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Roy Batty, nell’interpretazione artistica di Christopher Shy.

Non è molto sportivo sparare su un avversario disarmato. Io pensavo che tu dovessi essere bravo. Non eri tu quello bravo? Vieni Deckard. Fammi vedere di cosa sei fatto.

È a un crudele scherzo del destino che tutti avremo pensato apprendendo la scorsa estate la notizia che Rutger Hauer ci aveva lasciati dopo una breve malattia. L’uomo che aveva dato un volto e una voce a Roy Batty ci lasciava proprio nell’anno che era stato fatale al suo personaggio più memorabile. Ma la sorte si era dimostrata perversamente beffarda con Hauer ben prima del 19 luglio 2019: se si eccettua forse il magnetico Navarre in Ladyhawke di Richard Donner (1985), nessun’altra performance aveva saputo replicare il successo, la carica iconica e la persistenza nell’immaginario del suo secondo ruolo per Hollywood.

E questo benché molti di noi ne avessero apprezzato la presenza in film di seconda categoria, che proprio grazie alla sua partecipazione hanno sviluppato col tempo un alone di culto: pellicole di serie B come Giochi di morte (1989) o Detective Stone (1992) o produzioni televisive come Fatherland (1994), così come anche film se vogliamo ancor più privi di pretese come Sotto massima sorveglianza (sempre del 1989) o di categoria perfino inferiore come Arctic Blue (1993), Omega Doom (1996), Hemoglobin – Creature dell’inferno o Redline (entrambi del 1997). Pronunciate un titolo a caso tra gli oltre cento a cui ha preso parte nell’arco della sua carriera, e troverete da qualche parte un club di estimatori disposti a cantarne le lodi al di là dei limiti che sarebbero evidenti a chiunque. Chiamatelo, se volete, effetto Hauer, e sappiate che funzionava da molto prima che l’attore olandese cominciasse a capitalizzarlo in produzioni rispettate come Confessioni di una mente pericolosa di George Clooney (2002), Sin City di Robert Rodriguez e Frank Miller e Batman Begins di Christopher Nolan (2005).

D’altro canto, il contributo di Rutger Hauer alla pellicola di Ridley Scott fu incommensurabile. Le sue qualità attoriali furono determinanti tanto per caratterizzare il leader dei replicanti ribelli, quanto per contribuire a renderlo una figura senza precedenti nel nostro immaginario. Anzi, mi spingerò oltre affermando che è grazie a lui se abbiamo avuto un Roy Batty diametralmente opposto alla fredda, spietata e inesorabile macchina da guerra che era il Roy Baty di Philip K. Dick. Il personaggio da cui partiva era infatti un grigio epigono della creatura del dottor Frankenstein, del tutto privo di qualsiasi afflato romantico e meno interessante di tutti gli altri androidi con cui il cacciatore a premi Deckard entra in contatto nel corso della sua battuta di caccia.

Rutger Hauer in una scena del film Blade Runner, 1982. (Photo by Stanley Bielecki Movie Collection/Getty Images)

Nelle mani di Hauer, invece, il processo di crescita già intrapreso con il passaggio di consegne tra Hampton Fancher e David Peoples alla sceneggiatura giunge a compimento e produce un frutto forse inatteso: un personaggio che è in grado di eclissare qualunque altro personaggio con cui si trovi a condividere la scena, che si tratti del suo creatore Eldon Tyrell (che proprio tra le sue mani finisce immolato in un truculento rituale teocida) o del protagonista Rick Deckard (peraltro interpretato dall’astro nascente Harrison Ford). E Roy Batty diventa l’antagonista con cui lo spettatore non può fare a meno di solidarizzare, l’anti-Frankenstein per eccellenza: una creatura sintetica, creata dall’uomo e superiore a esso per intelligenza, forza e resistenza fisica, ma che si spoglia di qualsiasi componente perturbante con una metamorfosi finale, rivelandosi superiore agli stessi esseri umani nell’unica facoltà che davvero dovrebbe tracciare la linea di demarcazione tra le due condizioni, ovvero l’empatia. E come se non bastasse, in virtù di questa evoluzione, in aggiunta a tutti i parallelismi con il martirio cristiano che sono fin troppo facili da individuare nel corso di Blade Runner, la ribellione dei replicanti ai loro creatori assume anche una inattesa dimensione politica, sviluppando una dialettica di chiaro stampo marxista. Emblematica a questo proposito la battuta-chiave:

Bella esperienza vivere nel terrore, vero? In questo consiste essere uno schiavo.

