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Ancora una recensione per Quaderni d’Altri Tempi. Questa volta tocca – e mi tremano le dita solo a scriverne il nome – a Shirley Jackson, di cui Adelphi ha recentemente pubblicato uno splendido volumetto nella Biblioteca Minima, con tre racconti uno più bello dell’altro. Il libro s’intitola La ragazza scomparsa e qui di seguito trovate un assaggio del mio pezzo:

Dalla frammentazione dell’identità alla solitudine, dalle difficoltà a instaurare un canale di comunicazione con gli altri al peso schiacciante dell’ignoto, che blocca le sue protagoniste in un’altalena perpetua tra isolamento ed emarginazione, ritroviamo in queste pagine la poetica che l’ha resa celebre, meritandole l’ammirazione di maestri dell’horror e del fantastico come Richard Matheson, Stephen King e Neil Gaiman, il plauso di critici come Harold Bloom e l’inclusione nella prestigiosa Library of America in un volume curato nel 2010 da Joyce Carol Oates.
La ragazza scomparsa, del 1957, è emblematico in questo senso e per costruzione richiama proprio il più famoso dei racconti di Jackson, il summenzionato La lotteria (che risale invece al 1948): una comunità isolata e legata ai propri codici (lì era l’ancestrale istituto di un macabro concorso a premi, qui abbiamo le ragazze di un campo estivo suddivise in sottogruppi in base all’età, agli interessi, all’attitudine o semplicemente ai capricci del caso) che fa da specchio alla vita di provincia del New England; una galleria di personaggi attraverso i cui occhi assistiamo all’inesorabile consumarsi della tragedia nella banalità di una dimensione quotidiana; la costruzione di un meccanismo narrativo in grado di somministrare gradualmente dosi infinitesimali di ansia fino al raggiungimento di una massa critica destinata a detonare nel finale.

Stanno facendo molto discutere le dichiarazioni rilasciate dallo scrittore inglese Ian McEwan in occasione del lancio del suo ultimo romanzo Machines Like Me, che si presenta come un’ucronia incentrata sulla riscrittura del rapporto dell’uomo con la tecnologia. Come fa notare Sarah Ditum nel suo ottimo articolo apparso sul Guardian, McEwan ci ha tenuto a rimarcare la distanza del suo lavoro dalla fantascienza, “tracciando un confine invalicabile tra la literary fiction e il genere e posizionandosi fermamente dal lato rispettabile della linea”. Un atteggiamento che la giornalista non esita a definire snobismo e a regolare con una semplice controprova: è sufficiente infatti citare anche solo un autore di genere per fornire a McEwan un esempio più che sufficiente di approccio della fantascienza a scenari di storia alternativa e temi come l’esplorazione dei confini non-umani della coscienza.

Per la cronaca, l’esempio citato è Philip K. Dick, ma possiamo ritrovare esiti analoghi in una miriade di altri autori, da William Gibson e Bruce Sterling a Kim Stanley Robinson, da Neal Stephenson a Charles Stross, da Ted Chiang ad Aliette De Bodard. E sono tutti autori ben presenti sul mercato editoriale anglofono (e per fortuna anche nel nostro, anche se in misura inevitabilmente più circoscritta e con un certo ritardo), quindi difficili da trascurare in un giudizio tanto lapidario, a meno di non tradire la propria fiera ignoranza o una malafede senza vergogna. Come si dice in questi casi, tertium non datur… e delle due l’una.

Roger Luckhurst, professore di letteratura moderna e contemporanea all’Università di Londra e curatore di una storia letteraria della fantascienza, ascoltato sulla questione non ha esitato a individuare nel successo della letteratura gotica tra il XVIII e il XIX secolo le radici dell’odierno disprezzo per la fantascienza: mentre Ann Radcliffe vendeva migliaia di copie con i suoi romanzi, la sua produzione veniva bollata come pessima spazzatura dagli strenui difensori della rispettabilità letteraria, per lo più indispettiti dal non guadagnare tanto quanto lei. E la storia prosegue con Mary Shelley e ovviamente con Edgar Allan Poe, H. G. Wells e Jules Verne, e con il successo postumo di H. P. Lovecraft, con i bestseller di Frank Herbert e Isaac Asimov e, nei generi contigui, di J. R. R. Tolkien, Stephen King, Terry Pratchett o George R. R. Martin.

D’altro canto, se è vero che questo atteggiamento di sufficienza non coinvolge indiscriminatamente tutti gli autori forti di uno status letterario, è altrettanto vero che nel corso del tempo possiamo annoverare una lista crescente di nomi che continuano a inciampare nel vecchio pregiudizio, dai casi più eclatanti di Vladimir Nabokov e Margaret Atwood (che poi in parte è tornata sui suoi passi) ai più recenti, con il premio Nobel Kazuo Ishiguro e appunto McEwan, che siamo sicuri non rimarrà a lungo l’ultimo della sequenza. Molti di loro si sono ritrovati a scrivere fantascienza magari “a loro insaputa” ed è comunque fuori discussione, come per altro faceva notare già questo articolo di Derek Zoo, che questa inconsapevolezza nelle mani degli scrittori più dotati possa tramutarsi in una riserva di originalità per lo stesso immaginario di genere. Ma i giudizi lapidari espressi sulla fantascienza ci dicono forse molto più sulla scarsa conoscenza di questi autori verso il loro stesso pubblico, di quanto non ci dicano rispetto alla loro “ignoranza” sul genere: i confini contrassegnati con le etichette funzionano molto meglio sugli scaffali delle librerie che nei gusti dei lettori, e non di rado capita che i lettori dei suddetti autori si trovino già a essere lettori, più o meno consapevoli, di fantasy e fantascienza, e in definitiva appassionati alle opere dei realisti di una realtà più grande.

Siccome le cose non capitano mai per caso, non mi sono sorpreso di imbattermi stamattina in una vecchia lista di Taste of Cinema dedicata ai 20 film più complessi della storia. Un elenco in una certa misura arbitrario, come sempre quando si compilano liste di questo tipo, ma tutto sommato sintomatico: il 70% dei titoli sono infatti chiaramente identificabili come fantascienza e già così sarebbe una percentuale schiacciante, che tuttavia diventa ancora più larga se si considera che molte delle rimanenti pellicole sono comunque riconducibili ai codici del fantastico. Questo chiude il cerchio con quanto viene spesso rimproverato alla fantascienza, anche dagli stessi appassionati affezionati a un’idea statica del genere (ne abbiamo già parlato in altre occasioni), legati a una concezione granitica e anti-evoluzionistica, e che per questo mi divertirò a chiamare i creazionisti della fantascienza: un’etichetta, a ben guardare, che si attaglia tanto a quei lettori, spesso non proprio numerosi ma comunque molto rumorosi, che disprezzano e sminuiscono i più innovativi tra gli esiti recenti della letteratura di idee, spesso proprio in ragione della loro eccessiva complessità; quanto a quegli autori che pretendono di rimarcare la propria originalità prendendo le distanze dal genere, e così facendo finiscono irrimediabilmente per scoprire e riscoprire l’acqua calda.

Volendo estremizzare, se la complessità è una delle prerogative della fantascienza, una delle frecce che l’arco del genere può decidere di volta in volta di incoccare, rinunciando per principio a questa possibilità si sta ancora sfruttando la fantascienza al massimo delle proprie potenzialità? E quanto è facile cogliere la complessità di un tema consolidato nella letteratura di genere potendo “vantare” di non averne mai letto una sola pagina?

La nostra resistenza deve essere, prima di tutto il resto, una resistenza di natura morale.

Sono passati poco più di dieci anni da quando scrivevo queste parole e sembra trascorsa un’epoca. Pensiamoci: quante volte, solo negli ultimi mesi, ci siamo ripetuti che al peggio non c’è mai fine, che quasi quasi erano meglio quelli di prima, che ci eravamo illusi di avere toccato ormai il fondo quando invece ne avevamo ancora da scavare?

Come spesso ci troviamo a ripetere, gli anni del berlusconismo rampante hanno rappresentato un alibi, ritardando lo sviluppo di una coscienza civile dal basso che altrove sta dando i suoi germogli. Penso per esempio ad Alexandria Ocasio-Cortez negli USA o a Greta Thunberg in Svezia: due giovani donne forti dell’urgenza dei propri argomenti e proprio per questo capaci di imporre la loro agenda agli avversari politici. E se siamo comunque abituati a pensare ai paesi scandinavi come a una sorta di faro per le socialdemocrazie europee, è paradossale che proprio nell’America di Trump un’alternativa possibile sia ben più che delineata all’orizzonte, ma realtà concreta e già in atto (e il GOP lo ha chiaro forse meglio di tutti).

Altrove, invece, non s’intravede via d’uscita dal vicolo cieco in cui ci siamo andati a cacciare: nubi temporalesche si affollano nei cieli dell’Europa, dalla spirale in cui si è avvitato il processo di Brexit all’ascesa apparentemente inarrestabile dei movimenti sovranisti. Ancora una volta, come già con il berlusconismo precursore del trumpismo, l’Italia sembra in prima linea, pronta a rivendicare il ruolo di laboratorio per le peggiori aberrazioni destrorse. Stiamo mandando a picco la zattera su cui siamo tutti stipati e qualcuno che fino a non molte settimane fa ci ripeteva che andava tutto bene e che ci attendevano grandi soddisfazioni si appresta a passare all’incasso, riscuotendo con gli interessi un investimento lungo anni, in cui il disagio e la paura opportunamente coltivate sono ormai degenerate in rabbia sociale. La grancassa della stampa suona la musica scelta dal maestro e davanti all’affresco gialloverde di un paese inesistente, elaborato all’unisono dalle televisioni e dai quotidiani, un mondo di fantasia che non trova il minimo riscontro nella realtà, lo sconcerto sembra l’unico stato d’animo possibile, l’unica reazione all’attuale stato delle cose.

Per questo mai come quest’anno sento il bisogno di non lasciar correre una data importante come il 25 aprile. Nei tempi bui servono modelli a cui guardare, esempi che ci indichino un possibile sentiero per uscire dal fitto del bosco in cui ci sentiamo intrappolati, e i miei ce li ho ben chiari. Ricordiamo che un’alternativa è sempre possibile, anche quando non se ne intravede la possibilità dalla zona morta in cui siamo confinati, a causa della cortina di un futuro a zero dimensioni che ci è stato abbassato intorno. Uscire dalla trappola dell’ur-fascismo è sempre possibile, ma occorre tenacia, costanza, lavoro. Occorre un progetto.

Buona festa della Liberazione, Khruner! In qualsiasi punto dello spazio e del tempo vi troviate, continuate a resistere e non smettete mai di lottare.

Dopo aver toccato l’apice della sua carriera nel film culto di Terry Gilliam L’esercito delle 12 scimmie (1995), Bruce Willis torna a confrontarsi con i paradossi del viaggio nel tempo, uno dei capisaldi dell’immaginario fantascientifico. Ad assisterlo, il suo alter ego Joseph Gordon-Levitt, attore feticcio di Rian Johnson fin dal suo film d’esordio (Brick – Dose mortale, 2005), che dopo le collaborazioni con Christopher Nolan in Inception e Il Cavaliere Oscuro – Il ritorno proprio sotto la regia di Johnson approda finalmente con questa pellicola al ruolo di protagonista in una produzione sci-fi. Trent’anni più giovane e sulla cresta dell’onda nella sua fulminante carriera di sicario, il giovane Joe a cui Gordon-Levitt presta il cipiglio si trova alle prese con l’ingrato incarico di eliminare il suo futuro se stesso. Per sua (s)fortuna, il vecchio Bruce si conferma un osso ancora duro. Peccato per il giovane Joe che il vecchio Joe non si accontenti di salvare la pelle, ma sia anche intenzionato a portare a termine una missione privata: eliminare il bambino che crescendo diventerà il futuro Sciamano, un boss del crimine a capo di un’organizzazione ramificata in ogni angolo del pianeta, prevenendo in questo modo l’uccisione della persona a lui più cara.

Joe è un looper: nel 2044, attende che i suoi clienti del futuro gli mandino le vittime da eliminare senza lasciare traccia nel loro mondo, per eseguire spietatamente l’incarico. Ogni eliminazione gli vale un carico d’argento: una parte viene subito vaporizzata in stupefacenti ad assunzione oculare, il resto finisce a incrementare la sua scorta per il futuro ritiro. Tra la routine omicida del presente e la meritata pensione c’è però un ultimo ostacolo da superare: l’eliminazione del vecchio Joe, come da prassi rispedito indietro di trent’anni dal 2074 a definitiva chiusura del contratto con i suoi mandanti. Da questione di sopravvivenza, il ritorno al passato del vecchio Joe si trasforma presto in qualcosa di più complesso, sviluppandosi in una linea narrativa parallela che finisce per fagocitare la trama, asservendo il tema abusato del viaggio nel tempo al semplice ruolo di assunto di partenza, per virare su un ben più interessante punto di vista sulla diversità, la responsabilità e l’abuso dei poteri – e delle occasioni – che ci sono concessi.

E in effetti con Looper siamo dalle parti di Terminator più che di Terry Gilliam. Il tempo è una forma plastica, da modellare a piacimento con la pressione delle proprie scelte. Di certo ha giovato la consulenza speciale di Shane Carruth, autore eclettico e artefice nel 2004 di un piccolo capolavoro come Primer (per la cronaca, questa pellicola indie costata appena 7.000 dollari, alla cassa ha moltiplicato per 60 il suo budget di produzione), a cui Looper sembra strizzare l’occhio fin dal titolo. Rian Johnson, proveniente come Carruth dal cinema indipendente, si avvale qui di un budget di 30 milioni di dollari e riesce a farlo fruttare fino all’ultimo centesimo: meritatamente nel 2012 Looper ha spopolato al box office in tutto il mondo, incassando una cifra sei volte più alta del suo costo di produzione. Non male, per un film di fantascienza che non si accontenta di un unico tema forte, ma accanto al classico topos del cronoviaggiatore mette sul piatto anche il carico delle facoltà telecinetiche e condisce il tutto con una efficace atmosfera noir e uno stile hard-boiled che non risparmia piombo ed effetti granguignoleschi.

Certo, il film di Johnson non è perfetto. La tenuta del ritmo non è impeccabile, i momenti di stanchezza irrompono all’improvviso in una struttura che avrebbe potuto essere resa più solida bilanciando meglio i pesi narrativi, e a tratti l’intreccio sembra complicarsi inutilmente, come nella parte di svolta compresa tra il lungo (ma necessario) antefatto e la storia portante che occupa i restanti due terzi della pellicola. Ma Looper si lascia soprattutto apprezzare per i suoi diversi elementi di innovazione. Innanzitutto offre un punto di vista anticonformista, underground, del viaggio nel tempo, prospettando l’utilizzo che un’ipotetica tecnologia del genere potrebbe sviluppare nelle mani della criminalità organizzata, discostandosi meritoriamente dai luoghi comuni della science fiction, dominata dalle speculazioni finanziarie e dalle guerre segrete per l’egemonia politica. In aggiunta, ha il coraggio di mixare in maniera tutto sommato riuscita almeno tre temi forti, benché classici della sci-fi, quali sono appunto il viaggio nel tempo e la psicocinesi, suggerendo inoltre cupi scenari distopici per il futuro da cui proviene il vecchio Joe: un orizzonte su cui la sceneggiatura ha il pregio di non insistere, riuscendo comunque a massimizzarne l’effetto grazie ad accenni mirati, disseminati lungo la pellicola con una precisione chirurgica. E per finire, sceglie felicemente di ambientare la storia in una futuribile cittadina del Sud, che la trama vorrebbe situare tra le piantagioni di mais del Kansas, in cui viene trasfigurata la campagna della Louisiana alle porte di New Orleans, effettiva sede delle location per le riprese in esterni. Lo spostamento dell’azione nella Corn Belt crea un interessante giochi di specchi con il bayou di Déjà Vu – Corsa contro il tempo, film di Tony Scott del 2006 che sfruttava l’ambito del viaggio nel tempo per muoversi su binari completamente diversi, in rotta di collisione con la cronaca recente, laddove Looper si mantiene invece su un piano più sganciato dall’attualità, finendo per consumare l’epilogo in un’atmosfera rurale quasi fiabesca.

