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Altro appuntamento in casa Kipple, dopo quello con l’antologia tributo dedicata al ricordo di Sergio “Alan D.” Altieri la scorsa settimana. Stavolta si tratta della terza prova sul campo del nextstream, quell’approccio laterale alla fantascienza su cui abbiamo iniziato a sperimentare nel 2015 (Next-Stream. Oltre i confini di genere, il primo titolo), e che nel 2018 ha riscosso un insperato successo con il secondo volume, Next-Stream. Visioni di realtà contigue.

Dal blog dell’editore:

Lo zar non è morto è il titolo di questo volume, undici storie ucroniche, fantapolitiche o semplicemente ambientate in un “tempo fantastico” che, lette una di fila all’altra, sembrano riscrivere gli ultimi cent’anni di Storia.
Il libro è disponibile in formato cartaceo e digitale sul sito della casa editrice, nei principali store on line e nelle librerie. All’interno racconti di Giulia AbbateGiovanni De MatteoEttore MaggiFrancesco Troccoli, Daniele CambiasoSandro BattistiAlessandro ForlaniDomenico MortellaroFranco RicciardielloPee Gee Daniel e Nicoletta Vallorani. I curatori sono Lukha B. Kremo e Domenico Gallo.

Muovendo da Lo zar non è morto – Grande romanzo d’avventure, un romanzo scritto nel 1929 da un gruppo di letterati italiani provenienti da diverse correnti culturali capeggiati dal padre del futurismo Filippo Tommaso Marinetti, riscoperto nel 2005 da Giulio Mozzi ma purtroppo presto nuovamente consegnato all’oblio. I curatori partono da questa suggestione per imbastire una scorribanda ai confini tra immaginario di genere e mainstream, confezionando un’antologia di undici storie ucroniche, fantapolitiche o ambientate in un tempo alternativo “che, lette una di fila all’altra, sembrano riscrivere gli ultimi cent’anni di Storia, quel lasso temporale che ci separa dalla nascita della contemporaneità e dalla scomparsa degli Zar”.

Dalla prefazione di Lukha B. Kremo e Domenico Gallo:

E allora esistono, a fianco a noi, infiniti universi che si creano a ventaglio ogni frazione di tempo in cui infiniti fenomeni quantistici letteralmente esplodono. Ma il mondo quantistico è decisamente controintuitivo e richiede spesso uno sforzo di immaginazione per raffigurarsi “materialmente” cioè che non lo è, ciò che nega la nostra esperienza quotidiana e classica. Ebbene è come se ogni ucronia fosse l’universo duale del nostro per ogni episodio storico che conosciamo. Ma al di là di una qualche verosimiglianza fisica, l’ucronia è uno sforzo di comprendere la Storia attraverso la sua falsificazione, la nostra Storia, quella che condividiamo. È un modo per amplificarne le contraddizioni, per mettere a nudo ciò che è alla base della politica: l’occultamento della verità.

Il mio contributo è l’ultima storia che ho scritto nel 2019 ed è un racconto a cui mi legano sentimenti contrastanti. S’intitola Prometheus Post Mortem, che mi rendo conto non essere il titolo più sottile uscito dalla mia testa, ma di sicuro ne condensa bene il nucleo narrativo. Lo spunto politico di partenza non è altro che la mia crescente insofferenza per l’analfabetismo civile di tutta quell’amorfa marea populista che negli ultimi anni si è andata tingendo sempre di più, e sempre più spudoratamente, di bieche sfumature sovraniste. Non occorre nominare esponenti, capilista, portavoce, partiti o movimenti… dal racconto credo si capisca bene chi avevo in mente mentre scrivevo. Nella finzione, per dipingere una burocrazia sclerotizzata e cannibale e ritrarre la problematica resistenza non solo politica, ma anche morale, dei protagonisti, non ho potuto fare a meno di ispirarmi a quei capolavori della coppia formata da Enki Bilal e Pierre Christin che sono Le falangi dell’ordine nero e Battuta di caccia, due delle più belle storie a fumetti (e non solo) che abbia mai letto, che insieme compongono il meraviglioso dittico di Fins de siécle (1979-1983).

I protagonisti sono, per la prima volta da quando scrivo ora che ci penso, i tre componenti di una famiglia: padre, madre e figlia. Due di loro sopravvivono e architettano un piano di vendetta per onorare la memoria del terzo.

La componente fantascientifica è data da una rivoluzionaria tecnologia che promette di simulare fedelmente la coscienza umana, e che il regime dittatoriale che controlla l’immaginaria Austrasia, una federazione mitteleuropea di matrice etnica e culturale sia slava che germanica, pretende di usare per i propri scopi sinistri contro i suoi oppositori. Ancora una volta l’argomento della riproduzione della mente fornisce carburante narrativo a una mia storia (era successo, tra l’altro, proprio nella precedente iterazione di Next-Stream).

E sì, anche questa è una storia che vive di incastri, in cui la struttura è intesa a produrre una forte influenza sull’impatto emotivo della lettura, con i diversi punti di vista che si combinano tra loro in un gioco di rimandi e richiami a collegare tra di loro le diverse parti. È anche un racconto in cui c’entrano – e molto – Walter Benjamin e Dylan Thomas.

E adesso ho scritto fin troppo. L’invito spassionato, viste le altre dieci firme riunite nel volume e il sigillo dei due curatori, è a leggere l’antologia e commentarla. Un libro così nasce per sua stessa natura predisposto al dibattito. Buona lettura!

