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Ecco come si generano le onde per fare surf. In mare aperto, una tempesta sconquassa la superficie dell’acqua, creando una maretta, un’increspatura di onde confuse e poco potenti che a mano a mano si addensano, si fanno più grandi e, incalzate dalla forza del vento, danno vita al mare grosso. A riva, su una costa lontana, noi riceviamo l’energia che si sprigiona da quella tempesta, irradiandosi attraverso acque più calme sotto forma di un treno d’onda–ovvero di gruppi di onde, via via più regolari, che viaggiano assieme. Ogni onda produce un’oscillazione delle particelle d’acqua lungo un’orbita che si sviluppa perlopiù sotto la superficie. Tutti i treni d’onda prodotti da una mareggiata formano quello che i surfisti chiamano swell, anche detto mare lungo o «di scaduta». Uno swell può viaggiare per centinaia di chilometri: più intensa è la tempesta, più lontano arriva lo swell. Mentre viaggia, lo swell diventa sempre più regolare–il tempo che intercorre tra un’onda e l’altra, cioè il «periodo», si fa costante. In un treno di lungo periodo, l’orbita che le particelle d’acqua descrivono sotto ogni onda può propagarsi per oltre trecento metri nelle profondità dell’oceano. Un treno del genere è in grado di attraversare con estrema facilità la resistenza superficiale di onde meno potenti o di altri swell più piccoli che incrocia nel suo cammino.
Quando lo swell si avvicina sottocosta, la parte bassa delle onde incontra il fondale marino. I treni d’onda diventano set–gruppi di onde più ampie, separate da un intervallo maggiore rispetto alle loro cugine che nascono sul posto per effetto di venti e perturbazioni locali. In base alla conformazione del fondale, le onde subiscono una rifrazione (cioè deviano rispetto alla direzione di propagazione). La parte visibile dell’onda cresce, spinta in alto dall’energia che orbita sotto la superficie. A mano a mano che la profondità dell’acqua diminuisce, aumenta la resistenza opposta dal fondale, rallentando così l’avanzamento dell’onda, che in superficie si solleva ancora e si fa sempre più ripida. Alla fine, la cresta diventa instabile ed è pronta per arricciarsi e rovesciarsi verso la riva–cioè a frangersi. Il principio empirico vuole che l’onda si franga quando la sua altezza raggiunge l’ottanta per cento della profondità marina–in altre parole, un’onda di due metri e mezzo (circa otto piedi) si infrange in tre metri d’acqua (circa dieci piedi). Ma i fattori in gioco sono numerosi, alcuni molto difficili da valutare–il vento, le caratteristiche del fondale, l’angolo dello swell, le correnti–che determinano con precisione dove e come si romperà ogni singola onda. Noi surfisti possiamo solo augurarci che ci offra l’attimo per prenderla (che abbia un punto di takeoff), che abbia una parete adatta a surfare, che non si rompa tutta insieme (closeout) ma per gradi, un poco alla volta (peel), in una direzione o nell’altra (destra o sinistra), consentendoci di viaggiare grossomodo paralleli alla spiaggia, planando lungo la parete centrale dell’onda, almeno per un po’, proprio lì, in quel momento preciso, un istante prima che si chiuda.
Tratto da Giorni selvaggi di William Finnegan
(66th and 2nd, 2016 – traduzione di Fiorenza Conte, Mirko Esposito, Stella Sacchini)
California Street aveva il fondale di sassi e a me, con i miei dieci anni, quelle onde che si infrangevano sopra un letto di roccia sembravano arrivare da un’officina celeste, le creste fosforescenti e le pareti sottili intarsiate da angeli dell’oceano.
Forse è tardi per un consiglio di lettura, ma voglio lo stesso segnalarvi il libro che mi ha accompagnato attraverso l’estate 2018 e che in questi giorni è tornato a riverberare con rinnovata insistenza tra i miei pensieri. Sto parlando di Giorni selvaggi di William Finnegan, portato in Italia nel 2016 da 66th and 2nd in un’edizione elegante che rende giustizia al contenuto del volume. Così, mentre l’estate avanza e lo sciabordio delle onde culla i pomeriggi stanchi di agosto, mi sono rimesso a sfogliare quelle pagine, rileggendo i passaggi che più mi avevano colpito, i brani che avevano meritato una sottolineatura o un appunto, e non vedo motivi validi per non condividere con voi questo libro meraviglioso.
Giorni selvaggi è un memoir che ricostruisce mezzo secolo di avventure sulle onde accumulate da William Finnegan, firma del «New Yorker», collaboratore di testate come «Granta», «Harper’s» e «The New York Review of Books», e autore di reportage su razzismo, povertà, crimine organizzato, guerra, globalizzazione e politica estera, viaggiando in Asia, Africa, Oceania e America Centrale. Proprio con questo libro Finnegan si è meritato nel 2016 il Premio Pulitzer per la migliore autobiografia e il William Hill Sport Book of the Year.
