Di cosa parliamo quando parliamo di cyberpunk? La risposta è molto meno scontata di quanto potrebbe sembrare a un approccio superficiale. Il cyberpunk letterario è stato spesso accusato di scarsa originalità, monotonia di fondo e, col tempo, conformismo a tutta una serie di elementi divenuti un po’ dei cliché: il mondo distopico dominato dalle multinazionali, gli hacker solitari in lotta contro il sistema, la vita di strada nei bassifondi delle megalopoli… e potremmo continuare. Ma se prendiamo in considerazione i due titoli che hanno contribuito maggiormente a plasmare la nuova sensibilità della fantascienza dagli anni ’80 in avanti, ci accorgiamo di tutta una serie di differenze anche abissali legate non a elementi di contorno, che tutto sommato sono anche abbastanza sovrapponibili (*) – come dimostrano anche le dichiarazioni di William Gibson sulla sua esperienza come spettatore in sala all’uscita di Blade Runner – ma su un elemento che per il cyberpunk è tutto fuorché accessorio: la tecnologia.
(*) E che così di contorno, come vedremo tra poco, comunque non sono.
La tecnologia in Neuromante
Partiamo da Neuromante, il manifesto letterario del cyberpunk. Uscito nel 1984, è ambientato secondo le stime di Gibson intorno al 2035 (sebbene l’arco della trilogia copra 16 anni e quindi questa datazione vada presa molto con le molle, potendo oscillare, diciamo, tra il 2025 e il 2040… ma tutto sommato ancora dietro l’angolo, a differenza di quanto dedotto invece da un lettore su Vice basandosi su altri elementi interni ai romanzi ma probabilmente più dovuti a sviste dell’autore che non riconducibili alle sue reali intenzioni) e dipinge una tecnologia ormai smaterializzata, micro- e nanometrica, pervasiva.
Nel mondo di Case e Molly, la tecnologia si è ormai integrata in maniera indistricabile con i corpi e la psiche degli utenti: il cyberspazio è un piano dell’esistenza complementare alla realtà fisica, con cui si compenetra in declinazioni che assumono di volta in volta le forme di un’internet ante litteram, della realtà virtuale o di una realtà aumentata, e che assolve al ruolo di vero e proprio ecosistema, con le sue nicchie e i suoi agenti (virus informatici, ICE, costrutti di personalità riconducibili al mind uploading, intelligenze artificiali…).
Case, Molly e gli altri abitanti del futuro come loro non esitano a modificare i propri corpi attraverso impianti prostetici che ne aumentano le facoltà e attivano un feedback con il cyberspazio: non sono più solo agenti, ma la loro psiche e il loro organismo diventa un target su cui la rete e altri agenti possono produrre effetti tangibili. La strada ha trovato il suo uso per la tecnologia uscita dai laboratori, per dirla con Gibson. Anzi, ha trovato mille modi per utilizzarla e piegarla alle necessità dei singoli operatori, attraverso tutto un mercato nero di tecnologie trafugate dai centri di ricerca delle multinazionali o dell’esercito e messe in circolazione da una rete di contrabbandieri, corrieri, rigattieri…
La tecnologia in Blade Runner
La visione della Trilogia dello Sprawl prende forma tra la fine degli anni ’70 e i primissimi ’80, e nel 1982 arriva nelle sale Blade Runner. Un film che si inserisce nel solco di quella visione cupa e pessimistica del futuro che negli stesi anni si andava definendo grazie a pellicole epocali come Mad Max di George Miller (1979) e 1997: Fuga da New York di John Carpenter (1981), o Alien dello stesso Ridley Scott (1979). Ma, con la notevole eccezione di quest’ultimo, i film che stavano ridefinendo l’immaginario del futuro erano prevalentemente accomunati da un basso tasso tecnologico: la tecnologia era o ridotta al puro elemento meccanico (le automobili di Mad Max con cui vivono in simbiosi i sopravvissuti dell’outback australiano) o a strumento di controllo (le bombe miniaturizzate iniettate a Plissken per convincerlo a esfiltrare il presidente dal carcere di massima sicurezza di Manhattan).
