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Seconda segnalazione robotica in meno di una settimana, per annunciarvi che è uscito il numero 90 della leggendaria rivista di fantascienza fondata da Vittorio Curtoni e attualmente diretta da Silvio Sosio, e che tra le sue pagine ha trovato in extremis confortevole asilo anche il mio articolo-moloch sullo sviluppo semiotico dell’utopia. Perché se è vero che il blog è impermanente per definizione, come tutto quello che è codificato in pacchetti di bit in un server oceanico da qualche parte, le pagine di Robot sono per sempre.
Si direbbe che ci stiamo prendendo gusto. Dopo aver rielaborato un pezzo già uscito su Robot per il volume Filosofia della fantascienza (a cura di Andrea Tortoreto, Mimesis Edizioni), con Salvatore Proietti ci siamo candidati lo scorso anno rispondendo a questa call for papers della rivista di filosofia contemporanea Philosophy Kitchen, dedicata ancora una volta ai rapporti tra l’immaginario di fantascienza e la filosofia, proponendo un pezzo inedito sui modelli e le declinazioni del concetto di eterotopia (ed eterocronia) nella fantascienza contemporanea.
Il numero della rivista, a cura di Antonio Lucci e Mario Tirino, annunciato lo scorso anno, ha visto la luce l’altro giorno sotto il titolo denso di suggestioni di Filosofia e fantascienza. Spazi, tempi e mondi altri (può essere scaricata anche in un comodo PDF da questo link) e propone un sommario ricchissimo, con contributi – tra gli altri – di Adolfo Fattori (a cui devo un ringraziamento particolare per avermi segnalato l’iniziativa e avere insistito con garbo) e Gianluca Didino (che non vedo l’ora di leggere). Come scrivono i curatori nella loro introduzione:
Nel nostro piccolo, nel presente fascicolo di Philosophy Kitchen abbiamo cercato di portare ad evidenza, facendo “parlare” le narrazioni, alcuni nuclei di questo portato filosofico presente dietro alle narrative sci-fi. Tra i tanti tagli e approcci possibili, e tra le moltissime direttive presenti nelle suddette narrative fantascientifiche, ne abbiamo privilegiate due: una tematica e una mediologica. A livello mediologico abbiamo cercato di rendere il più possibile amplio lo spettro degli “strumenti del comunicare” analizzati, nella convinzione che i media digitali (in particolare cinema, videoclip, videogioco e serialità televisiva) offrano nuove, ed estremamente importanti, possibilità di sviluppo del conglomerato narrazione-medium-teoria che è al centro degli interessi di noi curatori. […] A livello tematico, appunto, abbiamo privilegiato la lente offerta della triade utopia/distopia/eterotopia, su cui abbiamo invitato a contribuire gli autori che compongono il presente numero. La dimensione spazio-temporale “altra” delle utopie e delle distopie, infatti, ci ha permesso di aprire il ventaglio di opzioni discorsive a nostra disposizione al fine di offrire visioni dell’umano e dell’umanità, dello spazio, del tempo e dell’interazione uomo-macchina, che sfuggissero (senza per questo mancare di rigore) alle griglie della forma-trattato e che aprissero scorci, e visioni, utili – di ritorno – a un sapere filosofico che non sia pregiudizialmente chiuso alle provocazioni della multimedialità e della narratività.
In particolare il nostro pezzo, che abbiamo voluto intitolare Altri spazi, in controtempo: letture e visioni dalle nuove frontiere della fantascienza (e che può essere scaricato anch’esso in PDF cliccando sul link), viene presentato dai curatori come “una lunga ricostruzione tanto teorica quanto attenta alla storia sia romanzesca quanto cinematografica della sci-fi“, volta a offrire “un panorama dei punti di forza teorici (il postumano, le utopie e le eterotopie) che nelle narrative di fantascienza saldano immaginario utopico e tensioni sovraumaniste, mirate alla ricerca di mondi altri e potenziamenti dell’umano”.
