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“Io non voglio ucciderti… tu mi completi!”

Spiega il Joker a Batman ne Il Cavaliere Oscuro, nell’ultima interpretazione di Heath Ledger. E se ti ammazzo, insiste, poi “che faccio senza di te? Torno a fregare i trafficanti mafiosi?” Uno spreco di talento, di risorse, di genio, da parte di uno che sa di essere “in anticipo sul percorso“. Un profeta, nel senso biblico del termine di “colui che annuncia”, e la verità che è venuto ad annunciare a Gotham City è di quelle in grado di minare gli equilibri perbenisti di una società che si vuole progredita, robusta e solida, ma che in realtà sotto la superficie di una maschera fragile come cristallo nasconde sempre la stessa, vecchia natura: “L’unico modo sensato di vivere è senza regole“.

Il Joker di Christopher Nolan non si accontenta di rivelarlo, perché la rivelazione è solo una parte del processo di presa di coscienza, e lui è qui invece anche per offrire la dimostrazione provata di questa verità: “Stasera tu infrangerai la tua unica regola“. Detto fatto: il Cavaliere Oscuro si ritrova così ripudiato dalla stessa città per cui ha messo in pericolo la vita sua e dei suoi cari, per cui ha rinunciato a una vita normale abbracciando la via di una giustizia fin troppo personale, come lui per primo è costretto a riconoscere, scambiando la propria damnatio memoriae per l’apologia di Harvey Dent. La verità è che ci sono tante verità che si annidano nel mezzo, tra le crepe che attraversano tutte le cose, e se non trovi il modo per domarle, le ombre prima o poi saltano fuori e ti sbranano.

“Ti sembro davvero il tipo da fare piani? Lo sai cosa sono? Sono un cane che insegue le macchine. Non saprei che farmene se… le prendessi! Ecco, io… agisco e basta. La mafia ha dei piani. La polizia ha dei piani. Gordon ha dei piani. Loro sono degli opportunisti. Opportunisti che cercano di controllare i loro piccoli mondi. Io non sono un opportunista. Io cerco di dimostrare agli opportunisti quanto siano patetici, i loro tentativi di controllare le cose. Quindi, quando dico… vieni qui. Quando dico che con te e la tua ragazza non c’era niente di personale, capisci che ti dico la verità. [libera un braccio di Due Facce] Sono gli opportunisti… che ti hanno messo dove sei. Anche tu eri un opportunista. Avevi dei piani. E guarda dove ti hanno portato. [libera l’altro braccio di Due Facce e questo tenta di attaccarlo, ma lui riesce a tenerlo fermo] Io ho solo fatto quello che so fare meglio: ho preso il tuo bel piano e l’ho ribaltato contro di te! Guarda cosa ho fatto a questa città con qualche bidone di benzina e un paio di pallottole. Hmm? Ho notato che nessuno entra nel panico quando le cose vanno “secondo i piani”… anche se i piani sono mostruosi. Se domani dico alla stampa che un teppista da strapazzo verrà ammazzato o che un camion pieno di soldati esploderà, nessuno va nel panico, perché fa tutto parte del piano. Ma quando dico che un solo piccolo sindaco morirà… allora tutti perdono la testa! [tira fuori una pistola] Se introduci un po’ di anarchia… [carica la pistola facendola prendere in mano a Due Facce] se stravolgi l’ordine prestabilito… tutto diventa improvvisamente caos. [si fa puntare la pistola sulla fronte] Sono un agente del caos. Ah, e sai qual è il bello del caos? È equo.”

Il monologo di Joker a beneficio di Dent, propedeutico alla sua trasformazione in Due Facce, è da manuale e prelude alla massima, a sua volta ancor più memorabile perché fulminante, con cui si congederà da Batman: “[…] la follia, come sai, è come la gravità: basta solo una piccola spinta“. Battute folgoranti, brillanti, in linea con un personaggio che è da sempre la quintessenza della follia dilagante, un mix di disagio metropolitano e istinto animale, attitudine innata alla violenza e reazione incontrollata ai soprusi della società, che non fanno rimpiangere la performance istrionica di Jack Nicholson, nel classico di Tim Burton che di certo non lesinava scene madri o battute da mandare a memoria (“Dimmi bambino, tu danzi mai col diavolo nel pallido plenilunio?“, per citare solo la più nota).

