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Sul nuovo numero di Delos, on-line in questi giorni con la consueta messe di articoli a cui Carmine Treanni ci ha abituati (l’indice è davvero ricco, ne cito almeno altri due: l’intervista rilasciata da Altieri a Fabio Novel su Terminal War, di cui parlavamo pochi giorni fa, e le riflessioni del compagno Fazarov sulla valenza di Gravity come “blockbuster d’autore”), trovate anche un mio pezzo molto atipico.
In un certo senso Zeitgeist 1980: la memoria dalle ceneri è un pezzo su commissione. Se Salvatore Proietti, critico e amico, non avesse insistito perché lo scrivessi, probabilmente non mi sarebbe mai venuto in mente di cimentarmi con una roba del genere. Fatto sta che la recente ristampa di Cenere alla cenere sul numero estivo di Robot offriva in effetti il pretesto per ripercorrerne la genesi. L’articolo ne ricostruisce il background, dall’idea originale alla stesura, passando soprattutto per le molteplici fonti di ispirazione e l’immancabile lavoro di documentazione e ricostruzione d’epoca. Un’esperienza collettiva che lo rende in effetti un racconto totale, oltre che una delle cose a mio parere più riuscite che siano uscite dal mio word processor.
Ed è anche un modo per ricordare quanto di buono si possa fare con un blog. E tutto grazie a uno Strano Attrattore, pace all’anima sua…
Un po’ di musica per accompagnare la lettura.
Qualche anno fa l’artista Anders Ramsell ha avuto un’idea singolare: ricreare con la tecnica dell’acquerello le scene di Blade Runner, film tratto nel 1982 dal romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep? di Philip K. Dick. L’opera di Ridley Scott ha contribuito in maniera determinante a definire il ruolo della fantascienza nell’immaginario contemporaneo, aprendo la strada alla penetrazione dell’estetica e delle tematiche cyberpunk. E il proposito di Ramsell, che nasceva dalla naturale ma velleitaria ambizione alimentata dall’ossessione del fan, poteva “sfogarsi” in una manciata di tavole in omaggio alla forza visionaria del capolavoro del cinema distopico di fantascienza.
Invece Anders Ramsell non si è lasciato scoraggiare dalla portata titanica del progetto. E oggi, 12.597 acquerelli dopo, i suoi lavori dipinti a mano su pellicole da 1,5 x 3 cm formano una “personale parafrasi da 35 minuti” del capolavoro di Scott. “L’incredibile tributo di un fan“, come è stato definito dalle colonne di Popular Science. Un lavoro straordinario, denso di suggestioni impressioniste, impregnato di una sensibilità degna del surrealismo, che in qualche misura richiama la reinterpretazione animata dei dipinti di Van Gogh, rivelando quanto creativo possa essere il bordo d’intersezione tra le arti.
Ma ora bando alle ciance e gustatevi Blade Runner, come non l’avete mai visto…
[Via Tor.com.]
Ecco quello che definirei un post di servizio. A un mese dall’apertura di Holonomikon, con un bagaglio di 14 post, le differenze tra il nuovo blog e il vecchio Strano Attrattore saranno piuttosto palesi, ma trovo utile riepilogare in un post le nuove regole.
Innanzitutto, lì le categorie erano ben 20 e nel tempo la classificazione si era stratificata a tal punto da rendere spesso inevitabile il ricorso a più d’una categoria per contrassegnare una blog entry. Scopo che, invece, dovrebbe essere assolto dai tag. Nella mia pianificazione del nuovo blog, ho pensato quindi di stringere il legame tra i tag e gli argomenti per tracciare il contenuto tematico dei vari post, usando invece le categorie come delle “etichette di genere”, ovvero i faldoni in cui li avrei archiviati se fossero stati appunti presi su carta, oppure gli scaffali su cui conservarli se fossero stati stampati in fascicoli.
Quindi, in prima battuta, un po’ come già fatto durante la proficua e utilissima parentesi – benché non popolarissima – di HyperNext (o almeno del suo primo ciclo-vita), ho pensato di ridurre le categorie al minimo necessario.