Sono poco meno di 9.000 parole e 60.000 battute, in cui a partire da Michel Foucault e Rosi Braidotti parliamo di Ursula K. Le Guin e Samuel R. Delany, di William Gibson e del cyberspazio (ma anche della Trilogia del Ponte), di Pat Cadigan e di Kim Stanley Robinson, di Blade Runner 2049 e di Westworld, di The Man in the High Castle e di tutto quello che siamo riusciti a infilare in queste 30 pagine corredate da una settantina di titoli in bibliografia. Per stuzzicarvi ulteriormente l’appetito, eccovi un abstract in italiano:
La dicotomia tra utopie e distopie in tempi recenti è stata sempre più spesso riveduta in forma di continuum, composto di visioni che vanno dal positivismo acritico al pessimismo apocalittico, e che affrontano il rapporto con la modernità e la postmodernità, e superata nella fantascienza degli ultimi decenni in costruzioni narrative definite di volta in volta come utopie o distopie critiche – affini alle eterotopie di Foucault.
A partire dal cyberspazio di William Gibson (Neuromancer, 1984), lo «spazio altro» per eccellenza in cui le coscienze disincarnate dei cowboy dell’interfaccia compiono le loro scorribande nei territori virtuali della nuova frontiera elettronica, le eterotopie di Michel Foucault ricevono un’attenzione crescente in letteratura come anche nel cinema e nella serialità televisiva.
Per una nuova generazione di autori e autrici, con il cyberspazio Gibson fornisce nuove formulazioni (già esplorate in Philip K. Dick) del confine tra natura e simulazione e sulla convergenza tra umano e artificiale, e in tempi recenti abbiamo visto l’eterotopia rinnovarsi continuamente e assumere forme sempre nuove. Gli ambienti urbani vanno dalla trilogia del Ponte di Gibson al collasso ecologico di Blade Runner 2049; i contesti spaziali rielaborano un topos classico come l’astronave generazionale in Paradises Lost di Ursula K. Le Guin, mentre in serie TV come Battlestar Galactica e Farscape l’astronave funge al contempo da microcosmo e da laboratorio politico e sociale; gli scenari planetari diventano un’epica futura nell’acclamata trilogia di Marte di Kim Stanley Robinson.
Insieme alla letteratura, nei media visivi è la serialità televisiva, piuttosto che il cinema, a riservare l’offerta più ricca e interessante, spaziando dal parco giochi tematico sul cui sfondo vediamo consumarsi gli effetti della Singolarità Tecnologica (Westworld) all’ucronia distopica in grado di sovvertire la rassicurante familiarità della storia (The Man in the High Castle).
In ambito letterario, negli ultimissimi anni autrici come Ann Leckie e Aliette De Bodard stanno contribuendo a ridefinire le coordinate dell’immaginario di genere, operando un’inattesa fusione degli scenari di più ampio respiro della space opera con una riflessione sui temi dell’identità e della persona, come anche della memoria storica e della tradizione.
L’intenzione di questo saggio è approfondire, anche alla luce delle più recenti elaborazioni teoriche e femministe sul postumano, le connessioni interne all’immaginario di genere e le risonanze che queste instaurano con i temi di più stringente attualità affrontati nel dibattito scientifico e filosofico di inizio secolo, dai cambiamenti climatici agli interrogativi etici sollevati dallo sviluppo delle intelligenze artificiali. Il nostro approccio rifiuta le macronarrazioni top-down prevalenti nella critica italiana e ci proponiamo, attraverso il loro superamento, di sviluppare un’analisi letteraria e culturale più rispettosa dell’autonomia del genere.
E a beneficio dei naviganti anglofoni che capitano da queste parti (e che negli ultimi tempi rappresentano misteriosamente il grosso del traffico del blog) ne riporto anche la traduzione in inglese:
The utopia-dystopia dichotomy, a continuum which may summarize the range of visions (from uncritical positivism to apocalyptic pessimism) vis-à-vis modernity and postmodernity, has been more and more challenged and superseded in the science fiction of the latest decades through narrative constructions variously described as critical utopias and dystopias – akin to Michel Foucault’s notion of heterotopia.
