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Nuova rassegna dedicata a Corpi spenti e a ciò che si dice in giro sul romanzo.
Ancora una volta grazie a Thriller Magazine, che dedica nuove attenzioni al romanzo con un intervento mirato del compagno Fazarov, alias Fernando Fazzari, dal titolo Corpi spenti, l’equilibrio dell’inquietudine. Non una recensione vera e propria, in quanto oltre che sodale di penna da lungo tempo Fernando è stato anche uno dei motori primi dietro la nascita di questo libro. L’idea di base è nata proprio nel corso di una chiacchierata con lui. Nel tempo poi Fernando non ha mai mancato di somministrarmi input utili, anche attraverso il semplice confronto sulla scrittura nei progetti a cui abbiamo collaborato e che continuiamo a sviluppare insieme. Inoltre è uno dei miei beta reader e come tale è stato direttamente coinvolto nella prima fase di revisione del romanzo. Però trovo estremamente utile la sua testimonianza, soprattutto sul metodo. E a proposito dell’interazione tra fantascienza e romanzo nero, il compagno Fazarov scrive:
Ma come fanno i due generi a mischiarsi con efficacia? Esiste un rischio: che i due generi sorgente, se non correttamente dosati, si rubino spazio rallentando la narrazione, che poi era quello che accadeva in alcuni passaggi di Sezione π² — il romanzo precedente con protagonista Vincenzo Briganti — mostrando il fianco alternativamente ai detrattori di un genere o dell’altro. Ma se in quell’occasione Giovanni se l’è cavata con la forza dell’ambientazione e dello sviluppo dell’idea di base — una Napoli futura dove si muovono agenti capaci di indagare i ricordi dei morti — con questa prova ha raggiunto un equilibrio efficace tra i generi.
La chiave di volta è stata l’inquietudine, vero punto di contatto tra mondi narrativi che l’editoria e il senso comune vorrebbe vincenti in coppia a prescindere. L’anima nera di Corpi spenti è nell’entropia emotiva che divora i personaggi, nelle atmosfere che fanno del sogno mediterraneo di Jean-Claude Izzo un incubo, nella paranoia che si lega chimicamente all’aria e brucia le sinapsi dell’immenso organo neurale che si compone di individui, ambiente e Stato.
Per leggere l’intervento nella sua interezza, vi rimando alla sua rubrica: Sotto la superficie. Leggi il seguito di questo post »
L’ultimo Godzilla ha innescato nella mia testa una catena di associazioni, riportando a galla delle riflessioni che facevo un po’ di tempo fa. Il film si fa apprezzare, soprattutto nella seconda parte con l’accelerazione impressa dallo scontro tra i super-protagonisti della pellicola: il nostro caro vecchio lucertolone atomico eponimo, tornato alle fattezze vintage del kaijū di Ishiro Honda dopo la sterzata giurassica del monster design di Roland Emmerich, e la coppia di M.U.T.O. che ha scelto la Baia di San Francisco per nidificare e proliferare. Catastrofi a tutto spiano, scontri epici e un paio di situazioni davvero perturbanti sono gestite con mano sicura dal giovane regista inglese Gareth Edwards. Pur nella sua continuità con la mitologia della Toho, ho l’impressione che il film sviluppi – con tutte le conseguenze e possibilità di un budget da 160 milioni di dollari – il discorso intrapreso nella sua opera d’esordio, il sorprendente Monsters (2010), costato 300 volte meno. Ed è questo il punto che mi interessa affrontare.
Ovvio che l’impegno produttivo che ha coinvolto Legendary Pictures e Warner Bros. si porti dietro un corredo di condizioni e vincoli a cui è impossibile sottrarsi. Eppure Godzilla tradisce un’autorialità proprio nel suo rapporto con i modelli: il lavoro precedente di Edwards, ma anche altri monster movie recenti come The Mist (2007) e Cloverfield (2008). Insieme, questi film sembrano farsi promotori, ciascuno con sfumature diverse e con le proprie peculiarità, di una riscoperta dell’essenza più antica dell’orrore. Il cinema ci ha abituati a una visione prevalentemente antropocentrica: l’orrore che irrompe nella vita dei protagonisti viene in qualche modo sempre calato in una dimensione umana, di cui acquisisce connotazioni e attributi. Senza allontanarci troppo, pensiamo anche a King Kong, che nelle sue molteplici interpretazioni (inclusa la rilettura di Peter Jackson del 2005) ha assunto via via caratteristiche più umane, narrativamente veicolate dall’impossibile storia d’amore con la preda di turno. Allo stesso approccio possiamo ricondurre lo stesso Pacific Rim di Guillermo Del Toro (2013), in cui addirittura l’umanità si dota di giganteschi robot dalle fattezze antropomorfe (gli Jaeger) per contrastare l’inesorabile minaccia dei kaijū fuoriusciti da un portale sul fondo del Pacifico.
