche per questo.

Eccone un estratto:

In un nostro recente scambio di battute su FB – a seguito del suo articolo uscito su Holonomikon – hai sottolineato come il Connettivismo si fondi sulla sostanziale compresenza (o, eventualmente, sull’alternanza) di generi diversi, fusi però in un’unica sensibilità capace di proiettarsi anche su un orizzonte narrativo mainstream. Si può dire che il movimento stia cercando di evolversi in una direzione che vada oltre certe resistenze “passatiste” della produzione strettamente fantascientifica italiana, che evocavi nel tuo articolo?

Ho sempre creduto che la cosa importante fosse evitare di fossilizzarci. Per restare in ambito fantascientifico, la mia prima grande passione è stato il cyberpunk: dai quindici anni in poi ho cercato di acciuffare qualsiasi cosa fosse stata pubblicata in Italia di riconducibile a questa corrente letteraria. Ho accumulato decine di libri e li ho divorati tutti, leggendoli più e più volte. Ma per mia fortuna, quando ho scoperto il movimento di Gibson e soci, Bruce Sterling ne aveva già certificato la morte da quattro o cinque anni. La scena del crimine, quando sono arrivato io, era già fredda… Così ho potuto spingermi in esplorazione, fuori dal filone, e sai cosa ho trovato? Altre fonti di meraviglia che hanno acceso altre passioni: Philip K. Dick, per cominciare; e poi Samuel R. Delany, J.G. Ballard e gli altri protagonisti della New Wave; e poi Alfred Bester, Fritz Leiber, Frederik Pohl e gli altri padri ispiratori del genere. E, tra gli italiani, Valerio Evangelisti, Vittorio Catani, Vittorio Curtoni, Lino Aldani

Tra gli utenti del fandom di SF attivi in rete, c’è un certo numero di nostalgici che rimpiangono un’età dell’oro perduta: la cara vecchia space opera, le storie semplici e accattivanti di una volta, i protagonisti tutti d’un pezzo, e non so che altro. Non credo che siano la frangia più numerosa del fandom (figuriamoci dell’intero bacino di lettori di fantascienza, di cui il fandom rappresenta solo la punta dell’iceberg), ma di sicuro è la più rumorosa. Scalpita, recrimina, rivendica un ritorno a stagioni della nostra storia che purtroppo per i loro sogni non si ripeteranno mai più. Come non si ripeterà più il decennio del cyberpunk. Ma questo non vuol certo dire che in futuro non ci saranno correnti e filoni altrettanto vitali e interessanti.

Già adesso nel mondo anglosassone si parla di una nuova Golden Age: lo hanno fatto quest’anno gli editori e gli addetti ai lavori riuniti a Londra in occasione della WorldCon. Si guarda con interesse ad altre culture, grazie al fatto che la società americana e quella britannica, di fatto le culle della science fiction, acuiscono sempre di più i loro tratti multietnici. E si guarda con uguale interesse al tema dei diritti civili, che dal femminismo in avanti non ha mai conosciuto battute d’arresto. Solo qui in Italia possiamo trovare gente che si permette di fare la voce grossa guardando al passato, senza che si inneschi un moto di risposta collettivo che riesca a isolare e far risaltare l’insulsaggine di queste pretese.

Con il connettivismo abbiamo messo in piedi un tentativo in questa direzione. E l’idea di cristallizzarci in uno schema imitativo (sia pure di noi stessi) non ci sfiora nemmeno. Quest’anno varchiamo l’orizzonte dei dieci anni. Era una notte di dicembre del 2004, quando quest’oscuro congegno si mise in moto. Chi l’avrebbe detto che dieci anni dopo saremmo stati ancora qui (con Sandro Battisti, Marco Milani e un gruppo sempre più numeroso di amici acquisiti per strada, tutti animati dalla stessa passione) a parlare di fantascienza e a proporre progetti per il futuro?

Charlie Jane Anders ha appena lanciato dalle colonne di io9, probabilmente la piattaforma dedicata alla fantascienza più

English: Photo of Charlie Jane Anders, photo b...

English: Photo of Charlie Jane Anders, photo by Gregory Bartning (Photo credit: Wikipedia)

popolare al mondo, un’idea che ha un po’ il sapore di una provocazione, ma che evidentemente nasce soprattutto da una conoscenza approfondita del genere, oltre che da una forte passione. Detta in soldoni: la fantascienza è forse giunta nuovamente in una di quelle fasi in cui ciclicamente si è trovata, nel corso della sua storia, ad aver bisogno di un impulso endogeno al rinnovamento. L’autrice (nonché editor/redattrice/curatore) individua due punti nodali nell’evoluzione del genere: la New Wave, un’epoca ricca di opere seminali capaci di segnarne irreversibilmente il cammino, e lo Slipstream, teorizzato in primis da Bruce Sterling nel 1989, che vi travasò le intuizioni e i conseguimenti maturati nel corso dell’esperienza cyberpunk. E si domanda se non sia giunto il momento di lanciare un nuovo movimento letterario, capace di mutuare le ambizioni stilistiche della New Wave e la vocazione al superamento dei confini di genere dello Slipstream. Il suo articolo merita davvero una lettura: potete trovarlo a questo indirizzo.