Come recita il sottotitolo, la sua è stata una vita sulle onde. Ma anche una vita per le onde, essendo stata proprio la passione per il surf a spingerlo a esplorare i luoghi più remoti del pianeta, ad affrontare sfide ai limiti del possibile, mettendosi in discussione, spingendo ogni volta un centimetro più in là il limite delle proprie capacità e al contempo a conoscere le persone che abitavano quei luoghi, i costumi e le tradizioni delle popolazioni, i drammi e i tormenti delle loro storie. Dalle isole Figi a Bali, dall’Australia al Sudafrica a Madeira, in queste pagine dense di adrenalina e del sapore salmastro dell’oceano ritroviamo tutto lo stupore e lo slancio, la sete di scoperte e di meraviglia, l’incanto e il disincanto, che ci accompagnano nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta. E oltre.
Fin dal primo impatto sulle coste delle Hawaii, dove nella seconda metà degli anni ’60 Finnegan approda da grommet (ovvero, nel gergo dei surfisti, da novizio inesperto) e inizia a praticare con costanza e dedizione crescente, il suo racconto ci trascina in maniera irresistibile, alternando ironia e poesia con i toni del romanzo d’avventura e di quello di formazione, alla scoperta di un mondo regolato da codici non scritti, costruito su una matematica tanto complessa da risultare quasi incomprensibile agli esterni ed espresso da un linguaggio non meno esoterico, fino a trasmettere nella pratica delle onde la filosofia del surf, l’essenza profonda che lo rende così diverso da qualsiasi altro sport.
In mare, ogni cosa è legata in modo indissolubile e inquietante a tutte le altre. Le onde sono il campo da gioco. Il fine ultimo. Sono l’oggetto dei tuoi desideri e della tua ammirazione più profonda. Allo stesso tempo, sono anche il tuo avversario, la tua nemesi, il tuo nemico mortale. L’onda è il rifugio, il tuo nascondiglio felice, ma anche un territorio selvaggio e ostile, una realtà indifferente e dinamica. A tredici anni, avevo smesso in pratica di credere in Dio, ma questo nuovo sviluppo aveva lasciato un vuoto nel mio mondo, la sensazione di essere stato come abbandonato. L’oceano per me era simile a un Dio insensibile, infinito nella sua pericolosità, dotato di un potere smisurato.
È a Honolulu, mentre cerca di inserirsi in una nuova scuola, che Finnegan scopre il vero surf, non quello che aveva avuto modo di vedere e provare in California in un sobborgo di Los Angeles, e questa rivelazione viaggia parallelamente alla scoperta del suo nuovo ambiente, dominato dal razzismo dei suoi coetanei e dalle logiche tribali delle gang di strada (un’esperienza che molti anni più tardi si sarebbe rivenduto in un’intervista con Obama in persona, che qualche anno dopo di lui avrebbe frequentato sempre a Honolulu un istituto meno problematico di quello). Ed è da qui che parte questo viaggio nel tempo e nello spazio, che ci porterà su spiagge inaccessibili, custodite come segreti dai surfisti che le conoscono, e a contatto con personaggi bizzarri, romantici, maniacali, ma accomunati da un’unica passione.
La dedizione di Finnegan al surf (con “il piglio esoterico, ossessivo – non mainstream” e “quel marchio di monomania, antisociale e squilibrata”, che si portava dietro, destando non poche preoccupazioni nei suoi genitori) è tale che la Storia stessa finisce per essere scandita dalle sue incursioni sulle onde (a proposito del 1968, per esempio, consideriamo questo passaggio emblematico: “La rivoluzione della shortboard era inseparabile dallo zeitgeist: la cultura hippie, l’acid rock, gli allucinogeni, il misticismo neo-orientale e l’estetica psichedelica” o quest’altro: “Là fuori, nel mondo, c’era la «controcultura» con tutte le affinità e l’ispirazione che ti offriva, ma in gioco c’era anche, a un livello più immediato, il desiderio di ridefinire le nostre vite“), finendo per portarlo progressivamente a distaccarsi dal resto del mondo:
Il nuovo ideale che stava prendendo piede era quello della solitudine, della purezza, delle onde perfette in un mondo incontaminato. Robinson Crusoe, L’estate senza fine. Era un sentiero che ti conduceva lontano dalla civiltà, nel senso più antico della parola, verso una frontiera dimenticata da dio, dove avremmo vissuto come moderni selvaggi. Questa non era la chimera del felice vagabondo. Era qualcosa di più profondo. Rincorrere le onde per professione era un atto egoista e allo stesso tempo altruista, dinamico e ascetico, radicale nel suo rifiuto dei valori del dovere e della realizzazione personale.