- Imaginarium: una panoramica su letteratura (senza confini di genere), cinema, serie TV, arte e musica. In questa categoria appariranno recensioni, riflessioni, brevi saggi o segnalazioni.
- Reality Studio: segnalazioni legate all’attualità o rimandi alla prospettiva storica. Qui potreste trovare considerazioni su eventi specifici, oppure notizie provviste (ai miei occhi, ovviamente) di connessioni ai territori dell’immaginario a cui siamo maggiormente interessati.
- ROSTA: avvisi & novità che riguardano più da vicino l’attività del blog e del vostro blogger affezionatissimo.
- Transizioni: articoli legati a tematiche scientifiche o tecnologiche, specie se promettono potenziali ricadute future oppure innescano un cortocircuito con il nostro immaginario di riferimento.
- Agitprop: articoli di (vaga) critica sociale e (all’occorrenza) politica.
- Connettivismo: spunti e riflessioni che possono interessare da vicino il movimento e la sua evoluzione.
- Criptogrammi: varie & eventuali. In altre parole, potremmo dire: tutto il resto. Scrittura, estratti, work in progress, etc.
Il blog, com’è sotto gli occhi di tutti, è ancora in fase di allestimento. Manca per esempio ancora un blogroll, che metterò su al più presto. Tra le mie intenzioni ci sarebbe anche quella di realizzare post più agili rispetto alla media dei post dello Strano Attrattore. Come nella precedente esperienza, comunque, non cercherò di darmi una frequenza precisa di aggiornamento. Mal sopportando le gabbie, scriverò comunque appena potrò, sempre che ci sia qualcosa da dire. Quindi nessuna cadenza periodica, nel caso ve lo foste chiesti.
Inoltre, nei limiti della decenza, ci saranno dei recuperi/aggiornamenti dagli archivi del vecchio blog, in cui pescherò dagli argomenti a cui sono in qualche modo più affezionato e, se ce ne sarà occasione e modo, provvederò eventualmente all’integrazione con materiale nuovo di zecca.
Ma questo post nasce anche per raccogliere spunti, suggerimenti, consigli e preferenze. Quindi usate pure lo spazio dei commenti per farmi sapere come la pensate. E grazie in anticipo.
Se ci fosse una categoria dedicata ai ferri del mestiere, questo pezzo meriterebbe di finirci per direttissima. Rubando la formula a Stephen King, potremmo chiamarla toolkit, ovvero “la cassetta degli attrezzi”. Sfortunatamente Holonomikon non è equipaggiato di categorie così specifiche, quindi ho pensato di dirottare il post di oggi nella categoria più generica dedicata alla scrittura connettivista.
Il post è più che altro una segnalazione di questo articolo apparso su io9 qualche tempo fa, in cui Charlie Jane Anders riprendeva la sua esperienza per regalarci qualche consiglio utile nella difficilissima – e rischiosissima – arte di scrivere narrativa breve. In sintesi:
- Il world-building deve essere veloce e spietato: descrivere lo scenario senza compiacimento, in maniera precisa e diretta, evitando le divagazioni. Applicazione pratica: prediligere i piccoli riferimenti “obliqui” agli excursus chilometrici.
- Il racconto deve convincere il lettore che ci sia un mondo intorno ai personaggi: la profondità dello scenario non deve insomma essere sacrificata, e questo sottolinea l’importanza del punto precedente. Consiglio pratico: mostrare qualcosa che non sia direttamente collegato alle ossessioni dei protagonisti.
- Lasciare delle zone inesplorate nella caratterizzazione dei personaggi. Non esagerare, insomma, nei dettagli psicologici o biografici, tralasciando in special modo quelli insignificanti ai fini della storia.
- Introdurre il problema appena possibile, ma senza forzare la mano. Salvo rari casi, l’esposizione della prova che dovrà affrontare il protagonista a partire dalla prima frase è da evitare tanto quanto le classiche dieci pagine di inutile tergiversare che contraddistinguono la scrittura di un principiante. Dopotutto il racconto non è un articolo scientifico, e lo storytelling impone delle regole nel coinvolgimento del lettore.