Ottime le interpretazioni di Bruce Willis e Joseph Gordon-Levitt, la cui identificazione nel protagonista è avvalorata da un trucco credibile ed efficace. Bravi anche i comprimari, da Emily Blunt a Jeff Daniels, al piccolo Pierce Gagnon nel ruolo più inquietante di tutti. Forse un po’ troppo stereotipato l’esito degli scagnozzi, ma a mio giudizio anche questa gestione dei registri giova al risultato finale, stemperando le esplosioni di violenza nel distacco delle caricature. Nota di merito per le scenografie del veterano Ed Vereaux e per la fotografia di Steve Yedlin (sporca in città, calda in campagna, gelida nella Cina potenza egemone del futuro). Oltre che per Johnson, che proprio con questa pellicola attira l’attenzione della Disney, che lo ingaggia per dirigere  Gli Ultimi Jedi e per curare una nuova trilogia dell’universo di Star Wars, con buona pace per tutti i troll che stanno intossicando il fandom e che meriterebbero una gita nell’epoca dello Sciamano.

Da rivedere il meccanismo della capsula del tempo, che in maniera non dissimile da Timecop (Peter Hyams, 1994) resta ancorata allo spazio fisico del proprio tempo, mentre è solo il suo contenuto a essere proiettato nel passato. Qui, se non altro, il viaggio è di sola andata, risparmiandoci così le complicazioni filosofiche ed esistenziali di un ritorno in autostop sulle autostrade perdute del tempo.

– Oh sì! Ancora… così! Più giù! Così! – stava dicendo Ayesha, scandendo i tempi della loro danza orgasmica. – Così…
Sotto le mani, Jerry Lone seguì il profilo regolare e snello dei suoi fianchi, percepì il fremito del suo ventre, immaginò i seni sussultare gonfi e turgidi. La percorse fino a incontrare le dune frementi delle costole. La pelle di Ayesha splendeva in un trionfo di ambra bruna sotto un velo di sudore. Quando si perse lungo la curva della sua schiena, sulla scala vertebrale di un crescendo sinfonico, comprese che era giunto il momento.
Colse l’attimo.
La freccia scivolò sulla cresta gravitazionale della singolarità, schizzando in un condotto a basso dispendio energetico a una frazione pari al 58% della velocità della luce, proiettando davanti a sé un campo a inversione di spinta. In un effetto domino l’inversione gravitazionale accelerò ulteriormente la loro corsa, lanciandoli all’inseguimento dell’ombra cosmica di una lepre fantasma.
– Va bene così – disse Jerry Lone. Lo stupore di Ayesha echeggiò nell’apparato. – Riportaci giù, ragazza. Facciamo un giro….

Avevano rallentato ed erano tornati in basso.
Stavano guizzando sulla distesa mineraria della Cintura, godendosi quella crociera che non si erano mai voluti concedere. Quando erano scesi nel Gorgo, era sempre stato per lavoro. Ma questa volta era diverso. Avevano trovato quello a cui, in fondo, avevano dato la caccia fin dal primo istante. Niente poteva ormai togliergli il futuro che Jerry Lone aveva sognato per loro due insieme. Dipendeva solo da lui, adesso… Dalla prossima mossa.
Poi, all’improvviso, si accorsero di non essere più soli.
Nella loro scia una freccia stava guadagnando velocità.
– Jerry…
– Ho visto – rispose lui nella connessione neurale, sforzandosi di mantenere la calma. Si sistemò la maschera da aviatore, che il sudore durante l’amplesso aveva appannato. Poi tornò ai dati trasmessi dall’Algebra: alfanumerici tridimensionali brillavano nell’ombra acuta che ristagnava nella freccia.
– Avevi in programma una festa a sorpresa, capo?
– Un party orbitale per te, mia cara? Magari tengo presente l’idea per il tuo compleanno…
– Che carino! Ma se vogliamo arrivare entrambi al mio prossimo compleanno, ci converrà pensare a qualcosa… e farlo subito!
– Uhm?
– Quei bastardi hanno appena finito di tracciarci.
– Merda! – Jerry Lone passò sbrigativamente in rassegna le informazioni snocciolate dall’Algebra.
Coordinate spaziali e relativi incrementi differenziali del primo e del secondo ordine, gradiente termico, intensità delle radiazioni e flusso ionico, distribuzione delle masse e curvatura proiettavano in tempo reale la rappresentazione dello spazio AdS così com’era percepito nell’ottica olografica del sistema di navigazione. Il segreto dell’Algebra consisteva nel semplificare al massimo il mondo, con il proposito di arrivare a capirlo meglio e, soprattutto, nel più breve tempo possibile.
– Torniamo ketch, Ayesha – decise Jerry. La freccia perse parte della sua aerodinamicità mentre la sua configurazione mutava per esaltare le doti delle strutture di controllo. – Avvia una scansione campionata nella banda di nessuno. – Se erano recuperanti (e dovevano esserlo, per spingersi nella Cintura) avrebbero usato le solite frequenze per comunicare.
– Già fatto, capo – lo informò Ayesha. – L’algoritmo di ricerca non ha trovato ancora niente… Aspetta! Forse c’è qualcosa.
La freccia nella loro scia stava guadagnando terreno. Li seguiva a distanza ravvicinata, troppo ravvicinata: voleva fargli sentire il fiato sul collo.
– Stronzi bastardi – imprecò Jerry a bassa voce. Manovrò all’improvviso, ma il più dolcemente possibile. La freccia si avvitò con grazia, sfruttando una corrente gravitazionale tangente per guadagnare velocità.
– Beccati! – annunciò Ayesha, mentre la freccia mutava in cutter.
– D’accordo, passameli.
La voce urticante del Ghost Rider risuonò nell’interfaccia radio. – Ehi, vecchiaccio! Vedo che ti stai godendo una bella crociera con la tua signora. – Sghignazzate, stupidi pivelli! – Non staremo mica disturbando?
– Dovevi chiedertelo prima di venire al mondo – replicò Jerry Lone, brusco. Poi
verso Ayesha pensò: – Preparati a ballare, ragazza…
nell’interfaccia radio disse: – Adesso è tardi per tornare indietro.
Prima di concludere la frase, azzardò una nuova manovra di evasione. Tieni basso il profilo, Jerry Lone. Se lo ripeté fino a trasformarlo nel suo mantra, accorgendosi che il Ghost Rider era ancora lì. Tieni basso il profilo…
Nell’interfaccia echeggiarono nuove risate di scherno. – Ehi, ehi! Dove credete di scappare? Passami in linea la signora, vecchio: voglio farle sapere che non è facile per noi, qui dietro, staccarci dal suo culetto…
Accecato di rabbia, scopertosi impotente, Jerry Lone si accorse troppo tardi che il Ghost Rider li stava affiancando. Adesso la sua freccia giocava con loro: avevano ingaggiato uno stupido valzer sulla pista gravitazionale di Niger RX-2047. Erano caduti in trappola come due dilettanti dell’Accademia…
– Che facciamo, Jerry? – chiese ansiosa la ragazza, dopo aver disattivato la modalità trasmissione.
– Imposta la rotta 992 su Niger – rispose Jerry Lone, ostentando la sicurezza del provetto suicida. – E chiedi all’Algebra delle oscillazioni di rotta casuali. È ora di portare un po’ a spasso questi coglioni.
– La 992 punta dritta nell’ergosfera, Jerry…
– Vai tranquilla, ragazza.
Ayesha esitò, poi gli accordò la sua fiducia. – Sei tu il capo, Jerry. Tienimeli occupati per qualche secondo, mentre correggo la rotta e controllo la configurazione. Ripristino trasmissione: tre due uno. Attiva.
– Sei ancora lì? – li incalzò la voce dall’interfaccia radio. – Vi abbiamo tenuti d’occhio per un po’, sai. Prima che vi concedeste la vostra meritata crociera. Siete tornati nella Cintura… Ci è sembrato strano, vecchio, tutto qua. Ci chiedevamo se fosse tutto a posto…
Tutto a posto un cazzo. – A meraviglia!
Il Ghost Rider spinse la freccia fino quasi a sfiorarli. Gli angeli del sogno di Jerry Lone incassarono la sollecitazione dai sensori della Silver Surfer e lo indussero a riprendere le distanze, di riflesso. Proprio in quel momento Ayesha gli fece cenno di aver acquisito la rotta. Avrebbero incontrato una corrente entrante pochi secondi più avanti.
– Hai voglia di ballare, fantasma? – chiese Jerry nell’interfaccia. – Allora vediamo se tieni il passo!
– Linea spenta – comunicò Ayesha. – Cinque secondi all’intersezione. Tre…
Prima di incrociare la corrente, la freccia di Ayesha e Jerry Lone si staccò dalla sua rotta e schizzò su una lunga parabolica, a volo radente sulla Cintura, per ricongiungersi più avanti alla corrente entrante. – Due, uno… presa! – La velocità in progressivo aumento spostava ora sempre più vicino il punto d’ingresso nelle fauci del mostro. All’attuale tasso di accelerazione, l’ingresso nell’ergosfera era previsto circa un minuto nel futuro. Jerry Lone avvertì l’eccitazione di Ayesha e provò un brivido.
– Ridammi la linea, ragazza.
– Ripristino trasmissione: tre due uno. Attiva.
– Sei ancora lì, pivello? – gridò Jerry nell’interfaccia.
– Ci vuole dell’altro, non credi? – rispose solerte il Ghost Rider, rifacendosi sotto dopo aver corretto la rotta.
– Stai diventando saggio, ragazzo – convenne Jerry.
– Lo sai? Stavo pensando che, beh, qui non c’è la vecchia strega a proteggerti le palle… Che ne diresti se ti facessi assaggiare un po’ di sano addestramento accademico?
– E perché no? – Con una decisione improvvisa, Jerry rallentò impercettibilmente la corsa, lasciò che la freccia del Ghost Rider li affiancasse e poi spinse al massimo lo scostamento del loro velivolo dalla rotta impostata. Quando le carlinghe delle due frecce si sfiorarono, rilasciò una manciata di angeli latenti sullo scafo del Ghost Rider.
Rivolto ad Ayesha, Jerry Lone disse: – Taglia la linea, ragazza.
– Linea spenta – gli fece eco la navigatrice. – Sei sicuro di quello che fai, Jerry?
Jerry non rispose. Era immerso nella sua manovra. Aveva escluso Ayesha dall’Algebra e vi si era calato anima e angeli. Conduceva le danze da solo, adesso, concedendosi solo alla lunga schermaglia con il Ghost Rider. Davanti a loro, l’orizzonte cupo di Niger RX-2047 sorgeva nella notte cosmica, latore di una tenebra assoluta e inappellabile, in fiera contrapposizione alla luminosità quasi accecante del plasma che vorticava nel Gorgo.
La ragazza lesse gli ologrammi. – Tredici secondi all’ingresso – disse.
Jerry le lisciò il collo. – Suonami il tempo, ragazza – disse. Poi tornò ai suoi numeri. Scariche elettriche cominciarono a condensarsi nel vuoto, lampi che si infrangevano sul grumo di densa oscurità sempre più vicino e minaccioso. La marea stava montando.
– Dieci, nove, otto…
Onde di un mare in tempesta contro una scogliera mortale. La vista dello spazio davanti a loro gli richiamò questa immagine, probabilmente acquisita ai tempi del suo corso, quando era ancora un ragazzino e divideva il suo tempo tra i simulatori di antiche battaglie navali e i sogni da spazio profondo.
– …quattro, tre, due…
– Ora! – decise Jerry e attivò la connessione. Gli angeli del sogno sganciati sul corpo della freccia del Ghost Rider si rianimarono. Mezzo secondo più tardi erano penetrati nella struttura nanotubolare del velivolo. Ancora qualche decimo e si erano interfacciati al suo sistema nervoso.
Jerry Lone si ritrovò a pilotare due schegge impazzite, due particelle d’innesco di una reazione nucleare. Lasciò che il Ghost Rider credesse di avere in mano la situazione. Nell’ergosfera, dimenticò le stelle e si concentrò sul buio. Restò in ascolto del canto gravitazionale della marea, sinfonia poderosa che andava scuotendo lo spazio e il tempo.
La tenebra guidò la sua mente. Mentre Ayesha tratteneva il respiro, gli angeli eseguirono impeccabilmente la missione.
La Silver Surfer si avvitò selvaggiamente. Jerry Lone dovette imporre all’Algebra di virare ignorando tutto il resto, per poi abbandonarsi semplicemente alle dinamiche gravitazionali uscenti. Una scossa viscerale si propagò lungo la sua intelaiatura adamantina, estendendosi al sensorium dei suoi occupanti. Ayesha ebbe un sussulto, poi cominciò a tremare. La marea non li avrebbe avuti. Non quel giorno.
La freccia mutò configurazione in clipper e cominciò a veleggiare lontano dall’orizzonte degli eventi, fuori dalle nere fauci del mostro. Visto dall’alto, il disco di accrescimento era un condensato di potenza, un distillato purissimo di annichilimento a venire, impossibile da scongiurare. Impressionava proprio per questa sua identificazione con il concetto di ineluttabilità.
– Ridammi la linea – disse Jerry. Ayesha eseguì.
Questa volta Ayesha non lo avvisò dell’attivazione. Non ce n’era bisogno.
Dall’interfaccia giunsero le imprecazioni del Ghost Rider e del suo navigatore. – Dammi l’Algebra… Riprendi l’assetto… Che cazzo sta succedendooo?
Parole perse nel vuoto, condannate a ristagnare in eterno nel limbo gravitazionale di Niger RX-2047. La consapevolezza si faceva largo nella voce del Ghost Rider man mano che il suo velivolo si faceva sempre più lungo: mutando oltre i limiti della tolleranza strutturale in un serpente di nanocarbonio proteso verso il nulla.
– Taglia – disse Jerry. – Tempo?
– Più cinque – scandì cupamente Ayesha. – Più sei…
6,7 secondi dopo l’ingresso nell’ergosfera, la freccia deformata del Ghost Rider si fermò sull’orizzonte degli eventi. Cristallizzata, rimase lì sospesa come il bastone di un equilibrista. Un brevissimo burst s’irradiò nell’infrarosso, appena più intenso della comune emissione di Niger RX-2047.
Ayesha non disse nulla. Jerry avrebbe voluto spiegarle che non aveva avuto realmente scelta. L’asteroide doveva restare il loro segreto, almeno fino al giorno in cui la Bruja non avrebbe trovato degli acquirenti e, grazie al sistema di navigazione e all’holoware ponte, organizzato la prima dimostrazione di guida di un vascello Y.
Dal successo della missione dipendeva il loro futuro.
Sollevò lo sguardo. Sullo sfondo delle stelle ammiccanti, la Stazione aveva intrapreso la sua orbita discendente. Sentì il corpo caldo e nudo di Ayesha stringersi contro di lui. Nell’oscurità della cabina, si era voltata a guardarlo direttamente negli occhi. La sua mano gli scivolava ora tra i capelli, dopo avergli sfilato l’anacronistica cuffia da aviatore, unico retaggio della sua gioventù.
Jerry represse un brivido. La gioia di essere ancora vivi urlò la sua rabbia dentro di lui. Il calore di un corpo umano non era la risposta, ma poteva servire a procrastinare il riflusso della marea.
– Torniamo a casa? – chiese ad Ayesha, nell’intimità del ventre di nanocarbonio della Silver Surfer.
– Non c’è fretta – rispose la ragazza, il respiro in fase di progressiva accelerazione. Jerry guardò per un attimo fuori, lo spazio locale sovrastato dalla notte stellata. Poi si perse nell’abbraccio di Ayesha.
Aveva ragione lei. Avevano davanti tutto il tempo dell’universo.