È il kinghiano The Mist a segnare un primo punto di rottura. È vero, per la quasi totalità della pellicola abbiamo lo scontro tra la comunità assediata che degenera sempre più lungo la spirale della paranoia e della follia e le creature misteriose (aliene? sovrannaturali?) che hanno invaso il mondo. Ma nell’incontro con la Creatura che li spinge alla decisione estrema, che rende amarissimo un finale che non avrebbe potuto essere più nero, i protagonisti riconoscono un ordine superiore: nessuna connotazione religiosa, come la lettura salvifica già tentata dai sopravvissuti da cui si sono allontanati; solo l’ammissione della minutezza dell’uomo di fronte alle forze espresse da una natura a cui è stato puro delirio ambire di imporre le proprie leggi.
In Cloverfield accade qualcosa di simile e al contempo diverso. Innanzitutto lo stile di regia scelto da Matt Reeves e J.J. Abrams per raccontare la storia – una ripresa diretta in stile Blair Witch Project – amplifica i canali di immedesimazione dello spettatore nelle vicende che coinvolgono i personaggi, in lotta contro l’ignoto per sopravvivere in una New York trasformatasi nella periferia dell’inferno. Ma soprattutto ciò contro cui devono battersi non è il mostro che imperversa sulle strade sprofondate nelle spire di una notte senza termine, ma l’ecosistema che si accompagna al mostro marino. Nello scontro con i suoi parassiti si compie il ricollocamento dell’uomo nella catena alimentare: veniamo riassorbiti nella lotta spietata che muove una natura sempre più vendicativa. Come già accaduto tra le nebbie di Stephen King e Frank Darabont, la legge che siamo costretti a riscoprire è quella antica dell’homo homini lupus.
Ma forse è in Monsters che questa visione raggiunge il suo culmine. L’ecosistema alieno prosperato in Centro-America, e da qui irrotto oltre il confine a violare l’integrità del territorio americano, esprime l’apoteosi di questa metafora. L’uomo in balia di una natura incomprensibile, che si rivela letale mai in maniera intenzionale ma sempre per qualche errore di valutazione commesso dall’umanità stessa. L’uomo che è costretto a riscoprirsi straniero a casa sua, alieno sul suo stesso pianeta, in lotta ancora una volta contro l’estinzione. L’immagine più efficace resta quella del corteggiamento delle due gigantesche creature, del tutto incuranti degli umani nei paraggi. Un’immagine che risalta con violenza in contrapposizione all’unica reazione che gli umani e le loro istituzioni (nel caso in questione, le forze armate) sono in grado di opporre all’ignoto che sfugge alla loro comprensione. L’intuizione stilistica di Edwards di montare l’offensiva in apertura e in maniera speculare ma cronologicamente ribaltata la surreale bellezza del corteggiamento alieno nel finale, può essere letta come una scelta organica e funzionale a dipingere il nuovo ordine delle cose con cui ci tocca fare i conti.
Godzilla prosegue su questa strada, simile fin dalla locandina al Colosso di Francisco Goya. Gojira non è qui per noi. A svegliarlo dal suo sonno abissale sono state delle creature che appartengono al suo stesso ordine e ne minacciano il predominio sulla Terra, mettendo in discussione il suo ruolo di predatore alfa. Noi esseri umani, tutt’al più, siamo le vittime collaterali della caccia. Questo è quanto. E sì, qualora ve lo stiate chiedendo, quella che si staglia all’orizzonte, emergendo dalla linea dell’oceano in tempesta, è proprio l’ombra maestosa di H.P. Lovecraft contornato dal suo pantheon:
Penso che la cosa più misericordiosa al mondo sia l’incapacità della mente umana di mettere in relazione i suoi molti contenuti. Viviamo su una placida isola d’ignoranza in mezzo a neri mari d’infinito e non era previsto che ce ne spingessimo troppo lontano. Le scienze, che finora hanno proseguito ognuna per la sua strada, non ci hanno arrecato troppo danno: ma la ricomposizione del quadro d’insieme ci aprirà, un giorno, visioni così terrificanti della realtà e del posto che noi occupiamo in essa, che o impazziremo per la rivelazione o fuggiremo dalla luce mortale nella pace e nella sicurezza di una nuova età oscura.