Dopo essersi misurato con la portata del contro-piano di Joker, all’uomo-pipistrello di Nolan non resta che una cosa per disinnescarne gli effetti: realizzare la profezia della sua nemesi, infrangere la sua unica regola e tradire la verità. Ma è il prezzo da pagare per salvaguardare la parte sana della società.

A quel punto è il suo turno di formulare un sinistro presagio, all’indirizzo dell’ispettore Gordon, da poco promosso commissario: “Tu mi darai la caccia. Mi condannerai, mi sguinzaglierai dietro i cani. Perché è quello che deve succedere. Perché a volte, la verità non basta. A volte la gente merita di più. A volte la gente ha bisogno che la propria fiducia venga ricompensata“.

E lo stesso Gordon deve riconoscere che Batman è l’eroe che Gotham merita, ma non quello di cui ha bisogno adesso. E quindi gli daremo la caccia. Perché lui può sopportarlo. Perché lui non è un eroe. È un guardiano silenzioso che vigila su Gotham. Un cavaliere oscuro“, in uno dei finali più epici degli ultimi decenni.

Un crescendo che ci spinge direttamente nei territori del mito. Perché il cinema è mitopoiesi, è creazione di miti, fucina di immaginario, anche quando l’immaginario già esiste come quello dei fumetti e tu lo riprendi e manipoli, lo plasmi e lo rielabori in una forma nuova, capace di fare qualcosa che il fumetto forse non sarebbe mai riuscito a fare, o magari sì, ma in maniera diversa. La lezione di Sam Hamm (coadiuvato da Warren Skaaren) è lì a indicare la strada. I risultati conseguiti da Christopher e Jonathan Nolan lo ribadiscono. Perché allora non ritroviamo niente di tutto questo nell’attesissimo, premiatissimo e osannatissimo Joker di Todd Phillips? E sì che il suo sceneggiatore, Scott Silver, come dimostrano 8 Mile e The Fighter, non è l’ultimo arrivato. Eppure l’esito tradisce le mie già basse aspettative, crogiolandosi in un piagnisteo disarmante, che gira in tondo per quasi due ore perdendosi tra angherie gratuite e colpi di scena telefonati, per risolversi infine in un’esplosione di violenza fine a se stessa come tutto ciò che le ha preparato la strada.

Non esiste tensione in Joker e la prova superba di Joaquin Phoenix rimane un saggio di virtuosismo in un deserto di idee. La contrapposizione all’ordine costituito, la negazione delle regole, l’emersione del caos, che sono gli ingredienti del successo del personaggio, qui si sciolgono in una banale adesione alle leggi stesse della società che il personaggio dovrebbe invece contrastare. E il finale, pur girato benissimo (e con ogni probabilità reso migliore di quello che è dalle note di White Room), non ha nulla della carica dirompente, anarchica e nichilista allo stesso tempo, di un Fight Club, per intenderci.

Avendone letto praticamente solo commenti compresi nello spettro tra la soddisfazione e l’entusiasmo, posso sicuramente sbagliare, ma indulgerò nell’errore azzardando a mia volta una piccola profezia: passata l’ubriacatura della visione, sedimentata l’adrenalina di una resa stilistica imponente, non resteranno che le scorie di una visione dimenticabile, che forse in molti preferiranno rimuovere.

Ci sarebbero stati mille modi per rendere giustizia al personaggio e tirarne fuori una storia rilevante, per esempio bilanciando il punto di vista del Joker con quello di altri personaggi, non necessariamente positivi, ma calati in una dimensione di faticosa normalità, che poi è la dimensione che quotidianamente tutti noi siamo costretti ad affrontare, a sostenere, a vivere. Si sarebbe potuto scegliere per esempio di fornire una voce agli sbirri di Gotham Central: erano già pronti, bastava andarli a prendere dai fumetti di Greg Rucka e Ed Brubaker, eppure nella pellicola fanno appena in tempo ad affacciarsi. Oppure Phillips e Silver avrebbero potuto fare della vicina di casa di cui Arthur s’invaghisce un personaggio reale, donandole qualcosa di più della consistenza rarefatta di uno spettro che si aggira smarrito per la casa infestata che è la testa di Fleck (e poi, dico, hai Zazie Beetz… dalle una parte che sia alla sua altezza!). Invece in Joker non accade purtroppo niente di tutto questo.

