Approfitto del discorso di qualche giorno fa per ripescare dal limbo delle bozze questo articolo che a suo tempo avevo preferito tenere in sospeso e che poi, per un motivo o per l’altro, non avevo più avuto modo, voglia o interesse di riprendere. Vista la convergenza di argomenti, direi che se esiste un momento adatto per riportarlo alla luce, non può essere che questo.

Charlie Jane Anders − sì, ancora lei − pubblicava ormai un anno e mezzo fa un articolo su io9 per raccogliere le segnalazioni di altri illustri colleghi su quali espressioni ciascuno di loro avrebbe voluto veder sparire dal vocabolario. Tra gli interpellati ritroviamo Kim Stanley Robinson, Ken Liu, Madeline Ashby, Ted Chiang, Nalo Hopkinson.

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Ultimamente si è molto parlato del valore della critica (costruttiva, distruttiva e quel particolare tipo noto solo in Italia: la “costrittiva“). Nessuno qui si sognerebbe di liquidare ogni critica ricevuta sul proprio lavoro come pretestuosa, inutile, frutto di invidia o di malignità. Ma come scrittori e addetti ai lavori credo che sia tempo che tutti noi ci mettiamo una mano sulla coscienza e capiamo cosa vogliamo fare del genere in cui ci muoviamo. Nel mondo anglosassone è una faccenda ormai acquisita, e infatti viene data per scontata: guardate gli articoli pubblicati sui principali portali dedicati alla fantascienza (lo stesso io9 o tor.com, per esempio) e ditemi quanti interventi fuori tema, o strumentali, polemici o maleducati sono tollerati nello spazio dei commenti. Prendetevi pure qualche giorno per rispondermi, o qualche anno. Oppure fate un sondaggio a campione su due articoli e tornate qui in meno di 2 minuti. Non credo che il risultato cambierebbe: sarà sempre, inesorabilmente, zero. (Quando qualcosa di brutto succede – dopotutto, il rischio è sempre in agguato – fuori dall’Italia vige un sano principio di responsabilità: chi ha sbagliato paga. E infatti è quello che è successo non molto tempo fa fa nel famigerato caso del SFWA bulletin.) Poi diamo un’occhiata a quello che succede sul web italiano, con spazi che andrebbero tutelati e invece sono usati come sfogatoi (mi permetto di prendere la parola in prestito da un romanzo di Francesco Verso) dai soliti ignoti nascosti dietro la confortevole spavalderia di un nickname o da autoproclamati protettori della purezza del genere. Facciamoci un esame di coscienza e ragioniamo insieme su quale metodologia sia più funzionale ed efficace allo sviluppo del genere: il rigore anglosassone o la caciara italiana.

Il discorso può essere allargato ad abbracciare forum, blog e chi più ne ha più ne metta.

Per anticipare le obiezioni più prevedibili, non mi sogno nemmeno lontanamente di togliere la parola a nessuno, né tanto meno di farlo per prevenire critiche negative. Ognuno è libero di commentare ciò che ha letto o quello che gli pare. Ma ormai viviamo in un mondo in cui esprimere un’opinione su qualsiasi cosa, in qualsiasi campo, è considerato praticamente un obbligo. E le opinioni che minano la credibilità esterna della comunità non sono tanto i commenti sulle singole opere − spesso è facile discriminare tra quelle espresse con cognizione da quelle improvvisate − ma quelli che da parte del “commentatore” tradiscono la mania imperante di ergersi a esperto del caso, a specialista capace di risolvere ogni problema, a depositario della famosa ricetta di cui parlavo qualche tempo fa. Rumore, nient’altro. Troppo spesso le critiche che leggiamo in giro − i lamenti sullo stato di salute del genere, gli attacchi a determinate tipologie di autori, siano essi le autrici impegnate, gli sperimentatori del caso o gli scrittori italiani, e via di questo passo − sono in realtà chiacchiere da bar. Hanno la stessa validità dei commenti calcistici raccolti nei paraggi di un bancone e come tali andrebbero trattate.

Per valutare l’apprezzamento delle opere del settore, non è un caso che a livello mondiale esistano due riconoscimenti: il premio Nebula (assegnato dagli addetti del settore regolarmente registrati) e il premio Hugo (assegnato attraverso una votazione popolare, che proprio da due anni a questa parte sta rivelando delle pericolose falle che lo espongono al gioco al massacro dei malintenzionati di turno). E non serve nemmeno ricordare che la popolarità guadagnata e conservata da quest’ultimo è merito anche della credibilità delle scelte che ha saputo esprimere nel corso del tempo, per cui annate come le ultime rischiano di assestare un duro colpo alla credibilità e all’immagine del premio, come per altro ribadito in più occasioni da qualcuno che ne sa qualcosa, come George R.R. Martin.

Ma se la situazione nel mondo anglosassone è questa, cosa succede in Italia?

Viene spesso ripetuto che gli autori italiani sono dei dilettanti, che mancano di qualsiasi professionismo. Bene, comportiamoci da professionisti, e nel farlo iniziamo a tutelare l’immagine che il fandom riesce a trasmettere all’esterno. Perché una comunità di appassionati si regge sulla figura dello scrittore ma anche su quella del lettore, e ne comprende anche molte altre: editori, curatori, traduttori, critici, recensori.

Adesso torniamo all’elenco di io9 e scorriamolo insieme (con qualche mia licenza di adattamento):

  • infodump
  • Mary Sue
  • distopico
  • punto di vista (specie se ballerino)
  • hard science fiction
  • “la realtà supera la fantasia”
  • obsoleto
  • trama idiota
  • familiare (personaggio)

Tutte queste segnalazioni formano le sbarre della gabbia che spesso viene usata, con disinvoltura inalterata, per intrappolare un’opera o per sminuire l’importanza di un intero filone letterario.

Nel caso italiano ne potremmo aggiungere altre. Comincio io buttandone lì un paio, ma invito tutti ad aggiungere le proprie sbarre nello spazio dei commenti:

  • pessimismo (l’autore non si sforza di proporre una speranza per il futuro, si limita solo a dipingere lo scenario peggiore possibile…)
  • pioggia (in questo romanzo piove troppo…)
  • morte (del genere in senso lato, ma sempre più spesso anche di singole iniziative editoriali, collane o elementi della fantascienza, per esempio il sempre più rimpianto sense of wonder)
  • (non) reggere il confronto (con questo o quell’altro autore, preferibilmente straniero)

Andate pure avanti con l’elenco a vostro piacimento.

Adesso proviamo a immaginare cosa accadrebbe se tutte queste espressioni, questi stereotipi e pregiudizi, sparissero all’improvviso. Legioni di commentatori si ritroverebbero senza appigli pronti all’uso per imbastire i loro giudizi preconfezionati e dovrebbero cominciare ad argomentare con cognizione di causa, entrando nei dettagli di ciò che hanno letto, di ciò che hanno visto, di ciò che conoscono. Applicandosi nell’esercizio del loro senso critico, affinando gli strumenti di analisi, vedendosi costretti a risalire i fili dei discorsi sviluppati all’interno di un genere o di una letteratura o in relazione con altri generi e media, attraverso rimandi, risonanze e richiami, ricostruendo la trama della sua storia. Un lavoro da critici, mi rendo conto.

Per voi sarebbe una perdita? Oppure ridurre il rumore per aumentare il volume di banda disponibile significherebbe garantire più spazio alla trasmissione dell’informazione? Ai posteri, se saranno ancora interessati all’argomento, l’ardua sentenza.