Che il 2019 sia stato un anno eccezionalmente prolifico, soprattutto per i miei standard attuali, lo dimostra il fatto che ho dovuto separare il resoconto sull’annata del blog da questo, in cui passerò in rassegna i miei contributi extra-olonomici. Nel corso dell’anno che si chiudei in queste ore ho pubblicato, in riviste, webzine e raccolte, 15 articoli (dove non specificato diversamente, su Quaderni d’Altri Tempi) e 3 racconti:

E per finire, una corposa intervista a Carmine (sempre per Delos) sul tema delle intelligenze artificiali, altro tema di cui mi sono occupato estesamente negli ultimi anni.

In sostanza, non mi posso davvero lamentare. Inoltre inseriamo nel pacchetto anche l’attesa edizione cartacea di Karma City Blues, che a quanto pare si sta destreggiando ancora abbastanza bene, e il servizio è davvero completo.

In queste ultime ore del 2019 stanno inoltre prendendo forma almeno due racconti che dovrebbero vedere la luce nel corso del 2020, in progetti piuttosto ambiziosi, e comincia a riscaldare nuovamente i motori un’antologia che andrà in rampa di lancio entro la prossima primavera. Di più al momento non posso dire, ma si tratta di tre iniziative a cui sono molto legato.

Una possibile nota di rammarico è rappresentata dal fatto che mi sarebbe piaciuto riuscire a fare molto di più per Next Station, che prima o poi dovrà decollare nuovamente. Intanto, però, abbiamo pubblicato un articolo eccellente di Linda De Santi sulla letteratura distopica delle donne, ed è stata già di per sé un’enorme soddisfazione.

Last but not least: visioni e letture. Nel 2019, dopo quasi un anno di più o meno volontario esilio, siamo tornati al cinema, ma senza vedere nulla di davvero memorabile da segnalare. Più soddisfacente è stata invece l’annata televisiva: oltre alle novità (Chernobyl, Watchmen, la terza stagione di True Detective e l’ancor più atteso, per quanto tutt’altro che soddisfacente, finale di Game of Thrones), sono riuscito finalmente a completare Halt and Catch Fire, ho avuto modo di riguardare con calma (e apprezzare) Save Me e sono giunto al giro di boa di Mr. Robot e all’ultima stagione di Breaking Bad. Prima o poi magari riparleremo delle cose di cui già non abbiamo parlato nel corso del 2019.

Quanto alle letture, stando alle statistiche di aNobii avrei letto 28 libri per complessive 6.547 pagine, ma come sempre si tratta di un’approssimazione per difetto visto che diversi titoli, tra fumetti da edicola e e-book, sfuggono alla classificazione del social network più odiato da chi legge. Motivo, tra gli altri, che mi induce a usarlo sempre meno.

Prima di chiudere, proviamo ad abbozzare una lista di propositi per il 2020? Partiamo con questi tre, che mi sforzerò di portare a termine nell’arco dei prossimi 12 mesi:

  1. Completare il nuovo romanzo, lasciato in stand-by dalla scorsa primavera
  2. Ridurre l’acquisto di nuovi libri cartacei a non più di sei rilegati e ventiquattro tascabili (impresa ardua, viste le medie degli ultimi anni, ma resa ormai necessaria dalla cubatura ormai prossima all’esaurimento delle mie librerie, che comporterà la conversione al digitale per almeno i due terzi dei titoli acquistati – negli ultimi anni circa )
  3. Completare l’inventario della biblioteca (altra impresa resa improrogabile dalla necessità di tenere traccia efficacemente dei nuovi arrivi e dei progressi di lettura, visto il servizio sempre più penoso offerto da aNobii)

A questi se ne aggiunge in realtà un quarto, ma per il momento lo lascio sospeso, non perché di difficile attuazione, ma perché legato almeno in parte alle iniziative in corso (e ai punti precedenti): negli ultimi due mesi sono già riuscito a ridurre la mia presenza sui social network fino a meno di un’ora al giorno di media su Facebook, traendone benefici dal punto di vista della gestione del tempo, delle emozioni (rabbia, frustrazione, picchi da esaltazione adrenalinica e abissi di depressione ridotti ai minimi storici) e, prevedibilmente, della produttività.

Diverse letture (alcune passate in rassegna in questo articolo, forse il più impegnativo che abbia scritto negli ultimi dodici mesi) mi hanno portato a meditare questo cambio di abitudini. L’idea è di continuare a combattere i cattivi comportamenti che assecondano il controllo del capitalismo cronofago sulle nostre giornate, portando a termine un ritiro definitivo da almeno un paio di social (per il momento la pole position è contesa proprio tra aNobii e la creatura di Zuckerberg, anche grazie alle evidenze emerse nell’ambito dello scandalo Cambridge Analytica) entro il 2021. Ma non escludo di farlo prima.

E con questo, dal mio 2019, l’anno dei replicanti e di Akira, è davvero tutto. Godetevi questi sgoccioli e passate degli splendidi momenti con chi volete e vi vuole bene. E se avete voglia di condividere il vostro bilancio del 2019 e i propositi per il nuovo anno, lo spazio dei commenti è come sempre a vostra disposizione.

Buon 2020! Ci troviamo di nuovo qui l’anno che verrà.