Charlie Jane Anders individua due poli opposti nelle modalità di concepire la fantascienza: a un estremo, l’approccio autoreferenziale, tipico degli autori che si rivolgono alla nicchia dei lettori specializzati, con cui condividono un background di elementi che vanno a costituire una sorta di barriera all’entrata per ogni altro lettore; all’estremo opposto, l’approccio letterario, che se da un lato si differenzia per una maggiore consapevolezza stilistica e per una più accentuata risonanza emotiva, riesce d’altro canto anche a parlare a un pubblico più vasto, non esigendo dai lettori una conoscenza specifica delle caratteristiche del genere. E in un passaggio cruciale si domanda:

If you see those two things as opposing points on a spectrum, then you’re bound to judge works (to some extent) based on two qualities: how beholden they are to the genre’s past, and their stylistic traits. But those are just two strengths among many — and what if you tried to create genre works that were beholden to neither past science fiction or present literary fiction?

Ovvero: “cosa ne dite se ci svincolassimo dal canone di questa polarizzazione e cercassimo di creare opere di genere che non siano in debito né verso la fantascienza del passato né verso la letteratura contemporanea?” Che è una posizione coraggiosa, anzi di più: audace. Ma che secondo Anders va incontro proprio a quella necessità di “catturare la stranezza di vivere nel nostro tempo accelerato” da cui nasceva – guarda caso – lo Slipstream. Il nuovo movimento letterario che potrebbe fornire la propulsione richiesta per il rilancio della fantascienza dovrebbe quindi essere al contempo “meno rilevante e meno riverente”.

Cover of "The Time Traveler's Wife"

Cover of The Time Traveler’s Wife

Se vogliamo, è un approccio simmetrico a quello tentato dal connettivismo, e in fin dei conti nemmeno del tutto estraneo a ciò che fanno i connettivisti. In particolare, in una fase in cui tutti nel movimento stiamo guardando con crescente attenzione al mainstream, quello indicato da Charlie Jane Anders potrebbe benissimo attestarsi come uno dei sentieri che ci condurranno verso il nextstream. Dopotutto non è poi distante dalle coordinate di quella che avevo voluto definire “fantascienza ripotenziata” parlando dell’eccellente romanzo di Audrey Niffenegger La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo, in questo senso e non solo un autentico caso di studio. Per evitare confusioni di termini e volendomi riallacciare anche alle riflessioni che sviluppavo in questo articolo del 2008 sul dibattito che si era acceso nel mondo anglosassone in merito alla rilevanza del genere, mi verrebbe da richiamarmi a quanto scritto da Charlie Jane Anders e ridefinire questa opzione come “light science fiction“. Dove l’attributo non vuole avere nessuna connotazione di merito o di valore, ma esclusivamente specificare una qualità, per identificare un tipo di fantascienza alleggerito dal suo background di riferimento, capace di estrarre il massimo dall’essenza dei suoi tòpoi. E per distinguerla in questo modo da una heavy science fiction, che invece punta sull’accumulo di elementi caratteristici del genere per ricavare il suo massimo impatto.

In qualche modo le riflessioni di Anders vanno a saldarsi con un dibattito critico in corso tra i connettivisti, forse tenuto un po’ troppo nelle retrovie. Forse, stiamo assistendo davvero ai prodromi di una nuova transizione di fase del genere. E forse, per una volta, ci troviamo in condizione di non subirne le ricadute a posteriori, potendo invece prendere attivamente parte al processo. Tutto sommato, il lavoro svolto fin qui, in questi dieci anni trascorsi dalla nascita del movimento connettivista, è servito sostanzialmente a realizzare le condizioni perché questo fosse possibile.

 

Enhanced by Zemanta

Ovvero: The reader who was plugged in, verrebbe da dire. Perché il prototipo messo a punto al MIT prende le mosse dagli scenari della fantascienza per proporre un’esperienza di lettura aumentata, rendendo il libro “indossabile” e sfidando gli scrittori sul campo della sensory fiction, come hanno voluto chiamarla gli artefici del progetto: non sarà più il solo canale cognitivo-empatico a convogliare l’esperienza del racconto dalla sorgente (=autore) al destinatario (=lettore), ma una combinazione multisensoriale di stimoli. Una rete di sensori/attuatori provvederà a evocare il mood della pagina, amplificando l’immedesimazione del lettore nei personaggi: 150 led programmabili per creare l’ambiente più adatto alla pagina, sorgenti di suoni, dispositivi in grado di influenzare la temperatura corporea, sorgenti di vibrazioni per accelerare o rallentare il battito cardiaco, dispositivi ad aria compressa per stimolare la tensione o il rilascio dei muscoli. Tutti integrati nella struttura del libro.