[7 – fine]

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Ancora al GO DEEP!, stavolta per festeggiare. Il test aveva dato esito positivo. Mancava ancora qualche messa a punto, ma il grosso del lavoro ormai era fatto.
Quando la cameriera di Kovacs portò le ordinazioni al loro tavolo, Larry Underground stava dicendo: – Cluster Jones, mio istruttore e mentore, era solito ripetere che un codice non è un buon codice se prima non si riduce a qualcosa di incomprensibile perfino per chi l’ha scritto.
– Parlava del codice implosivo – intervenne Jessie K.
Larry annuì. Morgan si voltò verso Wolfe e disse: – Ricordi quella teoria secondo cui dall’implosione di un holoware di intelligenza artificiale si sarebbe originata la prima forma di autocoscienza sintetica?
– La teoria di Teskeran – annuì Wolfe. – Come no? In realtà la faccenda resta ancora argomento di accese discussioni…
Jerry apprezzava l’immunità delle Logiche ai rischi di blasfemia comportati da qualsiasi seria speculazione ontologica. Era una qualità che molti discendenti dei terrestri non avevano mai imparato, neppure a seguito delle rivoluzioni culturali che ne avevano sconvolto le basi sociali. La propensione alla religiosità doveva essere una proprietà intrinseca delle autocoscienze biologiche.
– Teskeran, l’IA? – chiese la Bruja.
– Proprio lei – spiegò Wolfe. – Ma non sono il solo a sospettare che il Kernel degli Intelletti di Sintesi tenga nascosti molti più aspetti della vicenda di quanti si sia risolto a divulgarne…
– Trovo più oscure le ragioni per cui i ricercatori che lavoravano al progetto non siano riusciti a trovare una convergenza sull’evento, invece. – Ed era davvero così. Jerry Lone non era un teorico, ma ogni tanto si era trovato a riflettere su quella vicenda, più per una forma di curiosità personale che di reale desiderio di scoperta.
– Comunque sia andata – tagliò corto la Bruja – la nostra birra è arrivata e nessuna teoria scientifica è abbastanza importante da lasciarmela riscaldare…
Tutti sorrisero.
La Bruja sollevò il boccale per aria e disse: – Quindi, alle parole non dette degli Y…
– …e al codice implosivo! – aggiunse Ayesha, suscitando un nuovo coro di risa.
– Al codice implosivo! – ribadirono tutti all’unisono, dopodiché un diluvio di alcol piovve per pacificare la loro sete.
– Guarda, guarda! – disse inaspettatamente qualcuno dietro le loro spalle. – I vecchietti danno un party! Chi è che festeggia la pensione?
Tono saccente e presuntuoso, voce al limite della sopportazione umana e una innata tendenza a intromettersi negli affari altrui. Bastavano quegli elementi per individuare con un margine di errore minimo la fonte di quelle cazzate. Ghost Rider, si faceva chiamare, leader dell’Accademia degli Aviatori. Un sacco di merda, accompagnato da un manipolo di altri esemplari della stessa specie. Purtroppo, non era una di quelle minacciate dal rischio d’estinzione.
– Tua madre – replicò Morgan, pacatamente. – Ha appena avuto la buonuscita dal bordello di Mama Winthrop.
Un coro di approvazione divertita si alzò dal tavolo. Wolfe, impressionato, batté le mani con convinzione: il suo compiacimento era accresciuto dalla cognizione che l’ironia era stato uno dei parametri principali su cui era stata misurato il grado di consapevolezza delle prime Logiche.
L’unico a non gradire parve il diretto interessato. La sua cricca si unì allo sdegno più per riflesso che per vero spirito solidale.
– Ahi! – incalzò Larry Underground, rivolto al Ghost Rider. – Ti tocca pagare il prossimo giro, allora…
La banda dei pivelli mosse all’unisono un passo in avanti, ma fu lo stesso Ghost Rider a fermarli. Il loro gesto ricordava un obbligo formale, il momento di un rito collettivo che erano stati chiamati a condividere. Altrettanto rituale, nell’ordine delle cose, veniva il biblico richiamo alla pace e alla ragione del loro capo.
Incrociando le braccia a voler quasi ostentare un atteggiamento di superiorità, il Ghost Rider si esibì in un sorriso bovino e irritante. – Vi credete furbi, voi nonni. Non è così?
Nessuno rispose. Jerry continuò a bere la sua birra mostrando indifferenza per quell’interruzione: aveva tutta l’aria di tollerarlo come un male inaspettato ma passeggero. Se qualcuno all’oscuro delle dinamiche sociali di Resurgam avesse assistito alla scena, molto probabilmente avrebbe scambiato il Ghost Rider e i suoi scagnozzi per una banda di schizofrenici in vacanza-premio da un manicomio orbitale di massima sicurezza. Curiosamente, il loro aspetto tradiva maggiore esperienza della scolaresca raccoltasi intorno alla Bruja, che lì in mezzo era l’unica vera autorità nel settore recupero. La nuova leva, forse anche in virtù della più giovane età, non condivideva con gli anziani gli stessi vezzi, anche se non era difficile prevedere che di lì a una decina d’anni si sarebbero tutti rivolti alle cure di Withlock. La loro condotta sfrenata veniva per il momento ostentata nel modo stesso in cui si presentavano, come se gli effetti collaterali del vizio fossero premi alla sopravvivenza da esibire con fierezza.
– Tanto furbi – andò avanti il Ghost Rider – da potervi anche permettere di farvi vedere in giro con il più bel culetto della Stazione! – La strizzata d’occhio che lanciò ad Ayesha scatenò gli sghignazzi concordi dei suoi fiancheggiatori e un brivido freddo lungo la schiena di Jerry Lone.
Una rissa, ora come ora, non era quello di cui avevano bisogno. Jerry dovette imporsi la calma per non alzarsi e spaccargli il muso.
– Ehi, ehi! – intervenne Wolfe, coprendo Jerry mentre posava rumorosamente il boccale di birra sul tavolo. – Cerca di tornare nel tuo, dilettante!
– Dovresti iscriverti al corso con mio figlio, Ghost Rider – convenne Jessie K. – Per imparare tutte le buone maniere che ti sei perso nel Gorgo.
– Ragazzi, che dite? – disse Morgan. – Organizziamo una bella spedizione per vedere di recuperare un po’ di cervello? Deve averlo lasciato laggiù insieme alle buone maniere…
Risero nervosamente, ma il Ghost Rider pareva seriamente intenzionato a percorrere fino in fondo la via del suicidio. – Fate pure i buffoni, vecchietti. Tanto lo sappiamo tutti chi è che se ne va in giro con le puttane, qui. O no?
Fu allora che Jerry scattò in piedi ignorando il tentativo di Ayesha di fermarlo. Si proiettò di slancio contro quello stupido moccioso in un goffo tentativo di risolvere tutto con una bella scazzottata. Gli aviatori non ci misero molto a bloccarlo, trovandolo però pronto malgrado l’esplosione d’ira: appena le loro mani si posarono sulle sue braccia, gli angeli del sogno liberarono impulsi ad alta frequenza. Niente di troppo pericoloso, ma da come straniarono lo sguardo comprese che il suo messaggio d’avviso era giunto a destinazione, interferendo con il nervo ottico nello stesso modo in cui ci sarebbe riuscito un fascio di luce fortemente polarizzata.
Mentre farfalle di mercurio incandescente svolazzavano sulle loro retine, accecato di rabbia Jerry serrò le mani intorno al collo del Ghost Rider, facendosi trovare pronto alle sue difese subliminali, ma non al calcio che lo spinse indietro contro il tavolo. Fece per scagliarsi di nuovo contro di lui, ma si accorse che alle sue spalle la Bruja si era levata in piedi con occhi spiritati che non concedevano tregua al leader dell’Accademia. La Bruja gli stava già riversando addosso una tempesta di fuoco psichico. Il suo repertorio comprendeva i più terribili orrori derivati dallo studio del subconscio. I suoi angeli del sogno, attraverso il richiamo di figure ancestrali, stavano evocando dal continente sommerso della psiche del Ghost Rider le più ataviche forme di paura.
Bastarono due secondi di esercizio delle sue stregonerie per strappargli un urlo. Quando la tempesta neuro-angelica si placò, gli occhi atterriti del leader tradivano l’efficacia del colpo subito.
La Bruja parlò con un tono di voce tanto calmo da sembrare irreale. – Adesso forse è meglio che torni a casa, leader – disse riprendendo il suo posto tra Larry e Ayesha.
Mentre gli aviatori sfilavano lungo il bancone verso l’uscita, Morgan sollevò il suo boccale ormai quasi vuoto e ordinò a Kovacs un altro giro. Con quello che restava, propose un brindisi. – All’Accademia degli Aviatori! – disse ridendo.

– Credi davvero che lì dentro possa nascondersi una flotta?
Ayesha aveva scrutato con estrema attenzione la sua opera di modellamento di Scylla–Niger. Jerry Lone mugugnò pensieroso in segno d’assenso, continuando a scrutare l’ologramma mentre un ronzio insistente emergeva per interferire con il moto del sistema.
La lieve modifica nei parametri della Cintura che aveva appena impostato strappò un rapido brontolio al processore quantistico. Il sistema di raffreddamento pompò in risposta il flusso di azoto liquido per ripristinare l’equilibrio termico ottimo del nucleo. I valori delle prestazioni tornarono sui livelli ottimali e Jerry tentò uno zoom indietro. Perfetto. L’impressione di stabilità fu confermata dallo zoom avanti sul Gorgo, e poi dal comportamento locale in tre diversi settori della Cintura.
Un’ondata di soddisfazione attraversò le sue membra. Allungò una mano verso la spalla di Ayesha e la accarezzò bruscamente.
– Funziona? – chiese la ragazza, esibendosi nella migliore espressione del suo repertorio da paese delle meraviglie.
– Funziona – annuì Jerry Lone. – Per ora.
Ayesha sorrise, ipnotizzata da quella magica danza orbitale. – Posso provare?
Quando Jerry Lone fece un rapido cenno di assenso, lei sintonizzò i suoi angeli del sogno con il circuito di ricetrasmissione del processore quantistico. Nell’interfaccia, dove le loro percezioni estese si sovrapponevano, frange d’interferenza incresparono la funzione d’onda risultante. La sensazione s’irradiò lungo le direttrici neurali, veicolando un piacevole treno di creste. Ridacchiarono insieme, giocando con le dinamiche celesti di Klapeyron IV e delle sue lune, di Scylla, del Gorgo e della Cintura Asteroidale.
Repentini cambi d’inquadratura montarono la loro scorribanda siderale in un furioso dinamismo virtuale. La comunione evocata dall’interazione dei rispettivi apparati angelici, la melodia termica del Gorgo, la vertigine da spazio profondo, concorsero a creare l’illusione.
In un istante, si trovarono ancora una volta lì fuori, di notte. Immersi nella meraviglia cosmica della danza gravitazionale.

[6 – continua]

