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Due notizie a breve distanza l’una dall’altra sono venute fuori negli ultimi giorni. La prima in ordine temporale riguarda l’annuncio di uno studio francese di aver creato dei falsi ricordi tramite stimolazione transcranica su delle cavie di laboratorio addormentate: al risveglio, i roditori sottoposti al trattamento mostravano di “ricordare” posti in cui non erano mai stati prima. La stimolazione è stata attuata durante una particolare fase di attività dell’ippocampo, “la regione cerebrale che funge da substrato neuronale alle mappe mentali che consentono di muoversi in un certo ambiente”. Durante il sonno nei mammiferi avverrebbe infatti un processo interpretato come il consolidamento degli input spaziali, testimoniato da uno specifico schema di onde cerebrali denominate SPW-R (sharp wave ripples). La scoperta delle cosiddette cellule di posizione era stata premiata nel 2014 con il Nobel per la medicina.
Il secondo risultato è stato divulgato da uno studio del Cold Spring Harbor Laboratory (New York) pubblicato da Nature: oggetto dell’articolo è la possibilità di risalire dall’analisi dei tessuti neurali di una cavia morta alle abilità ed esperienze che il soggetto aveva acquisito da vivo. Semplificando, una lettura post-mortem della mente. Anthony Zador, a capo del team di ricerca, ha dichiarato: “[…] è come se avessimo decifrato un pezzettino del codice neurale col quale l’animale archiviava queste memorie. In sostanza, riuscivamo a leggere la mente di questi ratti”. La stessa tecnica potrebbe essere applicata ad altre regioni del cervello, per decifrare altri sensi. “Non vediamo l’ora di applicare questo metodo a forme più complesse di apprendimento e ad altri sistemi sensoriali, come quello alla base della vista”.
Già qualche anno fa due team americani avevano effettuato importanti annunci sulla decodifica di schemi di attivazione neurale legati alla vista e alla parola. Non ci sarebbe da stupirsi dunque se da qualche parte nel mondo, magari in un cupo e freddo seminterrato di qualche prestigiosa università, un dottor Elliott Grosvenor fosse al lavoro con il suo assistente Rundolph Carter, procedendo per tentativi ad apprendere i rudimenti della psicografia.
L’universo è una macchina stupefacente che non cessa di produrre meraviglia. Giunti al livello di indagine cosmologica di questi ultimi anni, potremmo pensare di aver scoperto tutto quello che c’era da sapere, ma ci sono alcune verità, già acquisite dalla scienza, che potrebbero essere sfuggite alla nostra attenzione. Per esempio, che l’universo è più vasto di quanto potremmo normalmente aspettarci da quel che sappiamo della sua età. Se immaginiamo il Big Bang come un’esplosione in grado, 13,798 ± 0,037 miliardi di anni fa, di dispiegare lo spazio e il tempo a partire dalla singolarità primordiale, un punto di densità e temperatura tendenti all’infinito che concentrava tutta la materia e l’energia oggi presenti nell’universo, allora viene naturale immaginare che le dimensioni del cosmo, da un capo all’altro, avranno un limite superiore coincidente con il doppio della sua durata. Questa assunzione trascura invece un risultato importante, che ricaviamo dallo studio di quella che è nota come radiazione cosmica di fondo a microonde (CMB radiation) e dall’osservazione dell’omogeneità manifestata dall’universo su ampia scala e della sua curvatura pressoché nulla, e che ci fa ritenere, salvo alcuni illustri pareri contrari come quello di Roger Penrose (tra i primi sostenitori dell’ipotesi del Big Bang), che l’universo abbia attraversato un periodo iniziale di espansione inflazionaria.
L’effetto di questa fase inflazionaria durata una frazione di secondo (meno di 10-32 secondi, secondo i modelli), durante la quale l’impasto di energia e materia che formava l’universo si sarebbe espanso a velocità maggiori della velocità della luce, è che dalla Terra risulta osservabile una regione sferica con un raggio di circa 46 miliardi di anni-luce, più del triplo quindi della distanza che ci separa dal Big Bang. Ma se ci hanno insegnato che la velocità della luce è una costante fondamentale e una soglia invalicabile, come possiamo vedere qualcosa che, viaggiando alla velocità della luce, dovrebbe essersi verificato 32 miliardi di anni prima del Big Bang?