- Sperimentare nella forma. La short fiction è una forma narrativa piuttosto flessibile, che si presta bene ai giochi del postmoderno, così come pure a una varietà di altre declinazioni. Senza dimenticare poi che la lunghezza della short story è definita convenzionalmente dalla Science Fiction and Fantasy Writers of America in un massimo di 7.500 parole, ma che la forma breve include anche la cosiddetta flash fiction (meno di 300 o al massimo 1.000 parole), o espressioni ancora più estreme come la sudden fiction dei microracconti o romanzi in sei parole. Altrettanto consigliato per chi scrive racconti è confrontarsi con tecniche narrative diverse. Ne approfitto per includere un link a una risorsa di rete molto utile, un riepilogo dei fondamenti della narratologia.
- Pensare oltre il genere. Se il romanzo “contaminato” comincia a essere guardato con sospetto (una triste verità soprattutto per gli editori italiani), ibridazioni tra generi e convenzioni potrebbero avere maggior fortuna nella narrativa breve, che richiede in investimento di fiducia e risorse più… contenuto. Quindi sotto con racconti di fantascienza scritti come se fossero dei film indipendenti (Primer vi dice niente? Donnie Darko?). Se avete qualche dubbio, nei suoi racconti Paul Di Filippo vi mostra come fare. Recuperate qualche antologia uranica o elariana e divertitevi.
- Non confondere lo stratagemma con la trama. Lo stratagemma è l’idea e può essere la trovata più originale, brillante, geniale nella storia dell’immaginario. Ma non è il plot. L’idea può essere un ritrovato in grado di stravolgere la vita delle persone. Il plot è come quell’aggeggio stravolge la vita delle persone, e in particolare come la stravolge nella storia che stiamo raccontando. E come si adeguano, o reagiscono, i nostri personaggi.
- Evitare la dicotomia trama/personaggi. Ovvero, per dirla come mangiamo, non scadere nelle semplificazioni che portano a contrapporre le storie incentrate sui personaggi e quelle orientate alla trama. Queste sono solo delle ipotesi riduttive rese popolari dai corsi di scrittura creativa. La scrittura è più complessa di così. E la vostra storia merita sicuramente di meglio, che essere incasellata in uno scaffale ideale.
Un “decalogo in otto punti” che tengo buono per i racconti che mi aspettano.
Non leggo molta narrativa in lingua originale, sicuramente non quanto dovrei e vorrei. Articoli sì, molti: sicuramente la parte più abbondante della mia razione quotidiana è in inglese. Ma con la narrativa il mio istinto tende a frenarmi: il dubbio che il SNR vada pericolosamente a zero troppo spesso si rivela un ostacolo bloccante. Poi, di tanto in tanto, mi capita di leggere un racconto come Immersion, di Aliette de Bodard, vincitore di due tra i più prestigiosi premi del settore (il Nebula e il Locus) per la miglior storia breve dell’anno. E realizzo due cose.
La prima, che ci sono racconti magnifici, magari non ancora tradotti in italiano, che sanno farsi apprezzare anche nella loro forma originale con uno sforzo davvero minimo. La seconda, che non dovrei cercare di nascondere la mia pigrizia dietro astruse metafore tecno-ingegneristiche…
Comunque sia, Immersion è un racconto che parla di emarginazione e alienità, ambientato in una società galattica dai forti connotati postumani, scritto con una maestria stupefacente. Aliette de Bodard (questo il suo sito personale) è un’autrice che merita attenzione: di origine franco-vietnamita, vive a Parigi, dove lavora come ingegnere informatico, e negli ultimi anni si è andata conquistando una popolarità crescente con i suoi racconti di fantascienza e i romanzi del ciclo Obsidian and Blood, una saga mystery sospesa tra fantastico e storia alternativa, ambientata in un mondo dominato dalle culture azteca e cinese. Odissea Fantascienza ha recentemente dato alle stampe la sua novella del 2012 On a Red Station, Drifting (con il titolo Sulla Stazione Rossa, alla deriva), ambientato nello stesso universo di Immersion, che peraltro sarà invece incluso nel prossimo numero di Robot. Di madrelingua francese, De Bodard scrive le sue storie in inglese, e il suo caso richiama alla mente quello di altri autori che negli ultimi tempi hanno saputo meritarsi l’attenzione degli appassionati anglofoni di science fiction: due su tutti, Ken Liu (cinese trapiantato in America, classe 1976) e Hannu Rajaniemi (finlandese emigrato in Scozia, classe 1978).
