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Lo so che l’ultima volta che ho preso il discorso vi ho lasciati promettendovi un post imminente e poi sono trascorsi quasi due mesi. Lo so e me ne rammarico. Le pieghe dello spazio-tempo sanno essere non-luoghi decisamente infidi. È facile smarrire l’orientamento. Ma ogni promessa è un debito e io sono qui per saldare il mio. E spero di farlo con gli interessi, perché come se non bastasse Delos ha appena pubblicato le impressioni di altri italiani presenti alla WorldCon. E per di più Silvio Sosio ha annunciato un reportage ancora più completo sul prossimo numero di Robot. Per quello non vi resta che aspettare. Nell’attesa eccovi le mie considerazioni a caldo, ripescate dal mio blocco note virtuale.
La prima sensazione che hai arrivando all’ExCel di Londra è di essere sbarcato su un pianeta alieno. Solo più tardi scoprirai che l’organizzazione calcola in quasi undicimila unità il numero dei partecipanti alla WorldCon edizione 2014, ribattezzata Loncon3. A prevalere numericamente sono – in maniera abbastanza prevedibile – i padroni di casa e gli statunitensi, che insieme assommano i tre quarti delle presenze, ma qui risultano rappresentati praticamente tutti i membri delle Nazioni Unite: ci sono centinaia di canadesi, australiani, tedeschi, olandesi, francesi e scandinavi; decisamente marginale la partecipazione italiana, che alla fine si attesterà dietro a Irlanda, Israele e Polonia. Non ho dati precisi sulla distribuzione degli iscritti tra le diverse fasce di età, ma se la presenza di veterani è indubbiamente cospicua, non è irrilevante la componente più giovane: soprattutto tra i 30-40 anni, ma numerosi sono anche i ventenni (come sempre più di rado se ne avvistano alle con italiane).
La vitalità si riflette nell’offerta tematica della convention: gli organizzatori hanno cercato di sviluppare un percorso tra le centinaia di appuntamenti in cartellone, modulando gli interventi sulla lunghezza d’onda della diversità. Più tardi, tornato in madrepatria, scoprirò che non tutto è filato liscio come da impressione maturata in prima persona attraverso la trentina di eventi che ho avuto modo di seguire: leggerò resoconti di insolenze da parte dei fan più anziani, legati a una concezione nostalgica del genere e a una possessività territoriale del fandom, e di sgradevoli intemperanze verso le relatrici donne “di colore”, di distorsioni grottesche della nozione stessa di diversità, e ne sarò un po’ sorpreso, ricordando di aver attribuito in almeno una circostanza certi atteggiamenti più alla passione che alla maleducazione.

M. Darusha Wehm, Heidi Lyshol, Jack William Bell, Cory Doctorow e Kim Stanley Robinson discutono i piaceri di un buon infodump

Ken MacLeod presiede il commovente panel di editori e collaboratori con cui la Worldcon ha reso omaggio al compianto Iain M. Banks, ospite d’onore “ad memoriam”
Devo comunque ammettere, a onor di cronaca, di stare ancora smaltendo i neutrotrasmettitori mediatori delle ottime sensazioni che la Loncon3 mi ha lasciato addosso.
Il programma ha offerto molti momenti memorabili, impreziositi da contributi di rara eccellenza: Kim Stanley Robinson che disquisisce dottamente della corrispondenza inedita tra Virginia Woolf e Olaf Stapledon, descrivendo gli effetti di contrazione e dilatazione temporale nei romanzi, non solo di fantascienza; lo stesso Robinson impegnato con Cory Doctorow in una coraggiosa difesa dell’infodump; le interviste agli ospiti d’onore John Clute (critico e storico della fantascienza, oltre che scrittore a sua volta, cofondatore di Interzone e co-curatore della Encyclopedia of Science Fiction) e Chris Foss (autore di tante memorabili illustrazioni che dalle copertine hanno conquistato alla fantascienza generazioni intere di nuovi lettori); gli interventi commemorativi dedicati al grande Iain M. Banks, purtroppo prematuramente scomparso lo scorso anno, e alla disamina critica della sua opera; interventi incentrati sulla scienza e sul territorio di confine con il nostro genere, dal volo stellare (con contributi embedded come quello atteso e seguitissimo di Alastair Reynolds) alla biologia speculativa (con il fondatore della disciplina Dougal Dixon in persona). Senza trascurare la politica (con Charles Stross a fare la parte del leone) e la cosiddetta World SF, con preziose testimonianze da parte di autori non di madrelingua inglese ma che sono riusciti a conquistarsi un posto nel mercato anglofono (un nome su tutti, la francese di origini vietnamite Aliette de Bodard).