Puntate precedenti:

Immaginate adesso una Gran Bretagna futura in cui un movimento settario e segregazionista ha stabilito un nuovo ordine e l’Inghilterra, nel miraggio degli antichi fasti imperiali, si è chiusa su se stessa in un regime isolazionista ossessionato dal controllo. Non è 1984 di George Orwell, né I figli degli uomini di Alfonso Cuarón (tratto dal romanzo omonimo di P. D. James), anche se con entrambe queste opere intrattiene un discorso fatto di rimandi ed echi.

Potrebbe essere l’Inghilterra post-Brexit, l’inganno dell’UKIP che per certi versi richiama proprio quest’opera, che invece è uno dei vertici della letteratura inglese degli anni ‘80, un graphic novel scritto da Alan Moore e disegnato da David Lloyd: V for Vendetta. La famosa maschera di Anonymous è da qui che arriva, ripresa a sua volta dalla commemorazione della congiura delle polveri con cui ogni anno i bambini del Regno Unito celebrano la ricorrenza il 5 novembre, in ricordo dell’attentato ordito nel 1605 da Guy Fawkes e dai suoi complici cattolici contro re Giacomo I e il parlamento inglese. Un cospiratore, quindi, cattolico, monarchico.

Remember, remember,
the Fifth of November,
Gunpowder, treason and plot.
I don’t know the reason
why Gunpowder treason
Should ever be forgot!

Moore capovolge tutti gli stereotipi, come avrebbe poi continuato a fare con i supereroi in pensione di Watchmen (memorabilmente trasposti al cinema da Zack Snyder) e in innumerevoli altri lavori, e ci regala un antieroe mascherato di cui fino all’ultima pagina ignoreremo ogni dettaglio del suo passato, quasi sia solo una visione della co-protagonista Evey Hammond (mirabilmente interpretata da Natalie Portman nel film di James McTeigue del 2005), uno spettro, un’ossessione. O magari un egregore.

Pubblicato originariamente a puntate sulle pagine della rivista britannica di fumetti Warrior, V for Vendetta riscosse all’inizio poco successo e solo col tempo è giunto a conquistarsi una fama all’altezza dei suoi meriti e delle ambizioni dei suoi autori. In uno dei saggi che ne accompagnarono la pubblicazione, “Behind the Painted Smile”, Alan Moore compila una lista degli ingredienti di questa esplosiva miscela di anarchismo e poesia, di slancio rivoluzionario e fantasia:

OrwellHuxleyThomas DischJudge DreddHarlan Ellison‘s “Repent, Harlequin!” Said the TicktockmanCatman and The Prowler in the City at the Edge of the World by the same author. Vincent Price‘s Dr. Phibes and Theatre of BloodDavid BowieThe ShadowNight RavenBatmanFahrenheit 451. The writings of the New Worlds school of science fiction. Max Ernst‘s painting “Europe After the Rain“. Thomas Pynchon. The atmosphere of British Second World War filmsThe PrisonerRobin HoodDick Turpin

Quante vecchie conoscenze per i lettori di queste pagine!

La già citata trasposizione cinematografica di V per Vendetta è interessante perché ci permette di parlare di come agiscono alcuni simboli entrati nel nostro immaginario condiviso. La maschera di Guy Fawkes è uno dei casi più recenti ed eclatanti, visto che dopo il successo del film è stata adottata sia dai componenti di Anonymous per le sue uscite pubbliche che da alcuni movimenti politici. Quanti dei seguaci di questi ultimi sanno da dove arriva? Quanti di loro sono consapevoli dell’idealismo anarchico che ispira le azioni di V? Nel dubbio, l’invito a tutti è di rileggersi il fumetto di Alan Moore, che ci dimostra senza esitazioni quanto adulto e profondo possa essere un fumetto di genere, quanto efficace e rivoluzionaria possa essere un’opera di fantascienza nata come un prodotto popolare, rigettato all’inizio del pubblico come un’opera troppo cerebrale e poi riscoperta nel giro di qualche anno come un’autentica pietra miliare dell’immaginario del secolo scorso.

La dittatura neofascista rappresentata da Moore e Lloyd, le marce del Fuoco Norreno, le adunate del partito, lo stato di polizia che schiaccia sotto il suo tallone le vite private dei suoi cittadini, regalano oggi brividi di inquietudine che si fanno tanto più intensi e minacciosi quanto più si avvicina il 29 marzo 2019.

“Nel 1986 fui la protagonista di Le pianure di sale. Conquistò molti premi, ma non il pubblico. Conobbi Ruth lavorando su quel film. Ci amavamo. Vivevamo insieme, e il giorno di San Valentino mi mandava le rose e, Dio mio, quante cose avevamo. Furono i tre anni migliori della mia vita. Nel 1988 ci fu la guerra… e dopo la guerra non ci furono più rose. Per nessuno”.

Se è vero, come ebbe a dire Marx, che “la storia si ripete sempre due volte, la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”, almeno il fumetto era riuscito finora a risparmiarci la prima. Peccato che la farsa, i cui meriti sono da ricercarsi altrove, stia facendo il possibile per sopperire.

[4 – Fine]

Puntate precedenti:

Nel 1957 lo sceneggiatore Héctor Oesterheld e il disegnatore Francisco Solano López portano sulle pagine della rivista argentina Hora Cero Suplemento Semanal uno dei più incisivi e indimenticabili personaggi nella storia del fumetto: L’Eternauta.