Sulla sua esperienza di scrittrice, Aliette de Bodard ha scritto numerosi articoli, tra i quali penso che almeno un paio dovrebbero risultare di interesse per chiunque voglia cimentarsi come autore in una lingua che non sia la propria: questo sul rapporto tra lingua e cultura, e quest’altro ispirato dalla sua professione di autrice.
Immersion è apparso originariamente sul numero 69 di Clarkesworld, datato giugno 2012. Clarkesworld è una delle riviste più vitali del panorama fantascientifico odierno e ha il non trascurabile merito di rendere disponibile sul suo sito web – in forma del tutto gratuita – la narrativa pubblicata mensilmente in ogni nuova uscita del magazine. Una ragione in più per dedicare un’oretta del vostro tempo a questo racconto, se proprio non riuscite ad aspettare l’uscita di Robot. Scommettiamo che saprà ripagare la lettura fino all’ultimo minuto?
L’altro giorno è uscita su Fantascienza.com la mia recensione all’ultimo romanzo di Alan D. Altieri: Juggernaut. Si tratta di un romanzo seminale, non solo perché innesca la nuova saga del maestro italiano del techno-thriller (una pentalogia, denominata Terminal War), ma perché impone un nuovo standard per chiunque oggi in Italia voglia confrontarsi con la scrittura di genere, e in particolare con la fantascienza.
En passant, questo articolo è anche il 300° che scrivo per Fantascienza.com (li trovate tutti in ordine quaggiù). E l’anno prossimo saranno 10 anni di collaborazione. Nel mio piccolo, comunque una milestone.
“Ma Kennedy non è già morto?”¹ Il capitano Webster studiava i documenti sparsi sul tavolo anatomico del dottor Nathan. Questi erano: 1) spettroeliogramma del Sole; 2) verifiche della pista e prove di decollo per la superfortezza B-29 Enola Gay; 3) elettroencefalogramma di Albert Einstein; 4) sezione trasversale di un trilobite precambriano; 5) fotografia della battigia della depressione di Qattara, in Egitto, scattata a mezzogiorno del 7 agosto 1945; 6) il Giardino trappola per aerei di Max Ernst. Si voltò verso il dottor Nathan: “Lei dice che tutto questo costituisce un’arma omicida?”.
¹ L’assassinio di Kennedy è un evento che ha un ruolo centrale in La mostra delle atrocità: per molti versi il libro trae diretta ispirazione da questa morte, anzi rappresenta un tentativo, forse disperato, di dare un senso a questa tragedia, con tutti i misteri che essa si porta dietro. Sono stati i mass media che hanno creato il Kennedy che conosciamo, e la sua morte rappresenta una frattura geologica nel panorama delle comunicazioni: essa ha creato fratture che sono scese in profondità nella psiche collettiva, e non si sono ancora sanate.
[…]
Comportamento sessuale dei testimoni della Dealey Plaza. Sono stati condotti studi particolareggiati sui 552 testimoni presenti nella Dealey Plaza il 22 novembre (Relazione Warren). I dati indicano una significativa tendenza all’aumento di: a) frequenza dei rapporti sessuali; b) incidenza di comportamenti perversi polimorfi. Questi risultati sono in accordo con precedenti studi del comportamento sessuale di spettatori di gravi incidenti automobilistici (minimo un morto). Le corrispondenze tra i due gruppi sotto osservazione indicano che, per la maggioranza degli spettatori, gli eventi della Dealey Plaza vennero inconsciamente percepiti come un disastro automobilistico di massa con implicazioni sessuali multiple, con conseguente liberazione di energie aggressive e perverse polimorfe. Il ruolo della signora Kennedy, e dei suoi vestiti macchiati, non richiede ulteriori analisi.