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Da due settimane la Bruja continuava ad analizzare il presunto sistema di navigazione. Aveva arruolato una squadra di veterani esperti del recupero e delle attività correlate (filologia Y, per esempio) e con loro si era raccolta nel suo locale per gli affari, che per tutto quel tempo aveva continuato a esibire sull’ingresso l’invito a non disturbare. La cueva de la Bruja restava chiusa, per cause non specificate. Un cartello di lavori in corso avrebbe destato meno sospetti…
C’erano voluti alcuni giorni, ma alla fine la teoria di Jerry Lone li aveva convinti tutti. Il dispositivo doveva essere parte di un sistema di guida, e l’informazione racchiusa al suo interno era molta di più di quanta non ne avessero scoperto Jerry e Ayesha nel loro esame preliminare. La qual cosa aveva fornito una bella mole di lavoro.
Almeno una volta al giorno, dalla costituzione di quel workshop, Ayesha e Jerry Lone vi si erano recati per aggiornarsi sullo stato dei lavori e, quando possibile, partecipare al dibattito filosofico alimentato da quello studio. Tra la gente reclutata dalla Bruja, figuravano addirittura Alex Morgan e Lynard Wolfe. Erano due Logiche specializzate nell’interpretazione del linguaggio e avevano aderito alla fazione degli Immersi, quella frangia di IA materialiste che avevano deciso di dotarsi di un corpo. Questo per quel che riguardava il loro orientamento politico. Quanto ai meriti, era loro la teoria linguistica più accreditata sugli Y, la cosiddetta ipotesi Morgan-Wolfe, che gli ambienti accademici del Consiglio della Sapienza valutavano attendibile al 79%. La chiave di volta della loro impresa era stata l’acquisizione di un vecchio trattato di mutua solidarietà tra gli Y e i Vedha, la più antica delle civiltà coesistenti all’Ecumene. Prima della loro misteriosa migrazione verso Niger RX-2047, gli Y avevano avuto modo di suggellare con i progenitori dei Vedha un lungo documento di cooperazione. La cosa doveva aver rivestito una certa importanza nel contesto politico della Galassia, vista la portata di certe clausole, ma non era durata a lungo. Gli Y si erano presto ritirati in isolamento nel loro eremo orbitale sull’orlo della singolarità, i progenitori dei Vedha avevano compiuto un balzo prigoginico verso il loro stato attuale, che li portava a essere poco meno che degli osservatori distaccati della scena galattica.
Morgan e Wolfe erano riusciti a scovare l’emissario di una setta dissidente dei Vedha su 800801, un remoto avamposto ecumenico la cui importanza strategica era quasi pari alla densità di caratteri alfabetici nella sua denominazione. Qui, nel corso di una riunione d’affari surreale, erano riusciti a strappare una copia del Trattato in cambio di un artefatto logico che avevano spacciato per il prototipo della prima IA. Il Vedha se n’era tornato contento dai suoi compagni di cospirazione, magari sognando di sovvertire l’ormai cronica stasi della sua cultura; Morgan e Wolfe erano rincasati a Resurgam pronti a cambiare mestiere e tentare l’impresa di decriptare il mistero degli Y.
Nel loro tentativo di tracciare una corrispondenza simbolica avevano passato al setaccio una mole immensa di materiale: dagli oggetti di uso domestico alle oloproiezioni, niente era stato tralasciato. Il loro Catalogo rappresentava un’opera poderosa, a testimonianza di uno sforzo di comprensione eccezionale. Naturalmente, malgrado i loro sforzi, la maggior parte del sistema linguistico degli Y restava avvolto nel mistero, ma grazie a quel lavoro si era per lo meno cominciato a gettar luce sulla loro civiltà.
Il corridoio su cui s’affacciava il locale era immerso in una penombra malaticcia. L’illuminazione alogena era integrata dalle insegne degli altri esercizi, ma il risultato non cambiava granché. Qualche spaziale passeggiava e scrutava le vetrine, qualcun altro se ne disinteressava e puntava dritto sull’Antro dell’Eros Polimorfico che occupava il maggior locale di quel settore. Quando Jerry bussò alla porta della Bruja, il riconoscimento genetico necessitò di qualche secondo. Poi la serratura scattò automaticamente e loro furono introdotti all’antro della sibilla.
La sala d’esposizione era disseminata di roba proveniente da Klapeyron e dalle sue lune, esposta su banconi appositi dietro teche infrangibili. C’era a mala pena lo spazio per girarsi, ma quella era solo l’anticamera della cueva. Seguito da Ayesha, Jerry Lone puntò verso il retro, da cui proveniva un mormorio continuo, interrotto da qualche risata o esclamazione di disappunto. Scostò una tenda ricamata con i colori di qualche antica associazione terrestre (Ayesha non avrebbe saputo dire se fossero di una nazione, un partito o una città, e d’altro canto non aveva mai ben compreso la distinzione tra quelle primitive forme di organizzazione) ed entrò nel laboratorio che la Bruja, non senza un certo spirito fisico, aveva denominato Y-Work.
– Ecco finalmente la punta di diamante del recupero all’antica! – li annunciò la Bruja, seguita da un coro di saluti sussurrati distrattamente. La scena sembrava quella di un corso per ragazzini: una maestrina circondata da quattro mocciosi. Molti della vecchia guardia ricorrevano al trattamento Withlock per cancellare gli anni in eccesso. Se la Bruja aveva optato per un’età metabolica intorno ai trent’anni, altri avevano osato spingersi fino alla fase tardo-adolescenziale.
La squadra era al lavoro, come sempre, e si sarebbe detto che dall’inizio del progetto non si fossero concessi un solo attimo di pausa. L’impianto olografico proiettava tutt’intorno a loro un’inconcepibile complessità di dati interferenziali. Seminudi, gli operatori manipolavano l’informazione custodita dai processori quantistici connessi in rete con l’oloproiettore. Insieme agli ormoni trattati dall’organo dell’umore di Penfield, nelle loro vene scorreva un assortimento impressionante di angeli del sogno. Era così anche per lui e per Ayesha: diversamente, non avrebbero potuto raggiungere quello stato di comunione delle anime che li assisteva a ogni discesa nel Gorgo. Diversamente, nemmeno la Bruja sarebbe forse riuscita a esercitare i suoi sortilegi sul corpo di Ayesha.
Erano gli angeli del sogno a permettere alla squadra di maneggiare, in tempo reale e senza ulteriori mediazioni, il codice dell’holoware inscritto nei circuiti quantistici delle loro consolle da combattimento.
Come Morgan e Wolfe, anche gli altri erano esponenti della vecchia scuola, esploratori di lungo corso del Gorgo e delle sue propaggini storiche o planetarie, esperti che la Bruja aveva voluto al suo fianco in quell’impresa ai limiti dell’impossibile. C’erano Larry Underground, probabilmente il maggiore esperto informatico della Stazione, uno che pareva cresciuto poppando holoware e masticando righe di codice fin dalla prima dentizione, e Jessie K Rubin, una della sua stessa generazione. Jerry Lone era rimasto sorpreso la prima volta che l’aveva trovata lì, nel vederla lavorare con loro, ma Jessie K sapeva il fatto suo e in più era una collaboratrice stretta di Morgan e Wolfe.
Intorno agli operatori vorticava instancabile una nube di codice olografico. Non era quello che si sarebbe definito un ambiente di lavoro formale. Ad Ayesha bastò fare un passo avanti, intenzionata a rendere il consueto saluto alla Bruja e a Jessie K, per ritrovarsi avvolta da righe ancora instabili.
Larry lavorava in preda a un’estasi quasi furibonda. Mimava azioni interiori e prettamente neuro-angeliche con le mani, mentre spostava blocchi di codice e aggiungeva di getto nuove righe per poi modificarle, in un ciclo interminabile, senza tregua; Jessie K lo assisteva con cura nel suo lavoro, mentre Morgan e Wolfe controllavano la coerenza algoritmica delle implementazioni. Erano una catena di montaggio perfettamente collaudata, quasi infallibile sotto la supervisione di Rosario Espinoza.
– Sembrate a buon punto – azzardò Jerry. Non era un esperto di holoware, ma scorrendo una riga di codice s’imbatté in una interruzione dovuta a un refuso e, intercettandola con i suoi marcatori neurali (una scarica elettrica gli solleticò le dita della mano destra), la corresse.
Siamo a buon punto – lo corresse la Bruja, con un sorriso soddisfatto. – Il test dell’altro giorno ci ha messi sulla direzione giusta. Ancora qualche ciclo di iterazione e poi saremo pronti a tentare il collaudo. Tu che dici, Larry?
– Settantadue ore – disse Larry, sovrappensiero. Rispose quasi di riflesso, senza nemmeno emergere dal flusso del codice. – Massimo novantasei e poi passiamo al test definitivo.
Jerry si scoprì profondamente colpito. – Cosa ne è stato di quella sezione tecnica su cui vi eravate incagliati?
– Ci hanno pensato il dottor Morgan e il dottor Wolfe – dichiarò burlescamente la Bruja.
Morgan distolse gli occhi dal codice il tempo necessario per schernirsi dietro un sorriso. Faceva una certa impressione parlare con due scienziati del loro calibro, e vedere invece due ragazzini. Era qualcosa che lo frustrava inconsciamente, come se la sua mente si ribellasse a quella spudorata manomissione dell’archetipo del Vecchio Illuminato.
Senza voltarsi, Wolfe disse: – Abbiamo rintracciato un frammento analogo, catalogato come Rubin-160999. Uno dei suoi primi recuperi. Da quello siamo riusciti a formulare un’ipotesi derivativa che riteniamo promettente…
– È stato un piacere – dichiarò Jessie K, strizzando loro l’occhio dall’altra parte del cuballoggio.
– Se le cose stanno così, allora non credo che posso fare altro – ammise Jerry. – Se comunque posso esservi in qualche modo d’aiuto…
– Una cosa che puoi fare ci sarebbe – proclamò dopo una breve pausa la Bruja. La sua voce si era fatta carezzevole e allusiva. – Porta a casa questo fiore – continuò, rivolgendo ad Ayesha un sorriso malizioso, – e tienicela un po’ fuori dai piedi. Qui abbiamo da lavorare.
La scolaresca sorrise senza arrossire.

[5 – continua]

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Il GO DEEPER! era un locale anonimo e perennemente saturo di fumo, frequentato dai peggiori campioni di sopravvivenza impegnati nella difficile arte del recupero. Jerry Lone ricordava ancora quando vi aveva messo piede la prima volta: era accaduto un giorno imprecisato di – quanto? – sedici anni prima! Non riusciva a crederci: ricordava tutto come se fosse accaduto solo la settimana scorsa…
Laggiù aveva incontrato personaggi del calibro di Billy Holotropic Long e Rosario Espinoza detta “la Bruja”, autentiche leggende del giro. Aveva trascorso un sacco di serate a temporeggiare fino all’orario di chiusura, bevendo la birra annacquata di Kovacs e tendendo l’orecchio alle storie dei veterani del circuito. Aveva imparato lì dentro tutti i trucchi del mestiere che non era stato il campo a insegnargli con le sue maniere brusche e scorbutiche; i modi dei decani non erano stati certo più concilianti.
Quando era arrivato al punto di potersi accontentare, con abbastanza credito da strappare un passaggio a un incrociatore mercantile e prendere il largo, cercare un posto nuovo in cui costruirsi una nuova vita, Jerry Lone aveva preferito restare. Era stato allora che aveva vissuto il suo momento di maggior splendore, che comunque era durato il tempo di un paio di sbronze al tavolo dei grandi.
La generazione di recuperanti che era venuta dopo si era mostrata molto più intraprendente e ardimentosa. Gli stupidi principianti che non finivano stritolati nella morsa di Scilla e Cariddi facevano ritorno con meraviglie che quelli della sua scuola non avevano mai neppure sognato. Nessuno aveva sospettato dove potessero andare a scovare quelle sorprese, finché un moccioso troppo sensibile ai vapori dell’alcol non aveva confessato, nel corso di una sbronza colossale opportunamente sollecitata, che gli idioti della sua banda avevano cominciato a spingersi sempre più oltre, fino a sfiorare l’orlo di Niger RX-2047, a caccia di memorabilia sui sassi orbitali e le piattaforme abbandonate che il lento accrescimento del buco nero aveva ormai quasi portato a lambirne il limite statico.
Stupidi pivelli da quattro soldi!
La metà ci aveva lasciato le penne al primo volo e il tasso di sopravvivenza tendeva a logorarsi man mano che le incursioni si susseguivano. Ma quelli che tornavano portavano indietro oggetti straordinari, quotati per cifre pazzesche. E i volti si susseguivano con una rapidità sconcertante. Si era entrati in una fase di ricambio annuale, nel cui corso aveva assistito a una vera e propria escalation di follie.
Un grande del calibro di Holotropic si era lasciato prendere la mano e ci aveva rimesso le penne. Giunto al punto di non reggere più la pressione del confronto, sentendo il suo mito appannato era tornato sul campo per un ultimo volo dopo diversi anni di inattività. Le fauci di Niger RX-2047 non avevano avuto pietà di lui.
Jerry Lone aveva pianto per lui e quelle erano state le prime lacrime dopo molto tempo. Si era subito sentito uno stupido. Da qualche parte dell’Ecumene c’era sicuramente qualche ersatz derivato dallo stesso Zero di Billy Long. I miracoli della replicazione quantistica dispensavano a un costo accettabile le più assurde illusioni che avevano costellato ventimila anni di evoluzione dell’uomo: l’immortalità e l’ubiquità erano incluse nel prezzo.
Diversamente da Holotropic Long, Jerry aveva comunque preferito seguire i consigli della Bruja. Aveva continuato a volare, per tutti quegli anni, imparando a tenersi basso. Missioni di basso profilo e magri bottini erano stati il suo pane quotidiano per tutti quegli anni, ma anche la ragione per cui era diventato il più vecchio recuperante ancora in attività che continuasse a frequentare il GO DEEPER!
– Dimmi qualcosa di bello, ragazza – chiese la Bruja ad Ayesha, con la stessa voce suadente che aveva accarezzato Jerry Lone quando si erano trovati per la prima volta faccia a faccia, loro due soli. – Per i tuoi occhi sarei disposta a tornare nel Gorgo!
Era successo dopo che Nick Yellowbabe aveva deciso di mollarlo e tornarsene all’impiego meno impegnativo di lupo siderale. Per qualche giorno Jerry se n’era restato seduto al suo solito tavolo, un angolo in penombra del locale. Kovacs gli portava la birra ghiacciata necessaria al suo sostentamento e lui non azzardava una parola. Ignorava i vecchi amici, non si degnava neppure di salutare le vecchie glorie. Era stato Holotropic ad avvicinarlo per primo. Jerry era tuttora convinto che sarebbe stato capace di prendere a calci in culo chiunque altri avesse osato distrarlo dalla sua missione di autocompatimento. Ma non Holotropic.
HOLOTROPIC (con il consueto tono canzonatorio): Cosa c’è, chicco? La mammina ti ha lasciato?
JERRY (ancora quasi a digiuno del gergo dei recuperanti, malgrado il tempo trascorso nel Gorgo): Peggio. Il mio navigatore se n’è tornato a casa.
HOLOTROPIC (dopo aver soffocato una risata): Non mi dire!
JERRY (con una scrollata di spalle): E la cosa peggiore è che se ne va senza avere imparato un cazzo!
HOLOTROPIC: Così sei rimasto solo…
JERRY (dopo aver mandato giù un sorso di birra): Lasciati dire una cosa: ho intenzione di tornare là fuori appena avrò smaltito questa sbronza. Lo farò, ci puoi giurare. E se dovesse essere necessario, lo farò da solo!
HOLOTROPIC (senza trattenersi, stavolta, esplode in una risata fragorosa, poi tossisce): Jerry il Solitario! Così ti abbiamo trovato anche un nome, chicco. Era ora… Jerry Lone.
JERRY (dopo averci riflettuto un po’): Jerry Lone? Mi piace, suona bene… Può andare.
HOLOTROPIC (ricomponendosi): Ecco, Jerry Lone, adesso che ti abbiamo trovato un nome, cerca di dimostrarti all’altezza. Quindi, per favore, tieni a freno il tuo generatore di cazzate.
JERRY (colpito e affondato): Hmm?
HOLOTROPIC (sorride di nuovo): Il nome puoi pure tenertelo, ma lasciati dire una cosa, Jerry Lone: ci siamo passati tutti. Non fartene un problema, il suo abbandono potrebbe aver fatto la tua fortuna. Non ci hai pensato, chicco? Personalmente, a volte, mi capita di rendermi conto come le nostre vite non siano altro che trame intessute in un ordito più vasto. Stando così le cose, non è il caso di prendersela più di tanto…
JERRY (con aria sospettosa): Non vorrai riattaccare con quella storia che siamo tutti ologrammi, spero…
HOLOTROPIC (senza scomporsi): Ci sono ancora molte cose che devi imparare, chicco. E credo che una maestra arcigna che si fa passare per strega possa insegnartene almeno una buona parte…
JERRY (incredulo): La Bruja?
HOLOTROPIC (con aria sicura e compiaciuta): Proprio lei. Si dà il caso che proprio ieri sera ho saputo che la piccola Fiore di Loto ha deciso di mettersi in proprio, così la Rosa Spinata non se la sta passando meglio di te. Al momento viaggiate sulla stessa lunghezza d’onda, la sintonia può fare miracoli…
JERRY (non ancora convinto): E io dovrei farle da navigatore?
HOLOTROPIC (esibendosi nel ghigno di superiorità di chi si diverte a capovolgere le argomentazioni): Sei ancora un pivellino, ma potrebbe accettarti. Come ti ho detto, è un po’ giù di corda in questo periodo. È la tua occasione per farti le ossa: fossi in te ci penserei.
E Jerry ci aveva pensato. Arrivando al punto di convincersi che non avrebbe potuto rifiutare e poi continuare a credere di non essere un coglione. Anche la Bruja aveva accettato. Era stato l’inizio della loro amicizia, un sodalizio artistico interrotto solo tredici anni più tardi. Era stato quando la Bruja aveva deciso di ritirarsi. Jerry Lone non era rimasto solo a lungo. Aveva tenuto d’occhio un nuovo arrivo del Bordello di Mama Winthrop, abbastanza da scoprire che era arrivata su Resurgam con il sogno di entrare nel giro dei recuperanti. Era stata la sua grande occasione. E la Bruja aveva mostrato un debole per lei fin dalla prima volta che aveva incrociato i suoi occhi color notte.
Maman Rosario – disse Ayesha, nel tono ammiccante che aveva ostentato nei suoi confronti fin dal loro primo incontro. – I tuoi occhi non hanno nulla da invidiare ai miei.
La Bruja afferrò una mano di Ayesha senza distogliere gli occhi dai suoi e se la portò alle labbra. La baciò continuando a guardarla fissa negli occhi.
Jerry Lone continuò a sorseggiare la sua birra ghiacciata corretta con della tequila, lanciando occasionali occhiate all’ingresso del locale. Si sentiva irrequieto, come davanti a un appuntamento con il destino.
– Non capisco come fai a seguire questo schizzato nei suoi tentativi di suicidio – la provocò la Bruja, scherzosamente.
– Perché sono tentativi artistici di suicidio, Maman – replicò Ayesha, strappando un mezzo sorriso dalle labbra umide di Jerry Lone. Dal fremito che percepì nella sua voce, comprese che la Bruja stava interferendo con i suoi impulsi nervosi. Il semplice contatto le permetteva di interfacciarsi agli schemi neurali della ragazza agendo sui suoi angeli del sogno. La connessione empatica indusse in visibilio i nanosomi che Ayesha aveva in circolo. La Bruja, probabilmente, la stava sommergendo di stimoli di natura sessuale. Era un po’ il suo vizio.
Quando vide Ayesha mordersi il labbro inferiore e passarsi una mano tra i capelli, Jerry capì di aver colto al volo la situazione.
Ayesha si sentiva un fuoco. Fiumi di lava le scorrevano nelle vene. Il respiro stava accelerando. Sempre di più… Indugiò, poi una scarica di umido piacere le si liberò nel ventre.
Solo allora Jerry Lone si accorse del principio di erezione che gli premeva tra le gambe.
– Non cambia molto – replicò la Bruja, la sua voce che tradiva un certo compiacimento. – Lascialo e scappa via con me!
– Già stanca del paradiso, Rosario? – s’intromise a quel punto Jerry Lone. Gli occhi della Bruja, contornati di kajal, guizzarono sul suo volto. Jerry sentì qualcosa agitarsi dentro di lui, in fondo a un pozzo che credeva prosciugato.
La Bruja. S’era convinto che il suo epiteto, Rosario Espinoza se lo fosse ampiamente meritato coi fatti. Era una megera, una encantadora, una strega di lungo corso. Le aveva visto fare cose, nel Gorgo, che probabilmente nemmeno il più audace della nuova leva sarebbe stato capace di imitare in mille anni di tentativi. Come quando lo aveva spinto a rasentare per due intere circumnavigazioni l’orizzonte degli eventi. E adesso gli sbarbati s’illudevano di essere dei ganzi solo perché rischiavano di bruciarsi il culo sul limite statico. Dopo aver provato sulla pelle ciò di cui era capace, Jerry era arrivato a credere che il Gorgo fosse il suo habitat naturale e la Bruja rappresentasse la prima (o forse l’ultima) forma di vita completamente adattata al suo ecosistema quantistico. Una forma di vita dell’Orizzonte, per una metà parte del mondo esterno degli uomini, per l’altra radicata invece nella termodinamica del buco nero. La Bruja sapeva evocare le maree gravitazionali con la perizia di un rabdomante o un profeta, cavalcandone l’onda con la grazia di un delfino.
– Forse – ribatté la Bruja, laconica. Poi, tornando seria (gli affari erano affari, e la Bruja era pur sempre la più esperta operatrice nel settore della compravendita dei manufatti Y), aggiunse: – Ma prima di passare a parlare del futuro remoto, occupiamoci di quello prossimo. Non ti fai vivo spesso, Jerry… – Era per caso di rimprovero quella nota che ammiccava nel suo tono di voce? – Quando lo fai è sempre per lavoro. Allora, di cos’è che volevi parlarmi?
– Non mi scivolerai sul sentimentale? – la provocò Jerry Lone, notando come Ayesha si fosse nel frattempo stretta al corpo giovanile e procace della Bruja. Adesso era lei ad accarezzarle la mano, con estrema delicatezza, proprio come un’amante soddisfatta dopo l’orgasmo. Brava bambina, pensò. Continua a lavorartela così, dai… Poi, abbassando la voce di un’ottava, azzardò: – Forse siamo sulle tracce di una nave.
– Anche voi volete lasciare la fogna… Non ci vedo niente di particolarmente straordinario – giudicò la Bruja. Jerry scommise che stesse cercando di ignorare la sua dichiarazione. – Tutti, prima o poi, se ne vanno. I più fortunati lo fanno con la loro testa, gli altri la testa ce la rimettono insieme alle palle…
Jerry scosse il capo, con un ghigno. – Hai capito bene di cosa parlo, Rosario. Quindi, per favore, non fare la furba!
La Bruja s’irrigidì. – Ti avevo sempre dato per matto, Jerry. Matto come un cavallo, dicevano i nostri antenati. Ti giuro che è così. Ma tu sei una fonte di continue sorprese: hai trovato il modo più efficace per dimostrarmelo! Grazie per la collaborazione… ma al momento ho altre priorità.
Ayesha si portò la mano della Bruja alle labbra e le baciò la pelle frutto di un numero ormai incalcolabile di terapie rigenerative. – Ascoltalo, Maman Rosario. Sta dicendo la verità.
La Bruja tornò a scrutarlo, incredula. Dietro le sue pupille, la fiamma di un desiderio irrefrenabile le accendeva la retina. Le rispose tenendo gli occhi fissi su di lui: – Una nave Y? Non ci crederei nemmeno se la vedessi con i miei occhi, ragazza…
– Nemmeno io ho detto di averla vista – ammise Jerry Lone.
– Non dal vivo, almeno – rilanciò Ayesha. Stavolta la Bruja fu davvero sul punto di alzarsi e piantarli lì al tavolo.
– Abbiamo un sistema di navigazione – disse Jerry. – O, per lo meno, quello che crediamo sia un sistema di navigazione…
– Maledetto bastardo – esplose la veterana. – Ma ti rendi conto di cosa vai blaterando?
– Credo proprio di sì – annuì Ayesha. – Se vuoi ti porteremo il manufatto, ma non lo metterai in vendita…
– Ci aiuterai invece a capirne il funzionamento – aggiunse Jerry. – Hai gli agganci giusti. Del buon holoware ponte è quello che ci serve per leggere l’interfaccia e capirla…
– Sei un pazzo suicida e questo è il tentativo di suicidio più stupido di cui abbia mai sentito parlare!
– È un azzardo, hai perfettamente ragione. Non dico che riusciremo a portare in porto il nostro piano…
– Però ci aiuterai. Non è vero, Maman Rosario?