Starting with William Gibson’s 1984 Neuromancer, the «other space» par excellence in which the disembodied consciousness of interface cowboys perform their raids in the virtual territories of the new electronic frontier, heterotopias receive growing attention, in manifold variants across literature, film, and television.
For a new generation of authors, Gibson’s cyberspace has reformulated interrogations (already explored in Philip K. Dick) on the boundaries between nature and simulation, as well as on the convergence between the human and the artificial, and in recent times readers/viewers have witnessed heterotopias assuming new shapes, across all media. Urban environments range from Gibson’s Bridge trilogy to the eco-collapse of Blade Runner 2049; space-travel settings rework the classic motif of the generation starship in Ursula K. Le Guin’s Paradises Lost while in TV series such as Battlestar Galactica and Farscape, the spaceship is a microcosm and a socio-political testing ground; planetary scenarios become an epic of the future in Robinson’s own Mars trilogy.
Along with print fiction, among visual media television, rather than film, seems to provide the deepest sources of interest, from the theme park affected by the Technological Singularity in Westworld to the subversion of history’s reassuring familiarity in the dystopian alternate history of The Man in the High Castle.
In the very latest years, the original voices of women writers such as Ann Leckie and Aliette de Bodard are redefining the genre’s imaginary, with their fusion between far-future space opera and a meditation on identity, personhood, gender, memory, and tradition
In this essay, in the light as well of the recent theoretical and feminist work on the notion of the posthuman, we intend to explore the inner connections of the genre’s iconography as it resonated with some of the most urgent topics in contemporary scientific and theoretical debates, from climate change to the ethical debates raised by the emergence of artificial intelligences. Our approach, beyond all-too-frequent top-down macronarratives, is meant as a contribution to cultural-literary analysis that does not do away with respect for the genre’s own autonomy.
A dire il vero, non lo ricordo neanch’io. Molte cose si sono succedute in questo lungo iato di attività, quindi proviamo a riannodare i fili con i principali eventi accaduti nel frattempo. Tra le letture più impegnative e soddisfacenti del periodo, devo citare Kim Stanley Robinson, di cui Fanucci si è finalmente decisa a rimediare ad anni di una francamente incomprensibile scarsa attenzione da parte dell’editoria italiana. L’uscita in italiano della sua monumentale trilogia marziana mi ha offerto il pretesto per parlarne diffusamente:
- prima su Quaderni d’Altri Tempi, con una disamina dei tre romanzi, che tracciano un affresco unico nel panorama non solo della fantascienza ma della letteratura mondiale, capace di amalgamare speculazione scientifica, intrighi politici e scavo psicologico, restituendoci personaggi in evoluzione continua verso qualcosa di sempre più lontano da noi, mentre sullo sfondo assistiamo alla costruzione – tra sconfitte, battute d’arresto, rivalse e riscatto – di una nuova società, in quella che forse è la più convincente utopia nella storia della fantascienza (e non solo);
- e poi su Il Tascabile, la rivista a vocazione enciclopedica collegata alla Treccani, con un profilo approfondito dell’autore.
Kim Stanley Robinson è uno degli autori più impegnati attualmente in circolazione e dovrebbe essere motivo d’orgoglio per ogni appassionato di fantascienza che uno scrittore con la sua lungimiranza critica, il suo acume intellettuale, la sua profondità analitica, abbia scelto l’immaginario di genere come campo d’elezione per la sua attività.
Fanucci ha intanto annunciato la traduzione anche della sua ultima fatica New York 2140, ambientato in un mondo stravolto dagli effetti del cambiamento climatico. Speriamo che questo aiuti a farlo conoscere sempre meglio ai lettori italiani, che finora si sono visti negare il piacere di alcuni dei lavori più efficaci e influenti venuti alla luce nella SF degli ultimi trent’anni.
