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There is a crack in everything
That’s how the light gets in.Leonard Cohen, Anthem
Save Me è una miniserie britannica del 2018, prodotta da World Productions e Sky Atlantic e trasmessa in Italia quello stesso anno. Segue le peripezie tra i bassifondi londinesi, dipinti come gironi infernali sospesi tra inedia, squallore, violenza e piccola e grande criminalità, di una galleria di personaggi che ruota intorno al Palm Tree. Al centro delle vicende troviamo Nelly Rowe, interpretato da Lennie James (reduce da The Walking Dead e Fear the Walking Dead, ma visto anche in Blade Runner 2049), che la serie l’ha anche ideata e poi scritta in collaborazione con Daniel Fajemisin-Duncan e Marlon Smith.
Nelly è un perdigiorno che vive di espedienti tra le torri di Deptford (nella zona sudest di Londra) e bazzica il Palm Tree, il pub del suo quartiere, in cui è un po’ un’istituzione, nella misura in cui finiscono per esserlo tra i loro simili i nullafacenti che si crogiolano per tutta la vita, senza particolari pentimenti, nella loro inettitudine e inconcludenza. Finché un giorno sua figlia Jody McGory (Indeyarna Donaldson-Holness), che Nelly non vede da più di dieci anni e che è ormai un’adolescente, scompare nel nulla proprio mentre si suppone che stia andando da lui per conoscere il suo padre naturale. Nelly è il principale sospettato della polizia, ma si professa estraneo all’accaduto e, quando viene rimesso in libertà, decide di rintracciare Jody ricorrendo a tutte le risorse a sua disposizione, molte delle quali lo portano inevitabilmente a misurarsi con il lato nascosto del suo carattere, dei suoi amici, della nuova famiglia di Jody, ma non solo.
Comincia così un vortice di angoscia e sospetti, di inganni e paure, che finisce per coinvolgere altri personaggi che gravitano intorno al pub – spacciatori, spogliarelliste, travestiti, persone comuni che hanno un conto aperto con Nelly o con il fantasmi del loro passato – così come anche la madre della ragazza, Claire (Suranne Jones), e suo marito Barry McGory (Barry Ward), padre adottivo di Jody e gestore di un club che nasconde traffici non proprio cristallini. La ricerca diventa una corsa contro il tempo quando appare chiaro che la ragazza è in pericolo di vita e spingerà Nelly nei meandri in penombra che si snodano sulle rive del Tamigi, in cui i soldi possono comprare qualsiasi cosa e distruggere in un batter di ciglia le vite di chi finisce, per colpe proprie o altrui o anche – e non è questa la cosa peggiore? – senza nessun motivo particolare, nel grande tritacarne.
La storia raccontata da Save Me si snoda in appena sei puntate (da 50 minuti), ma sono cinque ore che ti vengono addosso come un treno, lasciandoti confuso e a corto di riferimenti. È una storia che non ammette compromessi, che ti ipnotizza dalle prime scene, tenendoti avvinto nella morsa del dubbio di quello che è successo davvero a Jody, oppure ti respinge senza tanti complimenti per la crudezza con cui dipinge la natura umana. Ma se la voce di Jody incisa nella segreteria del suo cellulare ti perseguita come uno spettro senza darti tregua, sarai pronto a seguire Nelly e Claire nel loro personale calvario, girone infernale dopo girone infernale, perché se c’è una cosa chiara da subito, a loro come allo spettatore, è che in nessun caso la dimensione dell’incubo in cui si accingono a sprofondare le loro vite potrà fermarsi alla superficie: dovremo sporcarci le mani, immergerci negli umori neri delle menti umane più abiette, e inabissarci con loro puntata dopo puntata verso profondità inesplorate.
Il ritmo serrato e le svolte improvvise di un intreccio perfetto diventano anche un modo per gettare luci nei lati oscuri dei personaggi: scoprendo i vuoti nascosti dietro le facciate più abbaglianti, illuminando le sorprese celate dietro le ombre più sospette. Save Me andrebbe fatta vedere a tutti quelli che sostengono l’inevitabilità di una separazione rigida da trama e psicologia, tra idee e introspezione, che riducono ogni cosa a uno schematismo di comodo (genere o mainstream?): il congegno messo a punto da James e dalla World Productions è micidiale e in questo senso sembra quasi sintetizzare la formula non solo dell’equilibrio perfetto, ma di un circolo virtuoso che si autoalimenta e che trae forza da ogni interazione tra i personaggi e gli eventi in cui vengono sbattuti.
Il finale, con la corsa contro il tempo che si risolve in un’atmosfera dilatata, perfino onirica (su cui non dirò niente di più per non dissiparne l’impatto emotivo), scandita dalle note di Doomed di Moses Sumney, giunge inesorabile a suggellare un thriller magistrale e senza traccia di sbavature. La seconda stagione, che arriva in Italia in questi giorni con il titolo di Save Me Too, riprende la storia di Nelly da dove l’aveva lasciata l’ultima puntata, credo con la consapevolezza che sia quasi certamente impossibile, già solo per il fatto che si sia pensato di farne un seguito, replicarne l’esito.
The holy dove
She will be caught again
bought and sold
and bought again
the dove is never free.Leonard Cohen, Anthem
Seconda segnalazione robotica in meno di una settimana, per annunciarvi che è uscito il numero 90 della leggendaria rivista di fantascienza fondata da Vittorio Curtoni e attualmente diretta da Silvio Sosio, e che tra le sue pagine ha trovato in extremis confortevole asilo anche il mio articolo-moloch sullo sviluppo semiotico dell’utopia. Perché se è vero che il blog è impermanente per definizione, come tutto quello che è codificato in pacchetti di bit in un server oceanico da qualche parte, le pagine di Robot sono per sempre.
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