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A un certo punto, mentre attraversava il media landscape, nell’homo sapiens sapiens divenuto inforg deve essere stata instillata l’idea. Non si sa bene da chi: forse era qualcosa che covava già dentro di lui e che necessitava solo delle condizioni ambientali più adatte. Fatto sta che intorno a questo seme si è poi sviluppata la convinzione. E oggi tutti possiamo ponderare gli effetti di questo processo: l’assunzione che chiunque possa parlare di qualsiasi cosa, la presunzione che non ci sia più bisogno di elaborare l’informazione, che basti semplicemente acquisirla per presentare ad altri il proprio punto di vista. E non solo: gode di popolarità crescente la presunzione che sia necessario esprimere questo punto di vista, comunicarlo, condividerlo.
Sempre senza nessun costo, senza nessun investimento. Tutto facile, tutto scontato. Abbiamo sostituito l’accesso alla comprensione.
Tra le più grandiose idee del Rinascimento compare la riscoperta dell’ideale classico dell’uomo universale, un modello a cui non manca di ispirarsi lo stesso postumanesimo. Il problema è che al momento ci ritroviamo circondati di tuttologi, spesso laureati all’università della strada quando non della vita. Sono una massa scalpitante, che si nutre di visibilità e nel cercare un’esposizione sempre più significativa comprime gli esperti ai bordi del campo. Una massa per di più rumorosa, che diluisce il flusso dell’informazione fino quasi ad annichilirlo. E noi dovremmo invece lavorare per preservare questa informazione, nutrire il flusso per consentirne lo sviluppo, la moltiplicazione, per raggiungere destinatari che restano comunque lontani, malgrado la contrazione delle distanze in un mondo iperconnesso.
L’uomo universale è e resta il nostro modello. Ma la strada per raggiungere la meta è purtroppo ancora lunga.
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