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A Chiba aveva visto svanire in due mesi di consulti e di esami i suoi nuovi yen. Gli esperti delle cliniche clandestine, la sua ultima speranza, avevano ammirato la maestria con cui l’avevano menomato, poi avevano scosso lentamente la testa.

Adesso dormiva negli alberghi bara più economici, quelli vicini al porto, alla luce dei riflettori alogeni che rischiaravano i moli tutta la notte come fossero enormi palcoscenici, là dove non si potevano vedere le luci di Tokyo a causa del bagliore del cielo televisivo, neppure il torreggiante ologramma della Fuji Electric Company, e la baia di Tokyo era una nera distesa in cui i gabbiani volteggiavano sopra masse di bianco polistirolo espanso alla deriva. Dietro al porto iniziava la città, le cupole delle fabbriche dominate dagli enormi cubi delle arcologie delle multinazionali. Il porto e la città erano separati da una stretta linea di confine fatta di strade più vecchie, un’area che non aveva un nome ufficiale. Night City, con Ninsei nel suo cuore. Durante il giorno i bar di Ninsei erano chiusi e anonimi, i neon spenti, gli ologrammi inerti, in attesa sotto il velenoso cielo argento.

Tratto da Neuromante, William Gibson
(Mondadori, 2011 – traduzione di Giampaolo Cossato e Sandro Sandrelli, pagg. 8-9)

In questa galleria di Stefano Gardel, fotografo italiano basato in Svizzera, l’immaginario distopico e le atmosfere cyberpunk di film come Blade Runner e Akira rivivono negli scatti notturni presi per le strade di Tokyo e Osaka. L’abbinamento con le parole di Gibson è inevitabile.

Nostalgia di un futuro già passato.

Altre magnifiche composizioni (incluse le gallerie Dystopia, Electric Lines, Looming Kowloon e Pervading Darkess) sul suo sito.

Che il 2019 sia stato un anno eccezionalmente prolifico, soprattutto per i miei standard attuali, lo dimostra il fatto che ho dovuto separare il resoconto sull’annata del blog da questo, in cui passerò in rassegna i miei contributi extra-olonomici. Nel corso dell’anno che si chiudei in queste ore ho pubblicato, in riviste, webzine e raccolte, 15 articoli (dove non specificato diversamente, su Quaderni d’Altri Tempi) e 3 racconti:

E per finire, una corposa intervista a Carmine (sempre per Delos) sul tema delle intelligenze artificiali, altro tema di cui mi sono occupato estesamente negli ultimi anni.

In sostanza, non mi posso davvero lamentare. Inoltre inseriamo nel pacchetto anche l’attesa edizione cartacea di Karma City Blues, che a quanto pare si sta destreggiando ancora abbastanza bene, e il servizio è davvero completo.

In queste ultime ore del 2019 stanno inoltre prendendo forma almeno due racconti che dovrebbero vedere la luce nel corso del 2020, in progetti piuttosto ambiziosi, e comincia a riscaldare nuovamente i motori un’antologia che andrà in rampa di lancio entro la prossima primavera. Di più al momento non posso dire, ma si tratta di tre iniziative a cui sono molto legato.

Una possibile nota di rammarico è rappresentata dal fatto che mi sarebbe piaciuto riuscire a fare molto di più per Next Station, che prima o poi dovrà decollare nuovamente. Intanto, però, abbiamo pubblicato un articolo eccellente di Linda De Santi sulla letteratura distopica delle donne, ed è stata già di per sé un’enorme soddisfazione.

Last but not least: visioni e letture. Nel 2019, dopo quasi un anno di più o meno volontario esilio, siamo tornati al cinema, ma senza vedere nulla di davvero memorabile da segnalare. Più soddisfacente è stata invece l’annata televisiva: oltre alle novità (Chernobyl, Watchmen, la terza stagione di True Detective e l’ancor più atteso, per quanto tutt’altro che soddisfacente, finale di Game of Thrones), sono riuscito finalmente a completare Halt and Catch Fire, ho avuto modo di riguardare con calma (e apprezzare) Save Me e sono giunto al giro di boa di Mr. Robot e all’ultima stagione di Breaking Bad. Prima o poi magari riparleremo delle cose di cui già non abbiamo parlato nel corso del 2019.