“Ma io non piangerò finché tutto non sarà finito.”
[Da J.G. Ballard, La mostra delle atrocità (The Atrocity Exhibition, 1970-1990), trad. Antonio Caronia, ed. Feltrinelli Universale Economica, ottobre 2001]
Spazio, diciannove anni dopo. La notizia che il governo di Sua Maestà starebbe pensando di avviare il progetto per uno spazioporto in Scozia, da aprire ai voli commerciali già a partire dal 2018, non è poi così peregrina come potrebbe sembrare (a patto di sorvolare sull’indecente fantasia dei titolisti italiani). L’industria spaziale britannica vale già oggi 12 miliardi di euro all’anno: cifra che, se da un lato rappresenta ancora una virgola di un PIL stimato in circa 2.500 miliardi di euro, è al contempo abbastanza promettente per ragionare su uno sviluppo che di qui al 2040 la porti a valere oltre il triplo, attestandosi sul 10% del valore mondiale del settore.
Il proposito è più che velleitario. Anche se il turismo spaziale dovesse restare un business d’élite, la crescente presenza umana nell’orbita circumterrestre dovrebbe provocare una ricaduta intensa su tutto l’indotto: dall’approvvigionamento di beni di prima necessità ai servizi. Basta buttare lo sguardo appena più in là per cominciare a intravedere un’espansione commerciale in piena regola, richiamata oltre che dall’esclusività della location anche dalla promessa di risorse minerarie in quantità tale da innescare la nuova corsa all’oro.
Forse lo sviluppo della Nuova Frontiera sarà dopotutto prosaico e sporco (di olio, se non di polvere) come quello della frontiera che ci siamo lasciati alle spalle, cavalcando verso ovest. E secondo alcuni sarà azzardato impostare questa rincorsa su tempi così brevi. Ma saper guardare al futuro per coglierne le opportunità è forse la migliore attitudine in un periodo di crisi. Dal momento che i maggiori spazioporti aperti ai voli privati sono oggi situati in località di non facilissima accessibilità, pensare di costruire il primo spazioporto europeo a un’ora di volo da Londra potrebbe assicurare, al di là di un pur atteso ritorno d’immagine, un posto in prima fila nello sfruttamento di un mercato completamente vergine. E probabilmente provvisto di un potenziale senza precedenti nella storia dell’umanità.
O almeno questo è quello che ho pensato stamattina, imbattendomi in questa segnalazione da Tor.com: il mondo visto dall’immenso Vincent Van Gogh, ricreato attraverso i suoi quadri. Su Van Gogh la redazione del blog richiama in effetti una puntata di Doctor Who che è in assoluto una delle avventure più belle, poetiche ed emozionanti vissute dal Dottore (almeno tra quelle che ho visto io): Vincent and the Doctor, 10° episodio della quinta stagione nuova serie.
Forse l’idea mi è nata proprio da là, oltre che da un’altra mezza dozzina di fonti sparse d’ispirazione, fatto sta che qualche mese fa iniziavo a pianificare un racconto su un falsario reclutato per ricreare ex-novo i quadri di un noto pittore di Cape Cod, al fine di replicarne il punto di vista e con esso la meraviglia della scoperta e l’emozione della prima volta a beneficio di un facoltoso committente, ammiratore dello sfuggente artista.
Probabilmente, come spesso mi capita, se avessi letto la notizia mentre stavo già scrivendo il racconto, l’avrei mollato lì a metà strada e le pagine già scritte sarebbero state fatica sprecata. L’effetto collaterale della realtà, come appunto accade. Per fortuna, il racconto si era già scritto da solo in un paio di sere, non più di due settimane fa, e da allora è in buone mani. Stavolta l’alba non mi ha portato sconforto: solo la sorpresa di aver letto la notizia giusta nel momento sbagliato.
Vi lascio al video, che merita davvero.