Quella sera, mentre faceva l’amore con Ayesha, Jerry Lone immaginò di scoparsi la Bruja: staccò il contatto neurale dalla ragazza – come facevano di tanto in tanto, per concedersi un diversivo – sintonizzò occhi e olfatto sui valori del corpo della donna che aveva memorizzato durante l’incontro e, come ai vecchi tempi, la cavalcò con impeto selvaggio. I gemiti di Ayesha si confusero alla fantasia originando una confusione di sensi ibridi che si dissolse nell’orgasmo.
Più tardi, riscorrendo la registrazione, Jerry Lone rivide nelle linee scattanti e armoniose del vascello Y la grazia del corpo di Ayesha. Possono le due cose essere collegate? si chiese accarezzando un fianco della ragazza che, girata verso il transpex, era scivolata lentamente nel sonno.
Doveva essere ormai al termine della sua discesa, lungo i settanta gradini che conducevano alla Caverna della Fiamma, anticamera alle meraviglie delle Terre del Sogno. Jerry si chiese se i sogni di uno spaziale, in orbita attorno a un buco nero lontano qualche migliaio di parsec dalle Terra, potessero essere in qualche misura simili a quelli di un terrestre addormentato, per esempio, a Providence, Rhode Island. Le Terre del Sogno circondavano i mondi oppure erano l’intersezione di tutte le proiezioni oniriche dell’universo?
Il respiro placido di Ayesha lo richiamò dal suo delirio lisergico. S’infilò i visori Y e tornò a guardare la nave aliena offrire l’ennesima dimostrazione delle sue straordinarie funzionalità. Le sue forme erano tanto aggraziate da sembrare perfino naturali, come se la nave Y non fosse un conglomerato di avanzatissima tecnologia aliena, ma il risultato di una linea evolutiva sconosciuta, il prodotto di un ecosistema. L’associazione lo folgorò: il vascello sembrava adattarsi in maniera fin troppo sospetta – a meno delle proporzioni di scala – alle conformazioni minerali che popolavano la Cintura.
Potevano gli asteroidi essere solo dei gusci per i vascelli Y? E se le cose stavano in quel modo, quante navi aliene erano sepolte nel cimitero orbitale di Niger RX-2047?

[4 – continua]

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– Cosa credi che sia? – gli chiese Ayesha.
Avevano visto, riavviato e rivisto l’ologramma almeno quattro volte. Poi Jerry aveva perso il conto. Ogni volta Ayesha aveva distolto i suoi occhi dalla magia della luce solo per rivolgergli uno sguardo interrogativo, che lui aveva intuito sebbene nascosto dalle lenti opache del visore Y.
Finora Jerry Lone si era limitato a una mimica fatta di smorfie e scrollate di spalle, ma all’ennesima richiesta sentì un’epifania prendere forma dal suo buio interiore. – Un sistema di navigazione…
Ayesha si sfilò il visore Y e lo scrutò incredula. Nello spazio vuoto davanti a loro, sullo sfondo della scenografia titanica e terribile del sistema di Scylla–Niger, il veicolo di luce manovrò nel cielo di Klapeyron evocando un grappolo di didascalie incomprensibili: albero imponente sospeso sulla punta di un vento ionico e circondato di parole, oltrepassò una luna, manipolò lo spazio e si aprì una fuga sotto il tessuto connettivo della realtà. Senza lenti, Ayesha non riuscì a cogliere il dettaglio frattale dell’ologramma, quella filigrana che compattava in ogni produzione artistica degli Y una densità d’informazione straordinaria. Ma anche senza lenti lo spettacolo era comunque straordinario.
Il vascello ruotò solennemente sul proprio asse. Poi, come ogni altra volta, evaporò in una pioggia di serpenti elettrici.
– Non può essere solo una registrazione? – obiettò Ayesha, quando tutto fu finito. – Come un documentario, oppure un kino
Jerry Lone scosse il capo. – Non mi convince. Se è come dici, perché avrebbero dovuto introdurre tutte quelle annotazioni?
– Sottotitoli?
– Troppo circostanziati, troppo precisi per essere solo le battute di un film muto.
Jerry Lone non era stupito dall’assenza di attori. Se c’era una cosa che gli umani avevano appreso sugli Y era la loro innata avversione all’iconografia. In nessuno dei manufatti culturali rinvenuti tra le rovine era stato trovato un accenno, anche minimo, alla loro individualità. Dalle prove indirette che erano state raccolte, si sapeva che gli Y dovevano avere avuto un aspetto umanoide, appendici manuali, statura media un po’ più alta della media degli spaziali. Si sapeva anche che dovevano aver avuto degli occhi per guardare in una gamma spettrale più estesa di quella che la natura aveva concesso agli umani, e delle orecchie per ascoltare musiche dalla vaga connotazione religiosa.
Quello che più lo aveva colpito della proiezione, era stata proprio l’assenza di un accompagnamento sonoro, che in tutti gli olofilmati recuperati dagli archivi degli Y rappresentava senza dubbio un elemento di primo piano nella creazione artistica. Ne deduceva quindi che l’ologramma che avevano appena contemplato non doveva essere nato con finalità artistiche. D’altro canto, tradurre l’intero corredo delle didascalie al filmato avrebbe richiesto diversi giorni di lavoro anche per uno specialista.
– È vero – s’illuminò Ayesha. – Manca completamente la musica.
Jerry Lone si sfilò il visore Y.
– Hai visto la distorsione?
Ayesha annuì.
– Può voler dire solo una cosa…
Almeno una cosa – lo corresse Ayesha.
– Curvatura – disse Jerry Lone.
– O aberrazione ottica – rilanciò Ayesha. – Un apparato mimetico, una tecnica disindividuante – ma neanche lei si sentiva di appoggiare una di queste ipotesi.
– Finora potevamo solo tirare a indovinare sulla loro tecnologia dei viaggi spaziali, ma adesso abbiamo le prove. Gli Y avevano la curvatura! – La voce di Jerry Lone divenne concitata. – Immagini cosa possono essersi inventati, con la curvatura e un buco nero?
Ayesha sbarrò gli occhi. Visioni di un abisso di tenebra che si spalancava da scariche di elettricità violenta, la forza di Alcubierre che deformava il continuum a quattro dimensioni piegando le linee di campo: uno tsunami gravitazionale che si propagava lungo le pareti di un cunicolo spazio-temporale esadimensionale, verso un punto di fuga situato in un universo adiacente.
– Un wormhole violerebbe il principio di causalità ristretta – osservò Ayesha, senza riuscire però a raffreddare l’entusiasmo di Jerry Lone.
Nella teoria dell’olomovimento di David Bohm, che poi era il substrato su cui si fondava l’intero sapere umano, il tempo non esisteva se non come proprietà locale dell’universo: non una dimensione aggiuntiva alle estensioni spaziali, ma un’illusione prodotta dalle interazioni della materia, o meglio degli “archetipi” della materia, informazione relegata su una superficie fotografica bidimensionale. Smesse le vesti di una grandezza assoluta, il tempo si riduceva a una proprietà relativa al nostro universo sensoriale, il quale nella realtà esisteva al di là di ogni processo evolutivo e di ogni dinamica, come una collezione di istantanee statiche simultanee, tutte indifferentemente concrete, tutte astratte da ogni logica evolutiva. Il problema connesso alla teoria era che essa restava per definizione inverificabile. Per questo ne era stata approntata una versione ridotta, in accordo con le osservazioni e le misure, capace di conciliare dati sperimentali e pura teoria attraverso un semplice passaggio al limite: il principio di causalità ristretta, che ne era la colonna portante, ripristinava la dialettica di causa-effetto come necessità nel nostro universo percepito. Nessuna violazione poteva essere tollerata, nemmeno localmente, a livello di materia ed energia. Ed ecco il dogma: la nostra realtà era strutturata nella totale obbedienza a questo principio, escludendo nel modo più assoluto i viaggi nel tempo, e limitando i viaggi a velocità iperluce alla pura informazione.
In quest’ottica, per via della loro natura singolare e stravagante, i buchi neri erano degli oggetti da maneggiare con cura: in una realtà a due dimensioni, un buco nero era la porta d’accesso all’altra faccia della realtà, oppure a un wormhole che sfociava sulla superficie di un universo completamente diverso. Alieno, pensarono simultaneamente Ayesha e Jerry Lone. Quel pensiero spalancò sotto i loro piedi la vertigine di un abisso siderale.
– Al contrario – replicò Jerry Lone. – Non ci sarebbe nessun paradosso. Un cunicolo spazio-temporale sarebbe solo la dimostrazione che la realtà è più complessa e meravigliosa di quanto vorrebbero farci credere gli scienziati e le Logiche, con i loro enormi cervelli strapieni di formule e equazioni integrali.
– Uhm – fece Ayesha, pensierosa.
– Forse l’olomovimento di Bohm è più complesso di quanto si siano ostinati a credere finora – riprese Jerry Lone. – Forse possiamo davvero accedere alla cosa che sta dietro al velo: la realtà ultima, definitiva…
– Lo credi davvero?
Le implicazioni di quell’idea erano evidenti a entrambi.
– È una possibilità – disse Jerry Lone.
Possibile, però, che fosse stata compresa anche dai misteriosi inquilini precedenti di Scylla–Niger? Tra le rovine della civiltà Y, era stato trovato un po’ di tutto: dispositivi quantistici, pseudo-libri, armi di ogni tipo, oggetti d’uso comune e di ogni foggia. Mai, però, qualcosa di più complesso. Gli Y non si erano lasciati dietro una sola nave, a quanto pareva. Tutto doveva essere stato imbarcato sugli immensi incrociatori ad albero che l’ologramma gli aveva mostrato. La loro consapevolezza si era dispersa nel vuoto interstellare. Ma un sistema di guida poteva voler dire, forse, un vascello nascosto da qualche parte.
La prima nave Y.
Era un’idea sconvolgente e Ayesha si sentì ribollire il sangue nelle vene al solo pensiero. Un vascello alieno nascosto chissà dove, magari in un hangar sotterraneo che centinaia di operazioni di recupero avevano sfiorato negli anni, senza mai arrivare a violarlo. All’interno di un asteroide.
– Ricordi dove l’abbiamo trovato?
Ayesha annuì. A differenza della maggior parte dei recuperanti – pivelli! – che si riversavano nelle città abbandonate o sugli asteroidi maggiori, come sciacalli famelici, Jerry Lone accordava da tempo le sue preferenze agli insediamenti più piccoli. Lo aveva imparato dalla Bruja, che lo aveva tenuto a battesimo: era lontano dai grossi centri che si concentravano le sorprese più interessanti; il che, considerato il carico ridotto che poteva essere imbarcato su una freccia – per ovvie ragioni di economia algebrica – e il desiderio di novità dei collezionisti, significava coniugare spesso il miglior bottino con la caccia più breve. Era stato proprio un asteroide insignificante, immerso nell’oceano di detriti spaziali che orbitava intorno a Niger RX-2047, la meta del loro ultimo recupero.
Dallo sguardo pianificatore di Jerry Lone, Ayesha comprese che sarebbe stata anche la loro prossima destinazione.