E insomma, non di sole distopie vive lo scrittore di fantascienza. Quando Francesco Verso mi ha reclutato per l’antologia Segnali dal futuro, ho pensato di cogliere l’opportunità per visualizzare un mondo molto distante dagli scenari che sono solito frequentare, e che potremmo convenzionalmente ricondurre a futuri – terrestri o spaziali – a tinte alquanto cupe. Per l’occasione ho pensato di avventurarmi in un territorio per me quasi del tutto nuovo, comunque molto al di fuori dalla mia comfort zone.
Volevo descrivere da un punto di vista da embedded il lavoro degli ingegneri e scienziati del futuro, diciamo intorno all’anno 2100, e volevo che il loro progetto derivasse dalle premesse stesse insite nel mondo in cui vivevano, per evitare che la storia potesse inciampare nello schematismo dello scienziato che arriva e risolve tutti i problemi dell’umanità: quella non sarebbe stata né scienza né fantascienza, ma nient’altro che solipsismo in salsa hollywoodiana. Quindi ho provato a immaginare un mondo ancora gravato da contraddizioni, ma già impegnato sull’audace cammino di una “transizione ecologica post-capitalista“, in cui le fondamenta per un nuovo stile di vita e per un nuovo modello di organizzazione sociopolitica vengono gettate dall’adozione di nuovi sistemi di produzione e recupero: lavoro intellettuale, energie sostenibili, integrazione ambientale e tecnologie emergenti aprono le porte a un diverso livello di consapevolezza del ruolo dell’uomo nel mondo, e la società comincia così a muoversi verso un nuovo punto di equilibrio. Per questo avevo bene in mente una serie di modelli di riferimento, primo su tutti Kim Stanley Robinson, ma anche altri autori impegnati sul fronte del futuro come Bruce Sterling e Cory Doctorow.
Il risultato è una società che non ha subito gli effetti della Singolarità (o di un evento di equivalente portata), ma che al contrario ha cominciato da tempo a guidare la propria evoluzione grazie alla sinergia con le tecnologie. Non a caso si parla di Wende, come nel processo di riunificazione delle due Germanie, anche se in termini quasi antitetici: dall’economia di mercato il post-capitalismo imbocca il sentiero di un’economia della post-scarsità pianificata, logisticamente supportata delle intelligenze artificiali. Potremmo forse definirla una tecnocrazia socialista. Ma come sappiamo i cambiamenti comportano sempre degli imprevisti, per cui, per quanto si possa cercare di dirigerne gli effetti, ci saranno sempre degli esiti non calcolati. Specie in un sistema complesso grande quanto il pianeta Terra.
Alla fine La vita nel tempo delle ombre è la cosa più vicina a un’utopia che abbia mai scritto. Una cosa che mi fa uno strano effetto, a dirla tutta. Ma non poi così strano. Dopo il salto, ne condivido con voi un estratto: una sessione di brainstorming tra i due protagonisti. Il libro invece è qui. Leggi il seguito di questo post »
Kim Stanley Robinson at Worldcon 2005 in Glasgow, August 2005. Picture taken by Szymon Sokół. (Photo credit: Wikipedia)
La scorsa settimana il prestigioso New Yorker ha ospitato sulle pagine del suo blog dedicato alla lettura un intervento di Tim Kreider che si interrogava sul migliore autore politico in circolazione. Partendo da una triste constatazione, che i critici del 2063 potrebbero convincersi che le principali preoccupazioni sociali della nostra letteratura contemporanea siano i rapporti con i genitori, le relazioni finite male e la morte, Kreider sostiene che per trovare qualche istanza politica, specie su una questione non ancora abbastanza dibattuta come il conflitto tra la democrazia e il capitalismo, al giorno d’oggi non ci resta che rivolgerci a un solo genere. Non l’avreste mai detto, eh? Ebbene sì, proprio la nostra vituperata, bistrattata, malconcia e moribonda fantascienza. E arriva a sostenere, con parole che trovo largamente condivisibili, che:
La fantascienza è un genere intrinsecamente politico, dal momento che qualsiasi futuro o storia alternativa immagini rappresenta un desiderio su Come Le Cose Dovrebbero Essere (anche quando si riflettono minacciosamente in un ammonimento su come potrebbero andare a finire). E Come Le Cose Dovrebbero Essere è la domanda e lo sforzo al centro della politica. [La fantascienza] è anche, direi, un genere intrinsecamente liberale (nonostante i suoi numerosi frequentatori moderati), nel senso che guarda allo status quo come fortuito, una combinazione storica, laddove il conservatorismo lo considera inevitabile, naturale e per questo giusto. La meta-premessa di tutta la fantascienza è che non bisogna dare per scontato niente.