Roy Batty è stato davvero il primo esemplare di una nuova umanità, o se volete della postumanità, sul grande schermo. La migliore tra le creature artificiali ma “più umane dell’umano” che si fa paladina di un ideale di giustizia e libertà, e che si mostra davvero più umana degli esseri umani al culmine di un percorso che ha scavato nel cuore di tenebra di una dimensione che pensavamo essere la psicologia deviata dei replicanti, ma che in realtà non era nient’altro che il riflesso fin troppo fedele della condizione umana.

Sui replicanti come simulacri nell’accezione di Jean Baudrillard molto si è scritto. Qui aggiunto solo che l’assenza di Rutger Hauer e del suo Batty rappresenta forse l’unica macchia che si può contestare allo straordinario lavoro svolto da Denis Villeneuve con il seguito Blade Runner 2049. L’importanza di Roy Batty era stata intuita da K. W. Jeter nei suoi seguiti ufficiali, ma senza che neanche lui riuscisse a mio avviso a sviscerare bene le risorse offerte ai possibili sviluppi narrativi da una dimensione tanto complessa: l’immane riserva di carisma, profondità, problematicità anche (quale il rapporto di Batty con l’umano di cui aveva ereditato i ricordi e almeno parte del patrimonio genetico?), rimane del tutto inesplorata.

E la dipartita dell’uomo che era Roy Batty rende ormai del tutto speculativa qualsiasi ipotesi di futuri sviluppi in quella direzione.

Rutger Hauer, 23 gennaio 1944 – 19 luglio 2019. In memoriam.

Una trilogia di libri dell’orrore che sono dei classici per i giovani lettori americani, questa è la serie Scary Stories to Tell in the Dark di Alvin Schwartz che potete trovare in libreria, complice il recente adattamento cinematografico prodotto da Guillermo Del Toro. Racconti essenziali, ridotti all’osso, che fungono da perfette macchine narrative, affilate e crudeli, di cui sul grande schermo giunge solo una frazione delle trovate raccolte dall’autore, che attinge al folklore, come pure ad archetipi e a leggende metropolitane. Il resto vi consiglio di recuperarlo direttamente nelle pagine di Schwartz, arricchite dalle fantastiche illustrazioni di Stephen Gammell.

Ne ho parlato più diffusamente su Quaderni d’Altri Tempi.

1. Alle radici del capitalismo occidentale

Nel suo saggio sulle origini dell’identità europea, lo storico francese Jacques Le Goff (che altri studi notevoli dedicò alle figure del mercante e del banchiere nell’età di mezzo) annota che “lo sviluppo del grande commercio e dell’economia monetaria pone all’Europa cristiana grossi problemi religiosi” in quanto, tra le altre cose, “il prelievo da parte del mercante di un interesse” altro non è, in fondo, che “una forma di vendita del tempo“. E il tempo “secondo la Chiesa appartiene soltanto a Dio“. Occorse pertanto “un lungo lavoro di separazione tra le operazioni lecite dalle illecite“, condotto soprattutto da domenicani e francescani, per permettere ai mercanti cristiani di sviluppare pratiche precapitalistiche, con l’effetto di riabilitare il denaro e con esso il lavoro.

Conclude Le Goff:

[…] quest’adattamento ideologico e psicologico della religione all’evoluzione economica, quest’apertura del sistema di valori cristiano al capitalismo nascente costituiscono una delle principali condizioni storiche dello sviluppo dell’Europa occidentale.

Di fatto, le premesse del capitalismo moderno vengono gettate allorquando la morale della Chiesa si adatta per includere il maneggio del denaro, e con esso il plusvalore generato dal lavoro di cui si appropria il capitale e il tasso di interesse sulle somme di denaro prestato, nel proprio sistema di valori.

È indubbiamente un punto di vista interessante, di quelli che a scuola (tra una lezione sul simbolismo e l’allegoria e un’altra sull’ascesa della borghesia, immerse nella lunga contrapposizione tra Impero e Papato) non vengono sottolineati abbastanza, sempre che si trovi il tempo per parlarne. Ma si tratta di una lettura di fondamentale importanza, che ci obbliga a rileggere tutto quanto accaduto in seguito sotto la luce nuova di questa acquisizione.