Un giorno imprecisato nella seconda metà del XX secolo, a Buenos Aires, nello studio di uno sceneggiatore di fumetti si manifesta un uomo che si presenta come Khruner, ovvero «il vagabondo dell’infinito», che vaga da secoli alla ricerca della sua epoca e del suo mondo perduti. Tutto ebbe inizio con una nevicata mortale, che decimò la popolazione preparando la strada all’invasione. L’invasore di cui parla questo impossibile reduce del tempo è una spietata civiltà aliena, che ha già sottomesso innumerevoli razze quando prende di mira la Terra. I governi e gli eserciti terrestri organizzano una velleitaria resistenza: riuniscono la popolazione e cercano di opporsi all’avanzata aliena. Khruner e i suoi amici sopravvissuti raggiungono uno di questi punti di raccolta, el Monumental (lo stadio del River Plate) ma trovano ad attenderli un’amara sorpresa: gli alieni hanno assoggettato gli umani attraverso una forma di controllo mentale, trasformandoli in “uomini-robot”, del tutto privi di volontà, e li hanno aggregati alle loro armate.

Gli uomini-robot e gli invasori tenderanno molte trappole ai protagonisti finché questi riusciranno a introdursi nell’astronave-madre, dove Khruner azionerà involontariamente una macchina del tempo, dando inizio al suo vagabondaggio tra gli infiniti universi paralleli del continuum. L’opera, riscritta da Oesterheld nel 1969 enfatizzandone tanto i riferimenti politici quanto la violenza, ridisegnata con uno stile evocativo da Alberto Breccia (che insieme a suo figlio Enrique aveva collaborato l’anno prima con Oestrheld a La vita del Che, le cui tavole originali in patria furono sequestrate e bruciate), dispiega tutta la sua ambizione e la sua profondità profetica nel momento in cui il vagabondo dell’infinito rivela che il mondo da cui proviene è lo stesso in cui il fumettista vive, la stessa Buenos Aires in cui tutto ebbe inizio, e che alla nevicata fatale mancano solo quattro anni.

Impossibile non leggere negli uomini-robot e nei kol una rappresentazione delle varie forme di collaborazionismo in cui può essere declinata la connivenza con un regime totalitario, così com’è fin troppo immediato il parallelo tra l’invasione e il fascismo. Oesterheld, da sempre attestato su posizioni anti-imperialiste, si unirà ai Montoneros nella resistenza contro il regime militare ed entrerà purtroppo nel triste novero dei desaparecidos del Processo di Riorganizzazione Nazionale. Il suo è uno dei destini più atroci che si possano immaginare per un uomo: quando fu prelevato dalle autorità il 21 aprile del 1977, aveva ormai già assistito al martirio della sua famiglia: a partire dal giugno del 1976, infatti, tutte e quattro le sue figlie (di cui una incinta) erano state uccise o rapite dagli squadroni della morte al servizio del regime.

Sempre durante la violenta repressione della guerra sucia, sotto una dittatura che potrebbe essere quella cilena di Pinochet o quella argentina di Videla o Galtieri, è ambientato Perramus, di Juan Sasturain e Alberto Breccia. L’opera risale al 1985 ed è impossibile non pensare alla vicenda umana di Oesterheld mentre leggiamo la storia di Perramus, l’uomo senza nome e senza memoria che decide di farsi chiamare come una nota marca di impermeabili e finisce coinvolto nelle avventure più improbabili, incrociando il suo destino con quello di personaggi famosi. Perramus per esempio s’imbatte in un gigante della letteratura mondiale come Jorge Luis Borges, ucronicamente reduce dall’assegnazione del premio Nobel a Stoccolma, dove nel suo discorso ha pronunciato queste parole: “Un tempo mi preoccupavano i governi che facevano sparire certi libri dagli scaffali… poi ho capito che era più grave far sparire i lettori dalle loro case”. Non è azzardato leggere questa riscrittura del personaggio come una critica neanche troppo velata, dal momento che se nel nostro mondo Borges non raggiunse mai il massimo riconoscimento per la letteratura, che pure avrebbe meritato, in tanti credono che la causa principale fu proprio la sua mancata presa di distanza dai crimini del regime argentino.

Come l’Eternauta, Perramus meriterebbe un articolo dedicato, e non un articolo qualsiasi (come i due che pure ho già scritto e che potete leggere sul vecchio Strano Attrattore, per l’esattezza qui e qui), ma una disamina accurata, capace di scavare a fondo nei suoi sottotesti simbolici, nei suoi rimandi alla storia argentina, nei suoi slanci immaginifici e nelle sue meravigliose invenzioni. La nascita del personaggio da sola si svolge in una dimensione onirica ammantata da un’aura mitologica, con una sequenza di tavole memorabile per resa espressiva: l’arrivo, in una notte di luna piena, di uno squadrone della morte – i loro volti trasfigurati in teschi spettrali nelle tenebre – presso il covo di un gruppo di dissidenti politici, la vile fuga del protagonista che abbandona i compagni al loro destino, il suo approdo in una locanda emblematicamente chiamata Aleph, dove gli viene fornita da tre prostitute la soluzione ai propri sensi di colpa… a scelta tra il piacere di Maria, la fortuna di Rosa e l’oblio di Margarita. La sua preferenza cade su quest’ultima e, abbandonata ogni reminiscenza della propria vita trascorsa, al risveglio l’uomo che non ha più un nome dovrà cercare di ricostruirsi un’identità e una personalità, mentre il mondo intorno a lui prosegue a spron battuto sul cammino che porta al caos e alla dissoluzione.