Joker è un film monodimensionale, che rifugge intenzionalmente la complessità e cerca rifugio nella placida comfort zone della convenzionalità. Nella pellicola di Phillips, la verità che Arthur Fleck sia uno squilibrato non viene mai messa in discussione. E di conseguenza neanche per un istante si è portati a pensare che la prospettiva nichilista di cui si fa portatore possa avere una sia pur minima ragion d’essere che esuli dalla semplice reazione. Nemmeno condividendo lo stesso disagio del protagonista. Siamo lontani anni luce dai dilemmi morali di Nolan, dal nichilismo nietzscheano di Chuck Palahniuk e David Fincher. Qui il tutto si riduce a un’insensata detonazione di follia in grado di catalizzare altre follie private, in un’orgia onanista che non risparmia nessuno, tranne il piccolo Bruce Wayne, l’unico a non venire intaccato dalla pazzia dilagante.

Batman forse può sopportarlo. Ma lui è un “un guardiano silenzioso che vigila su Gotham“.

Io no.

[Foto tratte da Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan (2008), Batman di Tim Burton (1989) e Joker di Todd Phillips (2019). Citazioni da Wikipedia.]

Siamo entrati da alcune settimane in quel mood un po’ nostalgico che fin dalle estati della nostra giovinezza si accompagna alla fine delle esperienze in cui abbiamo a lungo investito in termini emotivi. Non è una questione facilmente riducibile in termini quantitativi: per quanto possano sembrare tante in termini assoluti, una ottantina di ore spese a guardare una serie TV o una saga cinematografica finiscono per essere molto diluite quando vengono spalmate su un arco temporale di una decina di anni, ma questo non ne riduce affatto l’impatto qualitativo, perché tra un episodio e il successivo, tra una stagione o una fase e quella che ci aspetta, abbiamo speso una quantità non facilmente misurabile di tempo a farci domande e a parlarne con altri appassionati (o potenziali appassionati tra cui fare proseliti), che ha inevitabilmente contribuito ad aumentare le nostre aspettative e con esse il nostro investimento in quel particolare universo narrativo.

Il nostro mood mentre la fine si avvicina… [Lyanna Mormont (Bella Ramsey) in Game of Thrones, courtesy of HBO]

Dopotutto, non credo che sia un’esagerazione affermare che siamo le storie di cui ci nutriamo. Quindi, mentre portiamo avanti la discussione sulle conclusioni di quelli che sono probabilmente i due fenomeni culturali di proporzioni più vaste di quest’ultimo decennio, mi sono inevitabilmente ritrovato a riflettere sui momenti tristemente noti come finali. Sia su Game of Thrones che sul Marvel Cinematic Universe si è ineluttabilmente pronunciato Emanuele Manco, tra i maggiori esperti italiani di entrambi, e sebbene condivida il suo giudizio solo in parte (e più sul primo che sul secondo) vi rimando alle sue disamine dell’episodio 3 dell’ottava stagione di Game of Thrones e di Avengers: Endgame senza dilungarmi oltre. In ogni caso sono stati dei bei viaggi e, come per tutti i viaggi, forse non è così importante quello che troviamo alla fine rispetto a tutto quello che abbiamo avuto modo di apprezzare e imparare nel frattempo, anche (e forse soprattutto) su noi stessi.

Il nostro mood quando una storia finisce… [Marvel Studios’ AVENGERS: ENDGAME: Rocket (voiced by Bradley Cooper) and Nebula (Karen Gillan). Photo: Film Frame ©Marvel Studios 2019]

Però prendendo spunto da questa stagione di grandi e attesi finali, più o meno epici, più o meno riusciti, ho pensato di proporvi una lista, ispirata anche da questo montaggio di CineFix, e quindi, fatta questa doverosa premessa per scaldare i motori, eccoci a parlare di cinque finali su cui ancora oggi, a distanza di anni e in alcuni casi di decenni, continuiamo ancora a parlare, su cui continuiamo a fare ipotesi, costruire castelli teorici e alimentare un dibattito che contribuisce a prolungare la vita delle opere stesse ben oltre i confini temporali della loro fruizione (il che è un po’ la missione di ogni fandom che si rispetti). Sentitevi liberi di aggiungere le vostre considerazioni (e altre graditissime segnalazioni) nei commenti.