2. L’informazione è una corrente che scorre attraverso il Multiverso

Nel suo monolitico e per molti aspetti enciclopedico Anathem, Neal Stephenson compie un’opera di world-building eccezionale, costruendo di fatto un mondo intero che è una replica del nostro, ma con una sua storia che solo occasionalmente, negli snodi cruciali delle conquiste tecniche e scientifiche, come anche del corso degli eventi da essi condizionati, è sovrapponibile a quella che tutti noi conosciamo.

Arbre, il mondo di Stephenson, è in effetti una «sub-Terra», nel senso che rappresenta una proiezione del nostro mondo in un universo che riflette parzialmente il nostro, attraverso una propagazione del flusso di informazione da universi “superiori” a universi “inferiori”. Un’idea che possiamo far risalire a Platone e al suo mito della caverna, secondo cui il nostro mondo non sarebbe altro che un’ombra di un mondo superiore, e le cose in esso contenute una copia delle idee perfette che albergano nell’Iperuranio (incidentalmente, è interessante trovare qualcosa di molto vicino all’ideale platonico in una serie come Mr. Robot, dove, nel cruciale quinto episodio della seconda stagione, un personaggio afferma: “La vita non è che un’ombra fugace, un povero attore che si agita e pavoneggia il suo momento sul palcoscenico… e poi più niente“).

Di fatto, in Anathem la Terra, che pure ha il suo Iperuranio, altro non è che l’Iperuranio di Arbre (il suo Mondo Teorico Hylaeo, in termini arbriani), in una concezione che Stephenson definisce teoria dello Stoppino (Wick Argument) e in qualche modo s’ispira al concetto matematico del grafo aciclico orientato e all’interpretazione a molti mondi della meccanica quantistica avanzata da Hugh Everett III.

Le pagine che Stephenson dedica al dibattito scientifico e filosofico sull’argomento, le appendici in cui sviscera i fondamenti teorici del cosiddetto protismo, così come le dispute ideologiche tra teori di ispirazione halikaarniana (potremmo definirli gödeliani in termini terresti) e altri di ispirazione prociana (fenomenologi alla Husserl, linguisti alla Wittgenstein o matematici alla Hilbert, per mantenere la traccia delle correlazioni tra dominio causale arbriano e terrestre), sono ricche di suggestioni. Ma se proprio vogliamo trovare il classico pelo nell’uovo, un aspetto che mi pare Stephenson abbia trascurato è proprio quello economico.

Gli arbriani hanno denaro, ma in considerazione anche della contrapposizione tra il mondo intramuros (le comunità monastiche ritiratesi in mat e concenti, che fungono un po’ da capsule del tempo e da incubatori di idee, e si aprono all’esterno solo a intervalli cadenzati di uno, dieci, cento o addirittura mille anni) ed extramuros (il mondo secolare fuori dalle mura dei mat, che va avanti normalmente), sarebbe stato interessante sottolineare qualche differenza rispetto al regime capitalista terrestre, magari anche in relazione alle considerazioni di Le Goff sulle radici della civiltà capitalistica occidentale esposte in apertura.

3. Orologi millenari

Anche perché, come Stephenson riconosce nei ringraziamenti, una delle fonti di ispirazione di Anathem è stato il progetto del Millennium Clock della Long Now Foundation, ora sopravanzato dall’ancor più ambizioso 10.000 Year Clock, che nasce dall’idea di Danny Hillis di realizzare un orologio in grado di misurare il tempo per mille anni (obiettivo adesso aumentato a diecimila) senza nessuno a occuparsi della sua manutenzione, producendo di tanto in tanto una melodia senza mai ripetersi per tutta la durata dei mille (e ora diecimila) anni.

L’obiettivo di Hillis è ben riassunto in questa affermazione:

I want to build a clock that ticks once a year. The century hand advances once every 100 years, and the cuckoo comes out on the millennium. I want the cuckoo to come out every millennium for the next 10,000 years.

