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Uno spettro si aggira tra le visioni del futuro dell’umanità. A dire la verità, di spettri potremmo contarne diversi, ma se escludiamo le estrapolazioni in cui la civiltà umana si annienta in una catastrofe globale, il più ingombrante rimane senz’altro quello della futura scalata umana alla Nuova Frontiera.

Per noi vecchi arnesi cresciuti a pane e fantascienza, lo spazio è il convitato di pietra di ogni tentativo di proiezione dell’umanità nel futuro. Lo è anche a dispetto dell’evidenza di tutti gli ostacoli disseminati lungo il cammino verso le stelle, perché con ogni probabilità il mistero del cosmo è iscritto talmente a fondo nel nostro inconscio come specie da essere diventato un marchio a fuoco nel codice memetico del nostro immaginario. E lo è al punto da saltare fuori anche nelle visioni del futuro nominalmente concepite in antitesi con le spensierate avventure tecnologiche della prima fantascienza, quella ormai associata con la Golden Age: se da un lato la space opera non ha mai perso davvero vigore, attraversando le decadi sulla spinta di un motore inerziale che da Edmond Hamilton e Isaac Asimov è passato per la penna di Frank Herbert, Larry Niven, John Varley e C.J. Cherryh per arrivare fino a noi con Lois McMaster Bujold, Iain M. Banks, Vernor Vinge, e poi con Peter F. Hamilton, Alastair Reynolds e numerosi altri anche tra i frequentatori occasionali, è un dato di fatto che lo spazio è un ingrediente fondamentale nel world-building dello stesso cyberpunk (pensiamo alla Disneyland orbitale di Freeside o all’epilogo stesso di Neuromante, agli habitat spaziali della Matrice Spezzata o alle colonie extra-mondo di Blade Runner, tanto per citare i tre pilastri su cui l’immaginario del movimento degli Anni Ottanta ha preso forma), come lo erano stati la Luna, Marte e i satelliti dei giganti gassosi per Philip K. Dick e lo specchio delle contraddizioni terrestri allestito da Ursula K. Le Guin sui pianeti del suo Ecumene, o come lo sarebbero poi stati diversi sfondi del sistema solare per Kim Stanley Robinson, gli autori della cosiddetta fantascienza umanistica, Ian McDonald o gli aderenti alla Mundane SF.

Alla luce di questa scorribanda più veloce della luce, potremmo distillare l’essenza della fantascienza in una formula approssimativa, ma che ne riesce comunque a cogliere una delle caratteristiche più distintive emerse in un secolo di invenzioni, declinate sia nella dimensione della creatività più esplosiva che sul piano della critica più speculativa: vale a dire, che per l’umanità non c’è futuro senza spazio.

Da veterani di questo feeling di lunga data, noi appassionati di fantascienza siamo quindi particolarmente sensibili alle imprese spaziali vagheggiate, programmate o millantate dalla genia dei multimiliardari che da alcuni anni a questa parte inseguono il sogno dello sviluppo commerciale dello spazio. Ancor più di Jeff Bezos (di cui proprio durante la pandemia ha finito per insidiare il primato di uomo più ricco del mondo, secondo molti arrivando nel 2022 addirittura a surclassarlo) o di Richard Branson, che può vantare la costruzione del primo aeroporto spaziale, grazie alla sua sovra-esposizione mediatica è ormai Elon Musk a personificare l’imprenditore del futuro, provvisto di una visione e a capo di un impero economico capace di tentare la conquista della frontiera spaziale. Il più grande capolavoro di Musk è stato probabilmente quello di intestarsi un’immagine di outsider, come se un uomo fuori dalle logiche del mercato potesse arrivare ad accumulare la fortuna richiesta per diventare l’uomo più ricco del mondo – oppure, se è per quello, come se un uomo in grado di twittare 5mila volte in un anno potesse anche essere direttamente coinvolto in un’attività vagamente assimilabile al lavoro.

Questo gli ha permesso di far passare sempre sottotraccia le molteplici contraddizioni della visione imprenditoriale di cui si fa portatore: da una parte la proiezione verso un futuro migliore sbandierata a suon di tweet e interviste, dall’altra le conseguenze pratiche sulla vita degli abitanti di Boca Chica comportate dall’attività della sua Starbase in Texas e i dissidi professionali con i suoi collaboratori e dipendenti. Come emerge, nonostante i toni apologetici, dalla sua biografia scritta da Ashley Vance (Elon Musk: Tesla, SpaceX e la sfida per un futuro fantastico) e come riassumeva Nicolò Porceluzzi nel suo profilo redatto per Prismo, i dipendenti di Musk finiscono per essere utilizzati come munizioni, investiti strumentalmente di un ruolo solo nella logica di finalizzare uno scopo, dopodiché consumati e buttati via. Nello stesso articolo gli esempi si sprecano: dalla collaboratrice di lunga data licenziata per aver chiesto un aumento, alle conseguenze altrettanto estreme per i dipendenti che mancano una deadline o commettono un refuso in una e-mail importante.