[3 – continua]

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Jerry Lone si accese un sigaro di marijuana e tabacco e lasciò che il fumo riempisse i suoi polmoni e la stanza. Allungata nella rete da letto, Ayesha fiutò l’aroma ricco e intenso e tossì. Jerry Lone amava quando lei arricciava il naso: quel gesto donava al suo viso un’espressione di grazia bizzarra, ed era ormai diventato un’abitudine in occasione delle sue fumate post-orgasmiche, se non altro fuori servizio.
Le aveva raccontato che quella strana usanza era stata molto in voga sulla Cara Vecchia Terra: il sigaro aveva avuto cultori e luoghi e occasioni sociali specifiche per il consumo. Ayesha aveva finito per figurarsi riunioni segrete di minuscole cellule cospiratrici, dove si discuteva di piani sovversivi in sotterranei impregnati di fumo (per qualche strana ragione, associava istintivamente le abitazioni urbane della CVT a cunicoli sotterranei, come se le città terrestri fossero dei veri e propri formicai…).
Jerry Lone le aveva raccontato anche di come aveva scoperto quel cimelio prezioso. Sulla Rotta 7 per Crazy Horse, quando era ancora un giovane dirottatore senz’arte né parte, lui e Yellowbabe avevano agganciato un vecchio cargo dell’IRA. Ayesha non sapeva molto delle prime fasi dell’esplorazione spaziale, così Jerry Lone le aveva spiegato che nei primi tempi la colonizzazione era stata condotta preminentemente da mani militari. L’Interplan Rescue Agency era il conglomerato economico-militare che aveva guidato l’impresa nel periodo immediatamente successivo alla Prima Transizione.
All’epoca, una nutrita guarnigione di uomini d’arme era stanziata su ogni avamposto coloniale. Dai registri di bordo il cargo diretto a Crazy Horse risultava essere un vascello d’appoggio, destinato agli approvvigionamenti della locale comunità IRA. Durante la traversata qualcosa era andato storto. Un’avaria tra un salto e il successivo, o forse un incidente provocato da una tempesta. Tutti gli occupanti erano morti congelati e l’intelletto di bordo sembrava flatlineato. Nella stiva, l’impianto di termoregolazione autonoma aveva salvato, insieme a un volume rilegato di carta autentica dal prezzo inestimabile (una copia della Cosmogonia di A. J. Specktowsky integrata dalle note del Reverendo Jacob Blake), una intera partita di vecchi Cuesta Ray Deluxe. E se allora Jerry Lone non aveva mai sentito nominare né Specktowsky né tantomeno Blake e adesso il libro se ne stava abbandonato in un angolo del loro cuballoggio in attesa di un acquirente, seppellito tra le altre cianfrusaglie, i sigari rappresentavano per Ayesha una minaccia continua. Rischiava di morire ammazzata dal fumo mefitico.
– Fumarli è meno pericoloso che respirarli? – si chiese.
Guadagnando coraggio, si protese ad aspirarne una boccata direttamente dalla mano di Jerry Lone. Il tentativo si risolse in un violento attacco di tosse.
Quando si riprese, se ne stette per un po’ a fissare l’espressione catatonica e soddisfatta di Jerry Lone. Cosa ci trovasse in quegli stravaganti reperti archeologici di un’epoca perduta, era un mistero di cui lei doveva rinviare l’illuminazione.

La battuta di caccia aveva fruttato una coppia di termopile, maneggevoli dispositivi capaci di convertire il calore in elettricità, un cratere forgiato in una strana lega metallica (secondo l’analizzatore, una lega intermetallica di sostituzione a base di alluminio e carbonio, con percentuali inferiori di tantalio e cromo, qualunque cosa significasse) e alcuni monili, raffiguranti simboli arcani per qualche incomprensibile rito religioso.
Quello che era parso da subito evidente ai primi esploratori, era stata la complessità imperscrutabile delle usanze di culto degli Y. Klapeyron IV doveva avere assistito, un tempo, a cerimonie di massa tanto solenni quanto laboriose, con luoghi sontuosi a fare da sfondo. Quale dio o bizzarro pantheon alieno gli Y adorassero, era ancora argomento di acceso dibattito. Ma a giudicare dall’importanza assegnata al vuoto nella loro iconografia, non sembrava priva di fondamento l’ipotesi che l’assenza, il nulla, lo Zero, potessero rivestirvi un ruolo primario.
A voler compilare un bilancio, era stata una buona caccia. Viste le abitudini ormai consolidate di Jerry Lone, non si spingevano spesso nella Cintura, praticamente sulle labbra gravitazionali del buco nero. Quella era ormai riserva di caccia quasi esclusiva dei recuperanti di ultima generazione, quasi tutti psichicamente instabili. Da tempo loro preferivano la superficie sconfinata, anche se meno fruttuosa in termini monetari, di Klapeyron IV.
Stavolta, invece, Jerry Lone aveva voluto spingersi fino a un asteroide senza nome, una roccia irregolare sospesa appena al di sopra della nube di plasma incandescente che vorticava nel Gorgo verso le fauci quantistiche di Niger RX-2047. Se si teneva conto della crescente difficoltà incontrata dagli altri recuperanti negli ultimi tempi, già il fatto di essere rientrati senza un graffio poteva essere considerato alla stregua di un successo. La complicata danza gravitazionale di Niger RX-2047 e della sua compagna, la luminosa subgigante azzurra Scylla, distante solo una manciata di unità astronomiche, produceva un effetto devastante sullo spazio locale del sistema. Increspature e frange d’interferenza nel continuum spazio-temporale potevano degenerare in vere e proprie tempeste gravitazionali. Per non parlare delle complicazioni elettromagnetiche… Persino in momenti di calma relativa diventava un’impresa controllare l’effetto reciproco delle due grandi masse in orbita, quando queste interagivano con gli altri oggetti del sistema. Oltre a Klapeyron IV e alle sue lune, lo spazio orbitale ospitava anche una nana bruna, due giganti gassosi e altri quattro pianeti di classe T. Tutti orbitavano intorno al comune centro di massa dei due oggetti stellari. La fascia asteroidale che cingeva Niger RX-2047 doveva essere tutto ciò che restava di un quarto gigante, fatto a pezzi dalle maree ancor prima che gli Y approdassero nel sistema.
Per via della danza gravitazionale Resurgam doveva percorrere un’orbita fortemente inclinata sul piano dell’eclittica, imperniata sul fulcro gravitazionale dei due titani. E per questo ogni tuffo nel sistema, a caccia di reliquie tra le rovine di Klapeyron IV e ancor più nella Cintura, assurgeva alle proporzioni di un’impresa epica. Equivaleva a calarsi nel maelstrom di Niger RX-2047, perennemente in agguato, pronto a violentare da un momento all’altro la temeraria Scylla e distruggere chiunque altri si fosse interposto all’oggetto delle sue attenzioni, in una trasfigurazione cosmica del mito classico di Cariddi.
– Credo che dovresti vedere questa cosa, Jerry – disse ad un tratto Ayesha. Stava passando in rassegna il bottino per l’inventario. Pur avendone completato la scansione, da qualche minuto si stava rigirando tra le mani il cratere di lega.
– Cosa c’è che non va? – chiese Jerry Lone, continuando a lavorare sul progetto olografico. Una delle attività a cui si dedicava con maggiore trasporto nei tempi morti, era il modellamento planetario. Fin dal suo arrivo lassù, si era occupato di un unico sistema: la coppia Scylla–Niger. Sperava che quell’ulteriore studio si rivelasse complementare alle sue attività di recupero, aiutandolo a pianificare con la massima cura possibile le incursioni tra le macerie degli Y. Le discese erano ancora affidate in larga misura all’istinto di pilota e navigatore: persino l’intuizione dell’Algebra della freccia necessitava di una programmazione adeguata, in aggiunta alla mediazione di Ayesha. A quel modo era come lanciarsi in una corsa al buio lungo un corridoio gravitazionale: tremendamente pericoloso. Significava vivere in uno stato perenne di precarietà.
– Vieni a dare un’occhiata – insistette Ayesha. In quell’esatto momento, come un riflesso deformato e ingigantito del suo modello olografico, dall’anfora emerse il Gorgo, imponente flusso di gas incandescenti che da Scylla spiraleggiava nelle fauci invisibili di Niger RX-2047, avvolgendosi in un disco di accrescimento che celebrava su scala stellare l’attitudine della Natura alla violenza.
Quello che si parò ai loro occhi fu il trionfo della morte.
Ne furono ipnotizzati prima ancora che Ayesha recuperasse un paio di visori Y da una sacca. Senza batter ciglio guardarono la proiezione come bambini davanti al loro primo ologramma.

Gli Y si erano stanziati attorno a Niger RX-2047 presumibilmente al termine di una lunga traversata cosmica. Vi avevano impiantato il nucleo di una civiltà avanzatissima. Avevano vissuto il loro rinascimento – magari l’ennesimo – e poi, da un giorno all’altro, erano svaniti nel nulla. Era accaduto in un momento storico antecedente alla comparsa delle prime civiltà mesopotamiche sulla Terra. L’analisi del carbonio-14 e del radio-226 aveva permesso di fissare una data piuttosto precisa per quell’evento al 9960 avanti Cristo, anno più anno meno. A quell’epoca risalivano i più recenti manufatti rinvenuti nel sistema, per la precisione sugli asteroidi.
Nessun’altra traccia degli Y era stata ancora riportata alla luce altrove. Per via delle sue rovine, disseminate di tecnologia aliena, archeologia e raffinate opere d’arte, Klapeyron IV era apparso fin dal primo istante uno scrigno di ricchezze, il paradiso dei recuperanti. Ma le meraviglie più straordinarie parevano concentrate nella Cintura.
Era stato quindi piuttosto naturale che bande di espatriati, fuorilegge e desperados scegliessero Scylla–Niger come approdo di ventura per le loro peregrinazioni galattiche. Qualcuno dei primi coloni aveva azzardato un esperimento in proprio di conversione energetica, che aveva condotto alla nascita della Cattedrale. I suoi adepti e discendenti si erano coalizzati nella classe degli Estrattori, casta elitaria nell’attuale scenario sociale del sistema. I recuperanti erano giunti più tardi e avevano assemblato una città spaziale dal nulla. Sulla Vecchia Terra si sarebbe detto “un mattone dopo l’altro”. Ma lassù, in mezzo al vuoto siderale, a due passi da un vortice di dimensioni stellari e a qualche migliaio di parsec dal Sole, si parlava di tubi.
I tubi erano i moduli abitativi standard che, opportunamente interconnessi tra loro, erano alla base delle strutture complesse degli habitat orbitali: anelli, fusi, alveari. E tubi erano anche i componenti primari dell’ossatura solida dei moduli: nanotubuli di carbonio, per l’esattezza, materiale compatto e malleabile, robusto e intelligente. Così, un tubo dietro l’altro, era venuta fuori Resurgam, una sorta di escrescenza tumorale nata da una cellula impazzita della Cattedrale, un sogno orbitale degenerato in incubo. Simulacro vivente di una città spaziale, organismo impazzito e fuori controllo, vagava sull’abisso di Scylla–Niger come il cadavere di un’ape regina trascinata alla deriva dalla corrente.
Vista dall’esterno, la Stazione era una struttura notevolmente sbilanciata, un paradosso tenuto insieme dalle preghiere dei suoi abitanti. Nessuno conosceva il numero esatto degli Estrattori, ma come ogni clan industriale autosufficiente doveva essere inferiore alle stime più prudenti. Di recuperanti, invece, ce n’erano decine, centinaia. E con le loro famiglie e le attività economiche che prosperavano intorno al business del recupero (commercianti, rigattieri, restauratori, ricercatori, tecnici aerospaziali, operatrici ricreative), la popolazione di Resurgam ammontava a qualche migliaio di abitanti. Tutti concentrati in una bagnarola scricchiolante e azzoppata, come una sorta di avanguardia proletaria del suicidio sistematico.

[2 – continua]

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Furono i gemiti a scatenare violente fluttuazioni di stato nel suo spazio delle fasi. La realtà oscillò mentre i parametri cercavano la chiave d’accesso di un’altra possibilità, verso un equilibrio nuovo. Con tutte le variabili in gioco – pressione sanguigna, pulsazione cardiaca, tracciato delle onde Beta e relativi salti di frequenza nella banda 13-30 Hz, a veicolare coordinate spaziali e relativi incrementi differenziali del primo e del secondo ordine, gradiente termico, intensità delle radiazioni e flusso ionico – non era un compito di facile risoluzione.
Si trovavano ad attraversare la zona di fetch, dove si generano le onde gravitazionali in prossimità di una concentrazione significativa di massa e in presenza di venti di particelle intensi; una regione in cui la superficie dello spazio anti-de Sitter che descrive l’universo come una superficie iperbolica appare confusa e i processi che vi si svolgono sono soggetti a un andamento disordinato, con forti oscillazioni indotte nella schiuma quantistica del vuoto dalle continue transizioni energetiche che alimentano le cosiddette onde di swell o di «cosmo morto», che allontanandosi lungo le direttrici tangenti alla superficie della singolarità crescono e si regolarizzano; e loro erano proprio lì, nella zona critica, quando dal reticolo dello spazio anti-de Sitter emersero configurazioni mutanti contro un orizzonte sempre più vasto. Il segnale di generazione dell’onda affiorò dalla superficie a massima entropia con il suono di un corno da postiglione. La configurazione ribollente dello spazio liberò dal Gorgo un treno di onde di mare morto.
Jerry Lone non si fece trovare impreparato. Catturarle era l’aspetto più divertente del suo lavoro: come sempre, brividi e fremiti percorsero le sue membra, evocando un piacere viscerale…
Un attimo prima: sotto di lui Ayesha stava sospirando, mentre assecondava il ritmo incalzante dell’amplesso. Jerry Lone addentava il piacere con un misto di furia fremente e di rabbiosa vitalità. Un’istantanea di brevissima durata gli fissò nella mente l’analogia della fanciulla con le seducenti forme argentate di un incrociatore militare della NERVE…
Un attimo dopo (nell’accezione di Planck, esattamente 10-43 secondi più tardi): il carbonio nanotubolare che componeva la struttura intelligente della loro freccia mutava per adattarsi al cambiamento delle condizioni operative. Sentì il vento di particelle, là fuori, accarezzargli lo scafo con dolcezza. Avvertì il ruggito della singolarità in agguato, appena sotto il ventre della Silver Surfer.
Quando il tempo accelerò bruscamente, assestandosi nuovamente nello spettro delle percezioni umane, Jerry Lone confuse il flusso ininterrotto dei dati tecnici con il forte, sensuale afrore ormonale di Ayesha.
– Oh sì! Ancora… così! Più giù! Così! – stava dicendo Ayesha, scandendo i tempi di una danza orgasmica. – Così…
Sotto le mani Jerry Lone seguì il profilo regolare e snello dei suoi fianchi, percepì il fremito del suo ventre, immaginò i seni sussultare gonfi e turgidi. La percorse fino a incontrare lungo il crinale del piacere le dune sussultanti delle costole. La pelle di Ayesha splendeva in un trionfo di ambra bruna sotto un velo di sudore come rugiada terrestre. Quando si perse sulla curva della sua schiena – la scala vertebrale di un crescendo sinfonico – Jerry comprese che era giunto il momento.
Colse l’attimo.
La freccia scivolò sulla cresta gravitazionale della singolarità, schizzando in un condotto a basso dispendio energetico a una frazione pari al 58% della velocità della luce, proiettando davanti a sé un campo a inversione di spinta. In un effetto domino l’inversione gravitazionale accelerò ulteriormente la loro corsa, lanciandoli all’inseguimento dell’ombra cosmica di una lepre fantasma.
Lontano dalla stazionarietà non c’è modo per controllare su lunghi intervalli una dinamica non-lineare. In quei frangenti, Jerry Lone rimetteva la loro sorte nelle mani dell’istinto.