Stephenson riprende quest’idea, a cui era stato chiamato da Hillis a fornire il proprio apporto, proprio in Anathem, dove gli avout dei mat, come il protagonista fraa Erasmas, sono invece dedicati a eseguire periodicamente un cerimoniale proprio per far suonare le note sul gigantesco orologio (alto centocinquanta metri) del loro Mynster (vale a dire l’edificio centrale del concento di Saunt Edhar, che funge appunto da orologio e da punto di incontro per i diversi ordini che vi risiedono).

Sempre Jacques Le Goff, nel suo saggio storico, ricorda appunto che:

L’organizzazione monastica fornì inoltre dei modelli per la misurazione e il dominio del tempo. La divisione della giornata in ore canoniche segnate dai differenti uffici è un esempio di scansione del tempo offerto alla vita quotidiana; e la comparsa delle campane, che si diffondono nel VII secolo, farà vivere per secoli la cristianità al ritmo di quello che è il tempo della Chiesa.

Parole che echeggiano quelle usate da Michel Foucault, nel celebre e citatissimo (anche da me e non solo su questo blog) saggio che definiva le eterotopie (Spazi Altri, 1967), con riferimento alle “straordinarie colonie dei gesuiti” in America del sud: “colonie meravigliose, assolutamente regolate, nelle quali la perfezione umana era effettivamente realizzata“. Qui:

La vita quotidiana degli individui era regolata non da un suono di richiamo, ma dalla campana. Il risveglio era fissato per tutti alla stessa ora, il lavoro cominciava per tutti alla stessa ora; i pasti si svolgevano a mezzogiorno e alle cinque; poi ci si coricava e a mezzanotte c’era quella che veniva definita sveglia coniugale, cioè la campana del convento suonava, e ciascuno compiva il proprio dovere.

In fondo anche il monastero ricade nella classificazione delle eterotopie e a maggior ragione i mat di Anathem, la cui apertura al mondo esterno segue rigide regole, opportunamente scandite dagli orologi dei Mynster. In questo schema perfetto denaro-tempo-monastero, aver trascurato la connessione con la funzione “simbolica” del denaro è l’unico difetto, se proprio gliene vogliamo trovare una, che si può imputare al capolavoro di Stephenson.

4. Cronofagia: il furto istituzionalizzato del tempo

Nell’introduzione al suo illuminante saggio Cronofagia, che reca l’appropriato sottotitolo di Come il capitalismo depreda il nostro tempo, Davide Mazzocco mette a nudo:

una colonizzazione sempre più raffinata, dotata di uno straordinario camaleontismo e capace di nascondersi sotto le sembianze rassicuranti dell’amicizia, dell’arte, dell’intrattenimento e della prospettiva di uno sviluppo economico e sociale. La fame dei predoni non si limita al mondo tangibile, ma si estende all’intangibile. Non vuole solamente lo spazio e non si accontenta nemmeno di quell’entità ibrida che da 2.800 anni vive tra il reale e il virtuale: il denaro. No, la predazione oggi vuole appropriarsi della dimensione astratta del tempo.

Il sistema socioeconomico erode le ore di sonno, dilata i tempi del consumo e, con le sue arti seduttive, assopisce le masse in una servitù volontaria dai confini ancora tutti da sondare. […] Grazie a raffinate strategie di marketing e all’illusione della gratuità, i capitalismi vecchi e nuovi colonizzano il tempo libero delle persone e, non paghi di estrarre valore dal loro lavoro e ricavare profitti dai loro consumi, cercano di spostare le frontiere del guadagno oltre i vecchi confini.

E ancora:

Il sonno è la terra promessa, una delle poche nicchie di resistenza all’invadenza del capitale. Dalla diffusione dell’illuminazione pubblica e privata fino alla moltiplicazione esponenziale degli schermi, il progresso è (anche) una guerra senza esclusione di colpi per conquistare il tempo e l’attenzione dei consumatori-spettatori-clienti-utenti-elettori. Ogni aspetto della vita, dall’amicizia all’amore, dagli hobby all’alimentazione, è soggetto a processi di reificazione e mercificazione che trovano nelle piattaforme digitali ideali terreni di coltura. Miliardi di lavoratori inconsapevoli dedicano parti più o meno importanti della loro giornata a riversare sul web preziose informazioni che arricchiscono la fame di dati dei grandi player del capitalismo digitale.