Lord Martin Rees, astronomo reale, intrattiene un auditorium gremito sulle prospettive spaziali di un futuro postumano

Fila per l’intervento di Alastair Reynolds sui futuri sviluppi del volo interstellare. Molti di noi resteranno fuori quando gli addetti alla sicurezza dovranno chiudere le porte per sopraggiunti limiti della capienza della sala
Ho sempre concepito la fantascienza come un laboratorio del futuro, un banco di prova per le idee, un ambiente di test in cui simulare gli effetti dei nostri timori e delle nostre speranze. In quest’accezione, la SF/F diventa per estensione una sorta di versione da banco – se non proprio tascabile – del mondo in cui viviamo, in cui è possibile testarne gli sviluppi futuri. Dalle voci ascoltate alla Loncon3 ho avuto modo di apprezzare la grande fiducia con cui, pur in un periodo di crisi mondiale, paesi emergenti come Singapore, Filippine e Lituania, letterature post-coloniali (Sud Africa, Sud Est Asiatico, Caraibi), tigri (India) e dragoni (Cina), rivelano una visione antitetica rispetto al pessimismo diffuso nei paesi occidentali. Non voglio inciampare nel luogo comune della contrapposizione tra una fantascienza ottimista e una fantascienza pessimista, ma è innegabile che schiere sempre più numerose di autori esterni al kernel anglosassone, agevolati dall’inglese come lingua franca, da qualche anno si stanno affacciando sui mercati occidentali, guadagnando un’attenzione crescente e facendosi portatori di un approccio (tematico, stilistico) al genere profondamente segnato dalle rispettive esperienze “locali”. È il primo effetto evidente della globalizzazione che nei prossimi decenni ridisegnerà le mappe con cui ci siamo orientati finora. I nuovi autori non anglo-americani guardano al futuro della fantascienza con grande slancio, ottimismo e speranza, ritenendola la dimensione ideale per interpretare le onde di cambiamento che attraversano i rispettivi contesti politico-sociali-produttivi nazionali: è da qui che probabilmente arriveranno le prossime spinte rivoluzionarie, in grado di spostare il baricentro geografico (ma non solo) del genere.
Di fronte al tumulto che si annuncia, i paesi in continua decadenza della Vecchia Europa continentale fanno da spettatori. E se non se la passano bene Germania e Francia, figurarsi l’Italia! Il nostro è forse il caso più emblematico: se l’interesse per la fantascienza riflette lo slancio di un paese verso il futuro, probabilmente è il momento di smettere di interrogarci sulla morte della fantascienza e cominciare piuttosto a farci qualche domanda sul futuro (culturale, sociale, economico e politico) del paese in cui viviamo.
Nutro da sempre una fascinazione ossessiva per le città, intese sia come aggregati statistici di dati che come modelli sociali in evoluzione. Nell’esperienza di tutti noi, la città si situa probabilmente più vicino all’idea di un esperimento sociale scappato fuori controllo che alla nozione di laboratorio e spazio creativo in cui elaborare stili di convivenza sempre più funzionali ed efficaci. Ovviamente, è naturale che all’aumentare della complessità dell’organismo urbano la minaccia dell’entropia diventi più consistente e insidiosa.
Anche per questo è interessante notare l’emergere di schemi matematici dall’organizzazione urbana. Già alla fine degli anni ’90 l’economista Xavier Gabaix aveva individuato una interessante corrispondenza tra i modelli di distribuzione della popolazione e una legge empirica descritta nel 1949 dal linguista statunitense George Kingsley Zipf e che da allora porta il suo nome. All’applicazione della Legge di Zipf alle statistiche urbane ha offerto il proprio contributo anche Paul Krugman, come spiega Annalee Newitz in questo articolo che ripercorre su io9 gli ultimi progressi compiuti nel campo. A voler mettere la questione in termini semplicistici ma intuitivi, alla base del fenomeno ci sarebbero la concentrazione dei servizi offerti, la richiesta di risorse necessarie per sostenere un compito (come può essere una funzione amministrativa su scala regionale o nazionale) o la capacità produttiva necessaria per reggere un ruolo economico (tipico delle città a vocazione finanziaria o industriale).