E adesso partiamo.

5. 2001: Odissea nello spazio (regia Stanley Kubrick, tratto da un racconto di Arthur C. Clarke, 1968)

Il film che ha consacrato la dimensione leggendaria di un regista già di culto come Stanley Kubrick. L’astronauta David Bowman (Keir Dullea) raggiunge l’orbita di Giove, destinazione della missione Discovery di cui è l’unico membro sopravvissuto, oltrepassa la soglia del monolito che è l’obiettivo della spedizione e si ritrova a esplorare una dimensione interiore, uno spazio psichico e psichedelico. Negli anni della New Wave (il seminale articolo di J. G. Ballard Which Way to Inner Space? apparve sulla rivista New Worlds nel 1962), ecco la prima e più incisiva rappresentazione visiva della rivoluzione concettuale che stava vivendo l’immaginario non solo di genere, proprio mentre l’uomo si apprestava a sbarcare sulla Luna e davvero il futuro era lì a portata di mano. Proprio come Ballard, anche Kubrick e, abbastanza sorprendentemente, il veterano Clarke suggeriscono che le vere frontiere dell’esplorazione non ci attendono lì fuori, ma sono sepolte dentro di noi, e l’ignoto spazio profondo non fa che avvicinarci a questo inner space, sbattendoci in faccia la sua intrinseca inconoscibilità. Se non conosciamo bene noi stessi (chi siamo? da dove veniamo?) come possiamo pretendere di capire ciò che ci attende alla fine del cammino (dove stiamo volando?)? Cosa è diventato Bowman, alla fine del suo viaggio oltre l’infinito? Quali implicazioni avrà la sua metamorfosi per il futuro della Terra e dell’umanità? Per affinità e assonanze, aggiungiamo non solo per dovere di cronaca che questa menzione non può che tirarsi dietro, come spesso accade quando si cita Kubrick in ambito sci-fi, anche Andrej Tarkovskij e i suoi altrettanto fondamentali Solaris (1972, tratto dal romanzo omonimo di Stanisław Lem) e Stalker (1979, tratto dal romanzo dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij Picnic sul ciglio della strada).

4. Blade Runner (regia di Ridley Scott, tratto dal romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep? di Philip K. Dick, 1982)

Più umano dell’umano, è lo slogan che demarca il target delle nuove linee di replicanti messi a punto dalla Tyrell Corporation per assistere il programma coloniale extra-mondo. E i Nexus 6 in fuga dalle colonie spaziali, sbarcati sulla Terra per ottenere un prolungamento delle loro vite artificialmente limitate a una durata di soli quattro anni, sono davvero indistinguibili dagli esseri umani di cui sono la copia, se non per il fatto di vantare una resistenza e una forza fisica perfino superiori. Il cacciatore di taglie Rick Deckard (Harrison Ford), richiamato in servizio dall’LAPD per un’ultima missione, riuscirà fortunosamente ad avere la meglio e portare a casa la pelle, anche grazie al provvidenziale ripensamento del leader dei replicanti ribelli Roy Batty (Rutger Hauer). Tornato a casa, deciderà di lasciare la città con l’ultimo replicante, un esemplare fuori serie che lo stesso creatore non ha esitato a definire “speciale” (Rachael Rosen, interpretata da Sean Young). Alla fine gli interrogativi lasciati aperti dalla pellicola, anche per via di un refuso di sceneggiatura (che menziona sei replicanti ribelli, mentre quelli effettivamente presenti o citati nel prosieguo della pellicola sono solo cinque) e poi attraverso i successivi editing di Ridley Scott (con montaggi alternativi che hanno incluso nuove scene, rimosso il finale e la voce fuori campo e apportato altri aggiustamenti minori), vertono tanto sulla figura del cacciatore di taglie (Deckard stesso è un umano o il replicante mancante?) quanto dell’androide che porta in salvo (cos’è che rende davvero speciale Rachael?). Dopo la vasta letteratura di seguiti ufficiali partoriti da K. W. Jeter, a entrambi gli interrogativi prova a dare una risposta con esiti decisamente più convincenti il sequel cinematografico diretto da Denis Villeneuve nel 2017, Blade Runner 2049, che tuttavia lascia aperti ulteriori spazi di indagine e di speculazioni sulle colonie extra-mondo e sul vero ruolo dei replicanti nei piani del magnate Niander Wallace (Jared Leto).