Quanto alle letture, stando alle statistiche di aNobii avrei letto 28 libri per complessive 6.547 pagine, ma come sempre si tratta di un’approssimazione per difetto visto che diversi titoli, tra fumetti da edicola e e-book, sfuggono alla classificazione del social network più odiato da chi legge. Motivo, tra gli altri, che mi induce a usarlo sempre meno.

Prima di chiudere, proviamo ad abbozzare una lista di propositi per il 2020? Partiamo con questi tre, che mi sforzerò di portare a termine nell’arco dei prossimi 12 mesi:

  1. Completare il nuovo romanzo, lasciato in stand-by dalla scorsa primavera
  2. Ridurre l’acquisto di nuovi libri cartacei a non più di sei rilegati e ventiquattro tascabili (impresa ardua, viste le medie degli ultimi anni, ma resa ormai necessaria dalla cubatura ormai prossima all’esaurimento delle mie librerie, che comporterà la conversione al digitale per almeno i due terzi dei titoli acquistati – negli ultimi anni circa )
  3. Completare l’inventario della biblioteca (altra impresa resa improrogabile dalla necessità di tenere traccia efficacemente dei nuovi arrivi e dei progressi di lettura, visto il servizio sempre più penoso offerto da aNobii)

A questi se ne aggiunge in realtà un quarto, ma per il momento lo lascio sospeso, non perché di difficile attuazione, ma perché legato almeno in parte alle iniziative in corso (e ai punti precedenti): negli ultimi due mesi sono già riuscito a ridurre la mia presenza sui social network fino a meno di un’ora al giorno di media su Facebook, traendone benefici dal punto di vista della gestione del tempo, delle emozioni (rabbia, frustrazione, picchi da esaltazione adrenalinica e abissi di depressione ridotti ai minimi storici) e, prevedibilmente, della produttività.

Diverse letture (alcune passate in rassegna in questo articolo, forse il più impegnativo che abbia scritto negli ultimi dodici mesi) mi hanno portato a meditare questo cambio di abitudini. L’idea è di continuare a combattere i cattivi comportamenti che assecondano il controllo del capitalismo cronofago sulle nostre giornate, portando a termine un ritiro definitivo da almeno un paio di social (per il momento la pole position è contesa proprio tra aNobii e la creatura di Zuckerberg, anche grazie alle evidenze emerse nell’ambito dello scandalo Cambridge Analytica) entro il 2021. Ma non escludo di farlo prima.

E con questo, dal mio 2019, l’anno dei replicanti e di Akira, è davvero tutto. Godetevi questi sgoccioli e passate degli splendidi momenti con chi volete e vi vuole bene. E se avete voglia di condividere il vostro bilancio del 2019 e i propositi per il nuovo anno, lo spazio dei commenti è come sempre a vostra disposizione.

Buon 2020! Ci troviamo di nuovo qui l’anno che verrà.

Domenica prossima si chiuderà la quarta edizione di Foto/Industria, biennale di fotografia dell’industria e del lavoro curata da Francesco Zanot per la Fondazione MAST di Bologna. Il tema, che risulterà particolarmente caro a chi frequenta queste pagine, è la Tecnosfera, come è stato definito dal geologo Peter Haff “l’insieme di tutte le strutture che gli esseri umani hanno costruito per garantire la loro sopravvivenza sulla terra”, uno strato artificiale “con un peso stimato di decine di miliardi di miliardi di tonnellate”.

Io ho avuto la fortuna di visitare con la guida dell’artista una delle mostre realizzate sul tema, che raccoglie gli ultimi lavori di Délio Jasse. Ne ho parlato su Quaderni d’Altri Tempi questa settimana. E ve la consiglio incondizionatamente, insieme agli altri nove allestimenti realizzati nel centro storico di Bologna. Tempo (climatico e cronometrico) permettendo.