Altrettanto interessante è il concetto di città distribuita di cui parla con cognizione di causa Carl Abbott su Clarkesworld. Abbott, docente di urbanistica alla Portland State University, si occupa da tempo della rappresentazione della città nell’immaginario di genere, con contributi che spaziano dalla frontiera al cyberpunk, passando per Jack London e Kim Stanley Robinson. La città distribuita offre un’alternativa alla ben nota proliferazione urbana incontrollata dello sprawl, e contrappone la nozione di decentralizzazione massiva alla megalopoli che si diffonde senza soluzione di continuità, cannibalizzando i piccoli e medi centri a favore di un numero limitato di metropoli che assurgono al ruolo di centri nervosi e nodi della rete. Il governo scozzese ha recentemente proposto un simile modello di sviluppo per le Highlands e le isole, usando i seguenti termini:
[una città distribuita è il modo in cui] risorse in apparenza eterogenee – intellettuali, fisiche, sociali e materiali – possono essere correlate e integrate proficuamente tra di loro per creare iniziative motivazionali distribuite in una ecologia regionale di attività culturali ed economiche.
E se siamo d’accordo che la mia traduzione può non servire al meglio il già involuto gergo della burocrazia statale, il senso di fondo dovrebbe essere comunque chiaro. Per quanto la fantascienza pulluli al contrario di rappresentazioni efficaci di ecosistemi urbani congestionati, città-alveare, arcologie monumentali, dobbiamo la prima teorizzazione della “città distribuita” al sociologo sovietico Mikhail Okhitovich, che già nel 1929 teorizzava la disurbanizzazione, intuendo prima di chiunque altri – nel saggio “Il problema della città” – la possibile ricaduta benefica della tecnologia sull’organizzazione di uno spazio urbano alternativo alla centralizzazione della città capitalistica. In linea con i dettami del Costruttivismo, le nuove città sarebbero state strutturate sulle relazioni sociali e non più sulle caratteristiche del territorio, cancellando dallo spazio fisico le diverse funzioni di una città. In uno slogan: “il mondo intero sarà al nostro servizio”. Ma la fortuna non arrise al teorico russo e le sue critiche al culto della gerarchia e alla centralità dello stato stalinista furono all’origine della sua deportazione in un gulag, dove un colpo di fucile mise fine ai suoi giorni nel 1937. Le sue teorie furono ripescate negli anni ’80, nel clima di generale riscoperta dei principi dell’architettura costruttivista.
E nella fantascienza? Qualcosa si è visto anche nel nostro amatissimo genere. Abbott ci ricorda la “città distribuita” che Iain M. Banks rappresenta nel romanzo Surface Detail, penultimo nella sequenza della Cultura. Oppure Cascadiopolis, nel racconto di Jay Lake “Forests of the Night”, incluso nell’antologia Metatropolis, edita da Tor Books. Ma la migliore rappresentazione di una città distribuita è forse arrivata dalla televisione, grazie ancora una volta a Battlestar Galactica: cosa è in fondo la flotta coloniale che si muove in un esodo imponente attraverso la notte siderale, cercando di seminare gli inseguitori cyloni e alla ricerca di un nuovo ecosistema naturale per poter assicurare un futuro all’umanità?
E così l’innovativa idea di smart city che sta prendendo piede negli ultimi tempi si ritrova a essere in qualche modo già superata – o, per meglio dire, aumentata. Da un’idea vecchia di 85 anni, ma alla quale – come Abbott ci invita a fare nella chiusura del suo articolo – siamo tutti chiamati a offrire un contributo.