Dopotutto ogni cosa per Musk sembra ridursi a un mezzo al servizio dei suoi obiettivi: che siano i dipendenti delle sue aziende o gli abitanti di un villaggio di pescatori che per caso si è venuto a trovare troppo vicino alla sua base operativa per i lanci spaziali. Perché dovremmo quindi sorprenderci se Musk ammette candidamente che il sacrificio da pagare per andare su Marte si misurerà in missioni fallite e vite umane perse? Perché dovremmo stupirci se Musk pianifica la conquista di Marte con un meccanismo di servitù debitoria che somiglia a una forma di schiavitù a esclusivo beneficio dei suoi sogni di colonizzazione spaziale?

Marte visto da Franco Brambilla, storico copertinista di Urania, per la nuova edizione de Le sabbie di Marte di Arthur C. Clarke.

Ma se la sorpresa non è giustificata, la generale mancanza di reazione da parte dell’opinione pubblica, di coloro che si fanno passare per intellettuali o – entriamo in modalità utopia estrema? – della politica, desta più di qualche perplessità. Le rare volte in cui Musk ha finito per sfiorare il discorso, come quando il governatore repubblicano Greg Abbot ha dichiarato la vicinanza (se non proprio l’appoggio) del suo nuovo partner in affari alle politiche sociali del Texas, nella scia delle polemiche seguite alle nuove restrizioni sull’aborto introdotte dallo stato nel settembre del 2021, per smarcarsi Musk non ha saputo fare di meglio che prodursi in una dichiarazione pilatesca (quella volta fu questa: “In general, I believe government should rarely impose its will upon the people, and, when doing so, should aspire to maximize their cumulative happiness. That said, I would prefer to stay out of politics“).

Allo stesso modo in cui siamo disposti a ignorare che la lotta al cambiamento climatico per le aziende di Musk è fondamentalmente un business, sembriamo capaci di passare su tutte le altre contraddizioni del personaggio. La vaghezza degli annunci, la cronica mancanza di dettagli a fronte di progetti talmente ambiziosi da richiedere una cura diabolica, per la prima volta sta però cominciando a far breccia in questa sorta di muro di omertà in cui si è trasformato il credito di fiducia incondizionata che siamo stati disposti a riconoscergli per tutto questo tempo: è notizia proprio degli ultimi giorni che il ritardo nei piani di lancio di Starship ha iniziato a produrre qualche perplessità tra i commentatori che s’interessano delle iniziative eloniane.

Sempre in veste di appassionati di fantascienza, avremmo dovuto forse accorgerci prima degli altri che Elon Musk era piuttosto distante dall’ingenuo prototipo del visionario capitalista spaziale celebrato, con il suo tipico slancio ottimistico, da Robert A. Heinlein, a partire dal D. D. Harriman protagonista di Requiem e L’uomo che vendette la Luna, pietre miliari degli Anni Quaranta. Nonostante Musk si sia dichiarato un fan di Iain M. Banks, nonostante tutto il citazionismo di facciata utile a costruirsi un alone da geek funzionale alla sua causa (peraltro, quale scelta migliore di David Bowie o della Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams per triggerare gli entusiasmi dei fan?), i bug che possiamo individuare nel suo programma per rendere la specie umana una civiltà multiplanetaria, come lui stesso ama chiamarla, dovrebbero già adesso insospettirci sui possibili esiti finali. Dal realismo capitalista di Mark Fisher, con Musk facciamo già due o tre passi avanti nel futuro e ci troviamo sbalzati nell’orizzonte di un transrealismo iperliberista: se non c’è alternativa ora al neoliberismo, come potremo rinunciare ai suoi protocolli operativi per piegare il futuro alla volontà della ragione? Tra le crepe che percorrono la superficie di questo sogno si affaccia un futuro che non può essere per tutti. Insomma, suo lo spazio, suo il futuro.

A meno che, e questo diventerà evidente sicuramente prima della fine del decennio, Elon Musk non si dimostri semplicemente un innocuo ciarlatano.

In ogni caso, parafrasando la sua ex-moglie, questo non è il mondo di Elon e noi non siamo lo Starman che lui ha piazzato alla guida di una Tesla Roadster prima di lanciarla nello spazio. Non dobbiamo viverci dentro per forza, se non lo vogliamo. Smettere subito con l’adorazione acritica della sua immagine sarebbe già un inizio, verso un diverso futuro ancora da esplorare.

La memoria è uno specchio distorto della realtà. Sembra quasi che un regista occulto decida il montaggio degli eventi, ricollocandoli nel flusso del tempo per alterarne le relazioni, alla ricerca disperata di corrispondenze che spingano un senso ad emergere, anche laddove un senso sembrerebbe non esserci.

La prospettiva non è mai omogenea o neutrale. E in particolare gli episodi nodali, sia su piccola che su grande scala, impongono l’adozione di nuove prospettive.