Il richiamo di Cthulhu (1926)
Abbiamo visto nella prima parte di questo doppio articolo come si può intervenire lato sorgente per massimizzare la comunicatività di un testo. Andiamo ad esaminare ora cosa succede invece dal lato del destinatario, prendendo spunto per tentare quello che in gergo si chiama reverse engineering.
Partiamo quindi da quello che sembra funzionare. Scelgo un approccio possibilistico e tutt’altro che definitivo in quanto nessuno può vantare in quest’ambito di detenere la formula segreta del successo: in caso contrario non ci sarebbe bisogno di riflettere e interrogarsi, come stiamo facendo qui adesso, ma basterebbe piuttosto applicarla pedissequamente (e magari custodirla con gelosia per evitare che finisca nelle mani della concorrenza).
Il punto con la scrittura è che tutto ciò che scriviamo, sia esso un racconto, un romanzo o un articolo, in realtà non è altro che un canale, un veicolo attraverso cui un messaggio (il testo) viaggia dalla sorgente (chi scrive) alla destinazione (chi legge), rischiando in continuazione di perdersi andando a scontrarsi con i molteplici ostacoli che gli si frappongono lungo la strada. Il problema sulla resa del messaggio, la sua efficacia, il modo in cui viene elaborato e accolto, può essere scomposto in due sotto-problemi, analizzando prima il mittente e poi il destinatario.
Partiamo dall’inizio. Il contenuto di informazione è una grandezza definita come inversamente proporzionale alla probabilità dell’evento a cui è associata. Per estensione, possiamo intuire che l’importanza di un’informazione è tanto maggiore quanto minore è la sua familiarità con la nostra esperienza. Ma, ancora più intuitivamente, quanto meno un concetto (un’idea, un’immagine, una formulazione) è popolare tanta più fatica richiede al destinatario per decodificarla e comprenderla. Chi scrive non dovrebbe mai dimenticare questa semplice regola, ma al contrario dovrebbe continuare a tenderla d’occhio: le imprese più audaci vanno agevolate, opportunamente costruite per poter centrare il bersaglio e scongiurare il rischio di smarrimento nell’oblio delle velleità. Leggi il seguito di questo post »
Corpi spenti è in edicola ormai da dieci giorni e la sequenza di segnalazioni si allunga. Questa volta è stato il turno di Fantascienza.com, il portale italiano della fantascienza, che ringrazio attraverso le persone del direttore Silvio Sosio e del caporedattore Giampaolo Rai:
La Napoli del 2061 immaginata da Giovanni De Matteo è sempre una metropoli di stridenti contrasti. Innovazioni tecnologiche e degrado si mescolano in un insieme assediato dal kipple, la cintura di spazzatura semi-senziente che circonda la città. A peggiorare le cose un difficile momento politico. L’unità d’Italia è a rischio: trame non chiare si stanno compiendo e non sembrano preludere a nulla di buono.
Del libro, attraverso un servizio sulla presentazione tenuta a Bellaria lo scorso maggio, si è parlato anche su La Zona Morta grazie alla cronaca meticolosa e puntuale dell’amico Filippo Radogna:
“Il romanzo – ha fatto presente De Matteo – è un future noir nel quale la trovata fantascientifica è più di un pretesto e svolge un ruolo funzionale alla trama. Si tratta appunto della facoltà, concessa dall’avanzamento della tecnologia e delle conoscenze umane nel campo neurocognitivo, di passare allo scanner la memoria dei morti. Nel romanzo – ha quindi proseguito – si avverte l’influsso del cyberpunk e la stessa trovata fantascientifica dell’indagine psicografica, che ho pensato come metafora delle conseguenze rivoluzionarie di un’ipotetica Singolarità Tecnologica, ha una forte connotazione post-cyberpunk, con qualcosa di più delle sfumature post-human. Proprio dall’amalgama di questa eterogeneità culturale emerge il carattere più connettivista del romanzo”.
Dopo questo gioco ricorsivo di citazioni, torniamo in orbita thriller. Anche Thriller Café, tra i più seguiti e attenti blog dedicati alla letteratura poliziesca, in tutte le sue sfumature dal giallo al nero, ha segnalato Corpi spenti sulle sue pagine. Grazie a Giuseppe Pastore.
E infine torniamo a Thriller Magazine, che proprio oggi ospita un mio intervento sulle contaminazioni tra i generi, nel quale – ancora una volta grazie a Lucius Etruscus che mi ha suggerito l’argomento – prendo spunto dalla natura del romanzo per parlare delle affinità elettive tra crime e science fiction. Buona lettura!