Kreider riconosce nel pluripremiato Kim Stanley Robinson, uno dei maggiori autori di fantascienza viventi, la figura del più importante autore politico attivo oggi in America. E giustifica con chiarezza e dovizia di particolari la sua scelta. Kreider sostiene che la grandezza di Robinson deriva dal suo tentativo di applicare il metodo scientifico alla politica, privilegiando un approccio ingegneristico ai problemi. I suoi lavori danno voce a quello che nel mondo anglosassone viene definito left-wing libertarianism e che da noi viene inserito nella tradizione dell’anarchismo di sinistra. Tra i concetti che troviamo applicati nelle sue opere, e che potremmo far confluire in una ideale piattaforma politica, si annoverano:
- la gestione comune – non la proprietà – della terra, dell’acqua e dell’aria
- un sistema economico basato sulla realtà ecologica
- il trasferimento di potere decisionale dai governi centrali alle comunità locali
- l’affrancamento delle basi dell’esistenza, come l’assistenza sanitaria, dalle crudeltà del libero mercato
- l’applicazione di principi democratici come l’autodeterminazione e l’uguaglianza sul posto di lavoro – che in pratica comporta piccole cooperative al posto di enormi multinazionali, gerarchicamente strutturate e basate sullo sfruttamento
- il rispetto per il mondo naturale codificato nelle leggi.
Il che forse giustifica la scarsa fortuna che purtroppo ha sempre accompagnato Kim Stanley Robinson nel rapporto con l’editoria italiana, considerando tutti i cicli iniziati e poi interrotti, dalle Tre Californie alla Trilogia Marziana, per non parlare dei capolavori mai nemmeno tradotti (Antarctica, 2312). Ma volendo considerare, con piglio scientifico, la reputazione che Robinson ha saputo costruirsi in patria, dobbiamo riconoscere con rammarico che i conti non tornano: un autore anti-capitalista snobbato in Italia e celebrato negli USA? Nemmeno in un’ucronia, forse.
E allora ci tocca andare a ricercare altrove le cause del suo scarso successo presso il pubblico italiano. Da dove cominciare? Dalla nostra squallida realtà di tutti i giorni, per esempio, con tutte le caratteristiche inequivocabili di una società in piena decadenza: dal livello infimo del dibattito politico agli stenti della ricerca, dalla crisi ormai strutturale della produzione al progressivo smantellamento dei servizi, senza dimenticarci lo stato pietoso in cui versa la cultura. Un paese che può permettersi di accettare la situazione con cui dobbiamo fare i conti giorno dopo giorno è un paese che può permettersi tranquillamente di ignorare le numerose domande (im)poste da autori politici come Kim Stanley Robinson, oppure – se è per quello – Iain M. Banks, Greg Egan, Ken MacLeod, Ian McDonald, Charles Stross, Richard K. Morgan, per citare solo alcuni dei più importanti autori di fantascienza di questi ultimi anni.
Parlare della crisi della fantascienza, allora, diventa un modo come un altro per affrontare una crisi ben più ampia, ormai dilagante a livello di sistema. Ma ne considera solo un sintomo, mentre il male da curare risiede altrove, ed è il caso che qualcun altro, oltre a chi scrive o legge fantascienza, cominci a preoccuparsene.
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