Finnegan, da solo o insieme ai suoi amici di tavola, si avventura in giro per il mondo, abbandonando prima gli studi e poi un lavoro da frenatore sui convogli merci della Southern Pacific, preferendo la scoperta alla routine, in un’epoca in cui peraltro “il meteo del surf non era quella scienza computerizzata e alla portata di tutti che è oggi“. Per quattro anni esplora i Mari del Sud, facendo di tutto per sopravvivere, dal lavapiatti al benzinaio, patendo la fame, ma accumulando un background di esperienze fantastiche e la conoscenza diretta dei migliori spot al mondo: delle dieci migliori onde elencate in un articolo del 1981 di una rivista per surfisti, gliene mancava solo una.
Non aveva ancora compiuto trent’anni e aveva già surfato quella che rimarrà per sempre l’onda insuperabile, che si sforzerà inutilmente di tenere nascosta agli altri surfisti. Lui e i suoi compagni di avventura sono pionieri, alla ricerca forse di una dimensione incontaminata che non esiste e forse non è mai esistita, ma saperlo non era una condizione sufficiente per demordere e rinunciare all’impresa:
Il sogno di quella solitudine primigenia del surf aveva un effetto collaterale del tutto prevedibile: una nostalgia senza limiti. Buona parte delle storie che scrissi nei miei diari riguardava il viaggio nel tempo, più che altro in una California agli albori della storia.
In questo viaggio sull’abisso fino a un’ideale Terra delle Ombre scoperta quasi per caso proprio alle porte del Vecchio Continente, Finnegan non di rado si ritrova a incrociare i sentieri di un’immaginario particolarmente consolidato da queste parti: imbattersi tra le sue pagine nei nomi di Philip K. Dick e Thomas Pynchon sembra la dimostrazione incontrovertibile di quel legame “indissolubile e inquietante” che il mare riesce a instaurare tra tutte le cose.
Chiusi gli occhi. Mi sembrava di sentire su di me tutto il peso dei mondi senza mappe, delle lingue non ancora nate. Ecco quello che stavo cercando: non l’esotismo, ma la comprensione assoluta della realtà così com’è.
E sulle onde, se si è particolarmente bravi e fortunati allo stesso tempo, può capitare di sperimentare epifanie capaci di ricompensare tutta la fatica sostenuta:
Al culmine dell’alta marea accadde una cosa strana. Il vento smise di soffiare e l’acqua, già molto limpida, divenne ancora più limpida. Era mezzogiorno e con il sole allo zenit l’acqua era come invisibile. Sembrava che fossimo sospesi sopra la barriera corallina, fluttuando su un cuscino evanescente, incapaci di stabilirne la profondità a meno di non urtare per caso uno spuntone di corallo. Le onde erano illusioni ottiche. Potevi attraversarle con lo sguardo e scorgere il cielo, il mare e il fondale marino.
E questo è un libro che ci racconta proprio quello (“quel luogo e il suo sedimento mitologico“), facendo toccare con mano anche ai profani la bellezza, la libertà e la grazia selvaggia di una disciplina che continua a esercitare un fascino irresistibile perfino su chi, come me, non saprebbe tenersi a galla nemmeno aggrappato a un salvagente. Leggete Finnegan, concedetevi lo stupore di quei giorni selvaggi in cui eravamo i signori delle onde, in un mondo-oceano primordiale che ancora sopravvive nei nostri sogni.
Mi sentivo galleggiare, sospeso tra due mondi. C’era l’oceano, davvero infinito, che spariva per sempre all’orizzonte. Quella mattina era placido, ed esercitava su di me un fascino dolce e languido. Ma adesso ero legato in maniera indissolubile ai suoi sbalzi d’umore. La mia devozione era assoluta e irresistibile. Non pensavo più che le onde fossero intarsiate in qualche officina celeste. Stavo diventando più pragmatico. Adesso sapevo che traevano origine da mareggiate lontane che si muovevano, per così dire, sulla superficie dell’abisso. Ma la mia totale dipendenza dal surf non aveva una motivazione razionale. Non ero in grado di opporvi alcuna resistenza: era una miniera senza fondo di bellezza e meraviglie. Non avrei saputo spiegarlo in altre parole. In linea generale, sapevo che riempiva una specie di vuoto psichico – collegato magari al mio rifiuto della Chiesa o, più probabilmente, al mio ineluttabile distacco dalla famiglia –, e che aveva rimpiazzato molti interessi precedenti. Ero un pagano riarso dal sole. Ero stato iniziato ai misteri della vita.
Tutte le citazioni sono tratte da Giorni selvaggi di William Finnegan (66th and 2nd, 2016 – traduzione di Fiorenza Conte, Mirko Esposito, Stella Sacchini)
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