La sua ricerca di se stesso – un nuovo se stesso – transita per la raccolta di frammenti altrui, simboleggiati dai vestiti abbandonati nella camera di Margarita dai suoi precedenti clienti: un marinaio svedese, un capitano scozzese, un clandestino argentino. Prelevato dai servitori del regime dei Marescialli, l’uomo che viene battezzato Perramus dal nome del suo soprabito viene imbarcato su un bastimento per occuparsi dell’eliminazione dei corpi, nella tragica evocazione dei peggiori sistemi riservati dalla dittatura ai desaparecidos. A bordo incontra Canelones e azzarda con questi un ammutinamento che li porta per la prima volta sull’isola di Mr. Whitesnow, una nazione strategica in cerca di emancipazione dal Regime dei Marescialli. E qui la storia si fa prima tragicomica e quindi farsesca, con Perramus che si procura l’identità fittizia di un pugile americano degli anni ‘30 e Canelones che lo trascina in avventure goderecce in giro per l’isola. Nel gioco allegorico di Breccia, i funzionari della dittatura di Mr. Whitesnow assumono tratti scimmieschi e statura da nani: evidentemente non meritano l’aspetto spettrale e cadaverico dei servitori dei Marescialli, e forse incarnano in chiave farsesca la banalità del potere in contrapposizione alla più autentica espressione del male.

Le linee guida che verranno poi confermate nel prosieguo della serie si trovano già definite qui: la satira spietata verso il potere in tutte le sue manifestazioni, la denuncia della repressione in tutte le sue forme, lo smascheramento di presunte forme di libertà che nascondono l’essenza della schiavitù e dell’oppressione, gli sforzi tesi al recupero della memoria. I toni dell’opera oscillano tra il registro della tragedia e quello della commedia (“Il problema non è la merda! Al contrario, è la soluzione!”), e toccano vette insuperate di efficacia proprio nelle pagine più grottesche e assurde, come quando, approdato con i suoi compagni di avventure su un’isola che basa la sua precaria economia sullo sfruttamento del guano, Perramus si trova davanti a una popolazione stremata, in trepidante attesa per una sospirata pioggia di escrementi di volatili che giunga a risollevare l’economia stagnante del loro paese. Ricorda qualcosa?

Le pagine che vedono l’intervento di Borges sono altrettanto indimenticabili. Lo scambio di battute che ha luogo in occasione del loro primo incontro è già tutto un programma:

Borges: «Lei porta un nome eccessivo, Signor Perramus. Evocatore di latini e di magia.»
Perramus: «Io non sono altro che questo nome.»
Borges: «Frase un po’ troppo letteraria, se mi permette.»
Perramus: «Mi spiace, ma tutta la mia vita è un racconto fantastico.»
Borges: «Questa è ancora peggio. La realtà è un’invenzione fantastica. La storia stessa lo è…»

E più avanti, in un momento cruciale della terza parte, lo scambio si tinge del tono paradossale che impregna tutta l’opera:

Perramus: «Maestro, stanno dormendo… Perché insiste sull’argumentum ornithologicum?»
Borges: «Io non parlo affinché mi ascoltino, così come non mangio affinché mi pesino o sono cresciuto affinché mi misurassero… Capisce?»
Perramus: «No.»
Borges: «Non importa. Non le spiego affinché capisca.»

Di avventura in avventura, Perramus si conferma nel ruolo di erede del Vagabondo dell’Infinito: insieme affrontano la condizione dell’espatriato, la perdita delle radici, il recupero della memoria, in un universo che è esso stesso la negazione delle radici, della memoria, della libertà, schiacciato sotto il tallone di ferro della dittatura militare.

Tra enigmi e riflessioni filosofiche, la legge del contrappasso si fonde con l’eterno ritorno e i cicli storici del destino. Nella prima avventura, per esempio, Perramus decodifica il messaggio per la Resistenza, ottiene la libertà dei suoi amici, ma un’indicazione sbagliata lo riporta all’Aleph e a Margarita, ovvero il punto da cui tutto è iniziato.

Margarita: «Cosa vuoi adesso?»
Perramus: «Ciò che ho perso: voglio conoscere il mio passato.»
Margarita: «Perramus, ciò che hai vissuto è davanti a te, non puoi ricordare ciò che succederà. È giusto così.»

Perramus, l’uomo senza memoria, si ritrova a fare i conti con il futuro, con l’unico impegno di “essere fedele al desiderio”. E le sue peripezie per il mondo possono riprendere.

[3 – Continua]

Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato.

George Orwell – 1984 (1949)

Oggi ricorrono i 74 anni dell’arrivo ad Auschwitz dei soldati dell’Armata Rossa e la scoperta di ciò che il Terzo Reich aveva significato per milioni di ebrei. Sei milioni, per l’esattezza. Oltre che per un numero inferiore ma comunque rilevante di prigionieri sovietici (almeno due milioni), polacchi non ebrei (circa due milioni), slavi (1-2,5 milioni), dissidenti politici (1-1,5 milioni), zingari (forse mezzo milione), omosessuali (5-15 mila), disabili e portatori di malattie mentali (duecentomila). Secondo stime variabili, un numero compreso tra i 12 e i 17 milioni di vittime furono sterminate con un’applicazione sistematica. E l’incertezza delle stime serve a rendere ancora più terribile l’orrore, per quanto possibile, conferendo alle proporzioni dell’Olocausto un ulteriore livello di atrocità: quello che è toccato a chi si è visto cancellare dalla grande tela della storia con la facilità di un tocco di pennello.