La Stazione orbitava alta nel cielo sopra il Gorgo. La complessa configurazione gravitazionale del sistema la obbligava a una danza senza sosta, un comportamento non-lineare che immancabilmente colpiva l’osservatore esterno con la sua bizzarria.
Ayesha era capace di restarsene ore davanti al transpex, a contemplare quel valzer cosmico senza sosta. Guardava il convoglio degli Estrattori scivolare puntuale sulla sua orbita: lo scafo lucido brillava nella notte cosmica, riflettendo la luce gelida di Scylla e quella del Gorgo che spiraleggiava attorno al buco nero, immenso disco di accrescimento di polveri e plasma incandescente. Il convoglio scivolava su binari invisibili che lo spingevano oltre il limite statico di Niger RX-2047, dentro l’ergosfera, da cui emergeva dopo aver barattato un carico di scorie e rifiuti (avidamente inghiottito dall’orizzonte degli eventi) con un utile di energia angolare. Avvitandosi, il treno transitava poi nella cosiddetta Cattedrale, che provvedeva a estrarre il guadagno energetico convertendolo in forma utilizzabile, per soddisfare il fabbisogno di tutta la Stazione. Il surplus veniva rivenduto sulla proficua borsa dell’energia, a distributori che giungevano da ogni parte dell’Ecumene per acquistare la linfa del buco nero, imbrigliarla nei loro megalitici accumulatori e rivenderla a prezzi competitivi sui mondi dell’uomo.
Gli Estrattori la mercanteggiavano con compilatori di ultima generazione, ricambi per gli apparati della Cattedrale, materiale genetico, know-how e, talvolta, opere d’arte. Antichi volumi rilegati o tascabili sgualciti altrettanto venerandi, installazioni, oggetti d’antiquariato; ma anche statue, manufatti e bigiotteria di qualche civiltà aliena. Le quotazioni migliori toccavano, paradossalmente, all’archeologia Y, disponibile in quantità generose poche unità astronomiche sotto di loro, sulla superficie ormai morta di Klapeyron IV, delle sue lune e della cintura asteroidale.
Gli umani non erano stati i primi a stanziarsi nel sistema. Prima di loro, molto tempo prima, era stata la volta di quelli che i successori avrebbero chiamato “gli Y”. La curiosa denominazione era stata ispirata ai primi esploratori dai manufatti disseminati su Klapeyron IV: nelle incisioni, la somiglianza di alcuni simboli ai vecchi alfabeti terrestri sembrava raggiungere picchi d’affinità inaspettati proprio in corrispondenza della lettera Y. Che quell’appellativo, poi, avesse una connotazione enigmatica per via della sua assonanza con una tipica interrogativa inglese, era un bizzarro scherzo del destino.
Se era ormai abbastanza chiaro che la civiltà degli Y era giunta sull’orlo del buco nero proprio come qualche millennio più tardi avrebbero fatto gli umani, la loro fine restava ancora avvolta nelle spire di un fosco mistero.
Inghiottiti nel nulla. Era possibile un’altra definizione per la loro sorte?
Gli avamposti lunari, come pure le città su Klapeyron IV e le installazioni orbitali, non recavano altri segni che non l’usura del tempo. Ci si sarebbe aspettati di imbattersi nelle tracce di un violento conflitto interplanetario, magari non crateri e sabbia vetrificata ma almeno tecnologia distrutta e resa inservibile, edifici rasi al suolo, resti di cadaveri alieni (scheletri, oppure fossili). Invece, niente di tutto questo. La tecnologia era ancora in funzione. Le case, ancora in piedi, aspettavano forse che i vecchi proprietari rientrassero nelle stanze abbandonate da tempo, riempiendo quel vuoto con il rumore dei passi, con il suono di antiche parole impronunciabili. Era tutto come se, un bel giorno, un’intera civiltà avesse fatto i bagagli e fosse partita per un week-end fuori città. Poteva essergli capitato qualcosa lungo la strada del rientro?
Ad ogni buon conto, il mistero forniva linfa vitale al commercio di Resurgam. Squadre di recuperanti setacciavano le rovine di Klapeyron IV e delle sue lune a caccia di reperti. Il recupero era la principale fonte di collocamento nello spazio locale di Niger RX-2047. Se il traffico in energia era un’esclusiva degli Estrattori, gli altri inquilini di Resurgam erano quasi tutti recuperanti.

[1 – continua]

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Al culmine di uno sforzo internazionale che ha impegnato scienziati da quaranta paesi, il consorzio internazionale EHT (Event Horizon Telescope) ha diffuso ieri la prima immagine di un buco nero. La foto del buco nero supermassiccio che si trova al cuore della galassia M87, distante 53 milioni di anni luce da noi, è il risultato di due anni di elaborazioni dei dati raccolti da una rete di otto radiotelescopi: 5 Petabyte che per poter essere processati da un algoritmo elaborato dalla dottoranda del MIT Katherine Bouman hanno dovuto essere spediti per aereo. L’immagine che ci ha restituito il programma EHT è quella di un mostro della massa di 6,5 miliardi di soli, circondato da un disco di accrescimento di gas ionizzati incandescenti del diametro di 0,39 anni luce, che orbitano intorno al buco nero alla velocità di 1.000 km/s.

Per celebrare questa impresa, che già in molti salutano come la foto del secolo, destinata ad aprire una nuova era nella storia dell’astrofisica, ho pensato di proporre ai lettori del blog un racconto che risale al 2005, originariamente apparso sulle pagine di Continuum (ma non più disponibile on-line) e in seguito ristampato in una versione leggermente rimaneggiata nell’antologia Frammenti di una rosa quantica (2008). Ed è in questa versione che ho pensato di proporvelo, in sette post a partire da oggi, uno per ogni capitolo del racconto.

Enjoy!

  1. Vai profondo, Jerry Lone!
  2. L’incognita Y
  3. Una storia dal Gorgo
  4. Economia del recupero
  5. Frammenti di una rosa olografica
  6. Resurgam
  7. Ergosfera per principianti

 

Ho scoperto Breece D’J Pancake che era già morto da quasi trent’anni, ma ho letto così tante volte i suoi dodici racconti, tutto ciò che ci ha lasciato, da maturare presto l’illusione di conoscerlo bene come un vecchio amico, se non proprio come me stesso. La qual cosa è appunto un’illusione, priva di qualsiasi fondamento, ma fa sì che non mi stranisca tanto il fatto che oggi ricorrano i quarant’anni dalla notte in cui si tolse la vita, o forse la perse accidentalmente con la complicità di una di quelle armi da fuoco che dovrebbero rendere le nostre vite più sicure (come no…), ma che siano trascorsi più di dieci anni da quando mi sono imbattuto per la prima volta nelle sue tracce.

Quando avrò finito qua tornerò nel West Virginia. C’è qualcosa di antico e profondamente radicato nella mia anima. Mi piace pensare di aver lasciato la mia anima su una di quelle colline, e non sarò mai davvero capace di partire finché non l’avrò trovata. E io non voglio cercarla, perché potrebbe capitare che la trovi e così sarei costretto a partire davvero.

[da una lettera scritta alla madre mentre era studente all’Università della Virginia]

In un certo senso è trascorsa una vita da quando attaccavo a leggere le prime righe di Trilobiti e non trovavo la forza di staccarmene, provando un raro bisogno una volta arrivato alla fine: quello di rileggere tutto daccapo. Sul vecchio blog come pure su Next Station trovate una vasta rassegna di riflessioni dedicate alla sua scrittura, ai suoi temi, al suo stile. Allo stesso tempo, ricordo bene l’impatto di quelle immagini, il senso di malinconia, la disperazione a tratti e quell’attaccamento viscerale a una terra che a migliaia di chilometri di distanza la sua penna riusciva a farmi sentire come se fosse la mia. Quella di Pancake è una memoria che si fa geologica, che assorbe dai luoghi la loro intrinseca essenza e la fa propria: nei suoi racconti non c’è mai una separazione netta tra i personaggi e l’ambiente, i primi sono dei pezzi del West Virginia e degli Appalachi non meno di quanto non lo siano le montagne devastate dalle miniere e i boschi impenetrabili, le gole scavate dai fiumi e le stazioni abbandonate, i binari della ferrovia e i villaggi disseminati lungo le valli.

La memoria di Pancake si confronta con il tempo profondo dei fenomeni naturali, dei processi che richiedono milioni di anni per produrre effetti misurabili. Un tempo di fronte al quale l’umano svanisce, si dissolve, come le nostre ambizioni davanti a una manifestazione kantiana del sublime; e un tempo che diventa naturalmente la pietra di paragone per gli accidenti della vita: tradimenti, fallimenti, cadute, ostacoli di qualsiasi natura, perdite, affanni. Nessuno dei suoi personaggi, che in alcuni casi sembrano dei veri e propri alter ego dello scrittore, ha una vita facile, ma tutti vivono in qualche misura una forma di rassegnazione che scaturisce da una consapevolezza istintiva, naturale, di una dimensione superiore: queste montagne, questi fiumi, questi boschi, saranno ancora qui tra un milione di anni, quando di noi non sopravvivrà nemmeno il ricordo, proprio come erano qui centinaia di milioni di anni fa, solo in forma diversa, magari sul fondo di un oceano primordiale, quando l’umanità non era nemmeno un sogno vago e confuso generato per caso dai semplici circuiti neurali di un trilobite.

South Branch Mountaing [source: Dixon Marshall].

E quindi, Breece, questo è il mio modo per rendere omaggio a quello che mi hai insegnato. Grazie per quello che ci hai lasciato.

Apro la porta del camioncino, scendo sulla stradina di mattoni. Guardo ancora una volta Company Hill, tutta consumata e logora. Molto tempo fa era davvero scoscesa e stava come un’isola nel fiume Teays. C’è voluto più di un milione di anni per fare questa piccola collina liscia e ho cercato dappertutto trilobiti. Penso a com’è sempre stata lì e a come ci starà sempre, almeno per tutto il tempo che importerà qualcosa. Quando arriva l’estate, l’aria si fa afosa. Un branco di storni fluttua sopra di me. Sono nato qui e non ho mai voluto andarmene davvero. Ricordo gli occhi di papà morto che mi guardavano. Erano molto secchi e mi portarono via qualcosa. Chiudo la porta, vado verso il caffè.
Vedo una toppa di cemento sulla strada. Ha la forma della Florida e mi ricordo che cosa avevo scritto nell’annuario di Ginny: «Vivremo di manghi e d’amore». E lei prese e partì senza di me, due anni è stata laggiù senza di me. Mi manda cartoline con tizi che lottano con gli alligatori e fenicotteri in primo piano. Non mi fa mai domande. Mi sento un idiota per aver scritto quella roba ed entrò nel caffè.
Il posto è vuoto e mi riposo nell’aria condizionata. La sorellina di Tinker Reilly mi versa il caffè. Ha dei bei fianchi. Sono tipo quelli di Ginny e si inclinano sulle gambe con delle piacevoli curve. Fianchi e gambe come quelli salgono le scalette degli aerei. Lei va alla fine del bancone e si fa fuori il resto del suo gelato. Le sorrido, ma è minorenne. Minorenni e serpenti neri sono due cose che non si toccano neanche con un fiore. Una volta ho usato come frusta un vecchio serpente nero, dopo avergli spezzato quella sua testa del cavolo, e papà lo ha usato per suonarmele. Penso a come papà riusciva a farmi proprio arrabbiare qualche volta. Sogghigno.
Penso a ieri sera che Ginny mi ha chiamato. Il suo vecchio l’ha accompagnata dall’aeroporto a Chesterton. Era già annoiata. Possiamo vederci? Certo. Magari andare a prendere una birra? Certo. Il solito vecchio Colly. La solita vecchia Ginny. Non chiudeva mai il becco. Volevo dirle che papà era morto e mamma era sul piede di guerra per vendere la fattoria, ma Ginny non chiudeva mai il becco. Mi ha messo i brividi.

[Traduzione di Ivan Tassi. Potete continuare a leggere la versione originale del racconto on-line su The Atlantic.]

Thurmond ghost railway station [source: Tendency to Wonder].

Cayce Pollard si risveglia a Camden Town, a cinque ore di jet lag da New York, braccata dai lupi di un ritmo circadiano interrotto.
È quella non ora piatta e spettrale, lambita da una marea sospesa, un vapore mentale che ribolle a intermittenza irrompendo con richieste inopportune e ancestrali di sesso, cibo, tranquillità, o tutto insieme, e invece adesso per lei non c’è niente.

Fin dall’incipit, che potremmo definire paradigmatico come non mai, Pattern Recognition (2003) è un distillato degli interessi, delle ossessioni, delle suggestioni di cui si nutre l’ispirazione di William Gibson. Primo romanzo dato alle stampe dopo la chiusura della Trilogia del Ponte, pubblicato qui da noi come L’accademia dei sogni nella traduzione di Daniele Brolli (ovviamente da Mondadori, che come ormai d’abitudine prende un capitolo dal titolo particolarmente suggestivo e lo mette in copertina), in origine avrebbe dovuto essere un romanzo a sé stante, ma poi Gibson si fece comprensibilmente prendere la mano e ne fece il primo tassello di una nuova trilogia, che si sarebbe sviluppata attraverso Spook Country (2007, da noi Guerreros, ne ho parlato qui, qui e qui) e infine Zero History (2010) e avrebbe a posteriori preso il nome dalla Blue Ant, l’agenzia pubblicitaria di Hubetus Bigend che cerca di capitalizzare le nuove tendenze di quello che in quegli anni avremmo forse ancora potuto chiamare, senza sentirci degli stupidi, il «villaggio globale».