3. C’era una volta in America (regia di Sergio Leone, tratto dal romanzo The Hoods di Harry Grey, 1984)

Un film su cui si sono spese forse altrettante pagine di congetture da rivaleggiare con 2001. L’ultima impresa di Sergio Leone, a cui richiese uno sforzo produttivo durato tredici anni (e dieci mesi di riprese in USA, Canada, Francia e Italia) e che pose di fatto fine alla sua carriera. Allo stesso tempo, è il coronamento dell’opera di un autore straordinario, forse unico nel panorama della cultura italiana del ‘900 per l’influenza che è stato in grado di esercitare sulla cinematografia mondiale (e non solo nel western o nel cinema stesso: pensiamo anche alla fantascienza e ai debiti letterari riconosciuti da autori del calibro di William Gibson), la migliore conclusione possibile per la seconda trilogia di Leone (dopo quella del dollaro, quella del tempo). Un omaggio anche all’immaginario americano, con gli Stati Uniti rappresentati per quel generatore di miti che in effetti sono stati, il motore dell’immaginario del ‘900.  “Una sfilata di fantasmi nello spazio incantato della memoria”, come ha scritto Morando Morandini nel suo Dizionario, ma anche “un sogno di sogni”, in cui “la memoria del singolo tende a dissolversi in quella di un intero paese” (come ha scritto invece Gian Piero Brunetta nel suo Cent’anni di cinema italiano). E un noir su cui, disorientati dal sofisticato meccanismo narrativo che combina caoticamente analessi e prolessi, non siamo ancora stati capaci di decidere se la storia che stiamo guardando sia frutto di una rievocazione o di una proiezione immaginaria. Ma alla fine, è davvero così importante sapere se Noodles (Robert De Niro) vivrà (ha vissuto) o no quei famosi trentacinque anni che gli sono stati rubati dal suo socio di un tempo Max (James Woods)? In che modo un furto di tempo e di vita può risultare diverso dall’altro? I fumi dell’oppio non aiutano a fare chiarezza, ma continuano ad alimentare l’incanto di una pellicola che c’incolla allo schermo con la densità stilistica compressa in ogni singolo fotogramma.

2. Inception (scritto e diretto da Christopher Nolan, 2010)

Da un sogno di sogni a un altro, Inception è il film che probabilmente ha alimentato le discussioni più lunghe in quest’ultimo decennio, generando una quantità di infografiche esplicative che hanno cercato di districarne l’intreccio (forse l’unico film a poter rivaleggiare in questo con Primer di Shane Carruth). Tra il secondo e il terzo capitolo della trilogia dedicata al Cavaliere Oscuro, Christopher Nolan torna a coltivare il suo amore per le architetture narrative sofisticate e chiude il decennio della sua consacrazione autoriale così come lo aveva iniziato nel 2000 con Memento. Il film è un sogno ricorsivo che deve molto anche alla letteratura di fantascienza (non ultimo Roger Zelazny), ma con quel tocco personale che rende inconfondibili i film del regista londinese. Dominic Cobb (Leonardo Di Caprio) è un ladro psichico capace di estrarre segreti preziosi dalla mente dei suoi bersagli, ma un giorno viene arruolato da Mr. Saito (Ken Watanabe) per tentare un’operazione inedita: innestare un’idea nella testa dell’erede dell’impero finanziario con cui è in competizione. Per portare a termine l’impresa, Cobb progetta un meccanismo di sogni condivisi annidati a più livelli di profondità e arruola una squadra di professionisti, ma la missione lo pone davanti a ostacoli sempre maggiori, non ultimo l’interferenza del ricordo della defunta moglie Mal (Marion Cotillard). L’unico modo che hanno i sognatori per distinguere tra la realtà e il sogno è affidandosi a un totem, che nel caso di Cobb è una trottola metallica: in un sogno, non essendo soggetta alle leggi fisiche della gravità, contrariamente a quanto accade nel mondo reale la trottola è destinata a girare all’infinito. Quando alla fine Cobb riesce a tornare dai suoi figli, ricompensa per la buona riuscita dell’incarico, vuole avere la certezza che non sia ancora intrappolato nel limbo in cui è dovuto addentrarsi per salvare Mr. Saito, ma quando abbraccia i bambini la trottola sta ancora girando. Cobb si è davvero svegliato dal sogno o è ancora intrappolato nel limbo?