La risposta scaturisce dalla relatività generale e non comporta alcuna violazione dei vincoli fisici a noi noti. In particolare, i fotoni non stanno viaggiando a velocità maggiori di c, è invece lo spazio in cui si muovono che ha subito uno stiramento, portandolo così a espandersi oltre i confini che avremmo potuto aspettarci. E non è tutto.
Se l’universo è in espansione, ciò che riusciamo a vedere oggi, come si è capito, non è quello che potevamo vedere ieri e non è quello che potremo vedere domani. Il risultato è l’effetto combinato di due fattori: la costante di Hubble e la velocità di espansione dell’universo. La costante di Hubble misura il redshift cosmologico, ovvero la velocità con cui si allontanano da noi le galassie più distanti, e delimita un volume che cresce col tempo, ma ad una velocità decrescente (la costante di Hubble è infatti una costante in termini spaziali, nel senso che ovunque la si misuri in un un dato istante fornirà sempre lo stesso risultato, ma non in termini temporali, e gli scienziati ritengono che il suo valore stia diminuendo nel tempo). L’universo, al contrario, si starebbe espandendo a una velocità crescente, per effetto della cosiddetta energia oscura.
Non abbiamo dati molto precisi a riguardo, ma finché la costante di Hubble si ridurrà a una velocità inferiore rispetto al tasso di crescita della velocità di espansione dell’universo, l’orizzonte dell’universo osservabile diventerà sempre più ampio. Uno dei motivi per cui è così importante capire come funzioni l’energia oscura è proprio questo: da essa dipende anche la nostra comprensione di come evolverà l’universo in futuro, insieme a ciò che di nuovo ci sarà consentito di scoprire o verificare sperimentalmente, e questo avrà inevitabilmente delle ripercussioni sulla nostra comprensione della realtà. Il tutto è spiegato in maniera estremamente chiara e dettagliata dall’astrofisica Vanessa Janek, in un articolo divulgativo apparso su Universe Today e ripreso da io9.
Viviamo in un’epoca usa-e-getta. La velocità ci toglie il respiro. Siamo continuamente incalzati da diverse correnti di novità – una tempesta, a guardar bene – e per farne esperienza siamo disposti a sacrificare tutto. Occorre tenere il passo, per accumulare quanto più ci riesce possibile. Ma per favorire l’accumulo, troppo spesso facciamo un torto al nostro gusto e col tempo rischiamo di disperdere il piacere che si accompagna all’esperienza: sia essa la lettura di un buon libro, la visione di un bel film o l’ascolto di un bel disco.
Lo so, c’è così tanta roba che merita di essere scoperta e apprezzata che è impossibile soffermarsi su tutto. Eppure dovremmo imparare a separare l’attitudine dalla patologia. Bisognerebbe dichiarare guerra alla ricerca spasmodica, esasperata, ossessiva del nuovo, perché ci sono cose che si apprezzano meglio se degustate con calma, lasciandole sedimentare sul palato e nella mente. Cose anche piccole, come questo corto di Peter Lewis, “vecchio” ormai di quattro anni: s’intitola The Camera e a suo tempo (era il 2012) lo scoprii grazie a Fantascienza.com. Ad oggi è l’unica opera nel curriculum del suo regista e sceneggiatore, che volle dedicarlo a una misteriosa ragazza scomparsa a soli 23 anni.
Una casa abbandonata sulla spiaggia, una partitura avvolgente che accompagna una ragazza alla scoperta di una vecchia fotocamera Polaroid, che naturalmente non è quello che sembra. Un espediente per raccontare una storia di fantasmi sull’orlo del tempo, ma anche una storia di ricordi perduti, e di realtà che si annidano in altre realtà…
No, prendetevi otto minuti e godetevelo. E poi magari riservatevi altri cinque minuti per lasciarlo decantare come si conviene a un buon vino. Il corto li vale tutti. E il mondo, là fuori, potrà tranquillamente sopravvivere prima che voi torniate ad occuparvene.
The Camera (short film / original score) from Peter Lewis on Vimeo.
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