Al momento esiste un solo libro adattato a questa nuova esperienza di lettura, che potremmo definire davvero “aumentata”, scelto per la dimostrazione pratica del device e visibile nello spot che riporto qui sotto, ed è una celebre novella di fantascienza di James Tiptree Jr (alias Alice Sheldon), Premio Hugo 1974, una intensa storia di amore, trascendenza e caduta, con non pochi elementi di contatto con la sensibilità cyberpunk che sarebbe maturata solo dieci anni più tardi: The girl who was plugged in.

SENSORY FICTION from Felix on Vimeo.

Ma la sensory fiction, come spiegano gli stessi autori dello studio proprio sulla pagina Vimeo della dimostrazione, non vuole essere una proposta concreta per un prodotto commerciale, quanto piuttosto una provocazione intesa a stimolare un dibattito. E coglie alla perfezione e meglio di mille elucubrazioni il senso della questione su cui autori, critici e semplici appassionati vanno discutendo da tempo: esiste un futuro per la lettura in un mondo sempre più affollato di stimoli esterni e distrazioni?

Sul nuovo numero di Delos, on-line in questi giorni con la consueta messe di articoli a cui Carmine Treanni ci ha abituati (l’indice è davvero ricco, ne cito almeno altri due: l’intervista rilasciata da Altieri a Fabio Novel su Terminal War, di cui parlavamo pochi giorni fa, e le riflessioni del compagno Fazarov sulla valenza di Gravity come “blockbuster d’autore”), trovate anche un mio pezzo molto atipico.

In un certo senso Zeitgeist 1980: la memoria dalle ceneri è un pezzo su commissione. Se Salvatore Proietti, critico e amico, non avesse insistito perché lo scrivessi, probabilmente non mi sarebbe mai venuto in mente di cimentarmi con una roba del genere. Fatto sta che la recente ristampa di Cenere alla cenere sul numero estivo di Robot offriva in effetti il pretesto per ripercorrerne la genesi. L’articolo ne ricostruisce il background, dall’idea originale alla stesura, passando soprattutto per le molteplici fonti di ispirazione e l’immancabile lavoro di documentazione e ricostruzione d’epoca. Un’esperienza collettiva che lo rende in effetti un racconto totale, oltre che una delle cose a mio parere più riuscite che siano uscite dal mio word processor.

Ed è anche un modo per ricordare quanto di buono si possa fare con un blog. E tutto grazie a uno Strano Attrattore, pace all’anima sua…

Un po’ di musica per accompagnare la lettura.

La scorsa settimana io9 ha ospitato un illuminante editoriale di Annalee Newitz, in cui la capo-redattrice s’interroga sui meccanismi sociali che portano una storia a diventare virale. L’autrice porta all’attenzione del lettore la propria lunga esperienza nell’editoria on-line e fa notare come tra una qualsiasi storia (o, meglio, qualsiasi unità/frammento di informazione) e la popolarità si frapponga nell’era dei social network (Facebook, Twitter, Reddit, Pinterest…) un ostacolo, che per analogia con la valle del perturbante (uncanny valley) di Masahiro Mori potremmo definire valle dell’ambiguità: nelle parole di Annalee Newitz, “l’uncanny valley del giornalismo virale” non è altro che la zona in cui ricadono le notizie troppo complesse, quelle che richiedono una presa di posizione netta da parte di chi legge e condivide, quelle che espongono sui social media al rischio dell’incomprensione e del fraintendimento.

Tutti vogliamo sembrare più intelligenti o più brillanti, attraverso l’immagine sociale che ci creiamo attraverso le informazioni (o presunte tali) che rimbalziamo sui nostri profili, dando l’impressione di saperne qualcosa. Per questo pochi di noi sono disposti a rischiare con una storia che ricade nella valle dell’ambiguità, che inevitabilmente finisce per prestarsi all’interpretazione di chi di volta in volta legge. In altre parole, sono le storie a senso unico quelle che condividiamo, non quelle che necessitano di analisi.

The Valley of Ambiguity, by Annalee Newitz (credit: io9)

The Valley of Ambiguity, by Annalee Newitz (credit: io9)

La qual cosa, se vogliamo spingerci un po’ più oltre, è il principale motivo di disillusione di chi come me ha scoperto il significato di ipertesto leggendo autori postmoderni come Thomas Pynchon, o apprezzando il lato più sperimentale della fantascienza negli autori della new wave e negli esponenti del cyberpunk. Leggi il seguito di questo post »

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Vivere anche il quotidiano nei termini più lontani. -- Italo Calvino, 1968

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Mi chiamo Giovanni De Matteo, per gli amici X. Nel 2004 sono stato tra gli iniziatori del connettivismo. Leggo e guardo quel che posso, e se riesco poi ne scrivo. Mi occupo soprattutto di fantascienza e generi contigui. Mi piace sondare il futuro attraverso le lenti della scienza e della tecnologia.
Il mio ultimo romanzo è Karma City Blues.

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