Non a caso Cronofagia è uscito in Nextopie, la collana diretta per D Editore da Daniele Gambetta, già curatore lo scorso anno di Datacrazia, un’antologia che raccoglieva testimonianze e analisi delle dinamiche in atto, dei processi di metamorfosi – che ci coinvolgono tutti – da inforg in veri e propri individui digitali (o digividui, per dirla con le parole di Andrew O’Hagan), in un ecosistema che di fatto è un bioipermedia in cui ci ritroviamo intimamente integrati e con cui di fatto viviamo in simbiosi. Un ecosistema in cui non siamo nati ma a cui ci stiamo progressivamente, ma lentamente adattando… o almeno assuefacendo. Più lentamente di certo delle dinamiche di predazione già messe in atto dall’ipercapitalismo, da cui non siamo ancora pronti a difenderci.

La progressiva scomparsa della noia dalle nostre esistenze è direttamente proporzionale allo sviluppo di dipendenze e patologie connesse all’utilizzo smodato degli strumenti digitali.

Jean Paul Galibert, a cui Mazzocco si ispira fin dal titolo del suo saggio, ne I Cronofagi descrive il Leviatano ipercapitalista come fondato su un progetto ontologico assolutistico, volto a fare in modo che la “redditività sia il principio, la causa unica e il solo criterio dell’essere e del non essere“. Nel nuovo mondo delle piattaforme digitali, non c’è più spazio per la non redditività: tutto ciò che non contribuisce alla produzione di valore non ha ragione di esistere.

In questo modo diventiamo tutti:

simultaneamente una quantità di tempo disponibile per la cronofagia e una quantità di denaro disponibile per l’ipercapitalismo. Questa regola si erge a condizione della nostra esistenza, al punto di diventare la nuova condizione umana. Nell’ideale di disponibilità, l’uomo diventa un doppio giacimento di denaro e di tempo da prelevare senza limiti, ma è necessario che si stabilisca un rapporto di equivalenza tra il tempo di cui lo si priva e il denaro di cui lo si alleggerisce.

Come possiamo quindi uscire da questo vicolo cieco? Un possibile antidoto arriva proprio da Arbre, il mondo di Anathem, dove l’umanità, per riconquistare il controllo sul tempo necessario allo studio, alla conservazione del sapere e allo sviluppo del pensiero, si è in parte ritirata nei concenti, originando una separazione tra il mondo secolare extramuros e le comunità di avout intramuros.

5. Il ricatto dell’informazione

Viviamo in un mondo che ci espone ogni giorno a 34 gigabyte di dati, ma l’abbondanza di informazione non è sinonimo di ricchezza, dal momento che è all’origine di un ricatto emotivo che causa un restringimento costante della finestra di attenzione: dai già risibili 12 secondi del 2000, questa soglia è scesa ad appena 8 secondi nel 2016. Trascorso questo intervallo di tempo, è come se provassimo l’esigenza di passare ad altro per appagare il nostro bisogno indotto di novità. E così saltiamo da una cosa all’altra come api in un campo di fiori, con l’unica differenza che non stiamo impollinando granché e men che meno arricchendo la nostra conoscenza, che avrebbe al contrario bisogno di tempo per approfondire adeguatamente i concetti e le informazioni assimilate.

La nostra mente è peraltro servita da una banda di appena 120 bit al secondo: per intenderci, 500 volte meno di un modem a 56K. È questo il limite di velocità del traffico di informazione a cui possiamo prestare attenzione in maniera consapevole. Per avere un ulteriore termine di confronto, in una normale conversazione occorrono circa 60 bit al secondo per comprendere chi ci sta parlando. Ecco quindi che ci troviamo costantemente oberati da più informazione di quanta possiamo elaborarne, schiacciati sotto una mole ingestibile che produce un vero e proprio sovraccarico cognitivo o information overload (queste ed altre statistiche, nell’interessante articolo di Annamaria Testa Sovraccarico cognitivo: ricchi di informazione ma poveri di attenzione), con due effetti:

  1. La crescente aggressività delle strategie di cattura dell’attenzione messe in opera dai distributori, che spesso finisce per far prevalere gli stimoli più prepotenti, saturando la nostra banda cognitiva con quella che potremmo definire, senza mezzi termini, spazzatura.
  2. Lo stallo decisionale in cui ci ritroviamo intrappolati, impossibilitati a sviluppare un ragionamento critico per la mancanza di tempo o per il senso di fatica che si accompagna alla saturazione della banda, sequestrandoci in uno stato di deficit cronico di stimoli costruttivi.