Per ricordare i caduti dello sterminio, nel 2005 la risoluzione 60/7 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha istituito il Giorno della Memoria. Ma diverse nazioni, tra le quali l’Italia fin dal 2000, avevano già da tempo adottato la commemorazione del 27 gennaio. D’altro canto, non so quanto possa giovare effettivamente un giorno della memoria, al di là del necessario ricordo dei caduti per mano della follia. La notizia di qualche anno fa che un quinto dei ragazzi tedeschi tra i 18 e i 30 anni ignorava la reale entità dell’orrore consumatosi ad Auschwitz già allungava un’ombra inquietante su questa data nel 2012.

Come ha sostenuto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo intervento commemorativo della data (24 gennaio 2019):

Auschwitz, evento drammaticamente reale, rimane, oltre la storia e il suo tempo, simbolo del male assoluto.

Quel male che alberga nascosto, come un virus micidiale, nei bassifondi della società, nelle pieghe occulte di ideologie, nel buio accecante degli stereotipi e dei pregiudizi. Pronto a risvegliarsi, a colpire, a contagiare, appena se ne ripresentino le condizioni.

Una società senza diversi: ecco, in sintesi estrema, il mito fondante e l’obiettivo perseguito dai nazisti. Diversi, innanzitutto, gli ebrei. Colpevoli e condannati come popolo, come gruppo, come “razza” a parte.

Purtroppo, da anni stiamo accumulando prove che il male è stato tutt’altro che estromesso dalla Storia ed estirpato dal mondo. Il male assoluto continua a essere declinato in molteplici varianti e questa sua moltiplicazione di forme e applicazioni, simboleggiate da muri, da porti chiusi,  da lager libici sostenuti economicamente dai governi italiani, è la testimonianza incontrovertibile che l’offensiva in corso non può e non deve essere sottovalutata, pena il suo definitivo trionfo.

E’ la dimostrazione pratica che non bastano i proclami a sostenere la prova della Storia. Occorrerebbe al contrario un’opera sistematica di formazione, un lavoro costante sulla cultura per tenere addestrate le coscienze, che non ci lasci cedere alle lusinghe dell’oblio, abbandonandoci al sonno della ragione. Dovremmo ricordarci, non solo in giornate come questa, che il male vince ogni volta che gli permettiamo di esprimersi nelle sue forme più banali, che sia l’idea di un nemico immaginario che ci lasciamo piantare nella testa dal tweet di un populista oppure lo sgambetto di una giornalista ai danni di un migrante in fuga da una guerra o dalla miseria del suo paese.

Il ventennio fascista, tanto rimpianto nell’ondata di disorientato qualunquismo che si avverte montare fin dai primi anni di questo secolo, significò oltre a tante altre indecenze anche questo. In periodi di crisi come questo, il malumore galoppante porta allo scoperto la vena di criptofascismo che in tempi “normali” ci sforzeremmo se non altro di tenere nascosto dietro una maschera di apparente decenza e si trascina dietro tutto uno strascico di rigurgiti violenti, razzisti, nazionalisti. Il passo da lì al neonazismo è breve. La teorizzazione di una qualche forma di superiorità o anche solo un diritto di precedenza, per diritto naturale o acquisito, una sorta di corsia privilegiata dei diritti, è un viatico per la catastrofe.

Un valido antidoto a questi tempi bui e disperati sarebbe il recupero della capacità di individuazione delle diverse forme di controllo della realtà messe in atto ai nostri danni. Citando ancora una volta George Orwell:

Dimenticare tutto quello che era necessario dimenticare, e quindi richiamarlo alla memoria nel momento in cui sarebbe stato necessario, e quindi dimenticarlo da capo: e soprattutto applicare lo stesso processo al processo stesso. Questa era l’ultima raffinatezza: assumere coscientemente l’incoscienza, e quindi da capo, divenire inconscio dell’azione ipnotica or ora compiuta. Anche per capire il significato della parola “bispensiero” bisognava mettere, appunto, in opera il medesimo.

Libri come Se questo è un uomo, La tregua e I sommersi e i salvati di Primo Levi ci ricordano l’orrore di cui siamo stati complici, ignari o consapevoli. Libri come La banalità del male di Hannah Arendt e Il fascismo eterno di Umberto Eco ci mettono in guardia dalla facilità di deriva e attecchimento del germe del fascismo. Un libro come Una teoria della giustizia di John Rawls mette a nudo il vizio intrinseco del pensiero utilitarista, che si traduce in forme più o meno intenzionali di penalizzazione a scapito degli interessi delle minoranze. Ma la letteratura, i fumetti e il cinema ci hanno fornito materiale di eccellente qualità per propagare la memoria e addestrare le coscienze, anche al di fuori dai classici e dal mainstream. Nell’ambito della fantascienza possiamo trovare opere di prima grandezza e di estrema utilità a questo scopo.

