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Artwork by Leo and Diane Dillon, via io9.

Artwork by Leo and Diane Dillon, via io9.

Ogni volta che prendo — o riprendo — tra le mani un’opera di Samuel R. Delany, sia un racconto, una novella o un romanzo, mi scopro a sorprendermi di quanto il caro vecchio “Chip” abbia ancora da insegnarci.

Nel 2006, dopo una lunga campagna di caccia per bancarelle e librerie dell’usato, per la prima volta riuscivo a mettere le mani su una copia logora e polverosa de La Ballata di Beta-2: si trattava del BiGalassia curato da Vittorio Curtoni e Gianni Montanari (artefici anche della traduzione) che lo riuniva con Babel 17. Quella primavera erano trascorsi più di trent’anni dalla sua stampa (nonché ultima manifestazione editoriale della Ballata), e circa quaranta dalla pubblicazione dei testi originali, ed entrambi non erano invecchiati di un solo giorno.

Negli anni mi è poi capitato di rileggerli entrambi diverse altre volte, in preda a un’assuefazione crescente. A quel punto, come insegna William Gibson (nel racconto Il mercato d’inverno, da La notte che bruciammo Chrome), avrei dovuto vedere attenuarsi progressivamente l’effetto che quelle pagine avevano su di me:

— Effetto truffa — dissi, arrotolando un pezzo di cavo.

— Come?

— È il sistema che usa la natura per dirti di piantarla. È una specie di legge matematica: puoi avere vera soddisfazione da uno stimolante solo un tot di volte, anche se aumenti la dose. Ma non riuscirai mai a ricavarne l’effetto che hai provato le prime volte. O comunque non ne saresti capace. Questo è il guaio con le droghe sintetiche: sono troppo furbe.

Invece la dipendenza non ha comportato un aumento della soglia di tolleranza: anzi, ogni rilettura portava con sé un piacere nuovo, inatteso.

L’ultima volta è capitato con La Ballata di Beta-2 alcune settimane fa, in occasione dell’attesa ristampa di Urania nella sua collana dei classici. Rileggerlo mi ha pervaso di un senso di soddisfazione e appagamento, come da sempre mi capita con i lavori di Delany. Non riesco a pensare a nessun altro autore provvisto della stessa abilità del caro vecchio Chip di incantarmi e tenermi incollato alle sue storie. Il giro delle frasi reso magistralmente dai suoi eccellenti traduttori italiani, la carica visionaria delle immagini, la forza dirompente dei concetti sottesi alla sua letteratura. Spesso le storie di Delany ci parlano di futuri lontanissimi, in cui l’umanità si è diffusa per tutta la galassia  — se non ha già addirittura tentato qualche salto al di là dei suoi bordi — eppure il legame con l’epoca dell’autore si avverte in maniera indubitabile e riverbera nei nostri tempi, un segno inequivocabile delle opere destinate a restare.

Lette durante i giorni più caldi e bui della crisi dei migranti, diverse pagine de La Ballata di Beta-2 si caricano di una luce nuova, che le rende se possibile ancora più vivide. Più o meno in quei giorni mi capitava anche di leggere questa disamina a firma di Gioacchino Toni, apparsa su Carmilla on line, del volume La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo. Eterotopie, personaggi, mondi, una raccolta di articoli curata da Sara Martin sviluppati “dall’idea che la serialità si trovi ad essere al centro di una tensione trasformatrice della società contemporanea”. In quell’articolo trovavo anche un particolare passaggio, riferito a un’analisi di The Walking Dead, che accendeva una serie di risonanze con l’attualità e, di riflesso, con La Ballata di Beta-2:

Lo scritto di Gabriele de Luca si occupa della rappresentazione dello straniero attraverso la figura del morto vivente in The Walking Dead (AMC, dal 2010). Prima di affrontare direttamente la serie, l’autore ricostruisce brevemente come la figura del morto vivente si presti a divenire nelle produzioni audiovisive contemporanee metafora “dello straniero, e più precisamente del migrante, quello irregolare, che si sposta clandestinamente, che viaggia senza i documenti necessari”. Analizzando le caratteristiche dello zombie, suggerisce de Luca, diviene possibile “riflettere sullo statuto attuale di questa figura” e sulla “rappresentazione dell’altro nei media contemporanei”.
Il classico dilemma circa la vera natura dei morti viventi torna anche in The Walking Dead: queste figure appartengono o meno al genere umano? I morti viventi della serie si presentano trasandati, pallidi, affamati e muti. “Gli zombie, come i migranti ridotti al silenzio dalle culture dominanti, sono muti, incapaci di articolare le proprie rivendicazioni, in grado a malapena di dialogare tra loro”. L’elemento che però sembra accomunare maggiormente zombie e migranti irregolari è la deindividualizzazione. I media rappresentano quasi sempre i migranti, esattamente come gli zombie, come folla, come orda che avanza col fine ultimo di sconvolgere la vita delle comunità civili. Tra le peculiarità della serie esaminata, de Luca individua il fatto che “la presenza dei walkers da stato d’eccezione diventa caratteristica costante di un mondo nuovo, rispetto al quale quello vecchio non è che un ricordo”.