Come osserva Annamaria Testa nell’articolo summenzionato, il risultato della convergenza di questi due fattori è la delega del filtro: non ci preoccupiamo più di vagliare l’informazione in entrata ma alziamo bandiera bianca ed esternalizziamo direttamente agli algoritmi. Rinunciamo, di fatto, alla nostra opzione di scelta e rimettiamo il libero arbitrio a soggetti esterni a cui, con la nostra semplice condotta on-line, abbiamo venduto la nostra profilazione (ricordate il monito del Time, “se qualcosa è gratis, il prodotto sei tu”?).

È così che il nostro tempo, già sempre più scarso, finisce per essere raccolto, a slot di 8 secondi per volta, dagli algoritmi, che sono di fatto gli intermediari del capitalismo cronofago.

6. Difendere le mura della Fortezza del Tempo

Le conclusioni non sono confortanti. C’è chi, come Jaron Lanier, propugna un abbandono delle piattaforme social e lo fa da tempo, con solide motivazioni. Un aut per abbandonare il Sæculum virtuale, in termini arbriani, per riscoprire e valorizzare l’importanza del nostro tempo, dedicandoci alla riflessione critica, all’approfondimento, alla scoperta e alla coltivazione della conoscenza. E forse è un ragionamento sensato, perché la sproporzione tra le forze coinvolte, l’assedio delle armate algoritmiche della datacrazia da una parte, un singolo individuo a difesa delle mura della sua fortezza privata del tempo dall’altra, è tale per cui nessun compromesso potrà mai favorire un esito positivo per la parte più debole e vulnerabile.

Il che non vuol dire rinunciare a internet e a tutti i servizi della rete, ma semplicemente abbracciare un downgrade al web 2.0, da cui ripartire per un nuovo inizio. Ed è una scelta politica, certo, e come si diceva una volta anche una scelta di vita.

La domanda vera non è se farlo o meno, o quando, ma un’altra ancora: siamo ancora in tempo per cancellare i nostri account social?

“Non cercano killer nelle inserzioni sui giornali. Quella era la mia professione. Ex-poliziotto. Ex-cacciatore di replicanti. Ex-killer”.

Ricordiamo tutti l’introduzione di Rick Deckard, subito dopo la sequenza di apertura della versione originale di Blade Runner, quella provvista di voce fuori campo.

Personalmente, per anni mi sono chiesto come avesse fatto Blade Runner ad anticipare così bene così tanti aspetti del mondo verso cui ci stavamo dirigendo, eppure così clamorosamente ancora attaccato al piano materiale: in tutto il film non si fa mai menzione della rete o si vede qualcosa che sia riconducibile a un sistema informatico globale, eppure proprio negli stessi anni William Gibson stava rivoluzionando l’immaginario di fantascienza introducendo un tassello alla volta la più grande invenzione dell’umanità, il cyberspazio; forse era troppo presto per i telefoni cellulari (che peraltro avrebbero conferito alla pellicola un’estetica troppo trekkie, cosa che Ridley Scott ha dichiarato in alcune interviste di voler scongiurare), ma le cabine telefoniche che vediamo nelle strade e nei locali di Los Angeles nel 2019 generano ormai da un paio di decenni un senso di anacronismo nello spettatore.

Come ricorderete, mentre sentiamo le parole che lo introducono, Deckard sta leggendo un giornale, una copia dell’Independent Sentinel. Da alcuni giorni circola in rete la riproduzione della prima pagina di quel quotidiano che il cacciatore di androidi sta sfogliando in attesa del suo sushi. E a parte le colture che anticipano la rivoluzione alimentare che condurrà al monopolio della Wallace Corporation e all’ascesa di Niander Wallace che vedremo in Blade Runner 2049, un secondo titolo annuncia i piani di lancio di una rete informatica globale, mentre più in basso fa capolino una compagnia missilistica privata.

Insomma, non solo Internet, magari con una ventina d’anni di ritardo, era già contemplata in Blade Runner. Ma perfino Elon Musk aveva già trovato spazio, con molta più puntualità, sulle prime pagine del mondo di Deckard.