Edward Hopper e Albert Watson rappresentano il contraltare iperrealistico dell’estetica fantastica di Beksinski.

Nei quadri di Hopper il soggetto umano si riduce a un mero pretesto per suggerire una storia, una situazione, che spesso abbraccia i luoghi (la città come la campagna, New York come il paesaggio rurale del New England) e li riguarda più strettamente di quanto non faccia con le persone. Le figure, spesso sgraziate, ancora più spesso anonime, servono quasi a ricordarci chi sia il vero protagonista della tela: al posto degli uomini e delle donne che Hopper dipinge potrebbe esserci chiunque di noi. E la discrezione dell’artista è tale da far sembrare la loro presenza una coincidenza in un determinato punto dello spazio e del tempo. Tutti sembrano congelati nell’attimo eterno di un’attesa che potrebbe non finire mai. E intorno a loro si dispiega un universo fatto di milioni di storie che sappiamo essere identiche senza nemmeno vederle, immerse in una natura distaccata (anche i tramonti di Hopper, lungi dalla quiete, sembrano portare con i contrasti turneriani di luce e di ombre presagi più sinistri di quanto saremmo disposti a tollerare) o in una città aliena (ridotta alla verticalità delle superfici e attraversata secondo le fughe prospettiche delle ferrovie sopraelevate).

Edward Hopper, Nighthawks (1942)

Edward Hopper, Nighthawks (1942)

Watson riprende la lezione iperrealista di Hopper e nei suoi panorami notturni o crepuscolari, nelle stanze d’albergo di Las Vegas, nelle celebrità e nelle muse fetish che si lasciano catturare dal suo obiettivo, codifica una dimensione nuova e criptica, in un rincorrersi di suggestioni che rievocano il surrealismo tanto caro a J.G. Ballard. Consiglio la lettura di questo brano di Watson, utile riflessione sulla tecnica e l’esperienza che si può tranquillamente estendere al di là dei confini della fotografia:

Sperimento e mi muovo in molte direzioni diverse, non solo per­ché sento di poterlo fare ma perché amo questo eclettismo della visione. In un periodo difficile per me, negli anni Settanta e forse an­che nei primi anni Ottanta, mi sono molto impegnato a cercare di risolvere una serie di possibili questioni tecni­che legate alla fotografia non tanto per­ché fossi affascinato dalla tecnica, ma perché sentivo un’urgente necessità di sviluppare determinate possibilità cre­ative che avevo chiare in mente e, co­me sempre in fotografia, riesci a realiz­zare meglio le cose che vuoi se hai un’eccellente padronanza tecnica. Sa­per fare: questo è importante; come sa­per dominare tutti gli aspetti. Quando sei stato fotografo per molto tempo, impari ad utilizzare soluzioni di­verse, strade diverse, chiavi e percorsi al­ternativi, non soltanto dal punto di vi­sta tecnico, ma anche creativo ed emoti­vo. Se hai un problema particolare da ri­solvere, puoi far riferimento alla tua esperienza passata e da lì scegliere. Que­sto rende la tua vita più semplice. Certo, non si smette mai di imparare e più di­venti bravo tecnicamente, più il tuo me­todo di lavoro diventa fluido. Possiedi un’esperienza emotiva e creativa e quan­do ti serve, puoi usarla.

Albert Watson, Jellyfish Tank Series Mandalay Bay, Las Vegas

Albert Watson, Jellyfish Tank Series Mandalay Bay, Las Vegas

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Mi chiamo Giovanni De Matteo, per gli amici X. Nel 2004 sono stato tra gli iniziatori del connettivismo. Leggo e guardo quel che posso, e se riesco poi ne scrivo. Mi occupo soprattutto di fantascienza e generi contigui. Mi piace sondare il futuro attraverso le lenti della scienza e della tecnologia.
Il mio ultimo romanzo è Karma City Blues.

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