Pensiamo per esempio a La svastica sul sole (romanzo del 1962, vincitore del Premio Hugo, che dopo un tentativo abortito della BBC è stato trasposto recentemente da Amazon in una ottima serie televisiva, prodotta da Ridley Scott e adattata da Frank Spotnitz), in cui Philip K. Dick immagina uno scenario ucronico nato dalla vittoria delle potenze dell’Asse nella Seconda Guerra Mondiale e dalla loro conseguente spartizione del mondo; oppure ai bestseller Fatherland (1992), serratissimo thriller di storia alternativa di Robert Harris (anch’esso adattato nel 1994 in una miniserie televisiva da HBO, con Rutger Hauer nei panni del protagonista), o Il complotto contro l’America (2004), acclamata sintesi di bildungsroman e fantapolitica del maestro americano Philip Roth. O ancora L’arcobaleno della gravità (1973), che valse a Thomas Pynchon il National Book Award, che si svolge nelle concitate fasi finali della caduta (ma sarà davvero così?) del Terzo Reich, e Il sindacato dei poliziotti yiddish (2007, vincitore non solo dei premi Hugo e Nebula, ma anche del Locus e del Sidewise dedicato alle storie ucroniche), notevolissima detective story di Michael Chabon che si riallaccia direttamente al filone della storia alternativa proponendo un punto di vista obliquo sulla Shoah.

Charlie Stross sceglie al contrario di esaminare il genocidio dalla prospettiva del futuro profondo nel romanzo L’alba del disastro (2004), dove l’incubo proviene da pianeti remoti oppressi sotto il tallone di ferro di una setta di cyborg neonazisti. Ma l’affresco più efficace di ciò che significa l’odio, dedicato agli effetti devastanti a cui può condurre se seminato nel suolo sempre fertile dell’ignoranza e dell’indifferenza, ce lo offre forse Thomas Disch, che nel suo terribile e toccante Campo Archimede (1968) realizza con grazia straordinaria una perfetta attuazione del teorema ballardiano dell’inner space, risalendo concentricamente la gerarchia delle dimensioni dal microcosmo personale del protagonista (un poeta comunista imprigionato nel campo del titolo per la sua renitenza alla leva, in un’America totalitaria e bigotta del prossimo futuro) alla sfera universale del genere umano.

Ispirato dal discusso furto dell’iscrizione posta sull’ingresso di Auschwitz, non si può dimenticare il racconto di Stefano Di Marino La memoria rende liberi, riuscitissima incursione dell’autore nei territori della fantascienza, incluso nell’ottima antologia Sul filo del rasoio (2010), curata per il Supergiallo Mondadori da Gianfranco de Turris.

Diversi sono anche i fumetti che si sono cimentati col tema delle dittature fasciste, sia legando le storie direttamente alla tragedia dell’Olocausto (sullo Spazio Bianco potete trovare un pezzo ricco di titoli sull’argomento), come per esempio l’acclamato Maus di Art Spiegelman o l’altrettanto celebrato Magneto. Testamento di Greg Pak e Carmine Di Giandomenico che racconta la genesi del “cattivo” degli X-Men, sopravvissuto all’orrore dei lager nazisti; sia invece estrapolando visioni da incubo di società totalitarie future, a partire dall’ormai classico V for Vendetta di Alan Moore e David Lloyd (1982-85, trasposto al cinema da James McTeigue nel 2005) per arrivare alla recente incursione di William Gibson nei comics con l’ucronia distopica di Arcangelo.

Tra gli incubi cinematografici vanno segnalati Europa (1991), capitolo finale del trittico del danese Lars von Trier dedicato al vecchio continente, tra toni surreali e seduzioni ucroniche, e L’Onda (2008), in cui il regista tedesco Dennis Gansel delinea il pericolo di un riflusso autocratico a partire dall’esperimento sociale della Terza Onda, applicato dalle classi di un istituto superiore e presto degenerato in orrore. Il fascino dei totalitarismi – è questo il teorema che emerge da entrambi i film citati – attecchisce nel disagio, soprattutto in periodi di smarrimento storico e di apparente disaffezione alla politica.

Riprendendo le parole di Sergio Mattarella:

Noi Italiani, che abbiamo vissuto l’onta incancellabile delle leggi razziali fasciste e della conseguente persecuzione degli ebrei, abbiamo un dovere morale. Verso la storia e verso l’umanità intera. Il dovere di ricordare, innanzitutto. Ma, soprattutto di combattere, senza remore e senza opportunismi, ogni focolaio di odio, di antisemitismo, di razzismo, di negazionismo, ovunque esso si annidi. E di rifiutare, come ammonisce sempre la senatrice Liliana Segre, l’indifferenza: un male tra i peggiori.

Presidiare il passato, anche attraverso le forme di riscrittura critica operate dall’ucronia, è una valida strategia per difendere il futuro, per evitare che ci venga rubato, e per scongiurare che di conseguenza venga negato a chi verrà dopo di noi. Almeno mi piace crederlo, specie di questi tempi.

[Il presente articolo riprende e rielabora questo post apparso su Uno Strano Attrattore il 27 gennaio 2012.]