Questo mese il direttore di Delos SF Carmine Treanni mi ha offerto il privilegio di scriverne l’editoriale. Sia chiaro, il numero come ogni mese è frutto della sua opera infaticabile e propone ai lettori, tra le altre cose, uno speciale su Star Wars, un servizio sul romanzo di Francesca Cavallero Le ombre di Morjegrad fresco vincitore premio Urania e un’intervista al premio Odissea M. Caterina Mortillaro, le rubriche di Roberto Paura e Fabio Lastrucci, e un racconto di Giancarlo Manfredi che è la ciliegina sulla torta.

Per l’editoriale, il primo che scrivo per una testata con questa storia, ho attinto in ordine sparso a un po’ di ricorrenze a cui negli ultimi giorni non abbiamo potuto sottrarci, Blade Runner in primis (ne abbiamo parlato anche qui) e il trentennale della caduta del Muro di Berlino, ma anche da alcuni segnali non proprio incoraggianti che arrivano dalle pagine di cronaca, come l’ennesimo rogo della libreria romana Pecora Elettrica, che ne ha nuovamente rimandato la riapertura. Tutto questo, contestualizzato nello scenario più ampio dei nostri tempi e della percezione molto limitata che ne abbiamo, ha dato la stura a una riflessione sul ruolo degli scrittori di fantascienza, nel segno di Michael Crichton (è solo la seconda volta che ne scrivo, la prima non proprio un’occasione felice) e dei suoi excursus sui sistemi complessi e le dinamiche del caos. Spero che possiate trovarla di vostro interesse.

Domenica prossima si chiuderà la quarta edizione di Foto/Industria, biennale di fotografia dell’industria e del lavoro curata da Francesco Zanot per la Fondazione MAST di Bologna. Il tema, che risulterà particolarmente caro a chi frequenta queste pagine, è la Tecnosfera, come è stato definito dal geologo Peter Haff “l’insieme di tutte le strutture che gli esseri umani hanno costruito per garantire la loro sopravvivenza sulla terra”, uno strato artificiale “con un peso stimato di decine di miliardi di miliardi di tonnellate”.

Io ho avuto la fortuna di visitare con la guida dell’artista una delle mostre realizzate sul tema, che raccoglie gli ultimi lavori di Délio Jasse. Ne ho parlato su Quaderni d’Altri Tempi questa settimana. E ve la consiglio incondizionatamente, insieme agli altri nove allestimenti realizzati nel centro storico di Bologna. Tempo (climatico e cronometrico) permettendo.

“Una nuova vita vi attende nelle colonie extra-mondo. L’occasione per ricominciare in un Eldorado di buone occasioni e di avventure, un nuovo clima, divertimenti ricreativi…”

E allora, adesso che ci siamo finalmente arrivati, al novembre 2019 che ci annunciava il cartello di apertura di Blade Runner, scopriamo le carte: quanti tra noi si sono chiesti dove siano i replicanti e le colonie extra-mondo? Così pochi?

Forse è perché il nostro 2019 è molto più simile di quanto vorremmo ammettere al 2019 trasposto sullo schermo nel 1982 da Ridley ScottSyd Mead e Lawrence G. Paull (che purtroppo proprio il 10 di questo mese ci ha lasciati, dopo aver abbandonato il mondo del cinema nei primi anni Duemila). È curioso ricordare attraverso le parole dello stesso art director, che con questo lavoro si guadagnò una nomination agli Oscar, come quel futuro prese forma: il regista lasciò carta bianca agli scenografi, con la promessa che qualsiasi cosa avrebbero costruito, lui l’avrebbe filmata. Per artisti abituati a vedere il loro lavoro venire sempre dietro alle altre esigenze produttive, l’invito di Scott funzionò come un incentivo a superarsi (e a infrangere il tetto del budget, ma questa è un’altra storia), e così abbiamo visto prendere forma sul grande schermo le sterminate distese industriali della carrellata d’apertura (simpaticamente ribattezzate Hades), le imponenti piramidi del quartier generale della Tyrell Corporation, le strade dei bassifondi intorno al Bradbury Building, fino a Chinatown e al distretto della vita notturna.