1. True Detective (ideato da Nic Pizzolatto, 3 stagioni, 2014 – in produzione)

Serie antologica della HBO, True Detective ha esordito nel 2014 con una stagione memorabile che si è indelebilmente impressa nella nostra memoria di spettatori grazie alle interpretazioni di Matthew McConaughey e Woody Harrelson e a una scrittura fortemente debitrice delle suggestioni horror e delle vertigini cosmiche dei maestri del weird, da Robert W. Chambers e H. P. Lovecraft fino a Thomas Ligotti. Una seconda stagione un po’ sottotono e incapace di tener fede alle altissime aspettative sembrava averla condannata al limbo delle produzioni cinetelevisive, ma nel 2018 una terza stagione (forte delle interpretazioni di Mahershala Ali, Stephen Dorff e Carmen Ejogo) si è dimostrata capace di rinverdire i fasti degli esordi (ne abbiamo parlato diffusamente anche su queste pagine). Come la prima stagione, anche quest’ultima ha uno dei suoi punti di forza nell’atteso twist finale e in entrambi i casi le implicazioni sottese alle scelte di sceneggiatura e regia hanno innescato una ridda di ipotesi e suggestioni. Cosa vede davvero Rustin Cohle pugnalato a morte dal Re Giallo? E Wayne “Purple” Hays riconosce o no Julie Purcell nella madre a cui riesce a risalire dopo decenni di indagini e solo ora che le sue facoltà cognitive sono irrimediabilmente compromesse dall’Alzheimer? Cos’è la giungla in cui si ritrova a vagare nella notte, come ai tempi delle sue missioni in Vietnam come recog? Un finale in grado di richiamare altri grandi classici della recente serialità televisiva, non ultimo la popolare Life on Mars prodotta dalla BBC, i cui enigmi sono poi stati sciolti nella successiva Ashes to Ashes.

“Il cinema deve essere spettacolo, è questo che il pubblico vuole. E per me lo spettacolo più bello è quello del mito. Il cinema è mito.”

L’altro giorno, il 3 gennaio, Sergio Leone avrebbe compiuto 90 anni. Non ho mai fatto mistero della passione che nutro nei suoi confronti, una passione che sconfina nella venerazione per un maestro di queste proporzioni. Non citerò qui tutti i capolavori prodotti dalla sua fucina creativa, tanto li conoscete meglio di me e li avrete visti altrettante volte – abbastanza da perdere il conto (come nel mio caso per Il buono, il brutto, il cattivo o Per qualche dollaro in più o entrambi i C’era una volta…) – e se non è così… cosa state aspettando?

Nel corso di una carriera straordinaria, e per certi versi ineguagliabile, Sergio Leone (che da quando avevo sette o otto anni non ho mai imparato a pronunciare in maniera diversa da così, nome e cognome, un po’ come Giulio Cesare, Sandro Pertini o Jules Verne) ha dato prova di sapersi cimentare in generi del tutto estranei alla tradizione realista e neorealista a cui larga parte della critica nostrana, in particolare quella più influente (che scrive sulle riviste letterarie e sui periodici, che decide quali libri vadano letti e quali film vadano visti, decretandone in misura maggiore o minore non solo il successo o il fallimento, ma indirettamente la stessa legittimità alla pubblicazione/produzione), vorrebbe tipicamente ricondurre la cultura prodotta in Italia. Generi anche geograficamente molto ben circoscritti e caratterizzati come il western (che si rifà a uno dei miti fondativi della sensibilità americana come fu, tra luci e ombre, l’epopea della Frontiera) o come la crime story a tinte noir (ben prima che il fenomeno esplodesse anche in Italia e si cominciasse a catalogare sotto l’etichetta noir tutto e il contrario di tutto), spesso calati nella dimensione del cosiddetto historical period drama e sempre provvisti di un respiro epico (cosa peraltro abbastanza naturale, essendosi Leone formato alla scuola dei peplum — o come si usa dire di questi tempi… dello sword and sandal!).