Lo stesso Alien non è che brilli sotto il profilo dell’estrapolazione tecnologica, ma se non altro, sullo sfondo di una civiltà che è stata comunque in grado di mettere in campo lo sforzo necessario a esplorare rotte spaziali al di fuori del sistema solare, presenta personaggi che sono androidi meccanici indistinguibili dagli esseri umani e computer che rasentano, per autorità anche se non proprio per flessibilità (e qui torniamo alle forme di controllo già citate sopra a proposito di 1997: Fuga da New York), lo status delle IA. Elementi che, con le dovute variazioni, caratterizzano anche Blade Runner, dove ritroviamo appunto una tecnologia pesante: gli avanzamenti nella biotecnologia hanno permesso lo sviluppo di replicanti, androidi biologici indistinguibili dagli esseri umani (anzi, più umani dell’umano), destinati all’impiego in teatri di guerra extra-mondo e a farsi carico di mansioni che richiedono forza e resistenza fisica. L’uso più soft contemplato per i Nexus-6, i replicanti di ultima generazione, è per i modelli femminili, adibiti alla prostituzione nei bordelli delle colonie, non proprio un esempio di visione futuristica sull’impiego del più sofisticato prodotto della tecnologia umana.
In Blade Runner, la tecnologia è sempre separata dai corpi e dalle menti dei suoi utilizzatori umani: l’intermediazione tecnologica nelle relazioni umane è ridotta al minimo, i telefoni sono ancora in cabine pubbliche, i computer quasi nemmeno si vedono e – tralasciando volutamente, per il momento, qualsiasi grande o piccola retcon operata da Blade Runner 2049 – la rete nemmeno esiste. La tecnologia non è bassa, ma è sostanzialmente hard e ha a che fare con la programmazione/manipolazione biologica dei corpi, confinata all’interno di questi (alcune decine o centinaia di migliaia di replicanti sparsi sulle colonie extra-mondo, e pochissimi fuggitivi clandestini sulla Terra), mentre il mondo di fuori è sostanzialmente la fucina di catastrofi ambientali in cui ci troviamo a vivere oggi, con un downgrade della tecnologia attuale a quella degli anni ’80.
Blade Runner & Neuromancer: convergenze non accidentali
Per inciso, ricollegandoci a quanto dicevamo in apertura sulla sovrapponibilità degli elementi d’ambiente e le atmosfere, è interessante anche notare come Gibson e Scott condividessero una visione sostanzialmente comune su quella che l’autore di Neuromante definisce “la più caratteristica delle nostre tecnologie“: la città. Entrambi, Gibson sulla pagina scritta e Scott nei set di Blade Runner, compiono un’operazione che potrebbe apparire scontata (soprattutto a un europeo, sostiene Gibson): sovrapporre elementi del passato, del presente e del futuro nella rappresentazione delle città. In pratica: dare evidenza della stratificazione delle epoche attraverso il mélange architettonico che plasma l’estetica della città.
Ciò che Ridley Scott fa con Blade Runner, lo si ritrova nella stessa misura sia in Neuromante che nei precedenti racconti di Gibson: le strade delle loro città sono concentrati di archeologia urbana e per questo danno una misura incontestabile del tempo che è corso su quelle superfici e di ciò che è costato.
Blade Runner vs Neuromancer: dove saltano gli schemi
Tutto semplice, quindi? Forse no, perché il doppio finale di Blade Runner, con il problema della duplice interpretazione della natura di Deckard, complica significativamente lo schema fin qui delineato. A seconda delle letture che si vogliono dare al personaggio, il cacciatore di replicanti può essere un umano (chiave interpretativa prediletta dall’interprete del ruolo Harrison Ford) o un replicante lui stesso (lettura sostenuta a più riprese da Ridley Scott, almeno fino all’uscita nelle sale del sequel di Denis Villeneuve che invece opta per la versione di Ford).
Se Deckard è un umano, la sua fuga finale con Rachael assume le valenze metaforiche di un matrimonio tra la sfera umana e quella artificiale, una sorta di romantica conciliazione tra la natura e la tecnologia. Poco plausibile forse, sicuramente suggestiva, estrinsecata in particolare nella sequenza dell’auto che attraversa i boschi a nord di Los Angeles sulle note incalzanti della leggendaria colonna sonora di Vangelis. Si tratta del finale voluto dallo sceneggiatore Hampton Fancher e realizzato da Scott su input della produzione “riciclando” le sequenze girate per Shining scartate da Stanley Kubrick.