C’è un’isola che non è tracciata su nessuna mappa, ma che galleggia nell’Oceano Atlantico in una zona che approssimativamente coincide con il Mar dei Sargassi, dove le correnti superficiali scendono al di sotto di una velocità media di 2 centimetri al secondo e nei tempi passati lasciavano affiorare banchi di alghe che le conferivano l’aspetto di una prateria oceanica. Da almeno la metà degli anni ’80, però, le alghe non sono più l’elemento dominante: è infatti in corso un processo di inquinamento che prosegue inarrestabile e che ha già trasformato la zona in una immensa discarica flottante.

English: Polyethylene heat welded sculpture made to demonstrate the great Oceanic Gyres created by waste. This artwork is part of a collection titled “The creation of Plastikos” by Simon Max Bannister (Photo credit: Wikipedia)
Le sue dimensioni sono ancora incerte, ma alcuni studiosi le ritengono confrontabili con la Great Pacific Garbage Patch, la “Grande Chiazza dei Rifiuti del Pacifico” che si estende su una superficie stimata tra un minimo di 700.000 e ben 15.000.000 di chilometri quadrati (vale a dire 7 volte la Groenlandia, la più grande isola del pianeta, e il doppio dell’Australia). Alimentata da un sistema formato da quattro correnti oceaniche (responsabili del cosiddetto North Pacific Gyre, il “Vortice del Nord Pacifico”, da cui la denominazione alternativa di vortice di rifiuti: Pacific Trash Vortex), la GPGP si nutre dei rifiuti degli insediamenti costieri (all’80%) e delle piattaforme e navi che la attraversano (20%).

There are five major ocean-wide gyres — the North Atlantic, South Atlantic, North Pacific, South Pacific, and Indian Ocean gyres. Each is flanked by a strong and narrow “western boundary current,” and a weak and broad “eastern boundary current”. (Photo credit: Wikipedia)
La sua gemella del Nord-Atlantico, ribattezzata per estensione North Atlantic Garbage Patch (ma analoghe formazioni sono allo studio anche nell’Oceano Indiano e nel Pacifico del Sud), è caratterizzata da una concentrazione di rifiuti che sale fino a 200.000 frammenti di plastica per chilometro quadrato, e come la GPGP è formata principalmente da monofilamenti di plastiche e fibre di polimeri che dalla superficie s’inabissano fino a qualche decina di metri di profondità. Essendo traslucida la principale sostanza responsabile della loro composizione, queste formazioni risultano difficili da studiare dal satellite: occorrono prospezioni in loco, non esattamente agevoli né economiche. E nel frattempo ogni anno vengono prodotte circa 250 milioni di nuove tonnellate di plastica, di cui appena il 5% è destinata al recupero e al riciclo.

Plastic marine debris (PMD) collected at multiple locations in the North Atlantic was analyzed with scanning electron microscopy (SEM) and next-generation sequencing to characterize the attached microbial communities. Researchers unveiled a diverse microbial community of heterotrophs, autotrophs, predators, and symbionts, a community we refer to as the “Plastisphere”. (Photo credit: Environmental Science and Technology)
In uno studio pubblicato da Environmental Science and Technology due oceanografe americane, Tracy Mincer e Linda Amaral-Zettler, hanno annunciato la loro scoperta di un peculiare ecosistema originato dalla massa di rifiuti alla deriva sul North Atlantic Garbage Patch. A quanto pare, le singolari condizioni di vita del NAGP avrebbero portato alla proliferazione di microrganismi eterotrofi, autotrofi, predatori e simbionti, in un ecosistema dinamico in cui la plastisfera, un po’ come succede nelle barriere coralline, offre un ambiente di coltura in cui oltre 1.000 specie (tra piante, alghe e batteri), molte delle quali ancora non classificate, hanno prosperato, evolvendosi e diversificandosi in un ecosistema isolato molto diverso dagli altri ecosistemi oceanici. Ma soprattutto, tra questi microrganismi potrebbero essercene alcuni in grado di digerire – e quindi degradare – la plastica a un tasso di assimilazione più veloce di quanto si credesse finora possibile.
Per chi fosse interessato, ecco il link alla ricerca.
[Via io9.]