Ho sognato una tempesta concettuale forza cinque che soffiava sulla realtà devastata.
— Jean Baudrillard

Mi è capitato di leggere nei giorni scorsi una bellissima lettera aperta scritta da Vittorio Zambardino in risposta a un intervento di Alberto Abruzzese, che a sua volta riprendeva in maniera organica alcune sue considerazioni già esposte in calce a un articolo di Franco Berardi uscito su Alfabeta. Sono tre pezzi illuminanti, nelle reciproche diversità e lontananze. Ma proprio nella divergenza di punti di vista riescono a offrire una panoramica, se non completa quanto meno attendibile, della vastità del paesaggio che ci circonda. Un paesaggio che facciamo sempre più fatica a decifrare, perché in costante evoluzione, e perché il punto di osservazione da cui stanno scrutando il panorama si trova nel bel mezzo di una tempesta, investito dai venti contrari che stanno spazzando (per parafrasare Baudrillard) la nostra realtà devastata.

I tre interventi originano da un processo di investigazione, analisi ed elaborazione della nostra contemporaneità, che evidentemente prosegue incessante da diverso tempo. Anche nei passaggi più emotivi sono meditati, densi delle esperienze accumulate nel corso degli anni. Intersecano e sovrappongono il loro approccio sociologico, la loro impostazione filosofica e la loro “postura emotiva”, rivelando un metodo d’indagine senz’altro acuminato, che ognuno di loro legittimamente declina secondo la propria personale visione del mondo. Negli spazi tra le parole non faccio inoltre fatica a intuire la voce sottintesa di un discorso che evidentemente li ha già coinvolti in passato e che ancora va avanti, riferimenti che non posso cogliere nella loro interezza anche perché privo delle basi teoriche della loro militanza nello studio dei processi di comunicazione e dei fenomeni culturali, che pure mi appassionano, ma di cui mi ritengo un analfabeta integrale.

Allora perché sembra che voglia arrischiarmi a sfidare quegli stessi ostili venti di tempesta che già minacciano le loro postazioni, scalando la roccia a mani nude e senza corde di sicurezza per raggiungere un punto di osservazione tanto difficile e pericoloso? Perché la lettera di Vittorio, pur essendo rivolta ad Abruzzese, in realtà parla a un trentenne con cui, per ragioni anagrafiche e per le prese di posizione che ho espresso negli ultimi giorni, posso senza difficoltà identificarmi.

Non sarò originale, e sicuramente sarò ancor meno accurato, ma voglio comunque confrontarmi con le considerazioni con cui quella lettera, per il tono adottato e la profondità di pensiero espressa, mi invita a misurarmi.

Voglio però prima menzionare un passaggio cruciale dell’articolo di Abruzzese (che racchiude a sua volta una citazione di una citazione, non male come livello di ricorsività), anche se sarebbe opportuno leggere fino in fondo tutti gli interventi, che come dicevo meritano una approfondita riflessione:

È bene riprendere un brano del testo di Bifo da cui in particolare s’è mossa la mia idea di rassegnazione, il mio invito ad un sentire rassegnato: “Ne La questione della colpa (Die Schuldfrage), un testo del 1946, Karl Jaspers, il filosofo tedesco che viene considerato uno dei padri dell’esistenzialismo, distingue il carattere “metafisico” della colpa da quello “storico”, per ricordare che se ci siamo liberati del nazismo come evento storico, ancora non ci siamo liberati da ciò “che ha reso possibile” il nazismo, e precisamente la dipendenza della volontà e dell’azione individuale dalla potenza ingovernabile della tecnica, o meglio della catena di automatismi che la tecnica iscrive nella vita sociale”. Da questo semplice passaggio – in cui la soluzione finale del nazismo viene equiparata alla soluzione finale in cui gli automatismi del potere finanziario stanno gettando il mondo presente – si ricava che evidentemente in ballo c’è il rapporto tra tecnica e genere umano.

Pur non trovandomi in totale accordo con il punto di vista espresso, proprio a partire da questo brano ho colto alcune risonanze profonde con il mio personale sentire. Sul rapporto tra tecnica e genere umano mi sono ritrovato a interrogarmi spesso anch’io. Si tratta di un tema che ricorre nelle storie e nelle riflessioni critiche che mi hanno tenuto occupato fin da quando, insieme ad altri, ci siamo avventurati nell’esperienza culturale che abbiamo voluto battezzare “connettivismo”. Come mi sono trovato già a sostenere, ritengo che il vero motore della storia sia la tecnica. Probabilmente è un po’ antiquato e ingenuo cercare di ricondurre tutto a un’unica spinta, sforzarsi di far tornare i conti fondando le proprie considerazioni sull’impalpabile. Dall’acqua di Talete e dal numero di Pitagora allo Spirito di Hegel o all’economia di Marx, passando per le monadi di Leibniz, la storia del pensiero occidentale è tutta una ricerca forsennata del fondamento della realtà. La mia non è una visione né originale né tanto meno confrontabile con la complessità delle strutture di pensiero elaborate nel corso della storia della filosofia, degne di ben altra considerazione. Ma è il filtro attraverso cui guardo la realtà e mi rapporto ad essa, e quindi credo sia utile esporla in questa sede. Leggi il seguito di questo post »

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Mi chiamo Giovanni De Matteo, per gli amici X. Nel 2004 sono stato tra gli iniziatori del connettivismo. Leggo e guardo quel che posso, e se riesco poi ne scrivo. Mi occupo soprattutto di fantascienza e generi contigui. Mi piace sondare il futuro attraverso le lenti della scienza e della tecnologia.
Il mio ultimo romanzo è Karma City Blues.

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