Se Deckard al contrario è un replicante, la sua scoperta finale (molto in linea con la sensibilità di Philip K. Dick benché non fedele alla lettera al romanzo), suggellata dalla chiusura delle porte dell’ascensore scelta come final cut dal regista, diventa l’agnizione lacerante dell’incompatibilità della propria esistenza con la natura, l’anamnesi sul proprio essere – esattamente come i replicanti a cui il cacciatore ha finora dato la caccia – una contraddizione in atto, la prova «vivente» che la realtà ha ormai raggiunto un livello di falsificazione da cui è impossibile tornare indietro: non sono solo i ricordi a essere contraffatti, ma l’effetto si estende inevitabilmente alla percezione stessa della realtà. La natura è destinata a scomparire, sostituita da repliche che si credono originali e reali. Le superiori capacità mimetiche dei simulacri renderanno infine vano qualsiasi tentativo di resistenza.
La versione di Ford (e di Fancher) chiude in qualche modo un cortocircuito con la visione tecnologica di Neuromante, dove la sintesi tra organico e sintetico viene subita ma a cui non ci si sforza di resistere, cercando piuttosto di piegarla alle esigenze dei protagonisti: sotto questa luce, Blade Runner prospetta un’accettazione perfino ottimistica di questa sintesi, facendo quindi un ulteriore passo avanti.
La versione di Scott (e di Dick), invece, stabilisce che non c’è ragione di sposare ciò che è fuori con ciò che è dentro, l’organico e l’inorganico. Semplicemente, l’inorganico, l’artificiale, il sintetico, il simulacro, ormai più umano dell’umano, è destinato a soppiantare l’organico, il naturale, l’originale. Non c’è scampo, non esiste via di fuga, la partita è segnata.
Siamo sotto scacco, a una mossa di distanza dallo scacco matto. Solo che non ce ne siamo ancora resi conto.
6 commenti
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13 gennaio 2022 a 18:19
The Butcher
Quest’analisi è stata davvero eccellente. Hai spiegato attraverso due opere imponenti le differenze che ci possono essere nel cyberpunk, in particolar modo come si interagisce con la tecnologia e che valenza abbia in quella determinata società. Il cyberpunk per me continua a rimanere un genere affascinante e ricco di spunti, un genere capace di riflettere sulla società e sul futuro di essa e criticarla aspramente.
15 gennaio 2022 a 12:40
X
Grazie Butcher, concordo al 100% con la tua visione: il cyberpunk è ancora attuale e i suoi strumenti speculativi risultano ancora sufficientemente affilati da sezionare efficacemente il nostro presente e il futuro verso cui ci stiamo muovendo.
15 gennaio 2022 a 14:46
The Butcher
Esattamente. Il cyberpunk mostra non solo u futuro tecnologico ma un possibile futuro dove tutto potrebbe cambiare a livello sociale politico ecc…
È un genere molto intelligente e per nulla semplice, non è solo estetica.
14 gennaio 2022 a 03:25
Anto
Si potrebbe anche dire, a mio avviso, che proprio l’uso narrativo che Gibson fa della Tecnologia è la vera discriminante rispetto non solo a BR, ma a tutta la fantascienza precedente (sia letteraria che cinematografica).
Non vi è alcun dubbio che l’opera di Scott è di assoluto valore: probabilmente la migliore opera cinematografica di fantascienza del 900 (insieme a 2001 di Kubrick) e uno dei rari casi dove la trasposizione di un’opera letteraria, già di notevole livello, guadagna un ulteriore valore aggiunto.
La grande differenza rispetto a Gibson è che Scott si muove sempre attraverso un solco speculativo/immaginifico che potremmo definire “tradizionale”: se andiamo alla sostanza, che reale differenza c’è tra l’androide di Scott e il Frankenstein di Shelley? Entrambi anelano ad ottenere “più vita”, per citare la pellicola di Scott.