Non so se posso concordare precisamente con il parallelo di De Luca, ma non faccio fatica a trovare corrispondenza tra la percezione dei migranti manifestata da un numero preoccupante di persone e la rappresentazione dei media, spesso congegnata ad hoc (vedi in particolare il discorso della deindividualizzazione) per sottrarre complessità al problema e far leva sulle paure più istintive.

E proprio alla luce di questo mi sono accorto di quanto ha ancora da insegnarci un libro come La Ballata di Beta-2, che ci parla di scontro di civiltà ma inserendo il discorso sui binari dell’incontro, di aspirazioni ottuse all’autarchia e all’isolazionismo che vengono decriptate solo attraverso la ricerca, il confronto e la comprensione, di progresso come un’attitudine da condividere, non come una risorsa da cui escludere l’altro da sé. È un libro denso di insegnamenti, La Ballata di Beta-2. Ecco perché andrebbe letto ancora oggi, e magari fatto leggere soprattutto ai lettori più giovani.

E già che ci sono vi segnalo questa lunga intervista rilasciata da Delany a Rachel Kaadzi Ghansah della Paris Review, in cui vengono affrontati in maniera approfondita numerosi aspetti della condizione umana personale di Delany e della sua scrittura, nonché diversi temi più generali di critica letteraria.

La memoria è uno specchio distorto della realtà. Sembra quasi che un regista occulto decida il montaggio degli eventi, ricollocandoli nel flusso del tempo per alterarne le relazioni, alla ricerca disperata di corrispondenze che spingano un senso ad emergere, anche laddove un senso sembrerebbe non esserci.

La prospettiva non è mai omogenea o neutrale. E in particolare gli episodi nodali, sia su piccola che su grande scala, impongono l’adozione di nuove prospettive.

Ci sono piccoli ricordi, di grande importanza per ciascuno di noi, che risaltano al punto da illuderci di poterli afferrare anche solo allungando una mano. Episodi della nostra infanzia potrebbero esserci capitati ieri pomeriggio, generando un senso di vertigine al nostro ritorno alla realtà — cosa è successo nel frattempo?

Ma tanto più grande è il peso dell’evento, tanto più lontano viene relegato nella prospettiva del tempo. Forse è un meccanismo di autoconservazione adottato dalla nostra mente per mantenere un contatto con la realtà, un dispositivo di autoprotezione per non farsi schiacciare. Gli eventi che segnano il corso della storia impongono un surplus di distacco, non per essere capiti o analizzati, ma semplicemente per essere contemplati nel panorama continuo delle nostre esperienze.

L’11 settembre 2001 ricade in questa tipologia molto rara. Un’altra data potrebbe essere il 9 novembre 1989, che al confronto mi sembra quasi preistoria, qualcosa che ho fatto appena in tempo a vedere o forse mi sono solo ingannato di farlo, caricato dai significati aggiunti dalle letture storiche sui libri che me lo hanno spiegato. E poi ognuno ha le sue.

Ma un evento che rivive moltiplicato nelle memorie di miliardi di persone è necessariamente anche un ricordo condiviso? Oppure non è altro che uno dei tanti elementi di alienazione che — a seconda della diversa posizione che è andato a occupare nel flusso alterato degli eventi nel montaggio delle nostre memorie — contribuisce a definire la diversificazione delle nostre prospettive? Forse è anche per questo che la nostra mente si sforza di prendere le distanze, inserendo quanto più spazio possibile tra il presente e il passato. Per ricollegarci in qualche modo ai nostri simili, per ripristinare un contatto con le altre menti, evitando il baratro della follia.

Ognuno di noi ricorda dov’era e cosa stava facendo quando ha appreso quella notizia, tanto sconcertante da sembrare falsa. Uno scherzo di cattivo gusto. L’11 settembre. Un affronto alla nostra salute psichica, oltre che alla sicurezza pubblica.

Per quanto bene ricordi quel pomeriggio — un accenno colto in treno da uno sconosciuto che aveva appena ricevuto un SMS, e poi le immagini televisive trasmesse in diretta da 6.900 Km di distanza e la spasmodica ricerca di informazioni e analisi dei giorni, delle settimane e dei mesi seguenti, elementi che aiutassero a capire e classificare l’evento, la proliferazione di teorie cospirative e l’effetto domino dello “scontro di civiltà” — mi resta la sensazione che ad oggi siano trascorsi molti più anni dei 14 scivolati via da quell’11 settembre 2001.

Praticamente, una vita fa.

9/11 Tribute Piece by Banksy in Tribeca, New York City.

9/11 Tribute Piece by Banksy in Tribeca, New York City.

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Mi chiamo Giovanni De Matteo, per gli amici X. Nel 2004 sono stato tra gli iniziatori del connettivismo. Leggo e guardo quel che posso, e se riesco poi ne scrivo. Mi occupo soprattutto di fantascienza e generi contigui. Mi piace sondare il futuro attraverso le lenti della scienza e della tecnologia.
Il mio ultimo romanzo è Karma City Blues.

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