Ci sono piccoli ricordi, di grande importanza per ciascuno di noi, che risaltano al punto da illuderci di poterli afferrare anche solo allungando una mano. Episodi della nostra infanzia potrebbero esserci capitati ieri pomeriggio, generando un senso di vertigine al nostro ritorno alla realtà — cosa è successo nel frattempo?

Ma tanto più grande è il peso dell’evento, tanto più lontano viene relegato nella prospettiva del tempo. Forse è un meccanismo di autoconservazione adottato dalla nostra mente per mantenere un contatto con la realtà, un dispositivo di autoprotezione per non farsi schiacciare. Gli eventi che segnano il corso della storia impongono un surplus di distacco, non per essere capiti o analizzati, ma semplicemente per essere contemplati nel panorama continuo delle nostre esperienze.

L’11 settembre 2001 ricade in questa tipologia molto rara. Un’altra data potrebbe essere il 9 novembre 1989, che al confronto mi sembra quasi preistoria, qualcosa che ho fatto appena in tempo a vedere o forse mi sono solo ingannato di farlo, caricato dai significati aggiunti dalle letture storiche sui libri che me lo hanno spiegato. E poi ognuno ha le sue.

Ma un evento che rivive moltiplicato nelle memorie di miliardi di persone è necessariamente anche un ricordo condiviso? Oppure non è altro che uno dei tanti elementi di alienazione che — a seconda della diversa posizione che è andato a occupare nel flusso alterato degli eventi nel montaggio delle nostre memorie — contribuisce a definire la diversificazione delle nostre prospettive? Forse è anche per questo che la nostra mente si sforza di prendere le distanze, inserendo quanto più spazio possibile tra il presente e il passato. Per ricollegarci in qualche modo ai nostri simili, per ripristinare un contatto con le altre menti, evitando il baratro della follia.

Ognuno di noi ricorda dov’era e cosa stava facendo quando ha appreso quella notizia, tanto sconcertante da sembrare falsa. Uno scherzo di cattivo gusto. L’11 settembre. Un affronto alla nostra salute psichica, oltre che alla sicurezza pubblica.

Per quanto bene ricordi quel pomeriggio — un accenno colto in treno da uno sconosciuto che aveva appena ricevuto un SMS, e poi le immagini televisive trasmesse in diretta da 6.900 Km di distanza e la spasmodica ricerca di informazioni e analisi dei giorni, delle settimane e dei mesi seguenti, elementi che aiutassero a capire e classificare l’evento, la proliferazione di teorie cospirative e l’effetto domino dello “scontro di civiltà” — mi resta la sensazione che ad oggi siano trascorsi molti più anni dei 14 scivolati via da quell’11 settembre 2001.

Praticamente, una vita fa.

9/11 Tribute Piece by Banksy in Tribeca, New York City.

9/11 Tribute Piece by Banksy in Tribeca, New York City.

Passeggiando per le strade di New York il mese scorso avrebbe potuto imbattervi in un’opera fresca di spray firmata nientemeno che da Banksy, misterioso quanto acclamato artista di strada, nonché attivista, che dagli inizi degli anni Zero sta mostrando nuovi e irriverenti percorsi all’establishment dell’arte contemporanea. Banksy ha infatti voluto concedersi un’autentica mostra per le strade della Grande Mela, marchiandone i muri ogni giorno con un’opera diversa, per la gioia dei graffitari e dei fan e con gran disappunto dell’ormai ex-sindaco Michael Bloomberg. Un evento ai confini tra arte di strada e situazionismo, battezzato programmaticamente – da una celebre espressione dell’impressionista francese Paul Cézanne – Better Out Than In.

Le sue imprese, sempre venate di un humour corrosivo, hanno attirato l’attenzione dei media oltre che della polizia, sono state documentate da un blog e si sono concluse con un appello al salvataggio di 5 Pointz, un complesso di Long Island che dagli anni ’90 è un punto di incontro per gli street artist di NY e non solo, e che il proprietario vorrebbe ora abbattere per lasciar posto a un nuovo complesso di condomini.

Better Out Than In, questa sorta di installazione itinerante, ha richiamato dagli archivi del mio immaginario sci-fi il record relativo a Confini, stupendo racconto di Fabio Nardini scritto nel 1997, originariamente apparso su Robot 43 e quindi incluso nella sua raccolta personale intitolata Quantica.

Quanto a Banksy, ne approfitto per riprendere un vecchio post dallo Strano Attrattore. Leggi il seguito di questo post »

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Mi chiamo Giovanni De Matteo, per gli amici X. Nel 2004 sono stato tra gli iniziatori del connettivismo. Leggo e guardo quel che posso, e se riesco poi ne scrivo. Mi occupo soprattutto di fantascienza e generi contigui. Mi piace sondare il futuro attraverso le lenti della scienza e della tecnologia.
Il mio ultimo romanzo è Karma City Blues.

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