La settimana si apre con una tripla segnalazione. La prima è all’insegna del brivido su Thriller Magazine, che annuncia l’uscita di Corpi spenti dedicando al romanzo la notizia di apertura (a firma di Lucius Etruscus, che ringrazio per l’attenzione prestata al libro e per le lusinghiere parole nei confronti del predecessore Sezione π²).
La seconda su Booksblog, dove Monica Cruciani, alias AyeshaKru, traccia un meticoloso identikit del sottoscritto, passando ai raggi X le mie due uscite di giugno: oltre a Corpi spenti, infatti, c’è anche la ristampa digitale de Il lungo ritorno di Grigorij Volkolak per Robotica.it.
E per finire una recensione flash di Daniele Barbieri, di cui riporto un estratto:
Siamo nel Sud di un’Italia federale, dalle parti del 2061, bicentenario dell’Unità. La terza guerra mondiale è alle spalle, meno catastrofica del prevedibile ma il mondo fa comunque schifo. La «Pi quadro» è una polizia speciale – dopo 11 anni in via di smantellamento? – «psicografica» capace di recuperare (in parte) ricordi e informazioni dai morti. E su questi «necromanti» più non vi dirò. Con un buon ritmo Giovanni De Matteo ci guida nelle toste indagini dell’ispettore capo Corrado Virgili, detto Guzza, di Vincenzo Briganti e di altri sbirri quasi super: fra droghe «ad assimilazione ultrarapida», mafie russe, il «regressionismo» del reverendo Giona Fleischer,«soldati universali», cadaveri ibernati e molto altro. Difetti? Come nel precedente romanzo vi è qualche eccesso di stereotipi ma per chi ama il cyberpunk e i suoi cugini è lettura obbligata.
Per farmi infine perdonare la svista su Miles Davis (che a pag. 76 viene accidentalmente sostituito da un ultracorpo proveniente da un universo parallelo), faccio pubblica ammenda e mi congedo con questo brano:
Il giorno è arrivato! Da oggi potete trovare in edicola Corpi spenti: un distillato purissimo di angoscia urbana post-cyberpunk da centellinare con cura. Il volume cartaceo targato “Urania” sarà disponibile per tutto il mese di giugno, a richiesta dal vostro edicolante di fiducia. L’edizione digitale del romanzo resterà inoltre disponibile al download sui principali store on-line: Amazon, BookRepublic, IBS, inMondadori, LaFeltrinelli, a seconda dei vostri gusti e delle vostre adesioni ideologiche. In attesa della copertina del volume, eccovi intanto la copertina proprio dell’e-book, a firma di Franco Brambilla:
La quarta:
Nel 2049 sono cominciate le operazioni della Sezione Investigativa Speciale di Polizia Psicografica, un gruppo di agenti che possono estrarre informazioni dai morti, recuperandone la memoria. Sono i necromanti e il loro uomo di punta, Vincenzo Briganti, ha risolto nel 2059 il caso battezzato ufficiosamente Post Mortem (ma pubblicato su “Urania” come Sezione π²). Ora siamo nel 2061, anno del bicentenario dell’Unità italiana, e la Bassitalia sta per secedere dal resto del paese “come una coda di lucertola”. Sulla manovra gravano pesanti ipoteche, perché qualcuno pensa di trasformare il Territorio Autonomo del Mezzogiorno in una vera e propria riserva di caccia per i signori della nuova società feudale. Briganti e i suoi colleghi avranno poco meno di un mese per scoprire tutti gli intrighi ed evitare che il Territorio si trasformi in un ghetto tecnologico per schiavi del lavoro… o molto peggio.
Corpi spenti è un libro che si chiude sulla prospettiva di un abisso cosmico. Oltre al noir, alla spy-story, alla fantascienza di derivazione cyberpunk, alle suggestioni post-human, abbiamo anche un richiamo alla più classica fantascienza spaziale. Poche pagine, che però dovrebbero bastare per dare un’idea della complessità dello scenario di questo mondo, dietro le quinte di ciò che vediamo in scena. E che forse potrebbero tornare a essere esplorate, con maggiore accuratezza, nel futuro.