Al centro delle opere di Shelley prima e Scott poi c’è l’Uomo e le speculazioni immaginifiche partono dall’Uomo per ritornare all’Uomo: la Tecnologia è uno strumento a corollario di una narrazione in sostanza antropocentrica, strumento spesso declinato in maniera più “fantastica” che “fantascientifica”. Tra le due opere non c’è, in realtà, un paradigma differente.
La grande intuizione di Gibson è porre la Tecnologia come protagonista occulto (e assoluto) della narrazione: dalla tecnologia e dalla sua applicazione Gibson ne deriva tutte le conseguenze (o speculazioni narrative che dir so voglia). Non è un caso che nelle opere Gibsoniane la trama, intesa in senso “tecnico”, appare in secondo piano rispetto all’evocazione immaginifica che l’autore produce del suo universo. Neuromante, in questo senso, è emblematico.
Con un approccio del genere la Tecnologia non può essere narrata facendo predominare l’elemento fantastico rispetto a quello scientifico. Nell’opera di Scott, le “motivazioni” che muovono l’IA sono prettamente “umane”: “tutto ciò che volevano erano le stesse risposte che noi tutti vogliamo, da dove vengo, dove vado, quanto mi resta ancora”. Nell’opera di Gibson la motivazione che muove l’IA assume un valore completamente diverso, molto più aderente alla realtà tecnica / tecnologica che è terreno di discussione oggi più di ieri:
— Motivazione — disse il costrutto. — Un vero problema di motivazione, con una IA. Non è umana, capisci. — Già, ovvio. — Niente da fare. Voglio dire, non è umana. E non puoi trovarci un appiglio. Neppure io sono umano, ma reagisco come se lo fossi. Capito? — Aspetta un momento. Tu sei senziente… o no? — Mah, ho la sensazione di esserlo, ragazzo, ma in effetti sono soltanto un mucchio di ROM. È uno, ehm, di quegli interrogativi filosofici, immagino, che… — La sensazione di una risata sgradevole riverberò lungo la schiena di Case. — Ma è improbabile che mi metta a scriverti poesie… se riesci a seguirmi. La tua IA potrebbe anche farlo. Però non è umana sotto nessun aspetto. — Così pensi che non riusciremo ad arrivare alla sua motivazione? — Ma ne ha il controllo? — Come cittadino svìzzero, ma la T-A possiede il software di base e il mainframe. — Questa è buona — commentò il costrutto. — È come se io fossi padrone del tuo cervello e di ciò che sei, ma i tuoi pensieri avessero la cittadinanza svizzera. Sicuro. Buona fortuna, IA.
senza scomodare il Cyberspazio, questo è un piccolo ma sostanziale esempio del diverso (direi innovativo sotto tutti i punti di vista) approccio all’opera fantascientifica che Gibson ha inaugurato con le sue opere: se Mary Shelley ha inaugurato un genere, Gibson ne ha irrimediabilmente ridefinito gli stilemi.
15 gennaio 2022 a 12:52
X
Sì, credo che una delle intuizioni/illuminazioni più folgoranti di William Gibson e del cyberpunk sia stata che la tecnologia non è una sovrastruttura e non può pertanto essere ridotta a un elemento collaterale nella lettura del presente, ma è al contrario una delle “forze” soggiacenti alla realtà. Una categoria imprescindibile, insomma, per decodificare quello che Baudrillard definiva “il deserto del reale”.
Effettivamente una presa di coscienza simile nel cinema credo si abbia con Christopher Nolan, dove la tecnologia del mezzo viene spinta verso frontiere inesplorate (penso soprattutto al montaggio, dalle prime sperimentazioni tentate con Memento o Dunkirk all’inosato messo in opera con Tenet), raccontando storie altrimenti non raccontabili.
In un ambito più di nicchia, uno dei registi che ho sempre visto più vicini al cyberpunk di Gibson è Shinya Tsukamoto, sia sul piano dei contenuti che dello stile e della tecnica narrativa (ma sono interessanti anche alcune risonanze sotterranee tra Gibson e Cronenberg).
14 gennaio 2022 a 17:28
Di cosa parliamo quando parliamo di cyberpunk: due visioni opposte ma complementari della tecnologia | Holonomikon | HyperHouse
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