Kim Stanley Robinson at Worldcon 2005 in Glasgow, August 2005. Picture taken by Szymon Sokół. (Photo credit: Wikipedia)
La scorsa settimana il prestigioso New Yorker ha ospitato sulle pagine del suo blog dedicato alla lettura un intervento di Tim Kreider che si interrogava sul migliore autore politico in circolazione. Partendo da una triste constatazione, che i critici del 2063 potrebbero convincersi che le principali preoccupazioni sociali della nostra letteratura contemporanea siano i rapporti con i genitori, le relazioni finite male e la morte, Kreider sostiene che per trovare qualche istanza politica, specie su una questione non ancora abbastanza dibattuta come il conflitto tra la democrazia e il capitalismo, al giorno d’oggi non ci resta che rivolgerci a un solo genere. Non l’avreste mai detto, eh? Ebbene sì, proprio la nostra vituperata, bistrattata, malconcia e moribonda fantascienza. E arriva a sostenere, con parole che trovo largamente condivisibili, che:
La fantascienza è un genere intrinsecamente politico, dal momento che qualsiasi futuro o storia alternativa immagini rappresenta un desiderio su Come Le Cose Dovrebbero Essere (anche quando si riflettono minacciosamente in un ammonimento su come potrebbero andare a finire). E Come Le Cose Dovrebbero Essere è la domanda e lo sforzo al centro della politica. [La fantascienza] è anche, direi, un genere intrinsecamente liberale (nonostante i suoi numerosi frequentatori moderati), nel senso che guarda allo status quo come fortuito, una combinazione storica, laddove il conservatorismo lo considera inevitabile, naturale e per questo giusto. La meta-premessa di tutta la fantascienza è che non bisogna dare per scontato niente.
Kreider riconosce nel pluripremiato Kim Stanley Robinson, uno dei maggiori autori di fantascienza viventi, la figura del più importante autore politico attivo oggi in America. E giustifica con chiarezza e dovizia di particolari la sua scelta. Kreider sostiene che la grandezza di Robinson deriva dal suo tentativo di applicare il metodo scientifico alla politica, privilegiando un approccio ingegneristico ai problemi. I suoi lavori danno voce a quello che nel mondo anglosassone viene definito left-wing libertarianism e che da noi viene inserito nella tradizione dell’anarchismo di sinistra. Tra i concetti che troviamo applicati nelle sue opere, e che potremmo far confluire in una ideale piattaforma politica, si annoverano:
- la gestione comune – non la proprietà – della terra, dell’acqua e dell’aria
- un sistema economico basato sulla realtà ecologica
- il trasferimento di potere decisionale dai governi centrali alle comunità locali
- l’affrancamento delle basi dell’esistenza, come l’assistenza sanitaria, dalle crudeltà del libero mercato
- l’applicazione di principi democratici come l’autodeterminazione e l’uguaglianza sul posto di lavoro – che in pratica comporta piccole cooperative al posto di enormi multinazionali, gerarchicamente strutturate e basate sullo sfruttamento
- il rispetto per il mondo naturale codificato nelle leggi.
Il che forse giustifica la scarsa fortuna che purtroppo ha sempre accompagnato Kim Stanley Robinson nel rapporto con l’editoria italiana, considerando tutti i cicli iniziati e poi interrotti, dalle Tre Californie alla Trilogia Marziana, per non parlare dei capolavori mai nemmeno tradotti (Antarctica, 2312). Ma volendo considerare, con piglio scientifico, la reputazione che Robinson ha saputo costruirsi in patria, dobbiamo riconoscere con rammarico che i conti non tornano: un autore anti-capitalista snobbato in Italia e celebrato negli USA? Nemmeno in un’ucronia, forse.
E allora ci tocca andare a ricercare altrove le cause del suo scarso successo presso il pubblico italiano. Da dove cominciare? Dalla nostra squallida realtà di tutti i giorni, per esempio, con tutte le caratteristiche inequivocabili di una società in piena decadenza: dal livello infimo del dibattito politico agli stenti della ricerca, dalla crisi ormai strutturale della produzione al progressivo smantellamento dei servizi, senza dimenticarci lo stato pietoso in cui versa la cultura. Un paese che può permettersi di accettare la situazione con cui dobbiamo fare i conti giorno dopo giorno è un paese che può permettersi tranquillamente di ignorare le numerose domande (im)poste da autori politici come Kim Stanley Robinson, oppure – se è per quello – Iain M. Banks, Greg Egan, Ken MacLeod, Ian McDonald, Charles Stross, Richard K. Morgan, per citare solo alcuni dei più importanti autori di fantascienza di questi ultimi anni.
Parlare della crisi della fantascienza, allora, diventa un modo come un altro per affrontare una crisi ben più ampia, ormai dilagante a livello di sistema. Ma ne considera solo un sintomo, mentre il male da curare risiede altrove, ed è il caso che qualcun altro, oltre a chi scrive o legge fantascienza, cominci a preoccuparsene.
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