Sembra quasi che col tempo la realtà abbia però voluto prendersi una rivincita sull’immaginario, operando un doppio ribaltamento. Il primo capovolgimento, in effetti, fu quello operato dagli sceneggiatori Hampton Fancher e David Peoples sul mondo di Philip K. Dick, trasportando l’azione dalla Bay Area a Los Angeles, sostituendo un mondo spopolato e soffocato dalla cenere radioattiva e dal kipple con un mondo sovraffollato e annegato nelle piogge monsoniche, trasformando una NorCal devastata dalle ricadute dell’olocausto nucleare che aveva suggellato l’Ultima guerra mondiale con una SoCal al collasso ambientale ben prima che la crisi climatica diventasse argomento di stringente attualità. Tutto il subplot di Dick legato alla comunione empatica e al culto di Wilbur Mercer rimane fuori dall’adattamento cinematografico, ma viene recuperato in maniera sottile nella caratterizzazione dei replicanti: quelli che in Do Androids Dream of Electric Sheep? non erano altro che macchine prive di sentimenti, creature artificiali in cui era stato accidentalmente sintetizzato un istinto animale di sopravvivenza amplificato all’ennesima potenza, nella pellicola di culto di Scott diventano a tutti gli effetti “più umani dell’umano“, come da slogan della Tyrell.

Così i Nexus-6, che nel romanzo non erano altro che androidi, evolvono in replicanti, termine nato da un brillante spasmo neologico di Peoples: non più automi, congegni, meccanismi, robot organici… ma creature a tutti gli effetti indistinguibili dagli umani, simulacri senza un originale perché dotati di qualità superiori agli stessi prototipi, che ereditano sia l’istinto animale che le facoltà empatiche degli animali superiori, senza le quali l’homo sapiens difficilmente avrebbe potuto gettare le basi per il processo di civilizzazione. I replicanti sono gli umani della prossima generazione, postumani per definizione, gli unici a poter sostenere l’antico slancio dell’umanità verso le stelle e quindi tutti gli sforzi legati al programma di colonizzazione spaziale.

Nel momento in cui la realtà ha deciso di prendersi una rivincita sull’immaginario, il mondo anziché trovarsi preso di mira dai replicanti in fuga dalle colonie extra-mondo, attirati sulla Terra dall’invisibile richiamo mnemonico o dalla risonanza morfica della culla dell’umanità, si ritrova invaso di zombie: un po’ come se tutte le facoltà superiori che gli ingegneri genetici di Tyrell erano riusciti a codificare nei replicanti fossero state sottratte agli umani delle ultime due o tre generazioni, lasciando spazio a un vuoto pneumatico in cui sono andate espandendosi le paure, i timori e tutti gli stati negativi presenti nel nucleo più primitivo dei nostri comportamenti animali. Invece dei replicanti, abbiamo così dei ritornanti, degli androidi organici la cui programmazione viene continuamente assicurata dall’azione martellante della propaganda, un’autentica fabbrica di fake news e di consenso fondato sull’ignoranza e la disinformazione. Non usciremo illesi dall’era della post-verità, probabilmente occorreranno decenni per curare le ferite.

Intanto continuiamo a temere invasioni fantasma buone solo per lo share e per pompare nei sondaggi le liste dei neofascisti, mentre nell’indifferenza generale lasciamo che il Mediterraneo si trasformi in un cimitero sottomarino, lo Stige all’altezza del suo nome per tutti i profughi imprigionati nei lager libici. Siamo troppo svuotati per empatizzare con chi è disposto a mettere a repentaglio la propria vita e quella dei propri figli per coltivare la pur remota speranza di un futuro migliore, quando invece è a quei sogni che dovremmo guardare con rinnovato slancio, facendoli nostri per superare la trappola irrazionale della paura. In altre parole: per tornare a essere umani, se non proprio dei replicanti migliori.

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Vivere anche il quotidiano nei termini più lontani. -- Italo Calvino, 1968

Neppure di fronte all'Apocalisse. Nessun compromesso. -- Rorschach (Alan Moore, Watchmen)

United We Stand. Divided We Fall.

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Mi chiamo Giovanni De Matteo, per gli amici X. Nel 2004 sono stato tra gli iniziatori del connettivismo. Leggo e guardo quel che posso, e se riesco poi ne scrivo. Mi occupo soprattutto di fantascienza e generi contigui. Mi piace sondare il futuro attraverso le lenti della scienza e della tecnologia.
Il mio ultimo romanzo è Karma City Blues.

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