La tendenza che la Blue Ant insegue in questo romanzo, raccontato in presa

Author William Gibson

diretta dal futuro immediato (immediato non quanto il domani, ma come potrebbe essere una qualsiasi ora notturna prima dell’alba di domani), è una strategia di guerrilla marketing che per certi versi richiama alla mente la campagna pubblicitaria che anticipò l’uscita di The Blair Witch Project nel 1999. Per questo Bigend convoca a Londra con un pretesto la trentaduenne Cayce Pollard, una cacciatrice di tendenze che ha deciso di mettere a profitto la sua spiccata sensibilità all’impatto dei marchi. La passione di Gibson per i loghi trova così piena e compiuta realizzazione in un romanzo che abbastanza incomprensibilmente non ha finora richiamato l’attenzione di qualche major di Hollywood, perché sarebbe stata anche un’occasione irripetibile di product placement.

Ma Pattern Recognition, come dicevamo, è una summa delle ossessioni dell’autore: la paranoia viene portata a livelli di parossismo pynchoniano e non sarei il primo a citare Oedipa Maas e L’incanto del lotto 49 come fonte di ispirazione diretta per Cayce Pollard e il suo progressivo scivolare tra le maglie di una macchinazione internazionale; l’attenzione per le subculture metropolitane trova un fertile terreno nelle comunità della rete e infatti il romanzo prende le mosse proprio da una di queste community virtuali, sorta sul F:F:F – Fetish:Footage:Forum, che dà espressione a un particolare culto, quello delle sequenze cinematografiche diffuse da un misterioso artefice o, secondo alcuni, da un ipotetico collettivo di cineasti (irriverentemente soprannominato «Garage Kubrick») dagli intenti imperscrutabili; e su queste fertili premesse l’inventiva di Gibson si esalta nel gusto per una scrittura metaforica, particolarmente densa, attraversata da echi e rimandi continui, a partire dai nomi dei personaggi (Cayce richiama sia il Case di Neuromante che il Casey del racconto Il mercato d’inverno, Bigend si pronuncia “big end” come “grande fine”) fino al potere dirompente rappresentato dalle sequenze stesse (per i quali viene avanzato il paragone con il cinema di Andrej Tarkovskij e che richiamano alla memoria i manufatti artistici che fanno gola al magnate Josef Virek in Giù nel ciberspazio, e potremmo continuare a lungo).

Immersa in questa tela, prestando attenzione, si cominciano a distinguere i contorni di un grumo di ombre, quasi una filigrana nelle immagini di notti al neon e chat che si susseguono pagina dopo pagina, e quest’ombra ha il volto di William Burroughs e l’identità del padre scomparso di Cayce.

Bisognava sempre lasciare spazio per la coincidenza, sosteneva Win.
Se non ne lasci finisci dentro l’apofenia, quando ogni cosa viene percepita come parte di un modello di cospirazione più grande. E lui riteneva che, mentre ci si lascia rassicurare dalla simmetria persecutoria, con tutta probabilità si corre il rischio di non vedere la minaccia vera e propria, che è sempre meno simmetrica, meno perfetta. Ma che lui dava sempre per scontata, come lei ben sapeva.

Cayce viene trascinata da un capo all’altro del mondo, ai tre vertici di un ideale triangolo magico formato da Londra, Tokyo e infine Mosca, dove si consuma l’agnizione finale. Sovrapposto a questa geografia urbana, un ulteriore trittico di non-luoghi fa da sfondo alla sua quest postmoderna: la community on-line in cui si muovono le presenze spettrali di altri appassionati come lei dediti al culto delle sequenze misteriose, il già citato F:F:F; la rete profonda delle comunicazioni mondiali, scrutata da ECHELON, che riceve appena un accenno ma gioca un ruolo chiave nell’indagine sotterranea di Cayce; e infine un’immagine mnemonica e sfocata di New York, che di volta in volta viene messa a fuoco da Cayce a ridosso dell’attacco dell’11 settembre, la data fatidica in cui perse le tracce di suo padre, poco prima, seguendo oniricamente i passi del genitore, o nei mesi successivi, mentre cerca di assorbire l’assenza.

Il primo romanzo di Gibson del XXI secolo, un romanzo sulla perdita e sull’assenza, non poteva trascurare l’11-9-2001, sublimato simbolicamente nella madre di tutte le perdite, la quintessenza del vuoto che ci assale in quella “non ora piatta e spettrale“. Nel suo percorso di scoperta, Cayce s’imbatterà di volta in volta in reperti archeologici del calcolo industriale (il Sinclair ZX 81 e i Curta, che si fanno largo attraverso la storia benedetti dai risvolti della legge di Riepl, secondo cui “i nuovi sviluppi risultati dal progresso non rimpiazzano mai del tutto i modelli esistenti, ma piuttosto determinano una deriva di questi ultimi verso nuove modalità di impiego e nuove nicchie di utilizzo“) o retaggi di positivismo imbevuto di suggestioni metafisiche e sovrannaturali riportati in auge dal disorientamento dei tempi moderni (il fenomeno delle voci elettroniche o EVP in cui la madre di Cayce si rifugia, in un tentativo speculare e complementare al suo di elaborare il lutto che le ha colpite). Quasi che Gibson voglia suggerirci che prima o poi tutti dobbiamo sì confrontarci con la perdita di qualcosa o qualcuno, magari con la perdita di un secolo, o banalmente/solennemente con la perdita di significato che si accompagna a un mondo sempre più complesso e meno codificabile o riconducibile a schemi di facile lettura, ma in fondo anche noi altro non siamo che macchine come le altre e come tali possiamo sempre confidare in una nicchia garantita dal salvacondotto di Riepl.

Tra i ripieghi possibili, uno dei più nobili a cui auspicare è forse quello di diventare, come Cayce, il vettore di sogni altrui.

Si direbbe che ci stiamo prendendo gusto. Dopo aver rielaborato un pezzo già uscito su Robot per il volume Filosofia della fantascienza (a cura di Andrea Tortoreto, Mimesis Edizioni), con Salvatore Proietti ci siamo candidati lo scorso anno rispondendo a questa call for papers della rivista di filosofia contemporanea Philosophy Kitchen, dedicata ancora una volta ai rapporti tra l’immaginario di fantascienza e la filosofia, proponendo un pezzo inedito sui modelli e le declinazioni del concetto di eterotopia (ed eterocronia) nella fantascienza contemporanea.

Il numero della rivista, a cura di Antonio Lucci e Mario Tirino, annunciato lo scorso anno, ha visto la luce l’altro giorno sotto il titolo denso di suggestioni di Filosofia e fantascienza. Spazi, tempi e mondi altri (può essere scaricata anche in un comodo PDF da questo link) e propone un sommario ricchissimo, con contributi – tra gli altri – di Adolfo Fattori (a cui devo un ringraziamento particolare per avermi segnalato l’iniziativa e avere insistito con garbo) e Gianluca Didino (che non vedo l’ora di leggere). Come scrivono i curatori nella loro introduzione:

Nel nostro piccolo, nel presente fascicolo di Philosophy Kitchen abbiamo cercato di portare ad evidenza, facendo “parlare” le narrazioni, alcuni nuclei di questo portato filosofico presente dietro alle narrative sci-fi. Tra i tanti tagli e approcci possibili, e tra le moltissime direttive presenti nelle suddette narrative fantascientifiche, ne abbiamo privilegiate due: una tematica e una mediologica. A livello mediologico abbiamo cercato di rendere il più possibile amplio lo spettro degli “strumenti del comunicare” analizzati, nella convinzione che i media digitali (in particolare cinema, videoclip, videogioco e serialità televisiva) offrano nuove, ed estremamente importanti, possibilità di sviluppo del conglomerato narrazione-medium-teoria che è al centro degli interessi di noi curatori. […] A livello tematico, appunto, abbiamo privilegiato la lente offerta della triade utopia/distopia/eterotopia, su cui abbiamo invitato a contribuire gli autori che compongono il presente numero. La dimensione spazio-temporale “altra” delle utopie e delle distopie, infatti, ci ha permesso di aprire il ventaglio di opzioni discorsive a nostra disposizione al fine di offrire visioni dell’umano e dell’umanità, dello spazio, del tempo e dell’interazione uomo-macchina, che sfuggissero (senza per questo mancare di rigore) alle griglie della forma-trattato e che aprissero scorci, e visioni, utili – di ritorno – a un sapere filosofico che non sia pregiudizialmente chiuso alle provocazioni della multimedialità e della narratività.

In particolare il nostro pezzo, che abbiamo voluto intitolare Altri spazi, in controtempo: letture e visioni dalle nuove frontiere della fantascienza (e che può essere scaricato anch’esso in PDF cliccando sul link), viene presentato dai curatori come “una lunga ricostruzione tanto teorica quanto attenta alla storia sia romanzesca quanto cinematografica della sci-fi“, volta a offrire “un panorama dei punti di forza teorici (il postumano, le utopie e le eterotopie) che nelle narrative di fantascienza saldano immaginario utopico e tensioni sovraumaniste, mirate alla ricerca di mondi altri e potenziamenti dell’umano”.

Sono poco meno di 9.000 parole e 60.000 battute, in cui a partire da Michel Foucault e Rosi Braidotti parliamo di Ursula K. Le Guin e Samuel R. Delany, di William Gibson e del cyberspazio (ma anche della Trilogia del Ponte), di Pat Cadigan e di Kim Stanley Robinson, di Blade Runner 2049 e di Westworld, di The Man in the High Castle e di tutto quello che siamo riusciti a infilare in queste 30 pagine corredate da una settantina di titoli in bibliografia. Per stuzzicarvi ulteriormente l’appetito, eccovi un abstract in italiano:

La dicotomia tra utopie e distopie in tempi recenti è stata sempre più spesso riveduta in forma di continuum, composto di visioni che vanno dal positivismo acritico al pessimismo apocalittico, e che affrontano il rapporto con la modernità e la postmodernità, e superata nella fantascienza degli ultimi decenni in costruzioni narrative definite di volta in volta come utopie o distopie critiche – affini alle eterotopie di Foucault.

A partire dal cyberspazio di William Gibson (Neuromancer, 1984), lo «spazio altro» per eccellenza in cui le coscienze disincarnate dei cowboy dell’interfaccia compiono le loro scorribande nei territori virtuali della nuova frontiera elettronica, le eterotopie di Michel Foucault ricevono un’attenzione crescente in letteratura come anche nel cinema e nella serialità televisiva.

Per una nuova generazione di autori e autrici, con il cyberspazio Gibson fornisce nuove formulazioni (già esplorate in Philip K. Dick) del confine tra natura e simulazione e sulla convergenza tra umano e artificiale, e in tempi recenti abbiamo visto l’eterotopia rinnovarsi continuamente e assumere forme sempre nuove. Gli ambienti urbani vanno dalla trilogia del Ponte di Gibson al collasso ecologico di Blade Runner 2049; i contesti spaziali rielaborano un topos classico come l’astronave generazionale in Paradises Lost di Ursula K. Le Guin, mentre in serie TV come Battlestar Galactica e Farscape l’astronave funge al contempo da microcosmo e da laboratorio politico e sociale; gli scenari planetari diventano un’epica futura nell’acclamata trilogia di Marte di Kim Stanley Robinson.

Insieme alla letteratura, nei media visivi è la serialità televisiva, piuttosto che il cinema, a riservare l’offerta più ricca e interessante, spaziando dal parco giochi tematico sul cui sfondo vediamo consumarsi gli effetti della Singolarità Tecnologica (Westworld) all’ucronia distopica in grado di sovvertire la rassicurante familiarità della storia (The Man in the High Castle).

In ambito letterario, negli ultimissimi anni autrici come Ann Leckie e Aliette De Bodard stanno contribuendo a ridefinire le coordinate dell’immaginario di genere, operando un’inattesa fusione degli scenari di più ampio respiro della space opera con una riflessione sui temi dell’identità e della persona, come anche della memoria storica e della tradizione.

L’intenzione di questo saggio è approfondire, anche alla luce delle più recenti elaborazioni teoriche e femministe sul postumano, le connessioni interne all’immaginario di genere e le risonanze che queste instaurano con i temi di più stringente attualità affrontati nel dibattito scientifico e filosofico di inizio secolo, dai cambiamenti climatici agli interrogativi etici sollevati dallo sviluppo delle intelligenze artificiali. Il nostro approccio rifiuta le macronarrazioni top-down prevalenti nella critica italiana e ci proponiamo, attraverso il loro superamento, di sviluppare un’analisi letteraria e culturale più rispettosa dell’autonomia del genere.

E a beneficio dei naviganti anglofoni che capitano da queste parti (e che negli ultimi tempi rappresentano misteriosamente il grosso del traffico del blog) ne riporto anche la traduzione in inglese:

The utopia-dystopia dichotomy, a continuum which may summarize the range of visions (from uncritical positivism to apocalyptic pessimism) vis-à-vis modernity and postmodernity, has been more and more challenged and superseded in the science fiction of the latest decades through narrative constructions variously described as critical utopias and dystopias – akin to Michel Foucault’s notion of heterotopia.

Starting with William Gibson’s 1984 Neuromancer, the «other space» par excellence in which the disembodied consciousness of interface cowboys perform their raids in the virtual territories of the new electronic frontier, heterotopias receive growing attention, in manifold variants across literature, film, and television.

For a new generation of authors, Gibson’s cyberspace has reformulated interrogations (already explored in Philip K. Dick) on the boundaries between nature and simulation, as well as on the convergence between the human and the artificial, and in recent times readers/viewers have witnessed heterotopias assuming new shapes, across all media. Urban environments range from Gibson’s Bridge trilogy to the eco-collapse of Blade Runner 2049; space-travel settings rework the classic motif of the generation starship in Ursula K. Le Guin’s Paradises Lost while in TV series such as Battlestar Galactica and Farscape, the spaceship is a microcosm and a socio-political testing ground; planetary scenarios become an epic of the future in Robinson’s own Mars trilogy.

Along with print fiction, among visual media television, rather than film, seems to provide the deepest sources of interest, from the theme park affected by the Technological Singularity in Westworld to the subversion of history’s reassuring familiarity in the dystopian alternate history of The Man in the High Castle.

In the very latest years, the original voices of women writers such as Ann Leckie and Aliette de Bodard are redefining the genre’s imaginary, with their fusion between far-future space opera and a meditation on identity, personhood, gender, memory, and tradition

In this essay, in the light as well of the recent theoretical and feminist work on the notion of the posthuman, we intend to explore the inner connections of the genre’s iconography as it resonated with some of the most urgent topics in contemporary scientific and theoretical debates, from climate change to the ethical debates raised by the emergence of artificial intelligences. Our approach, beyond all-too-frequent top-down macronarratives, is meant as a contribution to cultural-literary analysis that does not do away with respect for the genre’s own autonomy.

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Vivere anche il quotidiano nei termini più lontani. -- Italo Calvino, 1968

Neppure di fronte all'Apocalisse. Nessun compromesso. -- Rorschach (Alan Moore, Watchmen)

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Mi chiamo Giovanni De Matteo, per gli amici X. Nel 2004 sono stato tra gli iniziatori del connettivismo. Leggo e guardo quel che posso, e se riesco poi ne scrivo. Mi occupo soprattutto di fantascienza e generi contigui. Mi piace sondare il futuro attraverso le lenti della scienza e della tecnologia.
Il mio ultimo romanzo è Karma City Blues.

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