Nello spazio esiste una nave per ogni esigenza.
Starship Size Comparison Chart, by Dan Carlson, 2003:
Starship Size Comparison Chart, by Dirk Loechel & Others, 2013:
[Via Kipple Blog.]
Non le risultava che nei sogni la gente si portasse dietro il cellulare.
La frase è di Cristiana Astori, tratta dal suo bel libro Tutto quel nero, e racchiude un fondo di verità e un dubbio non banale. Come mai i nostri sogni sono generalmente a basso contenuto di tecnologia? Non ricordo un solo sogno in cui la tecnologia giocasse un ruolo sia pure marginale: che mi risulti, non sono mai inciampato non solo in un cellulare, ma neanche in internet o se è per questo un walkman o un lettore mp3.
Vero, mi è capitato di sognare qualcosa di simile a una realtà aumentata, ma forse quella visualizzazione aveva più tratti in comune con le dinamiche irrazionali del sogno, rispetto all’elettronica di consumo di cui non possiamo fare a meno nella nostra vita di tutti i giorni. Sarebbe interessante capire se si tratti di una sorta di censura onirica (in fondo non sarebbe bello poter sostenere coi fatti una formulazione del tipo: “il sonno filtra tecnologie oltre un certo stadio di complessità“?), o se piuttosto non sia una conseguenza della maturazione dei circuiti del sogno, che immagino riflettano l’esperienza acquisita durante la nostra infanzia e consolidata nell’adolescenza.
Nel primo caso, una sorta di firewall psichico precluderebbe l’accesso ai territori del sogno a device troppo sofisticati.
Nel secondo, invece, potremmo forse dedurre che i nostri sogni si svolgono in una sorta di universo parallelo, un ipnoverso istanziato da qualche parte nei primissimi anni di vita (non appena il nostro sistema nervoso diventa capace di elaborare e ritenere informazione ambientale), a cui ogni volta accederemmo sognando. Saremmo incapaci di accorgerci della continuità dell’esperienza in quanto ogni nuovo sogno sarebbe come ogni nuova partita giocata sulla stessa consolle (il nostro cervello) allo stesso gioco (il nostro personale ipnoverso). Ma a volte potrebbe capitare di indovinare la combinazione di tasti necessaria per salvare una partita, e la volta successiva di azzeccare quella necessaria per richiamare quel salvataggio, per cui il sogno #2 potrebbe portare avanti la trama del sogno #1. Una concatenazione di eventi fortunati potrebbe consentire alla trama di evolversi, fino a una soluzione.
Elucubrazioni astruse. Forse occorre esercitarsi un po’ di più con la disciplina del sogno lucido, per poter approfondire il tema. E magari trarne un buon pezzo di narrativa. Se avete suggerimenti, anche di lettura, a riguardo, naturalmente sono benvenuti.
Questo articolo di Annalee Newitz ed Emily Stamm sulla superscienza che si confonde con la magia, che comunque vi consiglio di leggere, mi ha ricordato le famose tre leggi di Clarke. E ha anche risvegliato in me il proposito di un personalissimo trittico di formulazioni su cui, in maniera più o meno organica e strutturata, vado da qualche tempo meditando. Pronti?
Si parte.
1. Settorializzazione della sci-fi (o “legge dei futuri accelerati”). Quanto più velocemente si espande la frontiera della conoscenza, tanto più difficile diventa coprire l’orizzonte del progresso.
2. Red-shift del linguaggio. L’aderenza descrittiva del linguaggio allo scenario è tanto più sfumata quanto maggiore è la distanza dello scenario descritto.
3. Deriva della sci-fi (DeMatteo-Fazzari). Le idee si propagano da un’opera di fantascienza all’altra, infiltrano il resto della letteratura e/o divengono immaginario collettivo. Le vecchie idee non si estinguono: quando sono sopravanzate, trovano nuove nicchie in cui esprimersi.
Perché tre? Parafrasando Clarke, se a lui (oltre che a Newton, Keplero, Asimov e alla termondinamica) ne sono bastate tre, posso farmele bastare anch’io.
[Modificata il 14-11-2013.]
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