A questo proposito trovo paradigmatica la seguente battuta estratta da Angeli spezzati di Richard K. Morgan:
«Ci pensi, Kovacs. Stiamo bevendo caffè così lontano dalla Terra che le sarebbe difficile distinguere il Sole nel cielo notturno. Siamo stati portati qui da un vento che soffia in una dimensione che non possiamo né vedere né toccare. Immagazzinati come sogni nella mente di una macchina che pensa in modo tanto più evoluto dei nostri cervelli che potrebbe persino portare il nome di dio. Siamo risorti in corpi che non sono i nostri, cresciuti in un giardino segreto lontano dal corpo di ogni donna mortale. Sono questi i fatti della nostra esistenza, Kovacs. Mi dica, in cosa sono diversi, o meno mistici, della fede che esista un regno dove i morti vivono in compagnia di esseri talmente al di là di noi da essere costretti a chiamarli dei?»
Oggi si chiude questo ciclo di articoli che ci ha tenuto compagnia nelle ultime due settimane. Corpi spenti si appresta ad atterrare in edicola e in versione e-book su Amazon e sugli altri store on-line, dove potrete facilmente recuperare la vostra copia (il volume cartaceo di Urania, vi ricordo, resterà disponibile fino a fine mese). Se ne avrete voglia potrete passare da queste parti per farmi avere la vostra opinione sul libro.
Ci leggiamo nel futuro.
Edward Hopper e Albert Watson rappresentano il contraltare iperrealistico dell’estetica fantastica di Beksinski.
Nei quadri di Hopper il soggetto umano si riduce a un mero pretesto per suggerire una storia, una situazione, che spesso abbraccia i luoghi (la città come la campagna, New York come il paesaggio rurale del New England) e li riguarda più strettamente di quanto non faccia con le persone. Le figure, spesso sgraziate, ancora più spesso anonime, servono quasi a ricordarci chi sia il vero protagonista della tela: al posto degli uomini e delle donne che Hopper dipinge potrebbe esserci chiunque di noi. E la discrezione dell’artista è tale da far sembrare la loro presenza una coincidenza in un determinato punto dello spazio e del tempo. Tutti sembrano congelati nell’attimo eterno di un’attesa che potrebbe non finire mai. E intorno a loro si dispiega un universo fatto di milioni di storie che sappiamo essere identiche senza nemmeno vederle, immerse in una natura distaccata (anche i tramonti di Hopper, lungi dalla quiete, sembrano portare con i contrasti turneriani di luce e di ombre presagi più sinistri di quanto saremmo disposti a tollerare) o in una città aliena (ridotta alla verticalità delle superfici e attraversata secondo le fughe prospettiche delle ferrovie sopraelevate).
Watson riprende la lezione iperrealista di Hopper e nei suoi panorami notturni o crepuscolari, nelle stanze d’albergo di Las Vegas, nelle celebrità e nelle muse fetish che si lasciano catturare dal suo obiettivo, codifica una dimensione nuova e criptica, in un rincorrersi di suggestioni che rievocano il surrealismo tanto caro a J.G. Ballard. Consiglio la lettura di questo brano di Watson, utile riflessione sulla tecnica e l’esperienza che si può tranquillamente estendere al di là dei confini della fotografia:
Sperimento e mi muovo in molte direzioni diverse, non solo perché sento di poterlo fare ma perché amo questo eclettismo della visione. In un periodo difficile per me, negli anni Settanta e forse anche nei primi anni Ottanta, mi sono molto impegnato a cercare di risolvere una serie di possibili questioni tecniche legate alla fotografia non tanto perché fossi affascinato dalla tecnica, ma perché sentivo un’urgente necessità di sviluppare determinate possibilità creative che avevo chiare in mente e, come sempre in fotografia, riesci a realizzare meglio le cose che vuoi se hai un’eccellente padronanza tecnica. Saper fare: questo è importante; come saper dominare tutti gli aspetti. Quando sei stato fotografo per molto tempo, impari ad utilizzare soluzioni diverse, strade diverse, chiavi e percorsi alternativi, non soltanto dal punto di vista tecnico, ma anche creativo ed emotivo. Se hai un problema particolare da risolvere, puoi far riferimento alla tua esperienza passata e da lì scegliere. Questo rende la tua vita più semplice. Certo, non si smette mai di imparare e più diventi bravo tecnicamente, più il tuo metodo di lavoro diventa fluido. Possiedi un’esperienza emotiva e creativa e quando ti serve, puoi usarla.
Altri tre film, non di fantascienza.
Da Heat – La sfida, capolavoro poliziesco di Michael Mann del 1995: la precisione del meccanismo drammatico e il realismo dell’indagine.
Da Nemico Pubblico di Tony Scott (1998): la costruzione di momenti clou, con situazioni che fungono da punti di svolta della trama.
Da La promessa dell’assassino di David Cronenberg (2007): le dinamiche della mafia russa Vor V Zakone. Soprattutto in relazione a Sulle ali della notte.
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