Sergio Leone non fu l’unico regista italiano a cimentarsi con il western, né tanto meno fu il primo (ricordiamo tra gli altri Tonino Valerii, Sergio Corbucci, Lucio Fulci, E. B. Clucher, Enzo G. Castellari, Antonio Margheriti, Damiano Damiani). Ma il suo tocco, fatto di stile di regia e tempi di narrazione, reso peraltro magico dalle leggendarie musiche di Ennio Morricone, di fatto definì una scuola e impose uno standard: sullo spaghetti western trovate nella Wikipedia in lingua inglese una voce piuttosto ben curata e sul web archivi ricchi di informazioni e titoli come questo (tedesco) o questo (italiano). Sull’esempio dei suoi film fiorì un’intera cinematografia, non solo in Italia ma in tutto il resto d’Europa, e ovviamente i debiti nei suoi confronti sono stati riconosciuti dai cineasti che vi si sono cimentati nel seguito, perfino nell’ambito delle major e con alle spalle macchine produttive che Leone sudò sette camicie per riuscire a mettere in moto (non dimentichiamo, per esempio, Quentin Tarantino e Robert Rodriguez).

Oltre a realizzare un’ideale internazionale utopica del cinema western, l’esperienza degli anni ’60 e ’70 rappresentò anche forse uno dei primi esempi di contaminazione di generi, con numerosi casi di ibridazione del western con il fantastico a tinte weird (Ciakmull – L’uomo della vendetta), l’horror (prolifico fu il filone del cosiddetto western gotico: da Sentenza di morte a I quattro dell’Apocalisse, fino a Preparati la baraJoko – Invoca Dio… e muori) e perfino la fantascienza. Insomma, non fu un cinema chiuso, settario, autoreferenziale, ma al contrario si aprì all’esterno, in tutti i sensi, e riuscì a produrre capolavori ancora oggi guardati e studiati con ammirazione in tutto il mondo (nel 2007 la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ha dedicato al filone una retrospettiva di 32 titoli).

In qualche modo, forse attraverso Clint Eastwood o John Carpenter (1997 – Fuga da New York) o forse perfino per vie più dirette, lo spaghetti western si è infilato anche nella fantascienza degli anni ’80 e ’90: l’antieroe di tanta letteratura cyberpunk altri non è che una versione urbana aggiornata ai tempi del cowboy solitario di Sergio Leone, come dimostrano i molteplici punti di contatto che possiamo ritrovare nelle opere di William Gibson (dai cowboy della consolle alla caratterizzazione di certi personaggi, come Turner, il mercenario di Giù nel cyberspazio, oppure il Berry Rydell di Luce Virtuale).

Insomma, i generi, anche quelli apparentemente più distanti tra loro, parlano e dialogano tra di loro in un discorso continuo, che la critica se ne accorga o meno. E dai loro ambiti d’origine, talora almeno in apparenza anche molto settari e autoreferenziali, finiscono per insinuarsi altrove e, per effetto di una sorta di inerzia memetica, possono arrivare anche molto lontano. Il caso di Sergio Leone e di tutto il western all’italiana lo dimostra, a quarant’anni di distanza.

A quando una stagione della spaghetti sci-fi?

PS: Qualche anno fa la Cineteca di Bologna dedicò una mostra sontuosa al dietro le quinte degli spaghetti western, allestendo una mostra con 141 foto di scena scattate da Angelo Novi su alcuni dei più grandi classici del filone, e anche su alcune produzioni meno note. Sul sito si trova purtroppo ben poco di quella mostra, ma se vi capita di passarci magari riuscite ancora a rimediare uno degli splendidi booklet realizzati per l’occasione.

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Mi chiamo Giovanni De Matteo, per gli amici X. Nel 2004 sono stato tra gli iniziatori del connettivismo. Leggo e guardo quel che posso, e se riesco poi ne scrivo. Mi occupo soprattutto di fantascienza e generi contigui. Mi piace sondare il futuro attraverso le lenti della scienza e della tecnologia.
Il mio ultimo romanzo è Karma City Blues.

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